SAVOIA

Enciclopedia Italiana (1936)

SAVOIA

Armando TALLONE
Armando TALLONE
Walter MATURI

. L'origine della Casa di Savoia è controversa e offre ancora argomento a discussioni. Comunemente se ne dà come capostipite Umberto I, soprannominato "Biancamano" o più esattamente "dalle Bianche mani", vissuto tra il sec. X e l'XI. I dubbî e le discussioni riguardano i suoi antenati, intorno ai quali si escogitarono più teorie che attribuiscono loro origini svariate. Dopo di lui la genealogia correrebbe speditamente se alcune delle suddette teorie, supponendo l'esistenza quasi contemporanea di due Umberti, non portassero qualche incertezza anche nelle cognizioni intorno alla generazione seguente, perché alcune tolgono al "Bianche mani" la paternità di Amedeo I, chiamato "Coda" dalla genealogia ufficiale, per darla invece all'altro Umberto, appartenente a un altro ramo, fusosi poi, secondo tali teorie, col ramo dei conti sabaudi. Le principali attribuiscono a Umberto I origine o sassone, o italiana, o borgognona, o viennese, o provenzale. Senza tener conto della cronaca di Altacomba del sec. XIV, che registra per la prima volta il soprannome attribuito a Umberto I, ma che sui primi conti non sa dare che poche o inesatte notizie, la più antica cronaca di Savoia, di Giovanni d'Orville, o Orreville, detto Cabaret, che scrisse entro i primi due decennî del sec. XV, fa padre di Umberto I un Beroldo, figlio di Ugo, secondogenito di Ottone II di Sassonia. A quest'origine sassone si cercò, più tardi, di dare maggior lustro ancora alla fine del sec. XVI, con un nuovo sistema che troviamo poi illustrato specialmente dal padre Monod e dal Guichenon, i quali risalgono fino a Vitichindo, l'eroe nazionale dei Sassoni, vinto da Carlomagno.

Questa nuova teoria sassone sarebbe rappresentata dal seguente albero genealogico:

La teoria italiana ottenne grande favore sotto il re Carlo Alberto, quando poteva ai più sorrider l'idea che avesse siffatta origine la dinastia che aveva iniziato la guerra per l'indipendenza d'Italia, e se ne fece divulgatore Luigi Cibrario; ma non nacque in quel tempo, bensì nello stesso sec. XVII in cui godeva ancor molto credito la teoria vitichindea. Ludovico della Chiesa, vissuto nel sec. XVII, credette dapprima che Oddone figlio di Umberto dalle Bianche mani fosse invece figlio di Arduino re; poi lo restituì al suo vero padre, ma credette che questi discendesse dai conti di Ginevra; infine lo fece figlio, non più di Umberto, bensì di Beroldo, ma identificando questo con Ottone Guglielmo figlio di Berengario II, il re d'Italia discendente da Anscario marchese d'Ivrea. Il conte Francesco Galeani Scipione, sul principio del sec. XIX, accolse, rimaneggiandola, questa nuova teoria, rimettendo al suo posto l'insopprimibile Umberto dalle Bianche mani; altri la avvalorarono con altre prove, così che ne venne fuori il seguente schema:

Ma questa teoria, benché ancora difesa parecchi anni dopo da Francesco Labruzzi, che fece padre di Umberto I non più Ottone Guglielmo, bensì un secondo Adalberto figlio di Berengario II, non resistette alle critiche di Domenico Carutti, che si pronunciò per una teoria borgognona o romano-borgognona, che risale fino a un Amedeo vivente nel 926, di famiglia romana, ovvero di famiglia borgognona romanizzata, che poi si divise in due rami, di Moriana e di Savoia-Belley:

Questa divisione della famiglia in due rami, uno in Moriana, l'altro in Savoia-Belley, fu rigettata dal De Manteyer che ritornò all'unicità degli Umberti e, prendendo come punto d'appoggio l'esistenza dei primitivi dominî sabaudi nel Viennese, risalì fino a un Guarnerio conte di Troyes - e anche più in su - morto nel 926, dal quale discese attraverso a un Ugo possessore di terre nel Viennese, a un Umberto ovvero a un fratello di questo, Bosone, Umberto dalle Bianche mani.

Rinnova la divisione della famiglia in due rami la teoria provenzale, la cui prima origine va fatta risalire a Giovanni du Bouchet, vissuto nella seconda metà del sec. XVII, che fece derivare la casa di Savoia da Bosone, primo re di Provenza, padre di Ludovico III il Cieco, padre questo di Carlo Costantino che generò Umberto I. Intercalando alcune generazioni rese necessarie dalla cronologia, il barone di Gingins la Sarra diede per figlio a Carlo Costantino invece di Umberto I un Uberto, padre di Amedeo e di Umberto marito di Ancilia: Umberto I sarebbe stato figlio di Amedeo.

Un'ultima teoria, se trascuriamo parecchie altre intermedie vorrebbe fondere insieme la teoria sassone della cronaca del d'Orville con la provenzale o bosonica, risalendo fino ai re del Kent conquistato dai Sassoni; giunge fino a Ludovico il Cieco, che fa padre di Carlo Costantino e di un Bosone, primo conte di Savoia, che sarebbe avo, attraverso a un Umberto secondo conte di Savoia, di Aimone e di Umberto marito di Ancilia, conte di Belley. Aimone, primo conte di Moriana, sarebbe padre di Umberto dalle Bianche mani: il fratello, padre di Amedeo la Coda.

A dire il vero ognuna delle opinioni fin qui illustrate, quale più quale meno, offre il fianco alla critica e nessuna di esse può dirsi che abbia risolto definitivamente la questione, la quale resta perciò ancora insoluta. Il genealogista coscienzioso che voglia risalire alle origini della Casa non può che arrestarsi alla generazione di Umberto I, padre di Oddone, e confessare che non gli è possibile risalire più in su. E poiché egli è costretto a fare tale confessione, poiché è in grado soltanto di demolire le teorie proposte e non di ricostruire, ha anche il dovere di ammirare, e di non crederlo oggetto di riso, tanto sforzo di studî, tanta onesta fatica di valentuomini prossimi e remoti, mossi da nessun altro fine che da quello di scoprire la verità, anche se alcuni per avventura, come il Cibrario, accanto a questo potessero averne anche un altro: l'amor di patria. Tanto più che il lavoro disinteressato compiuto da questi studiosi fu tutt'altro che inutile, perché furono portati alla ribalta i personaggi più in vista di quel tempo, furono ben definiti i loro possessi, l'estensione della loro giurisdizione, le loro cariche: la eventuale scoperta di un nuovo documento, non sufficiente di per sé stesso a diradare le tenebre, potrebbe con l'ausilio delle cognizioni ormai acquisite far scaturire la luce desiderata. In attesa dobbiamo accontentarci della genealogia tradizionale, descritta nelle tavole del San Tommaso e del Litta nonché soprattutto in quelle del Cibrario che rappresentano i successivi perfezionamenti arrecati alle cognizioni dei genealogisti, con le modificazioni e le aggiunte che documenti sicuri suggeriscono di apportare all'ultima tavola.

Non si conoscono disposizioni emanate nei primi tempi della monarchia circa l'ordine di successione, che appare fin dai primi tempi regolato, secondo la consuetudine vigente di là dalle Alpi, sul diritto di primogenitura, con esclusione delle femmine, così che la successione poteva cadere negli ultrogeniti solo in caso di mancamento della linea primogenita. Questa consuetudine prima del sec. XIV, come si vedrà, non fu sempre osservata; ma Amedeo V nel suo testamento stabilì che alla successione fosse chiamato il primogenito Edoardo; che, morendo questo senza figli, gli succedesse il secondogenito Aimone e dopo di lui i suoi discendenti maschi, di primogenito in primogenito, con esclusione perpetua delle femmine. Nel marzo del 1324 i due fratelli giurarono di rispettare la decisione paterna che fu messa alla prova cinque anni dopo, alla morte di Edoardo, quando il duca di Bretagna, genero del defunto di cui aveva sposato la figlia Giovanna, elevò pretese alla successione. Le disposizioni testamentarie di Amedeo V toglievano ogni fondamento alle pretese, che furono poi tacitate 18 anni più tardi con una somma di denaro sborsata al re di Francia; ma la tradizione, nel principio del '400, raccolta dal più antico cronista di Savoia si compiacque di colorire l'avvenimento, forse allo scopo di dare alle disposizioni di Amedeo V, che furono ribadite dai testamenti di Aimone e di Amedeo VI, maggiore efficacia anche per l'avvenire, con dei particolari che attribuiscono alle norme per la successione un'origine parlamentare. Secondo il cronista infatti esse sarebbero state emanate dall'assemblea dei tre stati la quale, riunitasi nel 1329, avrebbe invocato a sostegno della decisione la consuetudine, osservata ab antico, dell'esclusione delle femmine dalla successione. Poiché il cronista scriveva sul principio del sec. XV, non è lontana dalla verosimiglianza la supposizione che questa parte della sua cronaca sia stata scritta in un tempo nel quale Amedeo VIII era ancora privo di prole maschile e perciò dopo la morte del secondo Antonio, prima della nascita di Amedeo. Dei quattro figli di Umberto I, due percorsero la carriera ecclesiastica, mentre il primogenito Amedeo I che forse ebbe il soprannome di Coda a motivo del numeroso seguito col quale si presentò un giorno all'imperatore Enrico III, che lo ricevette bensì, ma a patto che lasciasse fuori la coda, ebbe autorità e titolo di conte, forse di Savoia, prima della morte del padre; il quale morendo il 10 luglio 1047 (o 1048) gli lasciò la successione di tutto il resto, perché il suo primogenito gli era premorto e il secondogenito era vescovo di Belley. Sopravvissuto ad Amedeo I il fratello Oddone, questo gli succedette e sposando la contessa Adelaide estese i dominî sabaudi di qua dalle Alpi.

La successione dei suoi discendenti non presenta gravi difficoltà, perché la questione dell'unicità o pluralità Adelaidina, o dei matrimonî o del matrimonio della contessa, non interessa direttamente la genealogia sabauda; piuttosto è da rilevare che non è possibile, come qualcuno credette, che l'omonima figlia Adelaide abbia sposato oltre che Rodolfo di Svevia anche Guigo il Vecchio di Albon. Oddone e Adelaide, oltre la figlia ora accennata e Berta moglie di Enrico IV, ebbero i figli Pietro I e Amedeo II, nonché un Oddone forse vescovo d'Asti; i due primi succedettero al padre uno dopo l'altro di là dalle Alpi, in comune di qua, pur rimanendo il potere di fatto nelle mani virili della genitrice che morì nel 1091. Con la successione di Amedeo a Pietro in Savoia si era verificata la prima volta la successione indiretta maschile in danno della diretta femminile; in danno cioè dell'unica figlia di Pietro I, Agnese, moglie di Federico di Montbéliard, la quale già vedova alla morte della contessa Adelaide elevò pretese alla successione di questa in Piemonte a nome della prole ancor minorenne. Presenta alcuni dubbî la discendenza di Amedeo II nella quale non ne offre però Umberto II il Rinforzato, considerato comunemente come primogenito, che tentò di restaurare l'autorità della sua famiglia. Per gli ultrogeniti s'era fantasticato dapprima intorno a due figlie Costanza e Lucrezia, mogli rispettivamente di un Bonifacio marchese di Monferrato e di un Andrea Visconti, accettate entrambe, sia pure con qualche riserva, dal San Tommaso, e senza riserve da altri genealogisti; accettata a occhi chiusi la prima dal Litta, che tuttavia la dimenticò nella tavola dei Monferrato. Più recentemente si sostituirono a entrambe un'Adelaide moglie di Manasse V di Coligny e un'Ausilia moglie di Umberto di Beaujeu. Recentemente è stato attribuito ad Amedeo II con molta verosimiglianza un figlio primogenito diverso da quello conosciuto, cioè un Oddone II conte di Moriana.

L'autorità comitale dei principi sabaudi passa di primogenito in primogenito da Umberto II fino ad Amedeo IV nato tra la fine del 1197 e il principio del 1198; ma poco dopo l'avvento di questo, primo di parecchi fratelli, si avrà il principio di quelle divisioni le cui conseguenze si cancellarono definitivamente soltanto circa due secoli dopo. Dopo la morte di Tommaso I, padre di parecchi figli, cominciarono i dissidî tra Amedeo IV e i fratelli Aimone e Pietro diventato poi Pietro II, il Piccolo Carlomagno; Amedeo IV cominciò addirittura, il 19 aprile 1235, a investire il fratello Tommaso, detto Tommaso II conte di Fiandra per la moglie Giovanna erede di quella contea, di tutto il Piemonte da Avigliana in giù, conservandone la superiorità feudale, e designando poi il medesimo come suo successore in mancanza di eredi maschi. Amedeo IV lasciò un solo erede, Bonifacio, ancor minorenne, intorno al quale fiorirono le leggende, ormai riconosciute come tali; alla sua morte avvenuta senza discendenza nel 1263, benché il padre avesse stabilito nel suo testamento che la successione toccasse a Tommaso II e al suo figlio primogenito, successe invece il fratello di Amedeo IV, Pietro II, in danno di Tommaso III primogenito di Tommaso II, che alla morte di Bonifacio non solo era minorenne ma forse si trovava ancora come ostaggio in Asti (v. savoia, tommaso iii di). La successione fu ancora una volta negata alla prole di Tommaso II quando morì Pietro II, mancato senza prole maschile nel 1268, quando la minore età di Tommaso III era cessata o era sul punto di cessare, perché successe invece di Tommaso III il fratello del conte defunto, Filippo I. Alla scomparsa di questo che non lasciava altri eredi, Tommaso III era già morto e aveva lasciato il primogenito Filippo ancora in minore età; invece di questo, il re d'Inghilterra, consultato, consigliò di riconoscere come successore di Filippo I il fratello di Tommaso III, Amedeo V, che rappresentava il parente più anziano, e perciò più atto al governo, di quello designato dal testamento di Amedeo IV. Potevan nascere opposizioni al riconoscimento del titolo comitale in Amedeo V così da parte del fratello Ludovico come da parte di Filippo e degli altri figli di Tommaso III; ma le opposizioni furono eliminate da una sentenza arbitrale per cui veniva riconosciuto come conte di Savoia Amedeo V; Ludovico riceveva in feudo per sé e per i suoi discendenti il paese di Vaud, mentre il Piemonte doveva spettare per un terzo a Filippo in comunione con i suoi fratelli. Gli altri due terzi spettavano ad Amedeo V per eredità propria e per la cessione fattagliene da Ludovico. Così dalla fine del 1294 in poi fino al 1418 i dominî sabaudi restarono, benché nominalmente riuniti sotto la sovranità comitale del conte di Savoia Amedeo V e dei suoi successori, praticamente divisi in più parti; fino al 1359, quando Amedeo VI riunì alla corona il paese di Vaud, in tre; dopo, in due, cioè Savoia e Piemonte, essendo rimasto quest'ultimo nelle mani di Filippo e dei suoi successori, chiamati principi d'Acaia per il matrimonio di quello con Isabella di Villehardouin, erede di detto principato. La linea di Ludovico di Vaud si estinse con Caterina sua nipote, che rinunciò al paese, per una somma di denaro, in favore di Amedeo VI; il ramo d'Acaia cessò con l'ultimo discendente legittimo di Filippo, Ludovico.

Per la genealogia dei Savoia da Umberto I ad Amedeo V v. la tavola genealogica 5; le tavv. 6 e 7 dànno i rami di Acaia e di Vaud.

Nella numerosa figliolanza nata da Amedeo V con i due matrimonî da lui celebrati, il primo dei quali gli procacciò il dominio sulla Bresse, si incontrarono due maschi, Edoardo e Aimone, dei quali solo il secondo lasciò prole maschile nella persona di Amedeo VI; il primo ebbe una figlia Giovanna, che sposò il duca di Bretagna e avanzò per questo motivo pretese alla successione del padre. Di questo momento importante nella storia della genealogia sabauda e della successione al trono rimase a lungo il ricordo nella tradizione, di cui si fece eco il primo cronista Giovanni d'Orville, che racconta, con lusso di particolari, come all'esclusione definitiva delle femmine dalla successione si giunse appunto in quell'occasione e come ciò fosse stato deliberato dall'Assemblea degli Stati Generali. Giovanna di Bretagna quindi, tacitatone poi il marito più tardi con una somma di denaro, fu esclusa dalla successione che toccò all'altro figlio del conte defunto, Aimone, dal quale discesero in tre successive generazioni i tre Amedei, VI, VII, e VIII, dei quali il primo unì alla corona il Paese di Vaud, il terzo il Piemonte all'estinzione del ramo d'Acaia nel 1418. La successione del primo, il Conte Verde, non presentò nulla di particolarmente notevole; la morte tragica del secondo, il Conte Rosso, determinò aspre lotte per la successione tra le due Bone, madre l'una, moglie l'altra, rispettivamente di Amedeo VII, che lasciò un unico figlio, Amedeo VIII. La numerosa discendenza di questo diede sempre luogo a incertezze e a confusioni che ora possono essere eliminate. Il primo parto di Maria di Borgogna, moglie di Amedeo VIII, avvenne più presto di quanto si era finora creduto perché due anni prima di Antonio, nato nel 1407, nacque la principessa Margherita, il 13 maggio 1405, ma per vivere solo tredici anni. Di un'altra figlia omonima sposata in prime nozze a Luigi III d'Angiò possiamo ora conoscere con precisione la data della nascita e della morte: 7 agosto 1420-30 settembre 1479; e così pure, di Maria moglie di Filippo Maria Visconti, erroneamente fu un tempo creduto che fosse morta nel 1458, più tardi, nel 1479; invece ora si sa che morì dieci anni prima di questa data. Con Amedeo VIII i conti di Savoia nel 1416 assunsero il titolo ducale e nel 1424 fu conferito per la prima volta il titolo di principe di Piemonte all'erede al trono. Primo ad averlo fu Amedeo, morto però nel 1431; dopo di lui lo assunse Ludovico che nel 1451 successe ad Amedeo VIII.

Il matrimonio di questo duca con Anna di Lusignano fu il più prolifico perché nacquero, di ambo i sessi, diciotto figli, tra i quali salirono a maggior rinomanza i due duchi Amedeo IX per la sua santa vita, Filippo II per le sue turbolenze contro il fratello e la duchessa Iolanda e per la sua prigionia, nonché Giacomo di Romont per la sua partecipazione alla lotta fra Luigi XI e il duca di Borgogna e per la guerra contro gli Svizzeri nel Paese di Vaud.

Tra le figlie del duca Ludovico, su Bona si ebbero finora notizie confuse, che recentemente invece sono state accertate. Alla morte di questo duca successe dapprima Amedeo IX, che dovette ben presto lasciare l'effettivo potere alla moglie Iolanda, sorella di Luigi XI re di Francia, che resse virilmente lo stato anche dopo la morte di Amedeo IX, per il figlio Filiberto I minorenne. Morto questo senza discendenza nel 1482, la successione pervenne al fratello Carlo I il Guerriero, che disgraziatamente mori pochi anni dopo, nel 1490, lasciando il piccolo Carlo Giovanni Amedeo erroneamente chiamato da molti Carlo II, anch'egli sotto la tutela della madre, Bianca di Monferrato. Non avendo quest'ultimo duca morto nel 1496 lasciato figli, non rimaneva atto alla successione che il prozio Filippo II Monsignore, signore della Bresse, detto il Senzaterra, che finalmente dopo tanti anni di lotta e di ambizioni insoddisfatte ascendeva al trono ducale. La tavola 8 dà i discendenti di Amedeo V fino a Carlo Giovanni Amedeo (esclusi i discendenti di Filippo II Senzaterra).

L'anno seguente alla sua ascensione al trono Filippo II moriva, lasciando come successore dapprima il figlio del suo primo matrimonio, Filiberto II il Bello; morto anche questo sette anni dopo, successe il figlio del secondo, Carlo, che di questo nome era il secondo ma che erroneamente da molti è ancora chiamato Carlo III. Sotto di questo la monarchia sabauda perdette Oltralpe definitivamente il Paese di Vaud, temporaneamente fino al 1559 tutta la Savoia e la maggior parte del Piemonte, che vennero restituiti dopo il trattato di Cateau-Cambrésis al figlio Emanuele Filiberto.

Dopo di questo la successione nell'unico ramo legittimo continua ancora di generazione in generazione, passando di primogenito in primogenito, ovvero passando al figlio maggiore che trovavasi in vita al momento della morte del padre, fino a Carlo Emanuele IV. Così Vittorio Amedeo I, secondogenito, prese il posto di Filippo Emanuele premorto; e Carlo Emanuele III, di Vittorio Amedeo Filippo. Anche Carlo Emanuele II era secondogenito dei maschi, perché preceduto nella nascita da Francesco Giacinto; ma questi non premorì al padre Vittorio Amedeo I perché gli successe in qualità di duca, benché per un anno soltanto. Nel sec. XVIII e al principio del XIX si verificò due volte la successione mentre era ancora vivente il predecessore: Vittorio Amedeo II nel 1730 abdicò in favore di Carlo Emanuele III suo secondogenito, unico superstite dei figli maschi legittimi; tentò di tornare sulla sua decisione per riprendere il trono, ma il tentativo, che riuscendo avrebbe potuto provocare la guerra civile, non raggiunse il suo compimento. Anche Carlo Emanuele IV rinunciò quando ebbe gli stati invasi dai Francesi; gli successe il terzogenito dei maschi, Vittorio Emanuele I, che alla caduta di Napoleone riebbe i dominî.

L'inizio del sec. XVIII vide un notevole mutamento nella titolazione dei principi sabaudi che acquistarono il titolo regio unito all'effettivo possesso del regno relativo. Quello di re di Cipro era stato assunto nominalmente da Ludovico, figlio del duca omonimo, che aveva sposato Carlotta di Lusignano; nel 1713 il trattato di Utrecht dava a Vittorio Amedeo II la Sicilia, col relativo titolo regio, cambiato poi nel 1720 in quello di Sardegna. La linea principale da Filippo II a Carlo Felice è data nella tav. 9.

Alcuni dei figli naturali dei principi della linea regnante prima della metà del sec. XVIII diedero origine a linee laterali legittime. Quelli tra di essi che meritano menzione cominciano con i figli di Filippo d'Acaia, che ne ebbe cinque, da donne diverse, quasi tutte ignote. Uno di essi, Antelmo o Lantelmo o Lantelmone, diede origine alla linea detta di Collegno dal nome del possesso principale di cui i componenti erano stati investiti. Essendo la sua discendenza cessata nel 1598, il feudo di Collegno, eretto a contea nel 1560 a favore di Francesco, tornò alla Corona. Un altro figlio di Filippo d'Acaia, Giacomo, da madre ignota ebbe un Antonio che fu signore di Busca, piccolo luogo nel Cuneese, che diede il nome a una linea estintasi oscuratamente nel secolo XIX e che ebbe anche il nome della Morea, dal titolo nominale dalla casa alla quale Giacomo apparteneva, detta appunto, oltre che di Acaia, anche della Morea. Assai notevole la linea di Racconigi, cominciata con un Ludovico figlio naturale che l'ultimo principe omonimo della linea d'Acaia, morto nel 1418, ebbe da una donna forse napoletana; fu maresciallo di Savoia e cavaliere dell'Ordine supremo detto poi della Santissima Annunziata. Salirono a rinomanza in questa linea, estintasi con Bernardino II nel 1605, oltre al capostipite Ludovico, un Gian Battista, dotto in filosofia, che fu anche marchese della Chiusa, e una Beatrice, figlia di un Gian Francesco, moglie di Carlo Manfredo di Luserna governatore di Cuneo durante l'assedio del 1557, alla quale la leggenda attribuì per molto tempo una parte importante in quella difesa. Nel ramo principale, il conte Aimone ebbe otto figli illegittimi, tra i quali un Umberto, signore di Arvillars, che fu padre di un altro Umberto e di un Amedeo signore delle Molettes, il nome dei quali figura per incidenza negli avvenimenti seguiti dopo la morte del Conte Rosso. Amedeo VI ebbe un Antonio che partecipò alla spedizione del Conte Verde in Oriente; Amedeo VII un Umberto che occupò un posto notevole nella storia, specialmente nel paese di Vaud, dove ebbe la contea di Romont, la signoria di Montagny e altri luoghi, e la consignoria di Estavayer. Morì il 15 ottobre 1443, data poco conosciuta dagli storici piemontesi. La maggior fama acquistò Renato, naturale di Filippo II Senzaterra, detto il Gran Bastardo, che diede origine alla linea di Tenda (v. savoia, renato di). Della prole naturale di Emanuele Filiberto va ricordata Maria, legittimata, figlia di Laura Crevola, che sposò Filippo d'Este marchese di Lanzo, la cui discendenza maschile si estinse nel sec. XVII; Matilde, pure legittimata, moglie di Carlo di Simiane marchese di Pianezza. Un altro d'Este, Francesco Filippo, pure marchese di Lanzo, sposò nel secolo seguente una Margherita, appartenente alla figliolanza illegittima di C. Emanuele I. Per i figli naturali di Filippo d'Acaia, di Ludovico d'Acaia, di Filippo II Senzaterra e di Carlo Emanuele I, v. la tavola genealogica seguente e quelle nn. 11, 12 e 13.

Un avvenimento importante per la genealogia sabauda, che ebbe poi la sua ripercussione nel sec. XIX, fu il distaccarsi di un ramo dal tronco principale, verificatosi con la nascita dell'ultrogenito di Carlo Emanuele I, Tommaso Francesco principe di Carignano; ramo che pervenne al trono con Carlo Alberto. Già nel sec. XVI si era distaccato il ramo di Nemours (v. tav. genealogica 9) con Filippo marchese di Saint-Sorlin, fratello di Carlo II il Buono, che nel 1528 sposava Carlotta d'Orléans e veniva investito dal re Francesco I di Francia del ducato di Nemours; la discendenza si estinse nella seconda metà del sec. XVII e in essa va ricordata Maria Giovanna Battista reggente dello stato per Vittorio Amedeo II. Tommaso Francesco, nato il 21 o 22 dicembre 1596, si trovò a vivere quando, morto Vittorio Amedeo I suo fratello, era sopravvissuto al defunto duca il minorenne Francesco Giacinto e poco dopo, a questo, Carlo Emanuele II, dei quali insieme col fratello cardinale Maurizio contrastò la tutela alla duchessa reggente Cristina di Francia, nota sotto l'appellativo di Madama Reale perché sorella del re Luigi XIII. Ne nacque una lunga guerra civile che finì col riconoscimento da parte dei principi della reggenza della cognata. La famiglia si divise in tre rami: dal ramo primogenito uscì un Carlo Emanuele padre del re Carlo Alberto, dal ramo detto di Soisson iniziatosi con Eugenio, conte di Soissons per la madre Maria di Borbone-Soissons moglie del principe Tommaso, derivò Eugenio, il grande condottiero; al ramo detto di Villafranca, staccatosi con Eugenio nato da Luigi Vittorio nel 1753, appartenne il principe Eugenio Emanuele che fu luogotenente del regno durante le guerre dell'Indipendenza. La successione dei re di Sardegna da Vittorio Amedeo II a Vittorio Emanuele I avvenne regolarmente senza offrire particolari di rilievo. Quest'ultimo, come si è detto, salì al trono per la rinuncia del fratello Carlo Emanuele IV. Alla sua morte avvenuta senza che egli lasciasse discendenza maschile perché l'unico figlio, Carlo Emanuele, era morto fin dal 1799, succedeva il ramo laterale più prossimo rappresentato da Carlo Alberto, dal quale discende in linea primogenita Vittorio Emanuele III ora regnante, che il 9 maggio 1936 ha assunto per sé e per i suoi successori anche il titolo di imperatore d'Etiopia. Per il ramo dei Carignano, v. la tav. genealogica 14.

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Lo stato sabaudo.

Lo sviluppo territoriale. - La storia dello stato sabaudo comincia con Umberto dalle Bianche mani, qualunque sia la sua origine. Feudatario della Borgogna, egli poté ingrandire notevolmente i suoi possessi con le elargizioni fattegli dall'imperatore Corrado II.

I primi possessi, in parte anteriori in parte posteriori alle concessioni fatte da Corrado II per l'aiuto che il primo Umberto gli prestò nell'acquisto della Borgogna, sono da identificarsi con una parte del Viennese, con una parte della contea di Sermorens, con quella del Belley, della Savoia, di Aosta, della Moriana. Del possesso del vecchio Chiablese (o Sciablese, v.), compreso fra Martigny a sud, Évian a nord-ovest e il corso inferiore della Veveyse, che si getta nel Lago di Ginevra presso Vevey, a nord, sulle due sponde perciò dell'estremità orientale del lago, sono molto incerti l'inizio e l'origine. Non è improbabile che appartenesse già in tutto o in parte a Umberto I, sia per ragione della moglie, sia per dono di Corrado II: certo, nella seconda metà del secolo XI, era dominio sabaudo. Non va invece considerata come tale la contea di Nyon nel Paese di Vaud, nella parte occidentale dello stesso lago, perché nella carta umbertina del 1018, tra i due conti ivi nominati, uno dei quali è Umberto, la carica di conte di Nyon non va attribuita a questo, ma all'altro. Aggiungendo ancora il possesso dell'abbazia di San Maurizio di Agauno, ora Saint-Maurice-en-Valais, che molto probabilmente è del tempo di Umberto I, come anche quello della Tarantasia - perché soltanto le antiche cronache attribuiscono questo alla seconda metà del sec. XI - il primo nucleo degli stati sabaudi alla morte di Umberto dalle Bianche mani, cominciando dal Viennese e da qualche luogo del Lionese e da Sermorens a occidente, si allargava nella Savoia propriamente detta verso levante, risaliva verso nord nel Bugey, saltava in gran parte il Genevese e raggiungeva il Chiablese, separato questo per mezzo del Faucigny, non ancora sabaudo, dalla Tarantasia e dalla Moriana già occupate e contigue, verso NE., alla sabauda valle d'Aosta.

Il figlio e successore di Umberto I, Oddone, nel 1046 si univa in matrimonio con la contessa Adelaide, figlia di Olderico Manfredi marchese di Torino, già vedova non si sa bene se di uno o due mariti, nel quale o nei quali era passata, dopo la morte di Olderico (1035), l'autorità sulla marca torinese. La marca di Torino, di cui era investito Olderico, detta anche marca "in Italia", comprendeva, oltre quel comitato o contea, quello di Alba e, procedendo a sud, quelli di Bredulo (Mondovì) e di Albenga; poi, seguendo il litorale, quello di Ventimiglia e, risalendo al nord, quello di Auriate (Saluzzo).

Ma c'è questione se egli possedette anche un'altra marca, quella d'Ivrea, come credono alcuni; o se ne ebbe, sotto colore di proteggere i figli di re Arduino, soltanto una parte prevalente, come credono altri. Non è poi ben chiaro in che modo egli avesse ottenuto il comitato di Asti. Ma due documenti del 1021 e del 1031 ci dànno, per dir così, l'inventario dei suoi dominî, o per lo meno delle regioni in cui egli aveva diritti e possessi ed esercitava autorità: un atto di vendita a Sigifredo prete, e una donazione a un monastero torinese. In essi, Olderico Manfredi e la moglie Berta fanno l'elenco dei territorî di loro giurisdizione, estendentisi, oltre che alle contee già nominate, e a Vercelli e ad Ivrea, anche a quelle di Tortona, Pavia, Piacenza e Parma. Perciò Adelaide figlia di Olderico, e quindi Oddone di Savoia, figlio di Umberto I, vennero a possedere, di qua dalle Alpi, un vastissimo territorio che si allacciava a O., attraverso le valli di Susa e di Aosta, ai possessi d'oltr'Alpe; a E. abbracciava gran parte dell'odierno Piemonte, e qualche cosa anche fuori di esso.

La contessa Adelaide continuò, anche dopo la morte del marito, a esercitare il potere nello stesso dominio, nominalmente per i figli Pietro I, Amedeo II e forse Oddone II. Negli ultimi decennî della vita della grande contessa avvenne che l'imperatore, per ottenere da essa il passo nel suo viaggio verso Roma, dovette cedere, come ci narra un cronista, una provincia transalpina che qualcuno vuol identificare con il Bugey o con il Chiablese. Ma poiché l'uno e l'altro erano, almeno in parte, già posseduti, la notizia si può interpretare come cessione di quel che ancora vi rimaneva fuori dell'influenza sabauda.

Una perdita grave invece va segnalata in Piemonte, cioè l'alta valle di Susa. Nel 1063 essa figura già nelle mani di Guigo VII conte di Albon, che dopo la morte della grande contessa si approprierà anche di altri suoi dominî.

La scomparsa della contessa Adelaide, morta nel dicembre 1091 lasciando solo il piccolo Umberto II, figlio del suo secondogenito Amedeo II, provocò una grave guerra di successione. Potevano pretendere all'eredità, prima di tutti, i marchesi detti di Romagnano, discendenti da uno zio di Olderico Manfredi; poi, i discendenti in linea femminile di Pietro I; Corrado figlio di Enrico IV e di Berta figlia di Adelaide; Bonifacio del Vasto figlio di Berta, sorella della contessa defunta, e forse anche per altri legami di parentela; Guigo VII conte di Albon, il quale non possedeva forse diritti di tal genere, ma in cambio aveva gran desiderio di rafforzarsi nelle posizioni già prima occupate; infine, l'imperatore, o come tale, o come sostenitore dei diritti del figlio. A Umberto II rimanevano senza contrasto solo i dominî d'oltr'Alpe e quanto si riallacciava direttamente con essi attraverso i valichi alpini del Cenisio e del Grande e Piccolo San Bernardo (quello del Monginevra lo aveva perduto), cioè le valli di Aosta e della Dora Riparia, nonché, dopo una breve apparizione di lui in Piemonte nel 1097, alcuni tratti qua e là della contea di Torino che riconobbero la sua signoria. Bonifacio del Vasto, invece, si tagliava negli ex stati sabaudi una larga porzione a mezzogiorno di Torino, fino al mare di Albenga, pur non essendo riuscito ad affermarsi nella contea di Asti, che diventerà poi proprietà del comune suo capoluogo.

Alla morte di Umberto II, avvenuta nel 1103, la successione di Amedeo III, ancor minorenne, non poteva recare mutamenti immediati a quello stato di cose, che anzi peggiorò, almeno in diritto, di qua dalle Alpi, perché l'imperatore Enrico V concesse nel 1111 e nel 1116 al comune di Torino ampî privilegi, compreso il riconoscimento delle consuetudini e delle libertà di cui godeva al tempo di Enrico IV e che erano in diretto contrasto con le aspirazioni di Amedeo III. Questi poté solo per brevi intervalli riottenerne il dominio, mentre il comune cresceva in potenza, contrastando l'esercizio dell'autorità anche al suo vescovo. Nel resto del Piemonte, la riscossa di casa Savoia fu egualmente saltuaria ed incerta sotto Amedeo III, e ripresa senza successo con Umberto III il Beato, il quale, osteggiato dal Barbarossa e in lotta col vescovo di Torino da lui protetto, conservò a mala pena le valli di Susa e di Aosta e qualche altro possesso di minore importanza; tutto il resto, in Piemonte, era diviso tra il vescovo e il comune in Torino e nella marca torinese; e poi, tra i comuni di Asti, di Chieri, di Testona, di Vercelli e i numerosi consortili dei feudatarî, Anscarici o Manfredingi o Arduinici (marchesi di Romagnano), a loro volta minacciati e talora sottomessi dai vicini comuni; tra le numerose abbazie di Torino stessa, come quelle di S. Salvatore e di S. Pietro, e quelle di Pinerolo, di Cavour, di Caramagna, di Savigliano, di S. Michele della Chiusa, della Novalesa, di Susa e di Fruttuaria.

Nel Canavese, saliti a notevole potenza erano i conti che da quella regione traevano il nome, discendenti da re Arduino, che poi saranno distinti in Valperga, San Martino e Masino; nel Piemonte meridionale, ove un tempo erano le antiche contee di Alba, di Auriate e di Bredulo, si andavano a poco a poco delineando, teoricamente uniti sotto i cosiddetti marchesi del Vasto, praticamente disgiunti l'uno dall'altro, i marchesati di Saluzzo, di Busca e di Ceva, in territorî che tra non molto, in tutto o in parte, saranno compresi negli stati sabaudi. Di là dalle Alpi, invece, la signoria dei Savoia rimase incontrastata e non ebbe a soffrire diminuzioni; i principali acquisti che dovevano rafforzarla e arrotondarla cominciarono ad apparire in misura notevole tra la fine del sec. XII e il principio del XIII, sotto quel conte che nella regione cismontana era chiamato a restaurare definitivamente la potenza della sua casa. Umberto III moriva il 4 marzo 1189, posto al bando dell'impero dal Barbarossa, spogliato in diritto del suo dominio. Il figlio Tommaso I rimase per poco sotto la tutela del marchese Bonifacio II di Monferrato che gli procurò subito l'assoluzione dalla condanna imperiale, che del resto non era stata considerata un ostacolo all'assunzione immediata del titolo di conte e marchese, che di diritto spettava al figlio ed erede di Umberto III. L'assoluzione non significava ancora, naturalmente, la reintegrazione dei territorî aviti. La ricostruzione, lunga e difficile, anzi addirittura la costruzione, nella parte citra e oltramontana era ancora da compiersi, perché il dominio avesse la continuità e la compattezza di cui ancora mancava; perché il conte godesse di un'autorità più reale di quella di marchese o, quando ci fu, di vicario imperiale. Bisognava passo passo colmare, mediante compre, matrimonî, cambî, dedizioni, conquiste, le soluzioni di continuità esistenti tra l'uno e l'altro dei luoghi da lui effettivamente posseduti; accordarsi con i signori ecclesiastici più potenti, vescovi o abati; ottenere la sottomissione dei comuni esistenti nel suo territorio o combattendoli direttamente, o alleandosi con i comuni a loro avversi o sfruttando la lotta tra papato e impero; mentre i signori dei territorî vicini, del Genevese, del Faucigny, della Bresse, che stavan compiendo a proprio profitto la medesima azione del conte di Savoia, preparavano per lui, inconsapevolmente, la costituzione di quegli stati che un giorno dovevano poi diventare parte integrante degli stati sabaudi.

Durante il lungo periodo del governo di Tommaso I, durato dal 1189 al 1233, e sotto il suo successore Amedeo IV, fino a poco oltre la metà del sec. XIII, il dominio dei Savoia, anche se non mancò qualche rovescio di fortuna, si estese notevolmente, ora irradiando da varî centri per via di circoli, ora concentrandosi sempre più attorno a un luogo importante per assorbirlo. Così Tommaso I, estendendo la signoria dalla valle di Susa ai luoghi vicini, non tardò a impadronirsi di Rivalta nel 1197, e di Giaveno, che nel 1209 donò all'abbazia di San Michele; e nel Pinerolese, dopo la sottomissione di parecchi signori che compaiono numerosi al seguito di Tommaso, il capoluogo, che già una prima volta Tommaso aveva acquistato e poi perduto per ribellione nel 1224, venne definitivamente nel 1243 in potere della casa di Savoia. Egualmente, Vigone cominciò ad essere sabaudo nel 1212 per cessione fatta dall'abbazia di S. Giusto di Susa, in cambio di alcuni diritti e di alcuni piccoli luoghi di quella valle. Poco dopo, nel 1215, sempre Tommaso I otteneva dal marchese Manfredo III di Saluzzo l'omaggio per Barge, Roncaglia e Fontanile; e nel 1217, dal Busca, il castello di questo luogo e Scarnafigi. Quando Tommaso I moriva, nel 1233, ben poteva essere considerato in Piemonte come il restauratore della sua casa; anche se il territorio sul quale essa aveva dominio era tuttora inframmezzato da signorie e da comuni non ancora sottomessi.

L'opera fu continuata, dal '33 al '53, da Amedeo IV, e dal fratello minore Tommaso II, al quale nel 1235 il primo concesse i dominî da Avigliana in giù, conservandone tuttavia la sovranità feudale. Ambedue arrotondarono, per mezzo di nuovi acquisti, l'eredità ricevuta; così che, a mezzo il sec. XIII, in Piemonte un grosso nucleo centrale, abbastanza compatto, era ormai costituito, anche se con qualche lacuna nell'interno, rappresentata non più dal comune di Torino che, proprio allora, ma per poco, era caduto nelle mani di Tommaso II, bensì dai possessi della chiesa torinese, come Rivoli, e dai comuni di Moncalieri, di Chieri e qualche altro meno importante. Questo nucleo centrale, prolungantesi nella valle di Susa fino al Moncenisio, ma interrotto nella parte estrema, a sud-ovest, dai possessi dei conti di Albon, era circondato a nord dal territorio dell'ex marca d'Ivrea, a est dal marchesato di Monferrato e dal dominio del comune di Asti, a sud dai marchesati di Saluzzo e di Ceva e dal comune di Cuneo, a ovest dalla catena alpina. Più qualche altra propaggine, oltre i confini descritti.

Mentre il conte di Savoia, di qua dalle Alpi, procedeva alla ricostituzione e all'arrotondamento dell'antico dominio, in Savoia, dove l'integrità del medesimo non era stata alterata, egli non si lasciava sfuggir le occasioni e per fare nuovi acquisti e per eliminare i signori locali. Così, nel Bugey, il villaggio di Saint-Rambert, dominato dal castello di Cornillon, era nel dominio temporale dell'abbazia che dava il nome al villaggio: ora, nel 1196, Tommaso I ottenne dall'abate in dono il castello, così che non tardò a sottomettere il resto di quel dominio temporale, costituito poi in castellania. Prima del 1224, lo stesso conte riebbe le regalie del Vallese che Enrico IV, assolvendolo dal bando, aveva riserbato a sé. Nel 1214, diede principio alla fondazione di Villeneuve presso Chillon, quando l'importanza di questo crebbe talmente per il traffico internazionale tra la Francia e l'Italia attraverso le vie di Les Clées e del Gran San Bernardo, da rendere insufficiente Chillon a contenere quanto era necessario per l'esazione del pedaggio. Un esempio di eliminazione ci è offerto dal capoluogo stesso della Savoia, di cui Tommaso I riuscì ad ottenere la vendita dai signori nel 1232; salvo il castello, che solo nel 1295 Amedeo V poté acquistare.

Una delle più importanti conquiste di Tommaso I, che ebbe un'influenza notevolissima sugl'ingrandimenti futuri della casa sabauda, fu quello della capitale del Paese di Vaud, che sarà poi per Pietro II il punto d'appoggio per la conquista dell'intera regione: Moudon, posta sul nodo stradale delle vie dirigentisi verso nord lungo il corso della Broye, verso Vevey e l'Italia, verso Ginevra e Losanna. Essa era già stata sotto la signoria del vescovo di questa città, il quale aveva concesso l'avvocazia della sua chiesa prima al conte di Ginevra, indi al duca Bertoldo di Zähringen stabilitosi a Moudon al posto del conte ginevrino. Scoppiata la guerra fra Tommaso ghibellino e quel vescovo, Moudon cadde nelle mani del conte che se ne fece legittimare il possesso dal re dei Romani, Filippo di Svevia, nel 1207. Seguì una lotta fra il duca Bertoldo e il vescovo da una parte, il conte Tommaso dall'altra. Ma questo, in breve, si riconciliò con il duca, indi col vescovo, del quale riconobbe la signoria su Moudon, ricevendola in feudo da lui.

In Piemonte, la seconda metà del sec. XIII è ancora contraddistinta più che da conquiste notevoli per ampiezza di territorio, da un'avanzata continua con l'effetto di colmare le lacune grandi e piccole che ancora esistevano in molti luoghi, anche se quegli che ivi rappresentava la casa non giunse ancora, in quel secolo, alla conquista della vasta zona occidentale rappresentata dal Canavese e da Ivrea, necessaria a stabilire il collegamento con la valle d'Aosta. Già negli ultimi anni di Federico II, Tommaso II, detto di Fiandra per il suo matrimonio con la contessa Giovanna, aveva ottenuto cessioni di alcuni luoghi, in tutto o in parte; cessioni di diritti, di decime, ecc., che, pur nella loro modestia, servivano a raggiungere la compiuta unità della signoria, senza interferenze o comunioni con altre giurisdizioni. L'omaggio che signori di Bagnolo, di Bricherasio, di Scalenghe, di Carignano, rendono al conte, indipendentemente dai loro consorti, magari dando l'esempio agli altri del consortile, mostra chiaramente che Tommaso II mira a raggiungere lo scopo con la disgregazione dei singoli nuclei e la sostituzione o sovrapposizione della propria alla signoria precedente: mentre l'accorta politica tenuta durante la lotta fra la Chiesa e l'Impero frutta il lui diplomi che, pur concedendogli diritti soltanto nominali sulle terre agognate, costituiranno poi sempre una base per le rivendicazioni future. Così Federico II concede a Tommaso, nel 1248, oltre a Torino, i castelli di Collegno, di Cavoretto e di Lanzo, Ivrea e il Canavese; e, morto quell'imperatore, l'antiré Guglielmo d'Olanda ne riconferma a lui, tornato guelfo, il nominale possesso. La dolorosa parentesi rappresentata dalla sconfitta e dalla prigionia di Tommaso II in Asti e dalla perdita di Torino (v. savoia, tommaso 11 di), venne subito compensata dall'acquisto di Moncalieri avvenuto nel 1256, finché ogni conseguenza delle lotte combattute in Piemonte fra la Chiesa e l'Impero, fra Asti e gli altri comuni, intrecciate con quelle derivanti direttamente dall'ambizione di Carlo d'Angiò e di Guglielmo VII di Monferrato, venne definitivamente cancellata col riacquisto, da parte della casa sabauda, di tanti luoghi notevoli proprio nel cuore dei proprî stati: Grugliasco, Pianezza, oltre a Torino e le sue dipendenze, riavute, quella e queste, nel 1280, in attesa delle conquiste maggiori del sec. XIV.

Nei paesi d'Oltralpe, invece, due notevoli ingrandimenti contrassegnano la seconda metà del sec. XIII. Uno si può considerare come l'ulteriore sviluppo della prima conquista fatta da Tommaso I nel Paese di Vaud. Messo saldo piede in Moudon, il figlio di Umberto III lo tenne fino alla sua morte, lasciandolo in appannaggio al figlio Aimone, dal quale lo ereditò Pietro II suo fratello, che nel 1240 figura già signore anche di Romont. Il successivo processo di formazione di questo stato sabaudo fu identico a quello già constatato altrove: una lenta, graduale o saltuaria avanzata, quando l'occasione si presentava. A dire il vero, una prima influenza nell'estrema parte orientale della regione aveva già esercitato, dopo Umberto I, anche Amedeo III, protettore dell'abbazia di S. Maurizio, castellano di Chillon per il vescovo di Sion, avvocato dell'abbazia di Haut-Crêt a nord di Vevey. Ma da questa parte, tale influenza aveva fatto scarsi progressi. Più assai se ne fecero con Pietro II, il "Piccolo Carlomagno" già padrone di Moudon e di Romont. Nel 1240, egli ottenne l'avvocazia di Payerne; indi ebbe l'omaggio, a uno a uno, dei signori di Vulliens, di Byoley, di Chapelle, di Bussy e di tanti altri, che contribuirono a estendere l'influenza di Pietro II a ovest fino a Aubonne, a nord fino nel Vully tra i laghi di Neuchâtel e di Morat, a nord-est fino a Gruyère. E se, verso la fine del sec. XIII, anche con l'occupazione definitiva di Nyon avvenuta nel 1293, la conquista integrale del Paese di Vaud non era ancora compiuta, poteva dirsi a buon punto, eccetto che nella città di Losanna, dove il potere era conteso fra il conte di Savoia, il comune e il vescovo, e il primo non riuscì mai a ottenervi la signoria incontrastata; una condizione di cose eguale a quella che si verificò in Ginevra, all'estremità occidentale del lago.

Il Paese di Vaud non coincideva con l'attuale cantone omonimo: esso era compreso fra l'Aubonne e il Giura a ovest; i laghi di Neuchâtel e di Morat a nord; la Sarine, le Alpi e l'Eau-froide a est; il Lago di Ginevra a sud. Quando la casa di Savoia già ne aveva il dominio, gli fu unita anche la porzione a sud dell'Aubonne, la cui parte più importante è il distretto di Nyon che è compreso nel cantone attuale; mentre altri luoghi come Romont, Rue, Estavayer, Vauruz, sono ora compresi nel cantone di Friburgo.

L'altro acquisto col quale si chiuse, per così dire, il sec. XIII è rappresentato da una parte notevole di quell'ampio territorio che per tre secoli fu poi parte integrante degli stati sabaudi, conosciuto sotto il nome di Bresse, situato fra la Saône e l'Ain e distinto in Bresse propriamente detta lungo la Saône; Revermont lungo l'Ain, escluso il corso inferiore cominciando da Loyes; la Valbonne lungo l'Ain inferiore fino allo sbocco nel Rodano, indi lungo quest'ultimo verso ovest fino a Miribel. Uno dei figli di Tommaso II, prima ancora di diventare conte di Savoia col nome di Amedeo V, sposò nel 1272 Sibilla di Bâgé, figlia postuma ed erede di Guido, ultimo discendente maschile della sua famiglia, la quale gli portava in dote, oltre la primitiva signoria di Bâgé, con Bâgé-le-Châtel, Saint-Trivier-de-Courtes, Pont-de-Vaux, Pont-de-Veyle e Bourg anche la signoria di Châtillon-en-Dombes, ora Châtillon-sur-Chalaronne, entrata da poco nella sua famiglia; ai quali dominî si aggiunsero Coligny-le-Neuf, Pont-d'Ain, Saint-André-sur-Suran, Jasseron, Treffort, Marboz, cioè il Revermont, venduto pochi anni dopo al medesimo Amedeo V dal duca Roberto di Borgogna, nonché più tardi la signoria di Montluel, ossia una parte della Valbonne e la signoria di Villars, acquistate l'una nel sec. XIV, l'altra nel sec. XV, di modo che l'unità della Bresse poté dirsi compiuta; ma da essa va esclusa la parte della Dombes sulla sinistra della Saône, sulla quale in pratica la signoria dei Savoia non poté affermarsi.

Alla fine del sec. XIII di là dalle Alpi mancavano ancora agli stati sabaudi, per raggiungere il loro massimo sviluppo, il Genevese, il Faucigny e il Paese di Gex, nonché la porzione della Bresse ultimamente accennata.

Il passaggio di Enrico VII per il Piemonte, con la concessione del vicariato imperiale ad Amedeo V, esercitò non poca influenza sullo sviluppo di casa Savoia da queste parti. Per questo sviluppo non ha interesse diretto il tener presente la divisione che Amedeo V fece dei suoi dominî in tre parti: una larga porzione del Piemonte; la Savoia col resto del Piemonte e la Val d'Aosta; il Paese di Vaud: quantunque ognuna di queste parti abbia avuto dal 1285 in poi una storia propria, questa è pur sempre la storia di casa Savoia, perché il ramo savoiardo ebbe la superiorità feudale sul Vodese e sul Piemontese, finché questi due non furono poi, rispettivamente nel 1359 e nel 1418, riassorbiti dal primo. I nuovi acquisti in Piemonte furono ottenuti mediante la partecipazione da parte di casa Savoia alle guerre nelle quali furono attori principali i marchesi di Saluzzo e di Monferrato, il comune di Asti, la rinnovata dominazione angioina; mediante l'intromissione nelle guerre civili astigiane o in quelle continue fra le grandi famiglie dei signori del Canavese, dove la dominazione monferrina, entratavi con Guglielmo VII, venne poco per volta sgretolandosi sotto i colpi di Filippo d'Acaia e di Amedeo V o dei loro rappresentanti; mentre in Ivrea un'abile azione diplomatica mirava a rendere favorevole l'opinione pubblica alla sostituzione della signoria sabauda a quella del Monferrato. Ciò avvenne definitivamente nel 1313 e fu seguita dalla sottomissione dei signori del Canavese. Negli stessi anni e nei seguenti la lotta contro la dominazione angioina nel Piemonte meridionale, complicatasi poi anche con l'intervento visconteo, fruttò alla Casa Sabauda la dedizione di Fossano e di Cavallermaggiore nel 1314, di Mondovì e di Cherasco nel 1347, nonché quella di Savigliano regolata con patti conclusi definitivamente due anni dopo; tutti luoghi da considerarsi ormai come sabaudi, anche se le vicende guerresche degli anni seguenti fecero loro temporaneamente cambiar di padrone.

Il lungo periodo che prende il nome da Amedeo VI, il Conte Verde, si chiude con un notevole profitto per i Savoia. Di qua dalle Alpi, oltre che da una maggiore e più stretta dipendenza del principato di Piemonte dal ramo comitale della Savoia, questo periodo è contrassegnato da notevoli acquisti. Approfittando abilmente degli aspri dissensi scoppiati fra il vescovo di Vercelli e il comune di Biella, già nel 1377 Amedeo VI riceveva la dedizione di parecchi luoghi del Vercellese, come San Germano e Santhià, nonché del Biellese, come Verrone, Carisio, Candelo e parecchi altri; finché due anni dopo interveniva la dedizione di Biella, seguita in un'altra parte del Piemonte, a tre anni di distanza, da quella di Cuneo, che dalla dominazione angioina passava definitivamente sotto quella sabauda. Quest'avanzata nel Piemonte meridionale sulla via del mare doveva ben presto ricevere il suo coronamento sotto Amedeo VII, il Conte Rosso.

Oltr'Alpi il sec. XIV vide, se non compiersi per intero, far però un progresso notevole l'unità della monarchia fino allora interrotta da vaste lacune, costituite, alcune da luoghi dispersi qua e là, altre da regioni intere o da comunanza di sovranità con vescovi e arcivescovi in una stessa regione: lacune colmate, sia pure in parte, con il sacrificio di qualche territorio situato oltre i confini naturali, ma con sacrificio largamente compensato dall'arrotondamento che ne derivava. La lunga inimicizia esistita tra la casa di Savoia e i Delfini aveva preso un aspetto di maggiore gravità dopo il 1349, quando il Delfinato fu unito alla corona di Francia e diventò appannaggio del principe ereditario; il Paese di Gex, già posseduto da signori locali, era pervenuto in un ramo cadetto della famiglia dei conti del Genevese, anch'essi rivali di quella sabauda; nel 1344, Ugo di Ginevra, signore di Anthon, che aveva avuto il Gex in eredità, in odio ai Savoia ne fece omaggio al Delfino, ma Amedeo VI nel 1353 per rappresaglia contro le ostilità degli ufficiali di questo, cinse d'assedio il luogo e lo prese, assumendo il titolo di barone di Gex. Due anni dopo le contese si pacificarono con il trattato di Parigi del 5 gennaio col quale il conte di Savoia cedeva bensì quanto possedeva da tempo nel Viennese, tra il Rodano, l'Ysère e il Guiers, ma riceveva in cambio, oltre la baronia di Gex, oltre Meximieu, Pérouges e altri luoghi, anche il Faucigny nella valle dell'Arve, già dote di Agnese moglie di Pietro II, l'unica figlia dei quali, Beatrice, sposandosi a Guigo Delfino, aveva ritardato di tanto alla casa di Savoia l'acquisto di quella regione.

A render compiuto quello della regione situata tra la Saône e l'Ain mancava la signoria di Villars della Dombes, nonché quella piccola porzione appartenente ai Beaujeu, costituita da Thoyssey, Beauregard, Chalamont, Montmerle, ecc. I Beaujeu, pressati dal bisogno, fecero omaggio ad Amedeo VI, ma lo negarono al figlio, il futuro Conte Rosso, quando ricevette in appannaggio la Bresse. Questi combatté egregiamente per richiamarli al dovere, ma questa signoria dei Beaujeu sfuggì a casa Savoia, come gran parte della signoria di Villars, l'una e l'altra passate nel principio del secolo seguente a Luigi II di Borbone, e di tutta quella signoria già appartenuta ai Villars, indi ai Thoire-Villars, vennero in potere di Amedeo VIII, per compra fattane nel 1402, solo Villars e Loyes e alcuni altri luoghi dispersi.

Nello stesso tempo all'incirca veniva eliminata un'altra secolare incuneatura straniera nei dominî sabaudi. I conti di Ginevra, antichi quanto i Savoia, costretti dal vescovo a limitare l'esercizio della giurisdizione al Genevese, dovettero anch'essi subire l'azione accentratrice della casa rivale più potente e più fortunata. Già ripetutamente sconfitti nelle loro contese, si erano trovati nella necessità di prestarle omaggio per alcuni feudi, finché la pace di Parigi del 1355 li obbligò a prestare ad Amedeo VI l'omaggio che prima dovevano al Delfinato. Estintasi la dinastia con Roberto, che fu l'antipapa Clemente VII, il Genevese situato a sud del Lago Lemano, limitato a ovest dal Rodano e da Les Usses, a est dal Faucigny, passò per testamento alla famiglia dei Thoire-Villars, che nel 1401 lo vendette ad Amedeo VIII contro una somma di 45.000 fiorini e la signoria di Châteauneuf nel Valromey. L'acquisto fu poi arrotondato alcuni anni dopo con il dominio di Rumilly, anche questo venduto ad Amedeo VIII da Melchide di Savoia, figlia di Amedeo d'Acaia e di Caterina di Ginevra.

All'altra estremità della monarchia, già prima della fine del sec. XIV, aveva avuto compimento l'impresa rivolta ad assicurare alla casa di Savoia uno sbocco sul mare con l'acquisto di Nizza che per mezzo della Valle di Stura e del territorio cuneese restò indirettamente congiunta ai dominî aviti. Dopo la dedizione di Cuneo a casa Savoia il marchese di Saluzzo aveva iniziato delle conquiste in Val dei Monti, continuazione, per mezzo dell'Argentera, della Valle di Stura, e cominciava a fare altrettanto nella parte alta di questa valle, contro l'ultimo avanzo della seconda dominazione angioina. Amedeo VII corse ai ripari: in breve sostituì la sua alla dominazione saluzzese, allargandola ai luoghi vicini; indi con l'aiuto dei Grimaldi di Boglio ottenne la dedizione di Nizza e della relativa contea, nel 1388, tre anni prima della sua morte, avvenuta nel 1391. Del suo successore sono già stati accennati i primi acquisti effettuatisi nel principio del sec. XV.

Nel corso del lungo periodo di Amedeo VIII, i dominî sabaudi raggiungono la massima estensione in quel secolo di qua dai monti, ove doveva rimaner sempre escluso l'ampio territorio occupato dai marchesati di Saluzzo e di Monferrato, nonché, ma solo fino al 1531, la contea di Asti e il marchesato di Ceva; e anche Oltralpe, dove, di contro all'effimera conquista del Valentinois e del Diois, nonché dell'Ossola, sta quella un po' più duratura della città di Friburgo avvenuta quasi subito dopo la morte di Amedeo VIII, ma perduta dopo le guerre di Borgogna del 1475, che provocarono anche la perdita di Orbe, di Grandson, di Montagny-le-Corboz e di Echallens nel Paese di Vaud. Di qua è da segnalare piuttosto l'acquisto di Vercelli, per la cessione che ne era stata fatta dall'ultimo dei Visconti dopo la guerra di Lombardia del 1427.

La prima metà del sec. XVI ci presenta, da un lato, un notevole arrotondamento in Piemonte, con il dono della contea di Asti, fatto dall'imperatore Carlo V alla duchessa di Savoia, Beatrice di Portogallo, nel 1531, trasmesso dopo la morte di questa al figlio Emanuele Filiberto; ma da un altro lato gravi diminuzioni oltre i monti, alcune temporanee, altre definitive.

Il Paese di Vaud - che già nel 1477, dopo le guerre di Borgogna, aveva subito l'accennata mutilazione - nel 1536, occupato dai Bernesi, fu perduto contemporaneamente per la casa di Savoia e per la fede cattolica. Nella conquista era compreso anche il Chiablese, che però fu restituito nel 1564 a Emanuele Filiberto con il trattato di Losanna. Lo stesso anno 1536 Francesco I occupò la Savoia e gli altri dominî d'Oltralpe e la maggior parte del Piemonte, che vennero restituiti nel 1559 con il trattato di Cateau-Cambrésis.

Condizioni generali dello stato sabaudo nel Medioevo. - Nel secolo XV molto cammino era già stato compiuto nel senso della sostituzione di uno stato moderno all'antico stato feudale, anche se non era ancora scomparsa l'organizzazione feudale, che appare più che non in Piemonte, evidente nella Savoia, con quelle grandi e potenti case signorili, annidate nelle impervie vallate alpine, con pochi e poco popolosi centri urbani.

Nelle campagne, accanto alle ormai rare proprietà allodiali, cioè tenute dai proprietarî in esenzione da ogni vincolo verso altri, v'era l'immenso insieme della proprietà feudale, sottoposta in parte direttamente al conte, poi duca di Savoia, che l'amministrava per mezzo di castellani. Già nel sec. XI, così di qua come di là dalle Alpi, erano ormai grandemente diminuiti i servi, gli schiavi personali, ma rimanevano ancor numerosi i servi attaccati alla terra; così le famiglie dei coltivatori eran divise, quantunque la prima categoria tendesse a diminuire a vantaggio della seconda, in tagliabili e libere; queste dovevano al signore servigi in natura o in giornate di lavoro, quelle, oltre gli stessi servigi, anche la taglia, altra imposta da cui prendevano il nome; e per di più erano soggette al diritto di mano morta, private com'erano della possibilità di testare quando morivano senza prole. Caratteristica delle montagne della Savoia era l'organizzazione degli abitati in comunità rurali formatesi evidentemente fino dai tempi più antichi, per lo sfruttamento delle ricchezze naturali che non richiedono lavori - boschi, pascoli e acque -, che sussistevano ancora nel sec. XV e continuarono a esistere e a rafforzarsi nei secoli seguenti.

Notevole differenza correva tra le città del Piemonte e quelle della Savoia. In questa regione mancava una tradizione comunale, che esisteva invece in Piemonte, dove i comuni di Chieri, di Testona, di Torino e altri minori, per non parlare di Asti e di Alba non ancora sabaudi, avevano una storia cospicua, politica ed economica, quale non poteva vantare alcuno fra i comuni savoiardi, e neppur fra gli svizzeri, salvo Ginevra e Losanna, che sotto questo aspetto presentano caratteristiche differenti. L'origine rurale, il numero più limitato di comuni e la maggiore scarsezza della relativa popolazione in Savoia, permisero all'elemento feudale di raggiungere un maggiore sviluppo, che non di qua dalle Alpi, in confronto dell'elemento popolare. Solo nel Paese di Vaud, dove buon numero di comuni erano di recente formazione, e dove il diritto consuetudinario, vigente in luogo di quello scritto, obbligava le popolazioni a una più vigile difesa delle consuetudini e delle franchigie ottenute, l'elemento comunale ebbe, ma per ragioni non dovute a un'organizzazione comunale antica, preponderanza.

Più popolari e più ricchi, in confronto di quelli della Savoia, i comuni del Piemonte. Tra la fine del sec. XIV e il principio del XV Chambéry contava circa 3400 abitanti, Rumilly 1100, Annecy 1500, Torino 4200, Pinerolo più di 3800, Ivrea più di 1500, Cuneo circa 6000; verso la metà del secolo, Bourg, capoluogo della Bresse, circa 700: del Paese di Vaud il comune più popoloso, quello di Yverdon, contava 280 fuochi, Moudon, il capoluogo, 230. Le arti e i mestieri erano organizzati ovunque in corporazioni, regolate da proprî statuti; fiorente l'arte della lana in Piemonte, per es. in Pinerolo e in Ivrea; meno in Savoia, dove al principio del sec. XV fu fatto un inutile tentativo d'impiantarla, allo scopo di diminuire l'importazione estera ed eliminare la disoccupazione.

I comuni erano retti da un consiglio, convocato dal rappresentante del potere centrale, chiamato solitamente castellano in Piemonte e in Savoia, talora anche vicario, come in Torino, in Savigliano, in Cuneo, in Chieri, in Chivasso; nei dominî d'Oltralpe particolare importanza avevano i sindaci, variabili di numero da luogo a luogo, agenti esecutivi dei deliberati delle assemblee generali, ai quali erano soprattutto affidati il maneggio dei fondi e la contabilità del comune. L'assemblea generale degli abitanti fu un'usanza che perdurò più a lungo di là dai monti che non di qua, specialmente in Savoia e nel Paese di Bresse. Di qua se ne ha cenno in alcuni statuti, come in quelli di Pinerolo, ma l'uso a poco a poco scomparve.

Tra le classi sociali la nobiltà offre le sue speciali caratteristiche più in Savoia, naturalmente, che in Piemonte.

Numerosi i castelli in tutti i dominî, specialmente in quelli in cui la feudalità aveva il sopravvento: nel Canavese, in Val d'Aosta, in Savoia; alcuni ancora di proprietà dei feudatarî che talora continuavano a conservarli in proprio anche quando avevano già ceduto al sovrano le loro ragioni sul resto del territorio; la maggior parte di proprietà dei conti e duchi, che frequentemente andavano a soggiornarvi, un po' in uno un po' in un altro. I loro itinerarî infatti segnano frequenti fermate nei castelli di Chambéry, di Ripaille, di Thonon, di Évian; dall'altra parte del lago in quelli di Chillon e di Morges, nella Bresse a Bourg e a Pont-d'Ain, in Piemonte in Avigliana e in Pinerolo. In tali occasioni quasi tutto l'occorrente era trasportato nella nuova dimora, anche se il soggiorno vi doveva esser brevissimo, e poiché il mobilio vi era molto scarso e modesto, tra le contribuzioni degli abitanti figuravano frequentemente i letti e altri mobili che essi dovevano prestare alla famiglia del principe ed al suo seguito. Il servizio militare era regolato dalle leggi feudali, dai contratti speciali stipulati con i vassalli e con i comuni, ai quali il conte di Savoia, se erano sudditi immediati, o i suoi feudatarî se mediati, avevano concesso franchigie. Gli uomini dei feudatarî, i borghesi delle città eran tenuti a prestare servizio per un tempo determinato; i borghesi anche entro limiti territoriali stabiliti. Per le esigenze dell'amministrazione tutto il dominio era diviso parte in balivati, parte in governatorati, che aumentavano o diminuivano di numero a seconda che un nuovo importante territorio entrava a far parte integrante del dominio, o viceversa: nel 1355 scomparve il balivato del Viennese, nel 1388 iniziò la sua vita il governatorato di Nizza, nel 1427 quello di Vercelli: suddivisioni ne erano le castellanie, rette da castellani con mansioni militari, amministrative e giudiziarie per le cause minori; sopra di essi, per quel che si riferiva all'amministrazione della giustizia, stavano i giudici a capo delle singole giudicature, corrispondenti di regola ai singoli balivati.

Nel più alto grado sedeva il sovrano con i suoi consigli residenti, di Chambéry e di Torino, che giudicavano in prima istanza nelle cause di maggior rilievo e in appello nelle cause già giudicate nei gradi inferiori. Il consiglio residente accompagnava il principe nelle sue peregrinazioni; il consiglio di Chambéry fu istituito dal conte Edoardo, ma regolato con norme fisse da Amedeo VI. Il conte stesso amministrava direttamente la giustizia in solenni riunioni, rese poi periodiche e regolate definitivamente col nome di "suprema generale udienza" dagli Statuti di Amedeo VIII. Primo esempio di queste adunanze è il placito di Cambiano tenuto da Pietro, figlio della contessa Adelaide, nel 1064. A rappresentare il sovrano nell'amministrazione della giustizia, con autorità suprema su tutti i magistrati, stava il cancelliere di Savoia, che cominciò a funzionare nella metà del sec. XIV.

Il sistema penale risentiva delle due concezioni germanica e romana, così che mentre in origine prevalse il sistema per cui il colpevole era perseguito soltanto in seguito ad accusa da parte dell'interessato, in seguito fu ammesso il procedimento d'ufficio o in base a una semplice denuncia; con un ritorno tuttavia, assai frequente, all'antico sistema germanico della composizione, essendo ammesso che l'incolpato potesse sottrarsi alla meritata pena corporale mediante un'ammenda concordata con i magistrati. Le pene corporali andavano dalla morte per impiccagione, decapitazione, annegamento o col fuoco, all'amputazione di qualche membro o alla fustigazione; ma il sistema della composizione conduceva alla stridente ingiustizia di veder un falsario annegato nell'olio bollente, un altro liberato contro lo sborso di una non grave somma in danaro; un eretico bruciato vivo e un altro scampato con poca spesa. Non infrequente il giudizio di Dio, come quello del 1397, tra Ottone di Grandson e Gerardo di Estavayer.

Per la cultura, la frase "le tenebre del Medioevo" è ormai vieta anche per il Piemonte e per i dominî in genere di casa Savoia, che possono vantare un S. Anselmo di Aosta, un Enrico di Susa, un Pietro di Tarantasia.

Antica e diffusa l'istruzione pubblica primaria e secondaria, dopo le quali chi voleva proseguire gli studî doveva recarsi nelle già celebri università straniere, finché non ne venne istituita una in Torino dal principe di Acaia nel 1405. Dal Piemonte e dalla Savoia gli studenti accorrevano a quelle di Bologna e Pavia, di Parigi, di Bourges, Montpellier, Avignone. Anzi in quest'ultima città il cardinale Giovanni di Brogny, originario di Annecy, fondò nel 1424 un collegio per ospitarvi studenti della diocesi di Ginevra e delle varie regioni della Savoia.

Attestano il fiorire della cultura medievale le ricchissime biblioteche di Vercelli, della Novalesa, di S. Michele della Chiusa; trovatori ebbero ospitalità presso Pietro II e Tommaso II, poeta egli stesso quest'ultimo; mentre ora si dubita fortemente che tale sia stato Filippo Senzaterra. La lingua ufficiale era la latina tanto di qua quanto di là dalle Alpi; non mancano esempî tuttavia di atti comunali, già nel sec. XIV, scritti in provenzale a Nizza, nel dialetto di Dombes a Châtillon nella Dombes, in francese a Yverdon nel Paese di Vaud e, nel secolo seguente, in bressano a Bourg, in francese a Friburgo e a Morat. In Piemonte si conservò più a lungo il latino, pur non mancando esempî di lingua italiana e anche di dialetto in qualche componimento letterario, finché Emanuele Filiberto prescrisse che gli atti giudiziarî fossero scritti in italiano, come prima di lui aveva fatto Francesco I per il francese, lingua che rimase poi d'uso in Savoia.

La ricostruzione dello stato sabaudo: Emanuele Filiberto (1559-80). - Con la battaglia di S. Quintino e con la pace di Cateau-Cambrésis (3 aprile 1559) risorse lo stato sabaudo, ma, giuridicamente, Emanuele Filiberto non lo riebbe per diritto di conquista o per principio di legittima ereditarietà, bensì come dote di Margherita di Valois, sorella di Enrico II, perché la corona francese non volle riconoscere di essere stata un'usurpatrice di terre altrui. In sostanza, politicamente, la Francia e la Spagna, spossate da lunghe guerre, delle quali il Piemonte era stato una delle poste più disputate, vollero creare tra loro uno stato cuscinetto, temporaneo se Emanuele Filiberto non avesse avuto eredi (e, in vista di tale eventualità, perché non si spezzasse tra loro l'equilibrio, conservò la Francia le piazze di Torino, Chieri, Chivasso, Villanova d'Asti e Pinerolo, e la Spagna quelle di Asti e di Vercelli, sostituita poi da Santhià), perpetuo nel caso contrario. Ma se, formalmente, lo stato sabaudo risorse come un Belgio in anticipo, in fondo esso fin dal principio si rivelò il Piemonte moderno, cioè una potenza tipica di "mediana grandezza", che sa valersi dei contrasti delle grandi nazioni per vivere e crescere. Infatti, mentre il 10 novembre 1558 Emanuele Filiberto faceva sapere alla corte di Francia che avrebbe lasciato "governare alla moglie", il 26 marzo 1559, con la convenzione segreta di Groenendal, si legava in perpetua confederazione con la Spagna e le concedeva di presidiare i forti di Nizza e di Villafranca, promettendole anche il pieno possesso delle due città nel caso che morisse senza eredi.

Con tali patti Emanuele Filiberto rinnovò le relazioni internazionali dello stato sabaudo; col fissare la sua capitale a Vercelli prima, a Torino poi quando fu sgombrata dai Francesi, ne spostò la base interna dalle regioni transalpine al Piemonte.

Fissatosi in Piemonte, Emanuele Filiberto trasformò radicalmente la struttura politico-economico-sociale dello stato sabaudo. In quest'opera non volle compagne le congregazioni degli stati e sostituì un governo personale, assoluto, al regime dei suoi predecessori, nel quale teoricamente, e talvolta praticamente, le congregazioni limitavano l'esercizio della sovranità.

L'equilibrio tra il principato e le congregazioni, realizzato da Amedeo VIII, si era spezzato nei suoi successori, e le congregazioni erano divenute un elemento dissolvente degli stati sabaudi. Non adunando più gli stati, salvo che in Val d'Aosta, Emanuele Filiberto toglieva alle diverse regioni del suo ducato ogni possibilità di manifestazione legale e fissava nella dinastia sabauda la massima che solo un principe assoluto poteva reggere popoli diversi come erano i Savoiardi, i Piemontesi, i Nizzardi.

Ma se contro gli stati Emanuele Filiberto affermò in pieno l'assolutismo monarchico, in altri istituti (senati, camere dei conti, chiesa rinnovata) un po' pose, un po' finì col trovare dei limiti al suo potere, impedendone la degenerazione nel dispotismo puro. In Savoia e in Piemonte mantenne i parlamenti, creati dai Francesi, come supremi organi giudiziarî e ne mutò solo il nome in quello più italiano di senati. Solo dopo l'interinazione o registrazione del senato gli editti ducali acquistavano efficacia di leggi. Al principe restava la facoltà, contro il parere dei magistrati, d'imporre con triplicate lettere d'ingiunzione l'interinazione. Pari disposizioni furono emanate per la Camera dei conti riguardo alla registrazione dei provvedimenti fiscali. Non solo Emanuele Filiberto creò questi istituti, ma seppe anche permettere che essi acquistassero prestigio, sia pure a scapito del suo assoluto potere. Bella fama di austera indipendenza si conquistarono sotto di lui il senato di Savoia per opera del presidente Catherin Pobel e la Camera dei conti. La Chiesa, rinnovata dal concilio di Trento, ebbe sotto di lui un episcopato eccellente (G. Ferrero a vercelli, M. Ghisleri a Mondovì, M. A. Bobba ad Aosta, G. Della Rovere a Torino, F. Lambert a Nizza) e riacquistò la sua riputazione presso i popoli sabaudi.

Negl'istituti fondamentali dei suoi stati, Emanuele Filiberto fuse senza pregiudizî elementi vecchi sabaudi con elementi importati dall'occupazione francese. Il sistema dei rapporti Stato-Chiesa da un lato poggiava sull'indulto di Niccolò V (13 gennaio 1451) a Ludovico di Savoia riguardo alla nomina delle alte cariche ecclesiastiche, che fu confermato da Gregorio XIII il 12 dicembre 1572, dall'altro sull'istituto dell'appel comme d'abus, che venne fissato il 3 aprile 1560 con un regolamento ricalcato su ordinanze francesi. Rigidi tutelatori dei diritti dello stato contro le esorbitanze della Chiesa in materie giurisdizionali furono i senati, specialmente quello di Savoia, che s'impegnò in un'aspra lotta contro il vescovo di Aosta, M. A. Bobba. Nel campo legislativo più vigorosa era la vecchia tradizione sabauda. Gli Statuta Sabaudiae erano stati l'ostacolo più serio opposto dai Piemontesi all'assimilazione francese; essi offrivano ad ogni istante nella quotidiana pratica giuridica il ricordo dei loro principi legittimi e le popolazioni vi erano tanto affezionate che la congregazione degli stati cismontani ne pretese esplicitamente dai conquistatori il rispetto, il 26 ottobre 1539. Tuttavia già Carlo II aveva disegnato una revisione degli statuti; il figlio ne riprese l'opera e ne condusse solo una parte a compimento, poiché dei cinque libri progettati ne uscirono solo due, il terzo Novi ordini et decreti intorno alle cause civili (1561) e il quarto Novi ordini et decreti intorno alle cause criminali (1565). Durante la dominazione francese, gli stati generali del Genevese, Savoia e Bresse avevano chiesto e ottenuto che gli Statuta Sabaudiae fossero tradotti in francese, ma i Piemontesi dovettero continuare a servirsi della lingua latina. Emanuele Filiberto introdusse nella sua legislazione la lingua italiana, estendendo al Piemonte un vecchio privilegio della cancelleria della contea di Asti. E nel 1561 ordinò per il Piemonte di stendere in italiano gli atti giudizialî e i contratti notarili. Con la legislazione di Emanuele Filiberto scomparvero le ultime reliquie del sistema barbarico, e si affermava il diritto del principe superiore ai privilegi, agli statuti, alle franchigie che non riuscissero a lode di Dio e a conservazione, comodi e sicurezza del principe e dei suoi popoli (editto del 29 dicembre 1559). Infine Emanuele Filiberto concesse ai valdostani di conservare le loro consuetudini, ma volle che le raccogliessero.

Nel rinnovamento dell'economia sabauda, il duca si giovò molto dei consigli contenuti nel famoso memoriale, attribuito un tempo a Niccolò Balbo e ora dal Patetta a Cassiano Dal Pozzo, primo presidente del senato di Piemonte. Per dare incremento all'agricoltura il memoriale progettava un vasto piano d'irrigazione del Piemonte e tra il 1561 e il 1571 si moltiplicarono le concessioni o costruzioni di canali e si affermò implicitamente il principio che le acque correnti erano proprietà dello stato. Con altri provvedimenti s'incoraggiò l'immigrazione di agricoltori non regnicoli (21 aprile 1561) e si tentò di elevare socialmente i contadini regnicoli con l'affrancazione dei servi della gleba (18 e 25 ottobre 1561, 23 gennaio 1562, 25 agosto 1565 e 10 febbraio 1568), ma questa grande riforma sociale fu impostata su condizioni tali che la resero inefficace, come inefficaci erano state le misure prese dai Francesi nel 1552 per affrancare i tagliabili della Bresse, del Bugey e della Savoia. La riforma fu attuata solo due secoli dopo, sotto Carlo Emanuele III, e riguardava più le regioni transalpine degli stati sabaudi, perché il Piemonte aveva beneficiato della generale evoluzione sociale dell'Italia. I popoli sabaudi in genere, e il piemontese in specie, che doveva diventare in seguito uno dei più intraprendenti d'Italia, erano in origine assai poco industriosi, come notavano gli ambasciatori veneti, e per introdurre le industrie nel paese il duca dovette, il 21 agosto 1561, offrire asilo e privilegi ai fuorusciti e agli stranieri, che con capitali o con speciali abilità si stabilissero nei suoi stati. E così per opera di non regnicoli cominciò la vita industriale moderna in Piemonte. I mezzi per favorire le industrie erano quelli dominanti nell'economia del tempo: franchigie doganali, divieti di esportazione sulle materie prime, divieti d'importazione concorrenti, monopolî di fabbricazione e di vendita, esenzioni d'imposte. Dalla taccia di poca industriosità dei popoli sabaudi, si riscattano alcuni elementi della nobiltà. Nel patriziato sabaudo le doti di guerriero, di diplomatico, di amministratore si cominciano a fondere con quella di creatore di ricchezze private. In tutto predomina il concetto d'uno stato regolatore e organizzatore della vita economica e anche nelle concessioni minerarie è notevole il principio informativo della demanialità del sottosuolo, principio accolto solo un secolo più tardi dalla legislazione mineraria di Venezia. Grandi idee concepì il duca per la fedelissima Nizza, di cui voleva fare il perno della sua politica commerciale. Con l'acquisto di Tenda (1579) assicurò le sue vie di comunicazioni interne col Piemonte. Mentre poi, per mezzo degli Ebrei (1561), dei Monti di Pietà (1568) e della banca dei genovesi M. A. e G. B. Cattaneo (1568), trovava modo di porre in circolazione dei capitali per i suoi sudditi; col ridurre le zecche da sei a due (Chambéry e Torino) e col fissare come unità di computo la lira d'argento divisa in venti soldi (20 aprile e 29 settembre 1561) risanò la circolazione.

Reso il paese più ricco, con la riforma del 26 dicembre 1567 diede un assetto stabile alle finanze dello stato. Alla testa dell'amministrazione finanziaria, invece dei vecchi tesorieri pose nel 1563 un unico funzionario. Seguendo l'esempio francese, tentò unificare per tutti gli stati sabaudi la Corte dei conti (1560), ma nel 1577 dovette scindere la corte in due, una con sede a Chambéry e un'altra a Torino. Grazie a un'oculata politica finanziaria, Emanuele Filiberto dapprima colmò il deficit dello stato e negli ultimi anni di regno finì con l'avere considerevoli avanzi. Le entrate sotto di lui salirono da 100.000 scudi d'oro a oltre 500.000 secondo alcuni, a 400.000 secondo altri.

Senza gravare molto sull'erario e senza suscitare apprensioni nelle due grandi potenze confinanti, Emanuele Filiberto seppe creare ingegnosamente un'organizzazione militare suscettibile d'una rapida mobilitazione. Essa constava di varî elementi: la milizia paesana, la milizia feudale, le truppe mercenarie e le truppe dei cosiddetti trattenuti. Nel 1559 il duca proibì il reclutamento dei suoi sudditi da parte degli stranieri, nel 1560 divise la milizia paesana in 4 coronelie (Asti, Ivrea, Nizza, Piemonte) e nel 1566 fissò gli ordinamenti della milizia. Ogni parrocchia doveva fornire in proporzione dei suoi abitanti un contingente di armati e doveva istruirlo a sue spese; in caso di guerra il duca avrebbe lui fornito il soldo al contingente. La disciplina e l'addestramento della milizia erano affidati a un corpo di sergenti, con alla testa un sergente maggiore: Giovanni Antonio Levo piacentino. Ai soldati di mestiere, ai mercenarî era affidato il presidio delle fortezze. La milizia feudale era in piena decadenza più per lo spontaneo declinare delle istituzioni feudali che per una consapevole politica del duca. Ma il vero nerbo dell'esercito erano i trattenuti, dei capitani di ventura trattenuti a corte a stipendio fisso, che in caso di guerra erano obbligati a fornire al duca una compagnia d'una determinata forza, anticipando tutte le spese necessarie. Oltre che sull'esercito, Emanuele Filiberto fondò il sistema militare sabaudo su una cintura fortificata, concepita organicamente in modo da difendere da tutti i lati lo stato: Nizza verso la Provenza, S. Michel a Bourg-en-Bresse verso la Borgogna, l'Annunziata presso S. Julien in Savoia verso Ginevra, Mondovì verso Genova, Vercelli, e poi Asti e Santhià, quando furono restituite, verso il Milanese spagnolo, e in mezzo, quale ridotto, la cittadella di Torino. Oltre che un grande avvenire commerciale, Nizza fece sognare al duca anche un grande avvenire marittimo militare. Egli creò una flotta di 5-6 galee, che voleva portare fino a 20, ma non voleva che essa gravasse sulle finanze e pensò prima di porle in condotta della Spagna o della Santa Sede, ma, non essendogli riuscito, le affidò al ricco ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro, che avrebbe dovuto avere negli stati sabaudi la stessa funzione che l'ordine militare di S. Stefano aveva in Toscana. L'ordine non si mostrò all'altezza del compito (1573-74) e il sogno del duca svanì, ma dopo aver lasciato una gloriosa traccia a Lepanto, dove due sue galee, agli ordini di A. Provana, sostennero l'urto dei Turchi.

Come dell'educazione militare, Emanuele Filiberto si preoccupò anche dell'educazione culturale dei suoi sudditi. Lo Stato lasciava allora alla Chiesa l'istruzione primaria e secondaria e s'interessava soltanto di quella universitaria. Il duca proibì a coloro che fossero nati nei suoi dominî di andare a insegnare o a studiare in altri stati, e si dedicò energicamente ad organizzare lo studio di Mondovì (ottobre 1560), nell'attesa di riavere Torino. Quando Torino fu sgombrata dai Francesi, le fu restituita l'università (22 ottobre 1566) e il corpo insegnante di Mondovì vi passò in massa. Le facoltà di legge e di matematica prosperarono, ma l'insegnamento d'umanità fu soppresso e non resse alla concorrenza dei gesuiti. Si affermò allora nel campo spirituale la potenza della Compagnia di Gesù negli stati sabaudi, che doveva durare fino al Gioberti. Il 4 gennaio 1561 i gesuiti fondarono a Mondovì il loro primo collegio, illustrato da un maestro quale il Bellarmino, il 3 ottobre 1564 seguì l'erezione del collegio di Chambéry, e infine sorse il collegio di Torino nel 1565. Se Emanuele Filiberto lasciò prendere tanta influenza ai gesuiti fu perché egli era e si reputava l'avanguardia di Roma papale contro il protestantesimo, che aveva la sua cittadella a Ginevra e i suoi avamposti nelle valli dei Valdesi. Nella politica religiosa del duca il problema del riacquisto di Ginevra si legava in rapporto d'interdipendenza con quello dei Valdesi. Teoricamente egli era convinto che l'unità religiosa fosse una delle più grandi forze dello stato, ma praticamente sentiva l'impossibilità di ritornarvi, l'inefficacia e anzi il danno politico ed economico delle persecuzioni religiose. E infatti egli prese a perseguitare i Valdesi, quando si parlava d'una grande crociata contro Ginevra, di cui doveva essere il condottiero, quando cioè gli conveniva mostrare il suo perfetto lealismo religioso. Ma, sfumata l'impresa di Ginevra per l'opposizione della Spagna, che era gelosa dell'amicizia del duca con i Guisa, i Valdesi ottennero la Magna Charta della loro libertà religiosa a Cavour il 5 giugno 1561 e svanì il sogno dei gesuiti, il sogno del Possevino, di convertirli e di sradicare da loro l'eresia. Oltre che dai gesuiti, il duca fu secondato nelle sue aspirazioni su Ginevra, senza però pregiudizî religiosi, dai Savoiardi. Questi erano rimasti male dello spostarsi in Piemonte del centro degli stati sabaudi, e cercarono di riportare di nuovo casa Savoia oltre le Alpi, additandole come meta Ginevra.

Più fortunato fu il duca nelle sue aspirazioni in Piemonte. Quando Lione cadde nelle mani degli ugonotti, Emanuele Filiberto inviò contro di loro 3000 fanti e 400 cavalli. In compenso di ciò, la corona francese con gli accordi di Blois (8 agosto 1562) e con la convenzione di Fossano (2 novembre 1562) sgombrò le piazze di Torino, Chieri, Chivasso e Villanova d'Asti e ritenne solo Pinerolo con l'aggiunta di Savigliano e di Perosa. Tentò allora il duca di avere anche dalla Spagna Asti e Santhià, ma la Spagna non volle cederle prima che fosse evacuata Pinerolo. L'esempio francese, invece, indusse il cantone di Berna a restituire con il trattato di Losanna (30 ottobre 1564) il Genevese, il Chiablese e il Gex al duca di Savoia, ritenendo col suo riconoscimento il Vaud e il Vevey. Il trattato ebbe il pieno assenso della Francia, ma la clausola sulla tolleranza religiosa da rispettare nelle terre che si restituivano spiacque alla Spagna e alla Santa Sede e Berna ricusò di porre in esecuzione il trattato. Il duca dovette prima dare alla Santa Sede prove di lealismo cattolico con una nuova persecuzione dei Valdesi e una spedizione a Malta (1565) e poi, quando la Spagna ebbe bisogno della Savoia per inviare le sue truppe dal Milanese nei Paesi Bassi, ottenne in compenso l'assenso al trattato di Losanna (20 dicembre 1566). I Bernesi sgombrarono finalmente il Gex, il Chiablese e il Genevese. S'iniziarono quindi i negoziati col cantone del Vallese, e con la convenzione di Thonon (4 marzo 1569) Emanuele Filiberto riebbe i vecchi territorî sabaudi di Évian e di Saint-Gingolph, rinunziando definitivamente a Monthey. Risolte le questioni dei confini con i cantoni svizzeri, salvo che con Friburgo, che non voleva abbandonare la contea di Romont strappata a Carlo II di Savoia, il duca, con una brillante concezione diplomatica, volle fare della Svizzera il perno della sua politica di neutralità e di sicurezza tra Francia e Spagna. E il 5 maggio 1570 concluse con Berna un'alleanza politica e militare. Dopo la morte in Francia di Carlo IX, il nuovo re Enrico III s'indusse a restituire la piazza di Pinerolo, che fu consegnata alle truppe sabaude il 28 dicembre 1574. Cadde così ogni pretesto perché la Spagna conservasse Asti e Santhià, che furono restituite il 24 settembre 1575. Il grandioso piano di ricostruzione territoriale era compiuto: restava soltanto Ginevra, per cui vani riuscirono i progetti del duca. Infine, Emanuele Filiberto cominciava cautamente a serrare la questione di Saluzzo (che aveva fatto strappare a un generale francese ribelle dalle sue truppe in nome del re di Francia) quando morì (30 agosto 1580).

Tra Francia e Spagna: Carlo Emanuele I (1580-1630). - Si ingaggiò allora una lotta diplomatica sorda tra l'ambasciatore straordinario francese, maresciallo di Retz, e l'ambasciatore spagnolo, barone Sfondrato, per accaparrarsi ciascuno per la sua nazione il giovanissimo successore Carlo Emanuele I, proponendogli l'uno la mano di Cristina di Lorena, nipote di Enrico III, l'altro quella di Caterina, figlia di Filippo II. Alla corte di Francia il duca restituì Saluzzo e si disse pronto a sposare Cristina di Lorena, purché gli si desse carta bianca per Ginevra. Enrico III, sebbene sembrasse poco curante delle faccende dello stato, si oppose energicamente a che Ginevra divenisse sabauda e quindi il partito spagnolo prevalse. L'11 marzo 1585 a Saragozza Carlo Emanuele I celebrò le sue nozze con Caterina ed ebbe da Filippo II una ricchissima dote (che però non fu mai interamente pagata onde una disputa annosa) e la promessa di soccorrerlo con 5000 uomini se Berna reagisse a un colpo di mano sabaudo su Ginevra. Il colpo di mano si presentava con maggiori probabilità di successo di quelli già tentati nel 1581 e nel 1582 dallo stesso Carlo Emanuele: oltre Filippo II, Sisto V e i Montmorency e i Guisa in Francia erano d'accordo, ma Enrico III avvertì in tempo Ginevra, Filippo II dovette inviare nelle Fiandre le truppe che erano destinate ad appoggiare il duca e l'impresa sfumò (1586). Carlo Emanuele concentrò allora le sue aspirazioni sul marchesato di Saluzzo, occupato da milizie protestanti francesi, e il 29 settembre 1588 l'invase e se ne rese padrone in nome di Enrico III. Ne sorse un vespaio: ma, intanto, l'assassinio del duca e del cardinale di Guisa, nella notte dal 23 al 24 dicembre 1588, poneva la Francia in subbuglio.

Tre partiti dividevano la Francia: quello del re Enrico III, quello della Lega cattolica capitanata dal duca di Mayenne e quello degli ugonotti, che aveva alla sua testa nella Francia meridionale il duca di Lesdiguières. Carlo Emanuele si mostrò pronto ad appoggiare il primo in cambio dell'investitura di Saluzzo, il secondo se gli avesse procurato il governo della Provenza e del Delfinato, il terzo se gli avesse ceduto parte del Delfinato. Ma prima di attendere le loro risposte si distrasse con un altro progetto d'impresa su Ginevra e si attirò addosso gli Svizzeri protestanti. Incitati da Enrico III, i Ginevrini e i Bernesi invasero il Faucigny e il Chiablese; la Spagna e i cantoni svizzeri cattolici inviarono a Carlo Emanuele dei rinforzi ed egli poté costringere Berna alla pace di Noyon (in ottobre 1589) e porre il blocco a Ginevra. Intanto, assassinato Enrico III (1° agosto 1589) e successogli l'ugonotto Enrico IV, il parlamento di Aix proclamò di non poter rinunciare alla sua fede e obbedire a un eretico e chiese la protezione del duca (marzti 1590). Il parlamento di Grenoble, invece, mantenne fedele a Enrico IV il Delfinato. Tuttavia restava l'offerta della Provenza, e Carlo Emanuele, ottenuto l'assenso del papa Sisto V e di Filippo II, invase la Provenza e ne assunse il governo il 23 novembre 1590. Cominciò quindi una delle più belle guerre di montagna che la storia militare ricordi. Occupata Grenoble (dicembre 1590), il Lesdiguières si gettò nella valle dell'Isère, minacciò Chambéry e costrinse le truppe sabaude a togliere l'assedio da Ginevra; poi le obbligò ad abbandonare la Provenza (30 marzo 1592). L'infelice impresa non solo costò al duca 5000 uomini e un milione di scudi, ma espose al pericolo d'una invasione il Piemonte. Per tre anni Carlo Emanuele e il Lesdiguières si logorarono in una guerra di assedî sulle Alpi e alla fine si venne alla tregua di Barrault (9 luglio 1595) e alla capitolazione di Bourgoin presso Lione (23 ottobre 1595). Enrico IV non volle ratificare la capitolazione e nel giugno 1597, ripresa la guerra, il Lesdiguièreg espugnò il forte della Carboniera, chiave della Moriana (luglio 1597) e quello di Barrault (marzo 1598). Intanto, mediatore il papa Clemente VIII, si veniva alla pace generale di Vervins (2 maggio 1598), ma le questioni riguardanti il duca di Savoia e il re di Francia furono rimesse all'arbitrato del papa, che doveva entro un anno pronunziare il lodo. Il papa non aveva alcuna voglia di compromettersi e il duca volle recarsi personalmente a Parigi per sedurre il re con la sua loquela, ma Enrico IV lo costrinse il 22 febbraio 1600 a firmare l'impegno di decidere entro tre mesi sull'alternativa di restituire il marchesato di Saluzzo o di cedere in suo compenso la Bresse, le valli di Barcellonetta e di Stura, la Perosa e Pinerolo. Spirati i tre mesi, i Francesi invasero la Bresse e la Savoia, mentre i Ginevrini distruggevano il forte di Santa Caterina, eretto da Carlo Emanuele contro di loro. S'interpose il papa e per opera del suo legato, cardinale Pietro Aldobrandini, fu firmata quella famosa pace di Lione (17 gennaio 1601), che assicurò al ducato di Savoia Saluzzo e diede alla Francia la Bresse, il Bugey, il Valromey e il Gex. Nessun merito personale ebbe per questa pace, in verità, Carlo Emanuele che sperava sempre in torbidi interni francesi ad opera del duca di Biron; solo più tardi, egli ne comprese appieno l'importanza strategica e politica. Intanto lungi dal rappresentare un orientamento nuovo nella sua politica, la pace di Lione strinse di più alla Spagna il duca, che col di lei aiuto sperava di saldare i suoi vecchi conti con Ginevra. Nella notte del 23 dicembre 1602 tentò la famosa scalata, che venne sventata dai Ginevrini, e il 21 luglio 1603 dovette venire con loro a patti a S. Giuliano. Non si allentò per questo l'amicizia con la Spagna: Filippo III non aveva che una bimba appena nata; sua sorella Isabella maritata con Ernesto d'Austria non aveva avuto figli; Caterina invece aveva dato a Carlo Emanuele numerosa prole e Carlo Emanuele, sperando che qualcuno dei suoi figli potesse ascendere al trono di Spagna, ne inviò tre, Filippo, Vittorio Amedeo ed Emanuele Filiberto a convivere presso Filippo III sotto la guida del Botero, ma Filippo morì (9 febbraio 1605), l'erede al trono spagnolo nacque finalmente, e Vittorio Amedeo e Filiberto furono richiamati in patria (giugno 1606).

Svaniti i suoi disegni spagnoli e d'Oriente (nel 1608 il duca pensò pure al regno di Macedonia); dissipata da Enrico IV ogni possibilità di espandersi verso la Francia e la Svizzera, Carlo Emanuele sentì finalmente la vocazione italiana della sua casa. Il duca diede in moglie, delle sue figlie, Margherita a Francesco Gonzaga e Isabella ad Alfonso d'Este; cercò di avere dal re di Spagna il titolo di re di Sardegna (1608) e finalmente si legò con Enrico IV nella lega di Brosolo (25 aprile 1610), che doveva procurare la Savoia alla Francia e il Milanese col titolo regio a casa Savoia, ma il pugnale di Ravaillac (14 maggio 1610) fece fallire i grandi piani di riassetto europeo e italiano di Enrico IV, e Carlo Emanuele, abbandonato dalla Francia di Maria de' Medici, dovette inviare suo figlio Emanuele Filiberto a chiedere perdono al re di Spagna (19 novembre 1610).

Isolato dal riavvicinamento franco-spagnolo, Carlo Emanuele I si appigliò all'amicizia dell'Inghilterra, che del resto fin dal 1603 aveva proposto alla Spagna, e propose a Londra di far sposare sua figlia Maria al principe di Galles e suo figlio Vittorio Amedeo a una principessa inglese. Ma mentre la Francia, la Spagna e la Toscana sconvolgevano con un'intensa azione diplomatica questi progetti, la morte di suo genero Francesco Gonzaga (22 dicembre 1612) offrì al duca un'occasione d'ingrandimento. Il fratello del duca Francesco, Ferdinando, assunse il possesso del Monferrato, ma Carlo Emanuele I, pretendendo che esso spettasse alla nipote Maria, figlia del defunto, di cui assunse la protezione, piombò inopinato con le sue truppe sul Monferrato e occupò Trino, Alba e Moncalvo. La Francia, la Spagna, l'imperatore Mattia, Venezia, Firenze, strillarono contro di lui; le milizie spagnole si ammassarono alle frontiere del Milanese per impedire al duca di Savoia ogni ulteriore progresso e si venne alla convenzione di Milano (18 giugno 1613), con la quale Carlo Emanuele si obbligò a sgombrare le tre piazze occupate, a patto che Ferdinando Gonzaga perdonasse ai Monferrini che si erano dichiarati contro i suoi diritti e consegnasse la piccola Maria alla madre e al nonno. Ferdinando tergiversò sull'esecuzione dei patti e si era per venire di nuovo alle mani allorché la Spagna impose il disarmo ai contendenti. Carlo Emanuele licenziò le milizie paesane, non le mercenarie, la Spagna pretese il disarmo completo e allora il duca ritrovò sé stesso e sfidò il gigante spagnolo. La lotta ineguale cominciò: gli Spagnoli marciarono su Asti e furono respinti, tentarono con la flotta un colpo su Nizza e Villafranca e vennero ributtati, ma più felici furono a Oneglia, che riuscirono a occupare. Anche di là, però, il duca li avrebbe snidati se Genova avesse concesso il passaggio alle sue truppe per piombarvi sopra. Allo spettacolo di queste imprese, lo spirito italiano si destò ammirato e venne incontro allo spirito sabaudo. Poeti e pubblicisti glorificarono il campione della libertà d'Italia e al più vigoroso per ingegno politico tra loro, ad A. Tassoni, la monarchia spagnola sembrò un Morgante che si lascia uccidere da un granchiolino. Vinti, gli Spagnoli firmarono il primo trattato di Asti (1° dicembre 1614), ma Filippo III non volle ratificare il trattato, pretendendo una nuova umiliazione del duca. La guerra riprese: sotto le mura di Asti (20 maggio 1615) le truppe sabaude furono disfatte e allora intervennero energicamente la Francia, l'Inghilterra e Venezia a costringere i belligeranti al secondo trattato di Asti (21 giugno 1615). Col trattato di Cateau-Cambrésis l'integrità degli stati sabaudi dipendeva dal libito della Francia e della Spagna, con l'alleanza svizzera conclusa da Emanuele Filiberto cominciò a cercare la sua garanzia di sicurezza fuori dall'esclusivo campo delle due grandi potenze antagoniste, col secondo trattato di Asti entrò a far parte del sistema degli stati europei e italiani. Questa notevolissima evoluzione apparve nel suo pieno sviluppo nell'ultima fase della lotta ispano-sabauda e ci spiega come il piccolo duca potesse uscire illeso dalla disuguale tenzone. Destituito dal re di Spagna il marchese della Ynoyosa come governatore di Milano, gli sottentrò Pedro de Toledo, che si rifiutò di eseguire il trattato di Asti e subornò contro Carlo Emanuele Enrico di Nemours, il più potente feudatario della Savoia, il conte di Boglio, il più potente del Nizzardo, e il principe Francesco Filiberto principe di Masserano, il più potente del Piemonte. Il conte di Boglio non credette prudente muoversi, ma il duca di Nemours e il principe di Masserano si sollevarono, mentre Pedro de Toledo passava la Sesia (14 settembre 1616). Energicamente il duca reagì alla crisi interna, sottomettendo il Nemours e il Masserano, e all'invasione straniera, ricacciando il nemico in Lombardia. Venne il Lesdiguières in suo soccorso con 7000 uomini, pagati da Venezia. Insieme i due vecchi emuli espugnarono S. Damiano, Alba, Montiglio e s'avanzarono nell'Alessandrino. Richiamato il Lesdiguières dalla regina Maria de' Medici, poco tenera dei Savoia, don Pedro di Toledo assediò Vercelli (24 maggio 1617), ma all'aiuto militare francese subentrò quello diplomatico inglese, mercé il quale Carlo Emanuele poté allearsi coi Bernesi (23 giugno 1617) e avere dall'Olanda pagati 4000 fanti e 4000 cavalli. Coi Bernesi il duca giunse troppo tardi per salvare Vercelli, caduta il 25 luglio 1617; in tempo per salvare con loro, con le truppe mercenarie tedesche del conte di Mansfeld e del principe di Anhalt, con quelle del Lesdiguières, riuscito a tornare in Italia, le sorti generali della guerra e ottenere una pace onorevole (9 ottobre 1617) e la restituzione di Vercelli (estate 1618).

Poco più tardi si apriva la questione della Valtellina. Mentre il Coeuvres con 10.000 uomini doveva occupare la Valtellina, il Lesdiguières e Carlo Emanuele avrebbero operato una diversione contro Genova, protetta della Spagna. Il duca (trattato di S. Germano, 5 settembre 1624, e colloquî di Susa, 20-22 ottobre 1624) aderì con entusiasmo all'impresa, che gli permetteva di vendicarsi dell'atto non amichevole compiuto verso le sue truppe da parte di Genova nel 1613 ed estendere i suoi dominî in Liguria. Da allora Genova cominciò a far parte delle aspirazioni sabaude. Ma, ottenuta la restituzione della Valtellina ai Grigioni col trattato di Monzon, Richelieu piantò in asso il duca.

A Ferdinando Gonzaga, morto il 29 ottobre 1626, successe il fratello Vincenzo II, che lo seguì nella tomba il 26 dicembre 1627. Per togliere a Carlo Emanuele ogni appiglio d'intervenire di nuovo nella questione del Monferrato, Vincenzo dispose tutto, perché il giorno dopo il suo decesso Maria Gonzaga, la nipote del temuto principe sabaudo, sposasse l'erede gonzaghesco da lui designato Carlo di Rethel, primogenito di Carlo di Nevers. Ma nello stesso tempo il duca di Savoia si era diviso il Monferrato col governatore di Milano, don Gonzalo di Cordova (25 dicembre 1627). Il 20 marzo 1628 l'imperatore Ferdinando, che era d'accordo con loro, pose sotto sequestro imperiale gli stati di Mantova e Monferrato e nell'aprile Carlo Emanuele occupò S. Damiano, Trino, Moncalvo e Alba, mentre don Gonzalo assediava Casale. Genova sembrò turbare per un istante la buona armonia tra i due alleati. Grazie a don Gonzalo, il duca aveva concluso con essa una tregua il 9 marzo 1628, ma, nonostante questa, scoppiò la congiura di G. C. Vachero, che prima della tregua era stato in contatti col duca. La congiura fu sventata e G. C. Vachero fu giustiziato il 31 maggio 1628. Tra Carlo Emanuele, che aveva tentato di salvarlo, e Genova, il cauto don Gonzalo si adoperò per il primo, che gli si conservò alleato e, il 4 agosto 1628, batté a Sampeyre le truppe assoldate in Francia dal marchese Uxelles per Carlo di Nevers-Gonzaga. Ma, intanto, espugnata La Rochelle, il cardinale Richelieu si concentrava nella questione della successione di Mantova e Monferrato e il 16 novembre Luigi XIII assicurava il Nevers-Gonzaga dell'aiuto francese. Prima di scendere in Italia, con le missioni di Estampes di Valençay (21 dicembre 1628) e del sire di Bullion (14 geimaio 1629), Richelieu tentò di ottenere l'alleanza del duca di Savoia. Uno dei suoi figli più sagaci, Tommaso di Carignano, governatore della Savoia, consigliò di considerare innanzi tutto la sicurezza degli stati sabaudi e di dare liberamente il passo ai Francesi (31 dicembre 1628), Carlo Emanuele non volle cedere per un punto d'onore, per la reputazione, e dovette finire col piegarsi, dopo una sconfitta in Val di Susa (6 marzo 1629). Col trattato di Susa (11 marzo 1629), il duca s'impegnava a consegnare i forti di Susa; a vettovagliare Casale; a riconoscere, e ad adoperarsi perché lo riconoscesse l'imperatore, Carlo di Nevers per signore di Mantova e Monferrato; ad aderire alla lega della Francia e degli stati italiani contro gli Asburgo. In compenso conservava Trino e altre terre monferrine del valore di 15.000 scudi di rendite annue. Il 16 marzo don Gonzalo tolse l'assedio da Casale e Richelieu tornò in Francia. Ma alla fine di maggio 1629 gl'imperiali invasero la Valtellina; il 19 agosto un grande capitano, Ambrogio Spinola, assunse il comando dell'armata spagnola d'Italia; nell'ottobre gl'imperiali assediarono Mantova e Spinola Casale. Il duca credette essere venuto il momento giusto o di ottenere migliori condizioni dalla Francia o di passare al campo ispano-imperiale. A Richelieu chiese, oltre Trino e terre annesse, Alba e Moncalvo nel Monferrato, carta bianca contro Ginevra e Genova e invasione franco-sabauda del Milanese. Il cardinale respinse tutte le domande, occupò Alpignano (18 marzo 1630), Pinerolo (31 maggio), cacciò Tommaso di Carignano dalla Savoia (giugno), disfece il principe Vittorio Amedeo ad Avigliana (10 luglio). In mezzo a tutti questi disastri il duca morì (26 luglio 1630).

Apparentemente, per chi giudichi da un punto di vista realistico, si dovrebbe concludere al completo fallimento dell'opera di Carlo Emanuele. Il ducato, lasciato così bene amministrato e ordinato da Emanuele Filiberto, era sull'orlo della rovina. Un deficit spaventoso aveva sconvolto le finanze. Non si sapeva più a che espedienti ricorrere per far denari. Si moltiplicarono i feudi e si vendettero le cariche pubbliche per spillar denari. Per non pagarli, si permise ai giudici di riscuotere dai contendenti le cosiddette sportule. La svalutazione della moneta giunse al colmo e della riforma di Emanuele Filiberto non restò traccia. L'agricoltura, per le forti tasse fondiarie e per la cessazione dei grandiosi lavori d'irrigazione intrapresi da Emanuele Filiberto, decadde. Le industrie, invece di fare dei passi avanti, languirono. Ma bisogna riconoscere che Carlo Emanuele I fu un grande educatore politico e infuse nei popoli sabaudi come supremi valori etici due sentimenti sociali fondamentali, il senso dell'indipendenza dello stato e la morale della fedeltà al principe: in entrambi il buon suddito sabaudo sentiva potenziata la propria dignità personale. Quando salì al trono, la classe dirigente sabauda era o spagnola o francese. Carlo Emanuele la lasciò sabauda, niente altro che sabauda. Il popolo piemontese era stato amantissimo dei Francesi prima di Emanuele Filiberto; dopo Carlo Emanuele I è pervaso da motivi gallofobi. La sua fedeltà al principe è assoluta: un ambasciatore veneto notava ammirato che, sebbene non si potesse esprimere la loro povertà, la loro fede e devozione verso il principe era "superiore a qualsivoglia altra nazione, che sia oggidì nel mondo: di altro non si gloriano che di esser sudditi del duca di Savoia, né vi è suddito che per lui non si facesse martire". E, infatti, nel paternalismo del duca spirava l'ethos della vecchia monarchia assoluta: un certo sentimento di giustizia sociale connesso con la tendenza politica ad equilibrare le classi tra loro. Nei comuni sostenne i popolani contro i nobili e dei popolani si fece difensore contro i soprusi del principe di Masserano. Con la repressione delle ribellioni di Enrico di Nemours e del principe di Masserano e con la condanna a morte del conte di Boglio nel 1621 da un lato, con la moltiplicazione dei feudi dall'altro, svuotò il feudalesimo del suo vecchio potere. In questa lotta fu secondato dai senati, specialmente da quello di Nizza da lui creato l'8 marzo 1614. La nobiltà feudale si trasformò in patriziato civile e il passaggio si può studiare in Enrico di Nemours, al quale la Savoia dovette illuminate provvidenze culturali. Compagno del patriziato in quest'opera di civiltà fu l'alto clero, rappresentato da un uomo quale S. Francesco di Sales (v.). Ma, uomo di guerra, nell'organizzazione della guerra il duca lasciò traccia di sé. Sparve sotto di lui il sistema dei trattenuti, ma si accentuò quello dei mercenarî stranieri e il denaro divenne, quindi, mezzo indispensabile per procurarli, onde le alleanze con gli stati ben dotati di quattrini come l'Inghilterra, l'Olanda, Venezia. Nella campagna di Saluzzo (1588) la milizia paesana fece cattiva prova e allora s'iniziò con le riforme militari del 1594 e del 1618 il processo di formazione d'un esercito regolare permanente dal seno della vecchia milizia, e cominciò l'organizzazione della disciplina militare sabauda col codice penale militare del 1613, riformato e ripubblicato nel 1630.

L'egemonia francese: da Vittorio Amedeo I a Carlo Emanuele II (1630-75). - Temperamento completamente opposto a quello di Carlo Emanuele ebbe il figlio e successore, Vittorio Amedeo I. Cauto, guardingo, metodico in tutto, Vittorio Amedeo I, come suo fratello minore Tommaso di Carignano, sentiva la necessità di dover piegare alla forza strapotente della Francia. Tentata per l'ultima volta la fortuna delle armi a Carignano (6 agosto 1630), Vittorio Amedeo I, grazie all'opera dell'inviato papale Mazzarino, che fece allora brillantemente le sue prime armi in diplomazia, ottenne l'armistizio di Rivalta (4 settembre). Fu il preludio dei trattati di Cherasco (due del 31 marzo, 6 aprile, 30 maggio, 19 giugno 1631), che costituirono la base dei rapporti franco-sabaudi per mezzo secolo. Per tali trattati la Francia, col fine di essere arbitra delle sorti d'Italia e di tenere in soggezione il guardiano delle Alpi, si fece cedere la piazza di Pinerolo. In cambio, promettendo di pagare 494.000 scudi al duca di Mantova, procurava alla casa Savoia il possesso di Trino, Alba e altre terre monferrine dalla rendita complessiva di 16.000 scudi d'oro all'anno. In caso di guerra lo stato sabaudo sarebbe stato alleato della Franeia, ma il comando delle truppe alleate sarebbe spettato al duca. Quanto alle conquiste eventuali che sarebbero fatte, due terzi di esse sarebbero andati al re di Francia e uno al duca. I compensi territoriali e l'eventuale comando supremo delle truppe alleate salvavano il decoro esteriore della casa di Savoia, ma non la sostanza politica. Da allora in poi il ducato divenne un satellite della corona francese. Non era d'altronde possibile sottrarsi alla triste sorte. L'Inghilterra, preoccupata dei suoi contrasti interni, si disinteressava degli affari continentali; gli Svizzeri, irritati dalle persistenti aspirazioni sabaude su Ginevra, si erano rinchiusi nel loro splendido isolamento; Venezia, che sentiva su di sé le strette concentriche ispano-imperiali, lungi dall'opporsi aveva interesse a che la Francia facesse da contrappeso in Italia agli Asburgo. Né si poteva ripassare dal lato della Spagna, perché il conte-duca Olivares riteneva che il centro della lotta si fosse spostato fuori d'Italia e il governatore di Milano duca di Feria era personalmente ostile alla casa di Savoia. Non v'era da fare altro che eseguire i trattati di Cherasco.

L'isolamento sabaudo era completo, Vittorio Amedeo I ebbe il torto di renderlo completissimo. Accordando la precedenza nelle cerimonie all'ambasciatore francese a Torino, perdette ogni contatto diplomatico con la Spagna, che ritirò dalla corte sabauda il suo rappresentante in segno di protesta; assumendo (23 dicembre 1632) il titolo di re di Cipro con l'appellativo di altezza reale e facendo difendere tale suo diritto dal Monod nell'opera Sul titolo regio dovuto alla casa di Savoia, provocò una rottura diplomatica con Venezia. Intanto si approssimava il momento in cui doveva scoppiare apertamente la lotta tra Francia e Spagna. Vittorio Amedeo I, prevedendo che nulla di sodo vi fosse da guadagnare con un alleato come il Richelieu, caldeggiò un principio che ebbe una certa fortuna nella diplomazia dei secoli XVII e XVIII: il principio della neutralità d'Italia. Tutti gli stati italiani, compresi la Francia e la Spagna in quanto signore di territorî italiani, si sarebbero dovuti collegare fra loro e proclamare la neutralità d'Italia nella guerra che stava per scoppiare. Richelieu lasciò cadere il progetto, e, ammassando truppe sulle Alpi e rinforzando il presidio di Pinerolo, obbligò Vittorio Amedeo I a tener fede agl'impegni di Cherasco nel trattato di Rivoli (11 luglio 1635). In nome della libertà d'Italia, si concluse una lega offensiva e difensiva per tre anni tra il re di Francia, il duca di Savoia, il duca di Mantova e il duca di Parma per assalire e conquistare il Milanese, di cui parte, col titolo regio, sarebbe spettata a Vittorio Amedeo e parte al duca di Mantova. Comandante supremo delle forze alleate doveva essere il duca di Savoia. Avuta notizia dell'inizio delle ostilità franco-spagnole in Fiandra, sul Reno, in Valtellina, Vittorio Amedeo occupò Breme (1635), vinse gli Spagnoli a Tornavento (25 giugno), ma non poté operare il congiungimento col duca di Rohan, che doveva scendere dalla Valtellina, né poté salvare il duca di Parma dalla disfatta inflittagli da Francesco I di Modena, alleato della Spagna. Così pure nella campagna del 1637 riportò una bella vittoria a Mombaldone (8 settembre) ma non riuscì nell'impresa d'occupare il Finale.

Un mese dopo Mombaldone, Vittorio Amedeo I morì improvvisamente lasciando il trono a un bimbo, Francesco Giacinto, che affidò alla tutela della moglie Cristina di Francia (7 ottobre 1637). Nel 1638 si dovette accettare il rinnovo puro e semplice del trattato di Rivoli (3 giugno) con modifiche solo riguardo ai contingenti militari da porre in linea; mentre, riprese le ostilità, il marchese di Leganes, governatore di Milano, espugnò Vercelli e dichiarò che l'avrebbe sgombrata solo quando i Francesi avessero evacuata Pinerolo. Si ristabiliva la situazione politico-militare del trattato di Cateau-Cambrésis, che Emanuele Filiberto aveva rovesciato con tanto paziente lavorio.

Morto Francesco Giacinto (4 ottobre 1638) e successogli il fratellino Carlo Emanuele II, la lotta franco-spagnola si complicò con la guerra civile tra Madama Reale e i principi cognati, il cardinale Maurizio e Tommaso di Carignano. Temendo che Madama Reale e la Francia volessero violare la legge salica vigente come legge di successione negli stati sabaudi a favore di sua figlia Luisa, che sarebbe stata dichiarata erede presuntiva del trono nel caso che Carlo Emanuele II morisse anche lui, Maurizio e Tommaso si collegarono col marchese di Leganes e invasero il Piemonte, che si schierò dalla loro parte. Il 15 giugno 1639 pubblicarono ad Asti un decreto dell'imperatore Ferdinando III, col quale Madama Reale era privata della reggenza a loro favore. Madama Reale all'interno degli stati sabaudi trovò un fido appoggio nella Savoia, alla quale affidò il piccolo Carlo Emanuele II, e all'estero cercò di spingere a una vigorosa reazione la Francia. Ma Richelieu voleva vendere assai caro il suo aiuto. Col trattato del 1° giugno ottenne di presidiare le piazze di Carmagnola, Savigliano e Cherasco; non sazio, chiese ancora Cavour. Madama Reale s'impuntò. Ma Tommaso entrava a Torino, pur senza poter occupare la cittadella, e si era costretti a firmare la tregua del Valentino (14 agosto 1639). Per porre fine alla guerra civile e determinare a chi dovesse spettare la reggenza, Tommaso di Carignano, il 26 agosto 1639, propose al senato di Piemonte di adunare gli stati generali, cui spettava decidere in merito. Non fu possibile attuare il progetto di Tommaso, e Madama Reale ottenne, non senza altri sacrifici, il prezioso ausilio francese. Richelieu inviò in Piemonte un bravo generale, il conte d'Harcourt, che disfece al Ponte della Rotta presso Santena (19 novembre 1639) Tommaso, vinse Leganes sotto Casale (28 aprile 1640), assediò Tommaso a Torino il 10 maggio 1640 e lo costrinse a capitolare il 18 settembre. Dopo essersi accordato con la Francia (2 dicembre 1640), Tommaso con Maurizio ritornò all'amicizia spagnola il 5 marzo 1641, ma l'Harcourt ridusse l'uno a non avere altro che Ivrea, Biella e Val d'Aosta, l'altro alla sola Nizza. Si venne così alla pace del 14 giugno 1642. La reggente riconobbe i due cognati come assistenti. Maurizio, rinunciava al cardinalato, e, sebbene cinquantenne, sposava la quattordicenne nipote Luisa per evitare le liti all'eventuale successione di Carlo Emanuele II. A Maurizio veniva lasciato il governo della città e della contea di Nizza; a Tommaso quello di Biella e d'Ivrea. Mentre la guerra continuava contro gli Spagnoli, e Tommaso, passato al campo francese, vi si segnalava come capitano sempre bravo, non sempre felice; nella Vestfalia si radunavano i famosi congressi, che dovevano dare la pace all'Europa. Madama Reale vi mandò come suoi rappresentanti il marchese di S. Maurizio e il presidente Bellezia con le istruzioni di non autenticare con nuovi atti i trattati di Cherasco e di lasciar fare alla Spagna e all'impero quanto a Pinerolo. Ma se la Spagna di Pinerolo francese non voleva ancora saperne, l'impero cedette subito sulla questione fin dal 6 dicembre 1645, e col trattato di Münster (1648) si confermarono riguardo agli stati sabaudi gl'infausti trattati di Cherasco.

La Spagna non aderì ai trattati di Vestfalia e la guerra continuò in Piemonte. Il marchese Caracena, governatore di Milano, saccheggiò Biella nel 1649, si spinse fino a Moncalieri nel 1651, strappò all'alleanza francese Carlo II di Mantova nel 1652. Mai la sorte era stata così costantemente matrigna a Tommaso di Carignano, che morì il 22 gennaio 1656. Le truppe della Francia e dei suoi alleati italiani rividero la vittoria per opera di Francesco I di Modena, mentre Turenne trionfava alle Dune. La pace dei Pirenei obbligò la Spagna a restituire Vercelli, ma la Francia conservò Pinerolo (1659). Dopo aver ripreso le sue relazioni con Venezia (1662), Madama Reale morì (27 dicembre 1663) e Carlo Emanuele II cominciò a regnare finalmente da sé.

Con Carlo Emanuele II gli stati sabaudi, spossati dalle guerre esterne e da quelle civili, respirarono, onde un'ondata di popolarità avvolse il duca. Quell'ethos paternalistico, che era implicito nell'azione di governo di Carlo Emanuele I, divenne esplicito in Carlo Emanuele II e acquistò il senso della sua superiorità ideale rispetto alle vecchie repubbliche patrizie e ai vecchi stati feudali.

Sotto di lui la borghesia, che si era arricchita principalmente con le forniture di cose occorrenti alla corte e alla milizia, raggiunse il potere con G. B. Truchi da Marene, controllore generale delle finanze. Se per larghezza e profondità di vedute, il Truchi non merita l'appellativo di Colbert piemontese, certo è che con nuovi prestiti e nuove tasse e con la revoca di feudi e di pensioni, di cui era stata prodiga Madama Reale, restaurò le finanze. Nella politica economica ebbe i pregiudizî del tempo e troppo favorì il commercio rispetto all'agricoltura e alle industrie. Riprese i disegni di Emanuele Filiberto e di Carlo Emanuele I su Nizza. Con la chiamata degli Ebrei olandesi, con la fondazione d'un consolato in Portogallo, col trattato di commercio con l'Inghilterra (1669), con un grandioso piano di lavori pubblici nella regione retrostante tentò di valorizzare il porto di Nizza. Vagheggiò lontane mete di espansione marittima e commerciale. Creò una Camera di commercio per esaminare e dare esecuzione a tutto ciò che si stimasse utile per il progresso del commercio e delle industrie (1673). Diede impulso alle fiere annue di Carignano e di Asti e ai mercati settimanali della Venaria reale. Costruì la bella strada delle Echelles per la Francia (1670). Ma molti di questi sogni erano sproporzionati alle possibilità degli stati sabaudi ed erano destinati a fallire. Con Carlo Emanuele II si abbellì inoltre la città di Torino.

Il processo di formazione d'un esercito regolare nazionale, iniziato sotto Carlo Emanuele I, si configurò organicamente sotto di lui con la creazione di sei reggimenti d'ordinanza permanenti (Guardie, Savoia, Aosta, Monferrato, Piemonte, Nizza). La milizia paesana non sparve per questo e quella del Piemonte fu chiamata battaglione e venne divisa in dodici reggimenti (1669). Introdusse le uniformi e le caserme. Sostituì gli archibugi alle aste. Avviò, insomma, decisamente l'esercito dalla multiforme composizione dei tempi di Emanuele Filiberto alla razionale uniformità dei tempi nostri.

Ma non ebbe il piacere di cavarne gloria. Tentò di riprendere il Vaud e Ginevra e citava loro gli esempî di Nizza e di Val d'Aosta, dove erano rispettate religiosamente le condizioni, con le quali si erano sottoposte ai dominî sabaudi (1666); ma il Vaud e Ginevra non si commossero e i cantoni svizzeri, per porsi al riparo da ulteriori maneggi del duca, si garantirono reciprocamente i loro territorî (1668). Disilluso nelle sue mire su Ginevra, Carlo Emanuele II si rivolse a Genova e partecipò alla congiura di Raffaele della Torre. La congiura fu scoperta, ma le truppe sabaude, comandate da Catalano Alfieri, già s'erano mosse contro il territorio genovese, occuparono il marchesato di Zuccarello e tentarono di unirsi a don Gabriele di Savoia, che doveva muovere da Oneglia. I Còrsi impedirono il congiungimento, chiusero don Gabriele a Oneglia (25 luglio 1672), accerchiarono e fecero prigionieri i 1500 uomini di Catalano Alfieri a Castelvecchio (7 agosto) ed espugnarono Oneglia (15 agosto). La Francia intervenne, adunò la sua squadra del Mediterraneo per intimidire Genova e la costrinse all'armistizio del 29 ottobre, dopo che don Gabriele ebbe ripreso Oneglia. In compenso dell'aiuto ricevuto, il duca dovette dare alla Francia tre reggimenti per la guerra d'Olanda. Umiliato dalla protezione francese tanto quanto dal disastro di Castelvecchio, il suo animo incupì. Volle un capro espiatorio (processo di Catalano Alfieri) e, profondamente amareggiato, morì (12 giugno 1675).

Nel sistema degli stati europei. Vittorio Amedeo II e Carlo Emanuele III (1675-1773). - Dopo un periodo di reggenza (1675-1684) di sua madre, Giovanna Battista di Savoia-Nemours, assunse personalmente il potere, uscito di minorità, Vittorio Amedeo II. Dovette dapprima subire anch'egli la prepotenza della Francia, che, pretendendo ingerirsi della politica interna dello stato sabaudo, fece promulgare l'editto del 31 gennaio 1686 contro i Valdesi e fornì le truppe del Catinat per perseguitarli; ma spiava l'occasione per scuotere il giogo.

Il 30 gennaio 1687 Vittorio Amedeo compì il suo primo atto di ribellione. Contro il divieto del re di Francia, si recò a Venezia, apparentemente per le feste di carnevale, di fatto per prendere accordi con Massimiliano II di Baviera, Carlo V di Lorena e il principe Eugenio ed entrare nella Grande Alleanza, che si preparava contro Luigi XIV. Scoppiata la guerra della Grande Alleanza, Luigi XIV chiese tre reggimenti sabaudi di 1000 uomini ciascuno e li ottenne; impose al duca di non avere nei suoi stati più di 2000 uomini e fu accontentato apparentemente, ma di fatto si ricorse a un espediente non molto dissimile da quello usato in più larga sfera dai Prussiani quando Napoleone li sottopose a una situazione analoga: si tenevano 2000 uomini sotto le armi; dopo averli istruiti, si licenziavano, e se ne chiamavano altri 2000; così si addestrava militarmente un numero di soldati molto maggiore di quello voluto dai dominatori stranieri. La gloriosa rientrata dei Valdesi espulsi nel 1686, e la concessione a casa Savoia (8 febbraio 1690) dei feudi delle Langhe in cambio d'un milione di lire, esasperarono i rapporti franco-sabaudi. Mentre con una serie di trattati (3 giugno con la Spagna, 4 giugno con l'impero, 20 ottobre 1690 con l'Olanda e l'Inghilterra) Vittorio Amedeo II si legava alla Grande Alleanza, Catinat batteva le sue truppe a Staffarda (17 agosto 1690) e un altro esercito francese si accingeva a invadere la Savoia. Le guerre di Carlo Emanuele I avevano dimostrato che la Savoia non era difendibile e per salvarla il duca tentò un mezzo diplomatico, che la casa Savoia doveva realizzare in parte soltanto al congresso di Vienna del 1815, cioè propose alla Dieta di Basilea di fare includere la Savoia nella neutralità svizzera (29 maggio 1690), ma la proposta non fu accolta, e tutta la Savoia, salvo Montmélian fino al 22 dicembre 1691, cadde in potere dei Francesi. Nella campagna del 1691 Catinat espugnò Nizza, che si arrese a patto di conservare l'uso della lingua italiana, e si spinse fino a Cuneo, che resistette eroicamente, permettendo agl'imperiali di giungere e di tenere in scacco i Francesi. Vittorio Amedeo passò allora alla controffensiva e invase il Delfinato, ma colto dal vaiolo ad Enbrun abbandonò l'impresa. Ancora meno avventurato nel 1693, venne battuto dal Catinat nella pianura di Marsaglia tra Orbassano e Cumiana. Scoraggiato dalle disfatte, non soccorso dagli alleati, tentato dai Francesi con la promessa della restituzione di Pinerolo e col miraggio della prossima divisione della monarchia di Spagna alla morte di Carlo II, Vittorio Amedeo, pur reintegrando nel 1694 i Valdesi nei loro privilegi secondo i patti con l'Inghilterra, condusse mollemente le campagne del 1694 e del 1695, e coi trattati del 29 giugno e 29 agosto 1696 si accordò con la Francia. In cambio di Pinerolo, egli si obbligava a ottenere dagli alleati la neutralità d'Italia e di schierarsi in caso di rifiuto dalla parte della Francia. Gli ispano-imperiali cedettero con la convenzione di Vigevano (7 ottobre 1696), e, fatta a Ryswick la pace generale, Vittorio Amedeo ebbe riconfermato dall'Europa il ricupero di Pinerolo, col quale la casa di Savoia si sottraeva alla soggezione francese (10 settembre 1697).

Ma se territorialmente gli stati sabaudi riacquistavano la loro libertà di movimento, diplomaticamente, per avere il Milanese alla prossima successione spagnola, restarono legati alla Francia e tale unione consacrarono col matrimonio tra la figlia di Vittorio Amedeo, Adelaide, e il duca di Borgogna. Sennonché il testamento di Carlo II a favore di Filippo d'Angiò fece di Luigi XIV il paladino dell'integrità territoriale spagnola, non si volle più intendere parlare di cessione del Milanese e si obbligò il duca di Savoia a firmare una lega con la Francia il 6 aprile 1701 e a compromettersi con i Borboni, dando in moglie a Filippo la figlia Luisa Gabriella. La guerra cominciò sotto infelici auspici per i Francesi: Catinat fu vinto a Carpi (9 luglio 1701), il suo successore, il Villeroy, fu battuto a Chiari (i° settembre 1701). Le disfatte resero più ragionevole Luigi XIV, che per cointeressare alla guerra con maggiore vigore Vittorio Amedeo, s'indusse a promettergli il Monferrato alla morte di Carlo Gonzaga. Il duca andò allora al fronte e si batté valorosamente nella seconda fase della lotta, condotta, con molta abilità militare, dal duca Luigi di Vendôme; ma il piano di guerra francese, che era il congiungimento del Vendôme col duca di Baviera attraverso il Trentino e il Tirolo, fallì, perché Massimiliano lI di Baviera fu battuto dal margravio di Baden e dai Tirolesi, levatisi a stormo per i loro amatissimi Asburgo, e il Vendôme fu respinto da Trento (luglio 1703). Non potendo ottenere dalla Francia la promessa del Milanese, Vittorio Amedeo credette venuto il momento di passare dall'altro campo, che, per mezzo del conte Leopoldo Auersperg giunto a Torino il 12 luglio 1703, gli offriva maggiori vantaggi. Ma i Francesi, avvertiti dalla loro vigile diplomazia, vollero prevenirlo, e il 29 settembre 1703 il Vendôme nel campo di S. Benedetto disarmò i 5000 Piemontesi, che combattevano sotto i suoi ordini, incorporò i soldati nei reggimenti francesi e considerò come prigionieri di guerra gli ufficiali. Gli avvenimenti allora precipitarono e l'8 novembre 1703 Vittorio Amedeo firmò il trattato d'alleanza con l'Austria, che gli prometteva il Monferrato, Alessandria, Valenza, la Lomellina e la Valsesia e si obbligava a ottenergli una migliore frontiera alpina verso la Francia. Con un articolo segreto inoltre il duca strappò all'Auersperg, che cedé solo sub spe rati, il Vigevanasco e cinque terre del Novarese. Con i trattati di Torino del 4 agosto 1704 e dell'Aia del 21 gennaio 1705 l'Inghilterra e l'Olanda confermarono tali patti e il duca di Savoia passò da generalissimo dei franco-spagnoli in Italia a generalissimo della lega europea antiborbonica.

Mentre, soccorso dalle truppe imperiali, Vittorio Amedeo teneva a bada il Vendôme, un altro esercito francese, condotto dal La Feuillade, occupava tutta la Savoia, salvo Montmélian come al solito, dopo il fallimento d'un secondo tentativo fatto per includere la Savoia nella neutralità svizzera (23 ottobre 1703). Preso tra due fuochi, il La Feuillade e il Vendôme, il duca perdette Susa, Vercelli, Ivrea nella campagna del 1704, ma il sistema difensivo, creato da Emanuele Filiberto, fece ottima prova e i Francesi si perdettero in una guerra di assedî. Montmélian resistette fino al dicembre 1704, Verrua fino all'aprile 1705, Torino, infine, nel 1706, per un bel pezzo tenne a bada 40.000 Francesi, condotti dal duca d'Orléans e dal maresciallo Marsin, e, grazie al sacrificio di Pietro Micca (29 agosto), respinse il grande assalto del 30 agosto, permettendo a Vittorio Amedeo II e al principe Eugenio di liberarla con la bella vittoria del 7 settembre. I Francesi furono costretti a sgombrare l'Italia e le truppe sabaudo-imperiali invasero la Provenza spingendosi fino a Tolone. A Tolone i Francesi tornarono alla riscossa (luglio-agosto 1707) e gli alleati dovettero sgombrare la Provenza. Mentre per l'articolo riguardante Vigevano sorgevano i primi dissapori austro-sabaudi, con l'espugnazione di Perosa, Exilles e Fenestrelle il duca faceva le Alpi sue nel 1708, e gli Anglo-Olandesi, fin dalle trattative di pace del 1709, potettero insistere sulla nuova frontiera alpina da assicurare agli stati sabaudi.

A Utrecht, per opera della diplomazia inglese, che era nel pieno del suo periodo creativo, trionfarono i principî di equilibrio e di libertà d'Europa. Nel sistema basato su tali principî trovò il suo posto la casa di Savoia, cui nell'equilibrio generale fu affidato l'equilibrio particolare d'Italia tra Francia e Austria. Per la prima volta i plenipotenziarî sabaudi parteciparono a un congresso europeo, discutendo alla pari con quelli delle grandi potenze. A Utrecht due trattati si firmarono riguardanti lo stato sabaudo: quello dell'11 aprile 1713, col quale la Francia cedeva le valli di Pragelato, di Fenestrelle, di Exilles, di Oulx, di Cesana, di Bardonecchia e di Casteldelfino, ricevendo in cambio la valle di Barcellonetta, che veniva staccata dal contado di Nizza, e si affermò così il principio delle frontiere naturali; quello del 12 luglio 1713, che consacrava la cessione della Sicilia da parte della Spagna alla casa di Savoia, che raggiungeva in tal modo l'agognato titolo regio. Al congresso di Rastatt (1714) anche l'impero riconobbe tutto ciò e riconfermò il trattato del 1703, salvo l'articolo segreto relativo a Vigevano.

Il 3 ottobre 1713 Vittorio Amedeo II salpò da Nizza per visitare il nuovo regno. Casa Savoia e Sicilia s'incontrarono per la prima volta. I Siciliani sperarono dapprima d'avere ritrovato finalmente un re proprio, che facesse centro dei suoi stati Palermo, ma il nuovo re che capiva l'importanza geografico-politica dei suoi vecchi stati nel giuoco della politica mondiale, ritornò a Torino e lasciò in Sicilia come viceré il conte Annibale Maffei (5 settembre 1714). Ciò ferì l'animo dei Siciliani, ma altri fatti vennero a esasperarlo. Se Vittorio Amedeo II si mostrò strenuo sostenitore delle prerogative dell'Apostolica Legazia contro la S. Sede, non fu affatto tenero dei parlamenti di Sicilia e nel 1717 ne fece bruciare la raccolta degli atti curata dal Mongitore. I Siciliani volevano che le cariche dell'isola fossero date ai Siciliani; Vittorio Amedeo stimava i Siciliani e molti dei più intelligenti tra essi condusse a Torino, ma non voleva ammettere un principio pericoloso alla saldezza politica dei suoi stati. Gli Spagnoli lasciavano andare le cose in Sicilia come voleva la Provvidenza, i Piemontesi dappertutto volevano mettere ordine e disciplina. Da ciò si creò una situazione assai difficile: da un lato Vittorio Amedeo sentiva di non poter governare un paese così lontano da quello che doveva essere il centro della sua politica e desiderava cambiarlo con il Milanese, dall'altro i Siciliani, in odio ai Piemontesi, accolsero a braccia aperte la spedizione spagnola del 1718, organizzata dal cardinale Alberoni. Si erano trasformate intanto le relazioni internazionali, specialmente per ciò che riguardava la politica inglese. Con l'avvento al trono d'Inghilterra dei Hannover, la diplomazia inglese dovette tener conto nelle sue operazioni anche degl'interessi della corona in quanto signora del Hannover. Col trattato di Westminster l'imperatore riconobbe i diritti del Hannover su Brema e Verden (maggio 1715); col trattato di Hannover (28 novembre 1716) l'Inghilterra promise all'imperatore di ottenergli la Sicilia in cambio della Sardegna. I disegni dell'Alberoni, mentre allarmavano l'Inghilterra col timore d'una riscossa spagnola, che avrebbe rovesciata tutta la sua politica mediterranea, davano all'Inghilterra l'agio di porre in esecuzione l'impegno con l'imperatore. Vittorio Amedeo II negoziò tanto con l'Alberoni quanto con Carlo VI d'Austria per ottenere tutto o in parte il Milanese col titolo regio in cambio della Sicilia, ma, mentre negoziava, la squadra inglese dell'ammiraglio Byng distruggeva la flotta spagnola al Capo Passaro (11 agosto 1718), i Francesi invadevano la Spagna, l'Alberoni cadeva dal potere (5 dicembre 1719) e la Quadruplice Alleanza (Inghilterra, Francia, Impero, Olanda) costrinse Vittorio Amedeo II ad aderire al trattato di Londra del 7 agosto 1718 e ad accettare il cambio del regno di Sicilia con quello di Sardegna (8 novembre 1718). Due anni dopo, il 4 agosto 1720, la Spagna restituiva la Sardegna all'Austria, e l'Austria l'8 agosto la passava alla casa di Savoia, che dal maggio 1719 aveva consegnata la Sicilia. La Sicilia sparve senza rimpianti dalla politica sabauda, ma l'aspirazione al Milanese, magari in cambio della Sardegna, divenne da allora il suo porro unum e caratterizzò gli ultimi dieci anni di regno di Vittorio Amedeo.

Furono anni di prosperità e di benessere per lo stato sabaudo, perché il re poté concentrare tutte le sue cure alla riforma della società e dello stato. Grande cacciatore d'uomini come Emanuele Filiberto, creò una magnifica classe dirigente, senza pregiudizî di casta, di regioni o di nazionalità. Classe dirigente versatile come il suo creatore: la classe politica piemontese non conosce specializzazioni: è pronta ad essere tutto quello che il principe vuole. Con tali uomini Vittorio Amedeo trasformò completamente la struttura dei suoi stati, e fu il secondo grandioso passo che essi compirono dopo Emanuele Filiberto. Dopo più di un secolo di permanenza della dinastia, il Piemonte predomina su tutti gli altri stati sabaudi. Nell'amministrazione statale l'elemento piemontese prevalse, specialmente tra gl'intendenti, che Vittorio Amedeo II pose, seguendo il modello francese, alla testa delle provincie. Ma ciò non perché egli avesse delle parzialità per i Piemontesi, ma perché i Piemontesi, onesti, fedeli alle direttive del capo, facevano buona prova in quegli uffici. Si formò allora la tradizione amministrativa piemontese ordinata e proba. Le entrate dello stato da 6.833.000 lire nel 1680 salirono nel 1700 a 9.484.000, nel 1721 a 13 milioni, nel 1730 a 15 milioni. Non solo nei periodi pacifici, ma nel pieno della guerra di successione spagnola rifulse la sapienza amministrativa sabauda. La guerra di successione spagnola fu un modello di condotta finanziaria della guerra e il dopoguerra, in cui il re seppe ricostruire il suo stato, pur mantenendo religiosamente gl'impegni contratti coi prestiti all'interno e all'estero, fu un modello di restaurazione finanziaria. Per tale opera Vittorio Amedeo da un lato rinnovò la struttura sociale, rivedendo nel 1722 i beni feudali richiamati al demanio perché alienati a titolo non oneroso, e creando una nuova nobiltà; dall'altro trasformò la struttura economica del paese, riprendendo e perfezionando i piani di sistemazione idraulica e di protezione delle industrie, che il genio di Emanuele Filiberto aveva ideato. Il Piemonte divenne allora una regione industriale, la cui ricchezza poggiava essenzialmente sulle industrie della seta e della lana, protette dallo stato con ogni mezzo. L'annessione delle nuove provincie, staccate dalla Lombardia, presentò un nuovo sistema di conduzione agraria, quello del fitto, che venne imitato in Piemonte e cambiò la struttura agraria del paese. La spinta dello stato verso un avvenire di prosperità materiale costituiva una delle basi della ricostruzione economico-finanziaria; il catasto, i cui lavori iniziati nel 1698 si conclusero nel 1731 dopo l'avvento di Carlo Emanuele III, ne formò un altro sicuro pilastro. Regolatore della vita economica del paese, vittorio Amedeo II investì anche il campo della scuola e dell'assistenza sociale, che tolse alla Chiesa e all'iniziativa privata. Nel 1729. Vittorio Amedeo II, con l'ausilio del d'Aguirre e del Pensabene prima, del Caisotti dopo, affermò in pieno il monopolio dell'insegnamento dell'università di Torino, alla cui testa pose il Magistrato della Riforma. Dall'università, direttamente o indirettamente dipendeva l'insegnamento secondario, che i suoi predecessori avevano abbandonato agli ordini religiosi, specialmente ai gesuiti. In ogni provincia vennero fondati dei collegi, con professori laureati nell'università, e a Torino, coi migliori alunni di tutti i collegi, si costituì il Collegio delle provincie, che divenne il semenzaio della classe dirigente sabauda. Così pure venne condotta a fondo la lotta contro la mendicità, infelicemente iniziata da Carlo Emanuele I: creazione di ospedali, di ospizî, di opere di maternità, sotto la direzione, alla periferia, di congregazioni di carità, unificate al centro da una congregazione primaria detta la Generalissima. Fra Stato e Chiesa non vi fu alcun conflitto per la vasta opera di legislazione - nella quale s'inquadravano le suddette leggi sull'istruzione pubblica e sull'assistenza sociale -, che Vittorio Amedeo II compì con le costituzioni del 1723 e del 1729. Il conflitto ebbe origini più remote. Dopo la morte di Carlo Emanuele I, la Chiesa difese strenuamente contro lo Stato il privilegio dell'immunità reale e rimise in discussione la magna charta dei rapporti Stato-Chiesa negli stati sabaudi, l'indulto di Niccolò V. Madama Reale e Carlo Emanuele II, assistiti dal presidente del senato di Piemonte, Filippo Morozzo, sostennero i diritti ducali, ma poco felicemente e corse il detto che quando Roma parla Torino obbedisce. Le cose cambiarono all'avvento di Vittorio Amedeo II. La politica internazionale obbligava i Savoia a comprimere o a lasciare respirare i Valdesi: l'alleanza con Luigi XIV li spinse a perseguitarli, quella con Guglielmo III a concedere loro di nuovo la tolleranza nel 1694. Innocenzo XII dichiarò nullo, empio, detestabile (19 agosto 1694) il decreto di tolleranza, e il senato di Piemonte, alla sua volta, proclamò nullo e temerario il decreto papale. Le nomine ai benefizî e altre questioni giurisdizionali complicarono il conflitto in Piemonte, mentre l'annessione delle provincie lombarde, che, godevano dell'istituto dei benefizî vacanti, facevano estendere dal duca questo istituto a tutto il Piemonte. La Sicilia, infine, con la prerogativa dell'Apostolica Legazia, contestata dalla S. Sede, e la Sardegna, vecchio dominio feudale dei papi, diedero ancora nuova esca al fuoco. Il marchese d'Ormea ricondusse la pace tra le due potestà. Con il concordato del 1726 e il breve del 24 maggio 1727 ottenne il riconoscimento del re di Sardegna e la nomina ai benefici maggiori in Piemonte e nell'isola. Era per sistemare anche un modus vivendi sui feudi, allorché la morte di Benedetto XIII (21 febbraio 1730) mutò le direttive della Santa Sede verso casa Savoia. Nelle polemiche Stato-Chiesa si configurò in dottrina la pratica gallicana dei senati, ma non poté affermarsi il nuovo ethos dello stato moderno. Adalberto Radicati di Passerano, che ne fu uno dei precursori, offrì i suoi servigi a Vittorio Amedeo, che dapprima li accettò e gli diede l'incarico di scrivere un libro contro l'autorità del papa, poi lo sconfessò e lo costrinse a fuggire in Inghilterra (1726).

Consapevole della sua grandezza, mancò, all'ultimo momento, a Vittorio Amedeo II l'abnegazione: dopo aver abdicato, svalutò sistematicamente il figlio Carlo Emanuele-III e tentò di riprendere il potere. Preoccupato della continuità della dinastia, toccò allora al marchese d'Ormea il compito doloroso di far sentire al suo benefattore l'efficacia dell'insegnamento che aveva da lui ricevuto. Vittorio Amedeo II finì relegato nel castello di Moncalieri (31 ottobre 1732) e un'ombra fosca di tragedia familiare turbò l'inizio del regno di Carlo Emanuele III.

Il marchese d'Ormea divenne allora il ministro dirigente del regno di Sardegna e il 18 marzo 1732 alla carica di generale delle Finanze, che aveva, aggiunse quella di ministro degli Affari esteri. Sotto di lui gli obiettivi di politica estera rimasero quelli di Vittorio Amedeo II; l'espansione in Lombardia; ma i mezzi furono diversi. Col trattato di Torino (26 settembre 1733) Carlo Emanuele III si alleò con la Francia per combattere il predominio di casa d'Austria in Europa e per toglierle il Milanese in Italia, ma l'alleanza era diretta contro casa d'Austria non contro l'impero da cui dodici giorni prima era stato creato vicario in Italia e investito dei suoi stati. L'investitura non aveva perduto di tutta la sua utilità: Vittorio Amedeo II come principe dell'impero aveva ricevuto gli aiuti tedeschi nella guerra di successione spagnola. Re di Sardegna e vassalli dell'impero come duchi di Savoia, principi di Piemonte e marchesi di Monferrato, i Savoia a seconda dei momenti potevano far valere la loro condizione di sovrani indipendenti o vassalli. Così pure l'Ormea volle che si dichiarasse in un articolo del trattato che l'alleanza non era rivolta contro l'Inghilterra. Cominciata la guerra, che fu detta di successione polacca, Carlo Emanuele III assunse il comando delle forze alleate, occupò la Lombardia e vinse gli Austriaci a Guastalla (19 settembre 1734), ma non volle partecipare all'assedio di Mantova, posto dagli Spagnoli, considerando che con Mantova si sarebbe costituito un principato per don Filippo dei Borboni di Spagna, mentre suo fratello maggiore don Carlos conquistava Napoli e la Sicilia, e che in tal modo al predominio asburgico si sostituiva il predominio borbonico in Italia con gran danno della casa di Savoia. Mentre si profilava un conflitto ispano-sabaudo, all'insaputa dei suoi alleati, la Francia si accordò con l'Austria (preliminari di Vienna, 3 ottobre 1735) e l'obbligò a cedere al re di Sardegna Novara e Tortona. Carlo Emanuele III aderì ai preliminari di pace (16 agosto 1736), che furono consacrati dal trattato di Vienna del 18 novembre 1738.

Quando scoppiò la guerra per la successione d'Austria la situazione iniziale si presentò più complessa. Non avendo mai aderito alla Prammatica Sanzione, con la quale Carlo VI aveva dichiarata sua erede Maria Teresa, il regno di Sardegna era legalmente uno dei pochi stati liberi di fare una politica autonoma. Da un lato l'Austria offriva Vigevano ed era caldamente appoggiata dall'Inghilterra, dall'altro le corti borboniche proponevano ingrandimenti in Lombardia, che si sarebbe dovuto dividere tra casa Savoia e un principato di nuova creazione da dare a Filippo di Borbone. Prima che i confini tra questi due stati fossero fissati, le truppe spagnole si accinsero a invadere la Lombardia, sebbene l'Ormea avesse comunicato alla Spagna, per il tramite della Francia, che in tal caso avrebbero trovato sul loro cammino l'esercito sardo (29 novembre 1741 e 11 gennaio 1742). Occorreva mantenere la parola senza precipitare l'alleanza con l'Austria e pregiudicare le trattative in corso con le corti borboniche. Ed ecco il capolavoro diplomatico del marchese d'Ormea: la convenzione provvisionale del 1° febbraio 1742, con la quale Carlo Emanuele III univa le sue truppe a quelle austriache contro gli Spagnoli, ma si riservava di ascoltare e di accettare eventualmente le proposizioni che gli venissero fatte dal campo opposto, avvertendone l'Austria. L'Ormea riusciva così genialmente a dare una veste legale alle esigenze realistiche della politica sabauda. Carlo Emanuele III respinse gli Spagnoli nel ducato di Modena (giugno-luglio 1742) e cacciò dalla Savoia Filippo, che vi era penetrato con un esercito (settembre 1742), ma nel dicembre gli Spagnoli vi rimisero piede, condotti da un bravo generale, il Las Minas. Poiché la Spagna intendeva far guerra sul serio, il regno di Sardegna accettò la guerra sul serio, e, con la mediazione degl'Inglesi, il 13 settembre 1743 l'Ossorio, uno dei siciliani condotti in Piemonte da Vittorio Amedeo II, firmò il trattato di Worms, col quale l'Austria cedeva al re di Sardegna Vigevano, il Pavese oltre Po, compresi Bobbio e Piacenza e l'alto Novarese, nonché la Sicilia, se fosse riuscita a strapparla a Carlo di Borbone, e l'Inghilterra si obbligava a passare dal 1° febbraio 1742 ai Sardi 200.000 sterline annue. La Francia considerò l'alleanza formale con l'Inghilterra un casus belli, dichiarò guerra a Carlo Emanuele III (30 settembre) e nel trattato di Fontainebleau (25 ottobre 1743) con la Spagna svelò il suo fine di riprendergli Exilles e Fenestrelle. Mentre gli Austriaci s'impegnavano in una spedizione contro Napoli, tutto lo sforzo delle truppe franco-spagnole si rivolse sugli stati sabaudi. Nell'aprile 1744 il Las Minas occupò il contado di Nizza, poi i Franco-Spagnoli sbucarono in Piemonte per la valle di Stura e assediarono Cuneo. L'Ormea rivelò allora in pieno la sua completa devozione allo stato. Vecchio, ammalato, levò a proprie spese 10.000 uomini nel Mondovì e marciò al soccorso di Cuneo. Carlo Emanuele III diede battaglia ai Franco-Spagnoli alla Madonna dell'Olmo (30 agosto), la perdette, ma Cuneo fu vettovagliata e l'assedio venne tolto (22 ottobre 1744). Tuttavia nella campagna del 1745 Valenza, Casale e altre piazze caddero in potere dei Franco-Spagnoli. Unico propugnacolo di casa Savoia restò la fortezza di Alessandria. Il D'Argenson, che dirigeva allora la politica estera francese, offrì al re di Sardegna il Milanese, a patto che si sciogliesse da ogni legame feudale con l'impero, cedesse Nizza e Oneglia a Genova ed entrasse in una confederazione italiana. La Francia con illusorî vantaggi territoriali tentava di staccare così Carlo Emanuele III dall'Inghilterra, togliendogli le città marittime, e dall'impero, che nella Dieta di Francoforte aveva proclamato che mai avrebbe fatto pace con Luigi XV, finché un principe imperiale quale il duca di Savoia e principe di Piemonte fosse spogliato di tanta parte dei suoi stati. Nondimeno la diplomazia sarda finse entrare nelle trattative, mentre un piccolo Carnot piemontese in anticipo, il Bogino, organizzava la riscossa con quella celebre spedizione del barone Leutrum, che liberò Alessandria (11 marzo 1746) e riprese Moncalvo, Acqui, Vigevano, Novara, Valenza. Il nemico sgombrò il territorio piemontese e l'ultimo tentativo che fece per penetrarvi fu fiaccato all'Assietta (19 luglio 1747) dai conti di S. Sebastiano e di Bricherasio. Conclusa la pace ad Aquisgrana, il re di Sardegna ebbe dall'Austria il Vigevanasco, l'alto Novarese e il Pavese, nonché il diritto di riversibilità su Piacenza qualora Filippo, che era stato fatto duca di Parma e Piacenza, passasse al trono di Napoli quando Carlo di Borbone divenisse re di Spagna.

Con le guerre di successione polacca e austriaca, la diplomazia sabauda abilmente combatté l'affermarsi in Italia del predominio asburgico e borbonico; ma un grande diplomatico austriaco, il conte di Kaunitz, con una mossa geniale rovesciò completamente il sistema degli stati europei. Buttò a mare l'alleanza dell'Inghilterra, che aveva consigliato durante la guerra di successione austriaca a Maria Teresa i sacrifici territoriali al re di Prussia e al re di Sardegna, e si collegò con la Francia. S'iniziò con quest'atto il sistema delle grandi potenze e parve finire l'epoca degl'ingrandimenti delle potenze di secondo ordine. La Prussia si conquistò a viva forza con la guerra dei Sette anni il suo posto tra le grandi potenze; il regno di Sardegna, più piccolo, fu tagliato fuori dalla politica militante europea, e, quando Carlo di Borbone passò a regnare in Spagna lasciando Napoli non al fratello Filippo, ma al figlio Ferdinando, vide svanire le sue aspirazioni su Piacenza e dovette contentarsi d'un equivalente in denaro (10 giugno 1763). Tuttavia, nonostante le difficoltà della nuova situazione internazionale, Carlo Emanuele III riuscì a fare un ultimo bel colpo nel 1767 occupando l'isola della Maddalena e conservandola, con l'aiuto diplomatico dell'Inghilterra, anche dopo la conquista francese della Corsica (1768).

Cessate le occasioni di guerra, Carlo Emanuele III si dedicò tutto alla prosecuzione dell'opera di suo padre nella politica interna, ma, mentre la personalità di Vittorio Amedeo II campeggiava prepotente in ogni cosa, Carlo Emanuele III ebbe due ministri quali il marchese d'Ormea e il Bogino, che sintetizzano nelle loro robuste personalità le due fasi del suo regno. All'Ormea, Carlo Emanuele III dovette la fermezza nel resistere alla denuncia dei concordati del 1726-27, fatta da Clemente XII, e il concordato del 4 gennaio 1741 e l'istruzione benedettina del 6 gennaio 1742, che papa Lambertini negoziò personalmente per lettere con l'Ormea, suo degno emulo in diplomazia. Il caso Giannone, più grave del caso Radicati, gettò un'ombra fosca su queste trattative e confermò la politica sabauda nell'indirizzo di non trasportare le dispute Stato-Chiesa dal terreno puramente giurisdizionale al terreno etico-politico. Col Bogino, per la prima volta con larghezza di vedute e serietà d'intenti, si pose negli stati sabaudi il problema sardo. Innanzi tutto la Sardegna bisognava conoscerla ed ecco opere sulla flora, sulla zoologia, sulla mineralogia dell'isola. Occorreva, quindi, diffondervi la cultura (restaurazione dell'università di Cagliari, 1749, e fondazione di quella di Sassari, 1759), regolare il corso delle acque, risolvere il problema delle comunicazioni, dividere le terre comunali indivise, riordinare i monti frumentarî, combattere gli abusi baronali ed ecclesiastici e fissare un rigoroso sistema di giustizia. Né le cure paterne di Carlo Emanuele III si limitarono alla Sardegna, ma furono equamente distribuite su tutti gli stati sabaudi. In Savoia si compì l'opera iniziata da Emanuele Filiberto e si abolirono i resti delle servitù personali. In Piemonte il sistema economico fondato da vittorio Amedeo II e consistente nel favorire sopra ogni altra le industrie della seta e della lana fu continuato e diede i suoi maggiori frutti, mentre nell'agricoltura si compiva la trasformazione del sistema della mezzadria in quello del grande affitto, sempre più diffuso dalle nuove provincie lombarde aggiunte allo stato, s'introducevano i nuovi progressi della tecnica agraria e il Piemonte diveniva una delle regioni italiane economicamente meglio attrezzate. Pupilla degli occhi sabaudi restava, però, sempre Nizza. Carlo Emanuele III riprese i grandi progetti commerciali su Nizza dei suoi predecessori, e, per farne una concorrente di Genova e di Livorno, fondò il porto di Lympia nel 1749 e creò nel 1766 una società, sostenuta da Inglesi, per esportare seta dal Piemonte ed importare drappi e tabacco dall'Inghilterra e dalla Virginia; ma la società fallì come le sue precedenti. Soltanto la Val d'Aosta perdette dal 1766 le sue secolari libertà: da quell'anno non furono più adunati i suoi stati generali e al posto del diritto consuetudinario di G. Ginod furono introdotte le costituzioni del 1723 e del 1729. Si compiva così l'unità legislativa e politico-istituzionale degli stati sabaudi di terraferma: le differenze regionali lasciavano traccia solo nei tre senati di Savoia, di Piemonte e di Nizza.

Da molteplici punti di vista lo stato sabaudo nel Settecento appariva uno stato perfetto; perfetto per chi guardava lo stato da politico puro, machiavellico; perfetto per chi lo guardava da riformatore; perfetto per chi considerava l'indole dei popoli sabaudi di terraferma: prodi in guerra, umanissimi in pace tanto che i Piemontesi furono anche chiamati gli svizzeri d'Italia; perfetto per chi badava alle forme dell'economia moderna e vedeva in Piemonte un'organizzazione agraria ed industriale assai vigorosa. Da qualsiasi punto ci si metteva salvo quello dell'alta cultura di cui parleremo, lo stato sabaudo sembrava uno stato ideale, idillico, patriarcale.

La crisi della rivoluzione francese e dell'impero napoleonico (1773-1814). - Col regno di Vittorio Amedeo III, invece, una profonda crisi investe tutti gli organismi dello stato e ne mina le basi morali. Crisi della classe dirigente. Il nuovo re congedò il Bogino e i suoi amici e non mostrò nella scelta dell'élite, che doveva reggere il governo, il senno dei suoi due predecessori. Crisi diplomatica. L'alleanza franco-austriaca resisteva a tutte le prove. V'era chi sperava sempre di far uscire il regno di Sardegna dall'isolamento in cui era piombato, e il Perrone di S. Martino, ministro degli Esteri durante la questione bavarese, pensò di far perno sulla Prussia (1778) o di ottenere da un congresso europeo, in nome dell'equilibrio delle potenze, il Milanese mentre l'Austria avrebbe conquistato la Moldavia e la Valacchia (1782). Ma i più acuti vedevano approssimarsi tristi tempi per il Piemonte. La crisi non era nel sistema diplomatico europeo ma del sistema, sosteneva il Bogino (dicembre 1772): era un vero e proprio diritto pubblico nuovo che sorgeva, un diritto fondato sulla forza bruta. Gli stati minori non potevano più sperare di costruire la loro storia ai margini di quella dei grandi. Il Bogino vedeva fosco nell'avvenire e la sua immaginazione politica arretrava spaurita. Crisi militare. Nessuno aveva posto mai in dubbio nello stato sabaudo la necessità d'un esercito, nessuno aveva mai intaccato i principî dell'onore e del dovere, fondamenti della vita militare. Un piemontese, Vittorio Alfieri, nel Panegirico di Plinio a Traiano propose di abolire gli eserciti e di consacrare i cittadini alle arti e all'agricoltura. Le sue idee si sparsero con altre simili nella borghesia subalpina, che cominciò a trovare eccessive le spese militari; contro di lui dovette levarsi su questo punto G. B. Vasco, mentre il marchese di Bersezio ricercava l'intrinseco valore dei pregiudizî militari (Réflexions sur les préjugés militaires). Fino allora, insomma, i popoli sabaudi avevano seguito, con sconfinata fiducia, il loro principe in una delle più belle e lunghe imprese storiche che l'umanità ricordi. A questo punto s'intromise tra loro coi suoi nuovi interessi la borghesia, producendo una crisi nel sistema economico e morale della monarchia.

La borghesia si era formata con le professioni liberali (medicina e legge), con le grandi industrie della seta e della lana in Piemonte e con le piccole industrie locali in Savoia, con la conduzione dei fondi, con le forniture militari, con l'emigrazione. Specialmente notevole fu il contingente procurato alla borghesia dalla conduzione dei fondi. Con Vittorio Amedeo II si moltiplicarono le cariche di corte, gli uffici e le magistrature, dando grande sviluppo all'inurbamento nella capitale, che fu arricchita di palazzi e di ville, ma impedendo ai nobili proprietarî di attendere personalmente alle loro campagne. Divenne allora assai meno frequente il tipo del signore campagnolo, come Alexis Costa de Beauregard, che viveva in mezzo ai suoi contadini e scriveva libri di agronomia, e prevalse nettamente il sistema del grande affitto. Si formò, quindi, una classe di fittabili, molti dei quali più che veri imprenditori di terre non erano che speculatori intesi a sfruttarle. Il loro moltiplicarsi e l'aumento dei fitti, provocato dalla loro concorrenza, da un lato, e la nuova tecnica dei metodi agricoli da essi introdotta, che diminuiva grandemente il quantitativo di mano d'opera necessario ai lavori dei campi, dall'altro, si risolvettero nell'impoverimento e nella proletarizzazione progressiva dei contadini. La grande proprietà divorava la piccola, e chi badava ai benefici economici del fatto se ne rallegrava (Donaudi delle Mallere), ma chi guardava all'altro aspetto di quel fenomeno, al doloroso aspetto sociale, rimpiangeva il vecchio sistema economico subalpino fondato sulla piccola proprietà e sulla mezzadria (G. B. Vasco e P. Balbo). Si ruppe, quindi, l'equilibrio tra le classi. Nello stesso tempo anche il sistema industriale attraversava una profonda crisi. La seta era divenuta sotto Vittorio Amedeo II e Carlo Emanuele III l'attività centrale dell'economia subalpina, una crisi nell'industria serica danneggiava tutto il paese e la crisi del 1787 per la scarsissima raccolta di bozzoli mise sulla piazza circa 30.000 disoccupati. Si pose allora il problema del libero scambio e della protezione e G. B. Vasco, P. Balbo e il Galeani Napione sostennero che invece di far predominare un'arte su ogni altra era meglio mantenere l'equilibrata coltura di più industrie, in modo che si potessero compensare reciprocamente.

Tutti questi problemi stimolano, dunque, il pensiero, si forma una coscienza etico-politica piemontese e savoiarda. Nelle accademie, nella Sampaolina e nella Filopatria, piglia corpo il mondo dei vecchi valori subalpini, dei vecchi sentimenti religiosi e politici che vengono difesi contro Voltaire (Benvenuto Robbio di S. Raffaele) e contro Rousseau (Gerdil). Ma una lotta più grave dovette ingaggiare contro un nemico interno: Vittorio Alfieri. La prima azione che l'Alfieri esercita sui Piemontesi è un'azione dissolvente dei vecchi valori morali. Egli identificava la tirannide col principato. La tirannide moderna era per lui più sottile, più legalitaria che quella antica ma appunto per questo più insidiosa. Il massimo dei valori è la libertà dell'individuo e dove non v'è libertà non vi sono uomini, non v'è patria. Queste dottrine eserciteranno un'efficacia sovversiva nella borghesia colta piemontese, ma intanto le prime scaramucce tra il mondo culturale subalpino a l'Alfieri si svolgevano nella polemica tra Plinio e Traiano. L'Alfieri aveva fatto dire a Traiano da Plinio che più di ogni altra riforma era necessaria quella di ridare al popolo romano la prisca libertà. E G. B. Vasco, in veste da Traiano, rispose che la prisca libertà, come l'intendeva l'Alfieri, non era mai esistita e che non altrimenti che sotto la forma imperiale si potevano e si dovevano governare popoli di diverse lingue, di diversi costumi, di diversi climi. Era l'apologia dell'assolutismo sabaudo, che solo poteva reggere Savoiardi, Piemontesi, Nizzardi, Sardi, che acquistavano tutti nel nuovo clima spirituale coscienza delle loro diversità e tendevano a dissolvere lo stato sabaudo. Ai Savoiardi sembrava che troppi Piemontesi governassero e a Chambéry frequenti liti scoppiavano tra ufficiali piemontesi e borghesi. I Piemontesi vedevano di mal occhio molti Savoiardi nei ministeri e nell'amministrazione centrale. I Sardi odiavano cordialmente i Piemontesi. I Lombardi delle provincie di nuova annessione non erano stati ancora assimilati al Piemonte. Infine, perfino nel clero, che non aveva conosciuto fino allora ribellioni alla Chiesa e non aveva partecipato alle grandi polemiche tra i gesuiti e i giansenisti, cominciò a penetrare il giansenismo e la massoneria. In quest'ultima tutti gli elementi d'opposizione o di critica al governo trovarono i loro quadri d'azione.

In questo mondo, incrinato da tali e tanti dissensi e non tenuto fermo che dalla secolare devozione al principe dell'aristocrazia e del popolo, piombò la bufera della rivoluzione francese. Mentre il re, imparentato con i Borboni di Francia, accoglieva gli emigrati francesi, la borghesia dello stato sabaudo si agitava e cominciava l'emigrazione giacobina: il medico Giuseppe Dessaix e altri savoiardi fuggirono a Parigi e vi fondarono il club degli Allobrogi, il medico Rusca di Dolceacqua li seguì, l'agitatore vercellese, G. A. Ranza, si rifugiava a Lugano. Il sentimento di patria si oscurò e le lotte ideologiche prevalsero su tutto. Legato alla Francia da rapporti dinastici, centro d'un pensiero antilluminista e cattolico, desideroso di migliorare i proprî confini occidentali, il regno di Sardegna fu spinto nelle guerre della rivoluzione e Vittorio Amedeo III fece perfino arrestare il marchese di Sémonville, che Dumouriez gl'inviava per isolare diplomaticamente l'Austria (19 aprile 1792), e non si commosse neanche per una seconda missione francese, quella di Audibert Caille. Le truppe rivoluzionarie allora invasero la Savoia e il contado di Nizza e se ne impadronirono con una rapidità fulminea. Ma mentre l'alto comando piemontese dimostrava un'imprevidenza che stupì tutti, s'organizzava spontanea la resistenza popolare contro lo straniero e i Sardi facevano il loro glorioso ingresso nella vita etico-militare dello stato sabaudo con le belle difese di Cagliari (23 gennaio e 13 febbraio 1793) e della Maddalena (2z febbraio 1793). Nella campagna del 1793 Vittorio Amedeo III tentò la riscossa. Movimenti controrivoluzionarî erano scoppiati nella Francia meridionale e vivo fermento antigiacobino era nella Savoia e Nizza, annesse alla Francia come dipartimenti del Monte Bianco e delle Alpi marittime e disilluse del nuovo regime. Il duca di Monferrato e il marchese di Cordon, invasero la Savoia e i contadini del Faucigny, condotti dal conte di Sales si levarono in armi; il duca d'Aosta e il conte di S. Andrea entrarono nel Nizzardo e vinsero i Francesi a Rauss (8 giugno) e ad Authion (12 giugno), ma fallirono dinnanzi alla Cerisiera (8 settembre), mentre il corpo d'esercito operante in Savoia non sapeva cavar profitto immediato della vittoria e si lasciava ributtare dal Kellermann (ottobre). I Piemontesi tacciarono colpevole della disfatta l'Austria, che si rifiutava di dare soccorsi serî per una guerra offensiva, se il regno di Sardegna non retrocedesse gli acquisti fatti sull'Austria nel 1703, 1735 e 1748. Né di alcun aiuto riuscì più presso l'Austria l'alleanza inglese, conclusa il 25 aprile 1793. Ed ecco come, dopo un'altra infelice campagna, che diede ai Francesi il possesso di tutte le cime alpine (1794), il re di Sardegna dovette piegarsi a promettere all'Austria la retrocessione delle terre da lei ricevute, in cambio di eventuali ingrandimenti in Francia e di maggiori aiuti militari (trattato di Valenciennes, 29 maggio 1794). Era l'abbandono della politica prevalentemente italiana e la rinascita dei sogni borgognoni, assopiti dall'epoca di Carlo Emanuele I. Intanto la crisi interna dello stato sabaudo sboccava in atti rivoluzionarî: in Sardegna s'iniziava il movimento di Gian Maria Angioj (28 aprile 1794; v.); a Torino sorgevano i club rivoluzionarî del medico Ferdinando Barolo, degli avvocati Francesco e Andrea Junod, del banchiere Vinay, che erano in contatto col residente francese a Genova, Tilly, fornivano al nemico documenti diplomatici e militari e congiuravano contro il re. Il governo cedette in parte alle pretese sarde, ma reagì alla propaganda e alle congiure dei club con i supplizî dei fratelli Junod e di Giovanni Chantel e con una seconda ondata di espulsi. Ma poiché inefficace era l'aiuto degli Austriaci, che nessun frutto avevano saputo cavare dalla vittoria di Vado (23-27 giugno 1795), coi risentimenti verso di loro si diffuse un desiderio di pace nel governo sardo. Ma se la Francia si mostrò pronta a promettere il Milanese, pretendeva in compenso Oneglia, Loano, la Sardegna e come sicurezza, durante la guerra, le piazze di Cuneo, Alessandria, Ceva e Susa. Le sue proposte furono rigettate e fu ripresa la guerra con maggior vigore nel 1796. Con una geniale manovra, il nuovo generalissimo dei Francesi, Bonaparte, staccò con le battaglie di Montenotte (12 aprile) e di Millesimo (13 aprile) i Piemontesi dagli Austriaci e si buttò con tutte le sue forze sui primi per costringerli alla pace. In pochi giorni, nonostante l'eroismo dei soldati piemontesi a Cosseria, il re di Sardegna fu posto fuori combattimento e dovette firmare l'armistizio di Cherasco (28 aprile) e la pace di Parigi (15 maggio), con la quale non solo rinunciava alla Savoia e a Nizza, ma dava alla Francia il diritto d'ingerirsi nella politica interna sabauda, promettendo il congedo del ministro degli Esteri, conte di Hauteville, e l'indulto ai condannati e imputati per opinioni politiche.

Il congedo di Hauteville portò al potere gli amici e discepoli del Bogino, Damiano Priocca, nominato prima ministro degli Esteri (16 luglio 1796) poi anche dell'Interno (10 gennaio 1797), e Prospero Balbo, inviato ambasciatore a Parigi. Il Priocca, abolendo la feudalità con una serie di editti (7 marzo, 29 luglio 1797), e P. Balbo, lavorando alla conclusione d'un trattato con la Francia, fissato sub spe rati il 25 febbraio 1797 e ratificato dal direttorio soltanto il 25 ottobre 1797, tentarono salvare la monarchia. Ma, forti dell'appoggio morale straniero, i giacobini piemontesi si agitavano, giunsero perfino a proclamare la repubblica ad Asti (27 luglio), mentre in Sardegna la sollevazione dell'Angioj si evolveva in senso giacobino. Nondimeno le masse restavano fedeli al re, malgrado i tentativi di subornarle, e 200-300 contadini distrussero la repubblica d'Asti, mentre forze popolari sarde contribuirono ad abbattere in Sardegna l'Angioj. Se non ci fossero stati i Francesi, pensava Bonaparte, tutti i patrioti piemontesi sarebbero stati scannati. Ma vi erano i Francesi, vi erano i Cisalpini, vi erano i Liguri. Si rovesciò una posizione secolare: il Piemonte, che ai suoi vicini era sembrato sempre avido di preda, fu stretto in una morsa di lupi famelici. Cominciò per la monarchia sabauda una lunga serie di umiliazioni inflittele dalla repubblica francese, che culminarono nell'imposizione dell'abdicazione al re Carlo Emanuele IV (7 dicembre 1798). Nonostante i viaggi del conte Fantoni e di altri oscuri emissarî di alcune sette patriottiche italiane, tra i giacobini piemontesi prevalse il partito dell'unione alla Francia, che era appoggiato dalle baionette (15 febbraio 1799). Pochi mesi dopo, l'effimera repubblica piemontese veniva abbattuta dalle truppe austro-russe, comandate dal Suvorov, e dalle bande delle cosiddette masse cristiane, ma il re Carlo Emanuele IV non poté ritornare a Torino per il veto dell'Austria, che voleva tenere occupato e govemare il Piemonte fino alla pace. Invece la vittoria di Bonaparte a Marengo ridiede alla Francia il Piemonte, che divenne la 27° divisione militare del consolato e dell'impero francese (12 aprile 1801).

La storia dello stato sabaudo si restringe allora alla storia della Sardegna (v.) e a quella degli sforzi diplomatici fatti per restaurarlo. La Francia era ritornata alla concezione di Richelieu di considerare il Piemonte come una testa di ponte in Italia e rinnegò il principio, cui si era mantenuta fedele da Utrecht alla rivoluzione, di ritenerne l'indipendenza necessaria all'equilibrio europeo. Neanche l'Austria era aliena per ragioni opposte dal pensare nello stesso modo, e al congresso di Lunéville i suoi diplomatici domandavano per quali ragioni dovesse essere indispensabile l'esistenza politica del Piemonte. Alle vecchie idee diplomatiche si mantennero fedeli la Russia e l'Inghilterra, che non solo tennero ferma nei loro piani di riassetto europeo la restaurazione dello stato sabaudo, ma ne vagheggiarono l'ingrandimento con la Liguria e magari con la Lombardia, perché meglio potessero esercitare la sua funzione equilibratrice tra Francia e Austria (progetti di Alessandro di Russia e di Pitt del 1804 e 1805). La diplomazia sabauda poteva, quindi, inserirsi nel giuoco diplomatico anglo-russo. L'Austria dapprima nicchiò a tali progetti (1805), poi li accolse in pieno nel 1809, caldeggiando una spedizione anglo-sabauda a Genova e facendo balenare alla casa di Savoia perfino il possesso della Lombardia. Ma l'Austria fu battuta a Wagram e l'Inghilterra inviò alla testa delle sue truppe nel Mediterraneo lord Bentinck, che aveva concepito il piano di presidiare la Sicilia e la Sardegna con forze britanniche e stabilirvi due costituzioni liberali, che attirassero le aspirazioni dell'Italia continentale stanca, come attestavano i suoi emissarî, del dispotismo napoleonico. In Sicilia il piano riuscì, in Sardegna, invece, Vittorio Emanuele I, salito al trono all'abdicazione del fratello Carlo Emanuele IV (4 giugno 1802), resistette a tutte le pressioni del ministro inglese Hill (1812). Egli era e voleva morire monarca assoluto e la monarchia assoluta si stabilì sotto di lui in Sardegna. Il terreno gli era stato spianato dal fratello Carlo Felice, viceré dell'isola, che, con mano ferma, restaurò i poteri dello stato (v. sardegna). Ma Vittorio Emanuele I non si curò tanto della politica interna sarda, tutto teso com'era nel pensiero di ricuperare il patrimonio dei suoi avi. La diplomazia sabauda fece progetti, controprogetti, si agitò, si mosse, ma la diplomazia delle grandi potenze, in verità, non si curò gran fatto di essa. Vittorio Emanuele I fu invitato, il 25 aprile 1814, a ritornare nel suo stato, al quale col trattato di Parigi del 30 maggio 1814 fu aggiunta Genova e tolta parte della Savoia, senza che i diplomatici sardi, pur essendo uomini di vaglia, vi avessero avuto alcuna parte. La diplomazia delle grandi potenze aveva fatto tutto da sé.

La restaurazione, la rivoluzione del 1821, la reazione (1814-1831). - Assai diversa la restaurazione sabauda del 1559 da quella del 1814, come diverse erano le figure di Emanuele Filiberto e di Vittorio Emanuele I: il primo, autentico grande sovrano, ritornava nei suoi dominî, dopo aver servito la più potente monarchia dell'epoca e aver attentamente seguito la politica dei conquistatori del suo paese; il secondo, tornava dalla regione più arretrata d'Italia, senza essersi reso conto di tutto ciò che rappresentasse l'impero napoleonico dai punto di vista politico-sociale. Del suo avo riviveva soltanto in lui la passione, non il genio, per la politica estera e per la guerra. Con l'editto del 21 maggio 1814 Vittorio Emanuele I abolì la legislazione e gli ordinamenti introdotti da Napoleone nei suoi stati e ristabilì in vigore gli ordinamenti e la legislazione dei Savoia vigenti al 1798. Lo stato sabaudo riprese la sua peculiare caratteristica d'una unità monarchica in una diversità storico-regionale, serbata da particolari ordinamenti.

La Savoia, il Piemonte, Nizza riebbero i loro senati; Nizza riebbe, con qualche lieve modificazione, le sue vecchie franchigie; la Sardegna conservò la sua costituzione; il Genovesato, il nuovo prezioso acquisto, fu dotato di consigli provinciali (30 dicembre 1814) e conservò in vigore il codice civile e commerciale francese. Contraria ad ogni rappresentanza politica locale, la casa Savoia non era aliena, come le vecchie monarchie, dall'accordare privilegi peculiari ad ogni regione. Nell'interno degli stati nemmeno fu attuata una piena unità, e una barriera doganale con gran danno del commercio continuò a separare il Genovesato dal Piemonte. Gli Ebrei e i Valdesi, che avevano conquistato la piena parità civile e politica sotto i Francesi, ritornarono nei loro particolari regimi di tolleranza. Il governo si arrogò il potere d'intromettersi perfino nei contratti privati tanto che gl'Inglesi nel 1820 rifiutarono di accordare un prestito a un governo, il quale poteva annullare i contratti e autorizzare i debitori a non pagare i loro debiti. Ma più grave di tutti fu il decreto del 18 novembre 1817, col quale il governo sabaudo aboliva l'opera illuminata del ministro Priocca, e ristabiliva i fedecommessi e le primogeniture, rivelando il suo intento di ricostituire una grande nobiltà fondiaria.

Il riformismo monarchico settecentesco, rinnovato dall'esperienza napoleonica, che dominava a Firenze col Fossombroni, a Parma col Neipperg, a Roma col Consalvi, a Napoli col Medici, non riusciva in Piemonte ad affermarsi, nonostante gli sforzi di Prospero Balbo e di Filippo di S. Marzano.

In un altro scoglio s'incagliava anche la politica estera: il sistema delle grandi potenze. Ingrandita di Genova, ma privata di Chambéry e di Annecy, la monarchia sabauda intervenne alla guerra contro Napoleone nei Cento giorni, e, di propria iniziativa, col trattato segreto del 19 settembre 1815, si fece retrocedere da Luigi XVIII, ritornato sul trono di Francia, Chambéry e Annecy. Il Castlereagh e il Metternich si opposero. Vittorio Emanuele I non poté ratificare il trattato, e dovette attendere la seconda pace di Parigi del 20 novembre 1815 per riavere ufficialmente Chambéry e Annecy. Il Castlereagh e il Metternick vedevano di mal occhio una politica estera autonoma dello stato sabaudo: essi lo concepivano come una disciplinata avanguardia dell'Europa contro la Francia. Fedele, invece, al concetto europeo e non puramente antifrancese della funzione storico-politica del Piemonte si mantenne la Russia, e per mezzo della Russia Vittorio Emanuele I poté resistere alle pressioni dell'Austria per ottenere da lui la retrocessione dell'Alto Novarese e della via del Sempione e per farlo entrare in una lega austro-italica, che gli avrebbe tolto ogni possibilità di movimento. E per mezzo della Russia, re Vittorio sperava anche, poiché il male era nel nuovo sistema politico europeo, che al congresso di Aquisgrana si affermasse la parità giuridica tra grandi e piccole potenze: ma lo zar Alessandro si lasciò battere dal Metternich e dal Castlereagh. Né Prospero Balbo e Filippo di S. Marzano, né Carlo Emanuele Alfieri e i vecchi diplomatici dubitavano di poter superare gli scogli che sbarravano loro la via, ma credevano che ci volesse tempo e pazienza. Le giovani generazioni piemontesi, invece, educate da Vittorio Alfieri e da Napoleone al culto dell'audacia e dell'energia, vedevano già in una monarchia costituzionale e nazionale la risoluzione dei più gravi problemi dell'epoca, e volevano bruciare le tappe, fare presto. Vivo in loro era il lealismo monarchico sabaudo: dopo l'effimero repubblicanismo giacobino, il culto secolare per la dinastia era rinato in Piemonte nell'epoca napoleonica. Discepoli di Prospero Balbo da un lato, ex-amministratori napoleonici dall'altro, volevano conciliare le tradizioni piemontesi con le concezioni razionali dell'amministrazione moderna. Uomini liberi, formatisi su V. Alfieri, credevano la libertà politica garenzia della libertà morale e alcuni tra loro, gli aristocratici, concepivano quella libertà signorile, altri, i borghesi, come una libertà integrale, che assicurasse a tutti i diritti politici: gli uni avevano trovato il loro modello nella costituzione francese del 1814, gli altri la troveranno nella costituzione spagnola. Soldati di Napoleone avevano partecipato alle sue ultime guerre, le guerre delle nazioni (1812 e 1813), avevano visto quali prodigi il patriottismo faceva compiere ai popoli, e intellettuali d'Italia sognavano per l'Italia la bella guerra nazionale, come quella di Spagna, come quella di Germania, una guerra che rendesse gl'Italiani pari ai Francesi e agl'Inglesi, così fieri della loro grandezza politica nazionale. Organizzati nelle società segrete dei federati e dei carbonari, avevano frequenti contatti con i liberali nazionali lombardi, che facevano capo al conte Confalonieri, e tentavano operare di concerto con loro. L'Europa al congresso di Vienna aveva frustrate le speranze italiane, ma il blocco delle potenze, poi, non sembrava loro così omogeneo come appariva dai congressi. A Torino l'ambasciatore di Francia, duca di Dalberg fino al 1817, il ministro di Russia, principe Koszlovskij, il ministro di Spagna dal 1820, conte Bardaxi, facevano propaganda liberale. Si sperava che il re Vittorio Emanuele I si piegasse a dare una costituzione per odio contro gli Austriaci e si contava molto sul principe di Carignano, erede presuntivo al trono. Ma il re al congresso di Lubiana, dopo la rivoluzione napoletana del 1820, fece esporre dal S. Marzano le sue idee contrarie a ogni costituzione, perniciose dappertutto, a suo vedere, perniciosissime negli stati sabaudi, dove solo un principe assoluto poteva tener fermo quel coacervo di popoli. Profittando dell'avanzata austriaca contro i liberali napoletani, i carbonari piemontesi con una sollevazione militare tentarono forzare la mano al re, ma il re abdicò in favore del fratello Carlo Felice, che era a Modena, e affidò temporaneamente il potere al principe di Carignano (13 marzo 1821). Il principe di Carignano dapprima concesse la costituzione, poi, conosciute le intenzioni del nuovo re, si adoperò a ricondurre lo stato nell'ordine e a mantenere fedele il grosso dell'esercito. Dopo un breve scontro a Novara, agli Austriaci e alle truppe rimaste fedeli non fu difficile abbattere il governo liberale, i cui capi, S. Santarosa, G. Provana di Collegno, G. Moffa di Lisio, il marchese di Caraglio, esularono.

Carlo Felice si dedicò a una severa opera d'epurazione dell'esercito e dell'amministrazione, ma non ebbe bisogno d'una lunga occupazione austriaca e poté liberarsene presto, grazie anche al valido appoggio russo. Ogni velleità d'azione politica liberale fu spenta. Ma non per questo i liberali disarmavano.

Le riforme di Carlo Alberto (1831-1848). - A Carlo Felice, morto il 27 aprile 1831, successe Carlo Alberto. Per dissipare nell'Austria ogni minima diffidenza e per porsi al sicuro da un'eventuale nuova ondata rivoluzionaria francese, poiché il regno di Luigi Filippo non dava ancora garenzia di continuità, il 23 luglio 1831, concluse con l'Austria una convenzione militare. Postosi al sicuro dall'estero, Carlo Alberto si pose al lavoro di re, di re sul serio. Si era preparato coscienziosamente a tale compito, conosceva i problemi centrali dell'amministrazione del suo stato e si era mantenuto, dopo il ritorno a Torino dall'impresa del Trocadero, in continui contatti con la classe colta piemontese (Cesare Alfieri, Luigi Cibrario) e coi più intelligenti e capaci funzionarî (Villamarina). Cominciò, quindi, con la riforma del governo centrale, istituendo il Consiglio di stato (18 agosto 1831) e i consigli di conferenza settimanali dal 12 aprile 1832: col primo intendeva combattere il dispotismo ministeriale mediante un organo tecnico che potesse sottoporre a sindacato l'azione dei ministri; coi secondi voleva dare al potere centrale un'unità; con l'uno e con gli altri, insomma, affermava in pieno l'assolutismo monarchico. Come dinnanzi ai ministri, così dinnanzi alla Chiesa Carlo Alberto si rivelava sovrano assoluto e fece divieto ai gesuiti, il 28 luglio 1832, di pubblicare il loro calendario ecclesiastico, se non notassero la festa di S. Gregorio VII con la lectio communis, e ciò per evitare che nell'altra lezione si consacrassero gli oltraggi fatti alla dignità regia nella persona di Arrigo IV. Con tale senso del proprio potere, Carlo Alberto fu urtato di faccia dalla propaganda mazziniana nel suo regno che condizionava l'ossequio alla monarchia alla missione italiana o peggio ancora con lo scritto Sull'onore militare intaccava uno dei sentimenti basilari della vita morale del vecchio Piemonte. Ne derivarono i movimenti mazziniani del 1833 e 1834 e i famosi processi, che hanno lasciato un'ombra fosca sugl'inizî politici di Carlo Alberto, che emulò allora il duca di Modena, e si fece consigliere di severe repressioni al re di Napoli, Ferdinando II. Si accentuò nello stesso tempo l'indirizzo reazionario nella politica estera con l'appoggio dato alla duchessa di Berry contro Luigi Filippo, con l'idea d'una guerra preventiva alla Francia rivoluzionaria e finalmente con i maneggi in favore di don Carlos in Spagna. La politica carlista segnò, anzi, la crisi diplomatica della monarchia con l'avvento al ministero degli Affari esteri del giovane conte Solaro della Margherita (1835).

Si raffreddarono i rapporti da un lato con l'Austria, che non voleva avventure, dall'altro con l'Inghilterra e con la Francia, che combattevano sordamente don Carlos. La questione carlista si sopì nel 1839 senza alcun vantaggio per Carlo Alberto, salvo l'onore d'aver tenuto per il primo egli re d'un piccolo stato, testa alla prepotente Inghilterra di Palmerston.

Ma la vera, la sana vocazione di Carlo Alberto era quella di principe riformatore della scuola piemontese di Vittorio Amedeo II e di Carlo Emanuele III. E divenne un principe paterno modello.

Per opera del conte Gallina fino al 1844, del conte Ottavio Thaon di Revel poi, ritornarono per le finanze sabaude i tempi gloriosi del conte di Borgone e del marchese di Ormea. Le entrate dello stato salirono da 80 milioni nel 1831 a 85 nel 1845 e il credito pubblico giunse a tale che la casa Rothschild offrì un prestito al Piemonte, a condizioni che non aveva concesso mai ad alcun altro stato; ma Carlo Alberto preferì le condizioni meno vantaggiose di capitalisti piemontesi piuttosto che assoggettarsi all'alta finanza internazionale. Per opera del Barbaroux, dell'Avet, del Pinelli, dello Sclopis, gli stati sabaudi ottennero finalmente dei codici, che conciliarono i codici napoleonici con le loro esigenze peculiari, e nel 1838 venne promulgato il codice civile carlo-albertino, cui seguirono nel 1840 il codice penale militare e nel 1842 il codice di commercio. Con l'obbligo ai senati di motivare i loro decreti, che non avevano più forza di leggi (17 marzo 1838), si diede un grave colpo a quelle corti supreme, ultimo rifugio giuridico dello spirito regionale degli stati sabaudi, che si avviarono decisamente a sciogliersi, dopo una evoluzione secolare, in uno stato sabaudo unitario. Tanto più che nello stesso tempo con l'abolizione della feudalità, dei privilegi ecclesiastici, della stessa costituzione sarda (1847), Carlo Alberto poneva l'isola, col valido aiuto d'un sardo, il Villamarina, allo stesso livello giuridico-sociale degli altri suoi dominî. Mentre nel campo giuridico si tendeva a realizzare l'unità degli stati sabaudi, nel campo economico si compiva tale unità in modo perfetto con l'abolizione di ogni barriera interna e il trionfo del libero scambio. La Savoia ridivenne zona di transito internazionale e furono tolte le rigide barriere doganali con la Francia e la Svizzera. Genova riprese la sua funzione commerciale nel Mediterraneo e grandi sogni sul suo avvenire sorsero negli economisti piemontesi e liguri. Genova doveva essere, invece di Trieste, il perno d'un grandioso programma economico d'unione dell'Europa centrale. L'economia ripresentava come ostacolo quell'Austria, che era sentita già come ostacolo nella politica e nelle aspirazioni del sentimento nazionale. L'economia rimetteva il Piemonte nel circolo delle nazioni mondiali: furono conclusi ben 15 trattati di commercio e creati 19 consolati. Spuntavano i primi segni d'una politica mediterranea sabauda, poggiata su una marina da guerra, alla quale il Des Geneys aveva dedicato le sue cure sagaci. Il Solaro della Margherita pose in discussione il privilegio francese di protezione dei cattolici nel Levante e con la Francia ebbe una vertenza diplomatica, sanata con la mediazione inglese, per un incidente col bey di Tunisi (1843-44). Inviò una squadra nell'America Meridionale per mostrare la potenza del regno di Sardegna (1843).

Insomma, come Emanuele Filiberto, Carlo Alberto sapeva valorizzare anche la sua piccola squadra, seguendo del resto le tracce di Vittorio Emanuele I e di Carlo Felice. Fervida politica commerciale e marinara, che all'interno dello stato poneva in rilievo tra le regioni Genova, la cui azione nella politica sabauda cominciò a divenire predominante, e tra le classi sociali la borghesia: le due forze dell'incipiente liberalismo dei dominî sabaudi; all'estero urtava l'Austria e la Francia ma coincideva negl'interessi con la politica commerciale inglese. Parallelamente nel campo etico-politico si poneva il problema scolastico, per opera di Cesare Alfieri, del Boncompagni, del Cavour, e lo stato faceva rientrare nella sua orbita la scuola elementare, si sottraeva all'egemonia culturale del clero, e creava all'università le cattedre di storia moderna e di economia sociale, materie delicatissime per la formazione del cittadino. La nuova organizzazione dello stato, la politica economica, la politica estera materiata d'interessi economici, la politica scolastica conducevano la monarchia sabauda sull'orlo della politica nazionale e liberale. La classe colta piemontese ne ebbe la sensazione netta e da tale sensazione nacque la scuola politica moderata, che con uno slancio, con uno spirito d'iniziativa, un'abnegazione sublimi, si sforzò renderne consapevoli la monarchia, l'Italia e l'Europa. Il Gioberti, col Primato, creò il mito della scuola e con la polemica contro i gesuiti ne fissò l'atteggiamento etico-politico; il Balbo pose il problema italiano nei suoi termini diplomatici e Giacomo Durando lo inserì nel problema generale delle nazionalità in Europa; Massimo d'Azeglio iniziò la sua brillante attività di pubblicista e diffuse nei suoi opuscoli con la massima semplicità i principî della scuola; Ilarione Petitti scorse i nessi tra il problema delle comunicazioni ferroviarie e il problema nazionale. Ognuno di essi teneva corrispondenza con i patrioti di altre regioni d'Italia e i pubblicisti lombardi (Torelli), toscani (Galeotti), napoletani (Mancini, Massari, P. S. Leopardi) si aggirarono nel circolo dei problemi da loro aperti.

Fu la vera, la grande diplomazia volontaria di Carlo Alberto, che lavorava per lui, a proprio rischio e pericolo, ma non a sua insaputa (colloquio Carlo Alberto-d'Azeglio, 1845). L'elezione di Pio IX e l'appoggio inglese (missione di lord Minto) diedero al movimento le probabilità nazionali e internazionali di riuscita. Il Metternich occupò Ferrara, ma non osava più essere il Metternich di Troppau e di Lubiana. Carlo Alberto vedeva approssimarsi la sua ora e volle dare compimento alla sua opera di ricostruzione dello stato con la legge comunale e provinciale, con la riforma del Consiglio di stato, con la creazione della Corte di cassazione di Torino invece dei senati, con la separazione del potere militare da quello politico, con la libertà di stampa. Gli stati sabaudi giuridicamente si risolvevano senza residui nello stato unitario, cadeva l'ultima traccia di monarchia militare e appariva lo stato moderno, il monarcato civile, come lo chiamava il Gioberti. Ma ciò che per Carlo Alberto era il culmine d'un processo secolare e d'una sua politica personale, per i liberali era l'inizio d'un nuovo regime.

Un avvenimento di politica estera precipitò l'evoluzione della monarchia assoluta verso il costituzionalismo: la concessione della costituzione ai suoi popoli da parte di Ferdinando II re di Napoli. Carlo Alberto si indusse a sua volta a concedere lo statuto. Poco dopo, all'annuncio della ribellione vittoriosa di Milano, Carlo Alberto varcava il Ticino e iniziava la guerra contro l'Austria. (Per la guerra del 1848-1849 come pure per le altre guerre dell'indipendenza, v. risorgimento: Le guerre del risorgimento).

La monarchia costituzionale e nazionale (1848-1861). - La scuola moderata si era presentata come opinione pubblica nazionale, ma col parlamento naturalmente si formarono i partiti. Fuori d'ogni capacità d'azione politica seria i retrogradi, restavano a contendersi il campo i moderati, che facevano capo al Balbo, il primo presidente del consiglio liberale, e i democratici capitanati dal Brofferio.

Una profonda differenza di mentalità separava i due partiti: storicista, amante dei problemi concreti quella dei moderati, razionalista, vaga di idee astratte l'altra dei democratici. Nei contrasti politici s'intrecciavano i conflitti regionali e sociali. Roccaforte dei retrogradi era la Savoia, dei moderati il Piemonte, dei democratici Genova. La forza dei retrogradi era nell'aristocrazia reazionaria e nel clero. L'aristocrazia liberale dava il tono ai moderati. Essa riteneva che la migliore garenzia del trono, dell'ordine e della proprietà era nella trasformazione degli ordinamenti interni con la partecipazione dei ceti proprietarî alle rappresentanze comunale, provinciale e centrale e che il prestigio di classe dirigente si conquista con gli studî e con l'operosità pubblica. Il censo e la cultura erano i supremi valori dei moderati. I democratici reclutavano i loro partigiani tra la media e piccola borghesia. I medici e gli avvocati mal tolleravano il primato negli onori che aveva l'aristocrazia, erano offesi dal veder riservata ad essa la diplomazia, l'esercito salvo le armi dotte, la corte. Desideravano la diminuzione delle tasse, l'intervento dello stato contro l'aumento del costo della vita, l'abolizione dei dazî sui consumi popolari. Quanto al problema nazionale, i moderati non ammettevano alcuna soluzione di continuità tra il Piemonte e l'erigendo regno dell'Italia settentrionale, che si sarebbe dovuto costruire, e non nascondevano che intendevano conservare per capitale Torino. I democratici credevano che la vita politica nazionale cominciava da allora, che solo un'assemblea costituente avrebbe potuto legalmente creare in nome del popolo il regno dell'Italia settentrionale e non erano alieni dal veder dichiarata capitale Milano. In politica estera i moderati volevano che la monarchia sabauda facesse da sé, i democratici invece, caldeggiavano l'alleanza con la Francia, e quando dopo la disfatta di Custoza si pose tale questione il ministero Balbo cadde e gli subentrò un ministero Casati-Pareto, che chiese l'aiuto francese (30 luglio 1848). Non fu difficile alla diplomazia inglese trasformare l'aiuto della Francia in una offerta di mediazione anglo-francese, ma Carlo Alberto aveva avuto tale timore dell'intervento francese che, prima ancora che la mediazione si svolgesse, obbligò il ministero Casati a dimettersi, invitò il conte Ottavio Thaon di Revel a formare un nuovo ministero (7 agosto) e concluse con l'Austria l'armistizio (9 agosto). Il 15 agosto Thaon di Revel, a rischio del suo capo, accettò la mediazione senza interpellare le camere. La corona, coi suoi vecchi uomini, ripigliava l'iniziativa e aveva dalla sua non pochi elementi moderati borghesi, come il Pinelli. Al Gioberti tutto ciò sembrò il trionfo del piemontesismo e del borghesismo più angusti. Con una violenza straordinaria si scagliò nei circoli contro il municipalismo, di cui faceva capro espiatorio il Pinelli, passò alla testa dei democratici e giunse al potere il 9 dicembre 1848. L'avvento del Gioberti portò a una trasformazione della classe dirigente sabauda: elementi borghesi penetrarono nella diplomazia, nell'esercito, nell'amministrazione, scelti a casaccio per benemerenze rivoluzionarie. Basterà dire che all'ambasciata di Parigi, al posto d'un uomo come il Brignole Sale, fu inviato Agostino Ruffini, che non aveva nessuna attitudine diplomatica. All'esercito furono tolti i punti strategici più importariti di Genova e dati alla guardia nazionale. Con tali uomini e tale partito, il Gioberti ebbe l'idea di restaurare il granduca Leopoldo II in Toscana e Pio IX a Roma, ma il Rattazzi si oppose e trascinò con sé il re e il ministero. Il Gioberti si dimise (21 febbraio 1849), lasciando la presidenza del consiglio al generale Chiodo.

Con una preparazione diplomatica insufficiente, con una preparazione militare che non aveva tenuto conto affatto dell'animo del soldato, con un generalissimo straniero battezzato grande capitano dall'oratoria democratica, Carlo Alberto rinnovò la guerra, fu battuto a Novara (23 marzo 1849) e abdicò. Fu l'atto più bello della sua vita. Sapeva di non poter vincere, ma con vivo senso di uomo d'onore volle mostrare di aver tentato tutto per la causa italiana e con profonda abnegazione si sacrificò all'avvenire della dinastia.

Per convincimento personale, perché credeva che troppo suo padre si fosse lasciato prendere la mano dalle correnti di sinistra, e per ottenere più miti patti dal vincitore, dando garenzia di saper mantenere l'ordine da sé nei suoi dominî, il nuovo re Vittorio Emanuele II si appoggiò politicamente sui Savoiardi e affidò la presidenza del consigliò al generale De Launay (29 marzo 1849). L'Austria concesse al re l'armistizio di Vignale (26 marzo), ma la camera dei deputati insorse e Brofferio interpretò i sentimenti della maggioranza democratica nel motto: Perisca lo statuto, perisca la libertà, ma non il nostro onore. Genova; che col fallire della guerra vedeva fallito il suo sogno di sciogliere l'unione, a lei odiosa, col Piemonte in un più grande stato italiano, si ribellò, ma il generale Alfonso La Marmora la ridusse all'obbedienza (aprile 1849). Finché si trattò di combattere gli eccessi della democrazia, che aveva la base della sua forza in Genova, il Piemonte, in maggioranza moderato, appoggiò la reazione savoiarda, ma, sottomessa Genova, riprese la sua peculiare funzione mediatrice col ministero di Massimo d'Azeglio (7 maggio 1849). Con l'appoggio della diplomazia francese Massimo d'Azeglio ottenne la pace dall'Austria, il 6 agosto 1849, senza alcuna perdita territoriale, ma con l'obbligo di pagare una grossa indennità di 75 milioni. All'interno con l'ospitalità data agli emigrati delle altre regioni d'Italia non si pregiudicava la ripresa della missione italiana; con l'ordine mantenuto contro tutti si restaurava l'autorità dello stato; con una specie di paternalismo costituzionale, infine, si assicurava la vita del nuovo regime (proclami di Moncalieri, moniti del re alla camera dei deputati e al senato sui loro doveri). Ma Massimo d'Azeglio, fermo sui convincimenti etico-politici e perciò uomo provvidenziale per il momento in Piemonte, era un temperamento di artista e di moralista intellettualista. Aveva l'intuito del politico, ma a scatti: all'opera paziente, faticosa, diuturna del ministro non era adatto. Col famoso connubio (fine 1851-5 febbraio 1852), il Cavour giunse all'egemonia parlamentare; col viaggio a Londra e a Parigi (1852) conquistò le simpatie delle potenze occidentali, dell'Inghilterra e della Francia, che, in nome del principio dell'equilibrio europeo, proteggevano il Piemonte dalla diplomazia assolutista austro-prusso-russa, con la conseguente caduta dell'Azeglio raggiunse il potere (novembre 1852). Con lui il regno di Sardegna riacquistò elasticità e libertà di movimento all'estero e all'interno, e con lui riacquistò fede nella sua missione italiana e nelle sue istituzioni politiche. L'opinione moderna moderata italiana, alienatasi dal Piemonte durante la guerra del 1848, fu ricondotta nel circolo dei problemi impostati dalla scuola politica piemontese. La politica del governo assunse una serrata unità: un coerente liberalismo nazionale pervadeva tutte le branche dell'amministrazione. La politica commerciale di Carlo Alberto fu ripresa con maggiore slancio. Caddero i privilegi commerciali di Nizza, ultimissimo residuo dei vecchi stati sabaudi (1854), e si affermò il predominio assoluto del porto di Genova, che fu attrezzato alla moderna e fu ridotto a solo porto commerciale, mentre il porto militare veniva trasportato, con sano criterio, a La Spezia. Nei rapporti Stato-Chiesa si abbandonò completamente il vecchio giurisdizionalismo concordatario, che si trasformò in giurisdizionalismo liberale. Si dotò il Nizzardo d'una nuova rete di strade, per consolarlo della perdita delle franchigie commerciali, e si diede impulso anche alla viabilità in Savoia. Si riorganizzò l'esercito. Si raggiunse il pareggio nelle finanze. In tutto ciò il Cavour ebbe l'appoggio della camera dei deputati, e col suo aiuto superò due volte la fiera resistenza del senato, costruendo un altro elemento per l'affermazione del governo parlamentare. Restava da compiere l'Italia, in vista della quale quello stato modello era costruito. Che l'Italia fosse destinata a divenire uno stato nazionale non dubitava il Cavour, ma se per farlo ci volessero due, venti o cento anni, questo non lo sapeva. Era deciso a non lasciarsi sfuggire nessuna occasione e credette di averla trovata nella guerra di Crimea. Intervenendo a fianco delle potenze occidentali, il Cavour diede all'esercito la possibilità di riacquistare il suo buon nome in Europa con la partecipazione gloriosa alla guerra, e alla diplomazia il diritto di porre la questione italiana al congresso di Parigi (1856). Il prestigio di Cavour presso gli esuli e gl'immigrati italiani raggiunse il punto culminante: il ralliement di Daniele Manin alla monarchia, la polemica antimurattiana d'un bel nucleo dell'emigrazione napoletana, la fondazione della Società nazionale per opera del La Farina segnarono tra gl'Italiani la genesi d'un partito tendenzialmente unitario monarchico sabaudo: tendenzialmente, perché il fallimento dei programmi così netti e definiti di Mazzini e Gioberti aveva prodotto negl'Italiani da un lato la sfiducia nei programmi, dall'altro la fede nell'azione generatrice essa stessa di programmi ben più sodi di quelli escogitati a priori. E Cavour pose le sue idee a contatto con quelle dei patrioti italiani e compì la sua formazione etico-politica. Ma l'azione diplomatica franco-inglese, derivata dal Congresso di Parigi, si arenò riguardo alla questione italiana nella questione romana, che Napoleone III non poteva condurre fino in fondo per non rovesciare il suo sistema di politica ecclesiastica, e nella questione napoletana, che neppure poteva risolversi radicalmente senza porre la Francia di fronte alla Russia, protettrice dei Borboni, o all'Inghilterra, ostile ai Murat. Mazzini credette essere allora venuto il momento di contrattaccare il Cavour su tutti i fronti e seguirono la spedizione di Pisacane e un nuovo tentativo di rivolta repubblicana a Genova. Seguì anche il gesto di F. Orsini. La spedizione Pisacane fallì, il moto genovese fu represso, il gesto dell'Orsini produsse in Piemonte severe misure contro la stampa repubblicana e segnò la fine dell'Italia del popolo e della Ragione. Ben più grave fu parallelamente il pericolo clericale. Il culto di molti dei vecchi valori subalpini, l'aderenza ai problemi concreti, la devozione alla monarchia rendevano il clericalismo ben più pericoloso del mazzinianismo in Piemonte. Dapprima i clericali non riconobbero il regime liberale e tentarono indurre il re nella crisi del 1855 a una politica reazionaria, ma, battuti nelle anticamere di Sua Maestà, ben disciplinati e ben condotti dal Solaro della Margherita diedero la scalata alla camera dei deputati nelle elezioni del 1857. Il Cavour arginò gagliardamente il pericolo, ma un gran numero di clericali andò alla camera. I liberali ne trassero buoni auspici: i loro più potenti nemici s'inserivano nelle istituzioni del regime, riconoscendole implicitamente. Il convegno di Plombières (21 luglio 1858) e la guerra del 1859 parvero poter realizzare anche le aspirazioni nazionali del Cavour, già vittorioso dei nemici interni; ma Napoleone lo abbandonò a Villafranca, e il Cavour, preso dallo sconforto, abbandonò il potere. Ebbe allora la consolazione di vedere una classe dirigente da lui educata operare con meravigliosa intelligenza e porre le basi del nuovo regno d'Italia con la preparazione dell'annessione dell'Italia centrale e la creazione d'un sistema amministrativo accentratore. Per risolvere il nocciolo diplomatico dei problemi ci voleva ancora però la mano e il coraggio civile del maestro: il Rattazzi, magnifico tecnico e abile amministratore, non aveva l'energia morale di annettere l'Italia centrale e cedere Nizza e Savoia alla Francia. L'ebbe il Cavour, che, ritornato al potere (gennaio 1860), condusse la questione in porto nel marzo 1860. La cessione di Nizza urtò le suscettibilità generose del patriottismo italiano, impersonate in Garibaldi, e il Cavour dovette lasciar compiere la spedizione dei Mille per distrarre l'Eroe da Nizza. Ma con la spedizione delle Marche poté controbilanciare il prestigio delle forze rivoluzionarie italiane, alle quali tolse anche il privilegio di agitare il mito di Roma, facendola proclamare capitale d'Italia (marzo 1861). La storia degli stati sabaudi si scioglieva così in quella d'Italia.

Bibl.: Guide di archivî: N. Bianchi, Le carte degli archivi piemontesi politici, amministrativi, giudiziari, finanziari, comunali, ecclesiastici e di enti morali, Roma-Firenze-Torino 1881; id., Le materie politiche relative all'estero degli archivi di stato piemontesi, Bologna 1876; M. Bruchet, Répertoire des sources manuscrites de l'histoire de Savoie, Parigi 1935; R. Latouche, Notice sur les archives départementales des Alpes Maritimes, Nizza 1924; id., Répertoire numérique du fonds sarde (1814-1860) des Archives des Alpes Maritimes, ivi 1930. Bibliografie: A. Manno, Bibliografia storica degli stati della monarchia di Savoia, Torino 1884-1913 (voll. 9; lasciata incompleta, la pubblicazione è stata ripresa recentemente sulle schede del Manno, da M. Zucchi col vol. X, ivi 1934: è utile sopra tutto per la suddivisione topografica). Dal 1896, anno della sua fondazione, il Bollettino storico bibliografico subalpino ha pubblicato una Bibliografia sistematica della regione, e in cui ha parte notevole la storia sabauda, curata prima da F. Gabotto, poi da G. Borghezio, del quale ultimo è uscito il I vol. della Bibliografia piemontese-ligure, Torino 1935, per gli anni 1927-1934. Repertorî nobiliari indispensabili per la storia sabauda: A. E. De Ioras e F. C. De Marechal, Armoirial et Nobiliaire de l'ancient duché de Savoie, Grenoble 1843 segg.; A. Manno, Dizionario feudale, Firenze 1895; id., Il patriziato subalpino, ivi 1895. Raccolte di editti: G. B. Borelli, Editti antichi e nuovi, Torino 1681; C. Duboin e F. Amato, Raccolta per ordine di materie delle leggi, provvidenze, editti, manifesti, pubblicati dal principio dell'anno 1681 fino all'8 dicembre 1798, ivi 1818-65, voll. 30 più 1 di indici; di trattati diplomatici: Traités publics de la R. Maison de Savoie avec les puissances étrangères depuis la paix de Cateau-Cambrésis jusqu'à nos jours, a cura di G. Solaro della Margherita, ivi 1836-61, voll. 8; di documenti diplomatici, Relazioni diplomatiche della monarchia di Savoia dalla prima alla seconda restaurazione (1559-1814), pubblicate da A. Manno, E. Ferrero e P. Vayra, ivi 1886-91, voll. 3 (non proseguito: i volumi pubblicati comprendono soltanto le relazioni con la Francia dal 1713 al (1719); di atti parlamentari: Parlamento sabaudo, a cura di A. Tallone, in Atti delle Assemblee costituzionali italiane, Bologna 1928 segg.; cfr. inoltre: E. Alberi, Le relazioni degli ambasciatori veneti al Senato durante il secolo decimosesto, Firenze 1839-63, s. 2ª, V; N. Barozzi e G. Berchet, Le relazioni degli stati europei lette al Senato dagli ambasciatori veneti nel secolo decimosettimo, Venezia 1856-78, s. 3ª, I. Opere d'insieme sui singoli regni: un primo rapido colpo d'occhio nel brillante saggio di G. Volpe, Italia e Savoia, ripubblicato in Momenti di storia italiana, Firenze 1926; cfr. anche, per l'età moderna soltanto tra Emanuele Filiberto e la rivoluzione francese, E. Masi, La monarchia di Savoia, Firenze 1895. Nel Risorgimento, una serie di opere fondamentali pose le basi della storia sabauda: L. Cibrario, Storia della monarchia di Savoia, voll. 3, Torino 1840-44; E. Ricotti, Storia della monarchia piemontese, voll. 6, Firenze 1861-69; D. Carutti, Storia del regno di Vittorio Amedeo II, Torino 1856; id., Storia del regno di Carlo Emanuele III, voll. 2, ivi 1859; N. Bianchi, Storia della monarchia piemontese dal 1773 al 1861, voll. 4, ivi 1877-85 (rimasta incompleta: giunge fino al 1814); D. Carutti, Storia della corte di Savoia durante la rivoluzione e l'impero francese, voll. 2, ivi 1892. I risultati delle più recenti indagini sono riassunti nei singoli volumi della Collana storica sabauda: F. Gabotto, Storia del Piemonte nella prima metà del secolo XIV, Torino 1894; id., Lo Stato Sabaudo da Amedeo VIII ad Emanuele Filiberto, ivi 1892-95. L'unico grande lavoro d'insieme recente di storia sabauda si ha nell'opera di C. W. P. Orton, The early History of the House of Savoy (1000-1233), Cambridge 1912. Per la storia dell'occupazione francese nel Cinquecento, L. Romier, Les institutions françaises en Piémont sous Henri II, in Revue historique, CVI (1911), pp. 1-26; id., Les origines politiques des guerres de religion, II, Parigi 1914; id., Le royaume de Catherine de Médicis, ivi 1923. Aspetti della storia sabauda: istituzioni: L. Cibrario, Origini e progresso delle istituzioni della monarchia di Savoia, voll. 2, Torino 1854-55; legislazione: F. Sclopis, Storia dell'antica legislazione del Piemonte, ivi 1833; id., Storia della legislazione del èiemonte, ivi 1833; id., Storia della legislazione negli stati del re di Sardegna dal 1814 al 1847, ivi 1859; rapporti Stato-Chiesa: P. C. Boggio, La Chiesa e lo Stato in Piemonte, ivi 1854; T. Chiuso, La chiesa in Piemonte dal 1797 ai giorni nostri, voll. 5, ivi 1887-1904; per i Valdesi, v. valdesi; parlamenti antichi e statuto moderno: F. Sclopis, Considerazioni storiche intorno alle antiche assemblee rappresentative del Piemonte e della Savoia, ivi 1878; A. Brofferio, Storia del Parlamento subalpino, voll. 6, Milano e Venezia 1865-70; D. Zanichelli, Lo statuto di Carlo Alberto, Milano 1898; A. Colombo, Dalle riforme allo statuto di Carlo Alberto, Casale 1924; G. Maranini, Le origini dello statuto albertino, Firenze 1925; storia economico-finanziaria: L. Einaudi, Le entrate pubbliche dello stato sabaudo durante la guerra di successione di Spagna, Torino 1907; id., La finanza sabauda all'aprirsi del secolo XVIII e durante la guerra di successione spagnola, ivi 1908; G. Prato, Il costo della guerra di successione spagnola e le opere pubbliche in Piemonte 1700 al 1713, ivi 1907; id., La vita economica in Piemonte a mezzo il sec. XVIII, ivi 1908; id., L'evoluzione agricola nel sec. XVIII e le cause economiche dei moti del 1792-1798 in Piemonte, in Memorie Accademia scienze Torino, s. 2ª, LX, ivi 1909, pp. 33-106; id., Fatti e dottrine economiche alla vigilia del 1848, in Biblioteca di storia it. recente, IX (1921), pp. 133-484; A. Fossati, Saggi di politica economica carlo-albertina, ivi 1930; politica scolastica: T. Vallauri, Storia delle università degli studî del Piemonte, ivi 1875; storia diplomatica: D. Carutti, Storia della diplomazia della corte di Savoia dal 1494 al 1773, voll. 4, ivi 1875-80; N. Bianchi, Storia documentata della diplomazia europea in Italia dall'anno 1814 al 1861, voll. 8, ivi 1865-72; storia militare e navale: A. Saluzzo, Histoire militaire du Piémont, voll. 3, 2ª ed., ivi 1859 (giunge fino al 1742); F. Pinelli, Storia militare del Piemonte, in continuazione di quella del Saluzzo, voll. 3, ivi 1854; N. Brancaccio, L'esercito del vecchio Piemonte. Gli ordinamenti, parte 1ª: Dal 1560 al 1814, Roma 1923; parte 2ª: Dal 1814 al 1859, ivi 1925; E. Prasca, La marina da guerra di casa Savoia dalle sue origini in poi, ivi 1892; storia del pensiero politico: G. Gentile, L'eredità di V. Alfieri, Venezia 1926; P. Gobetti, Risorgimento senza eroi, Torino 1926; C. Calcaterra, Il nostro imminente Risorgimento, ivi 1935; storia dei movimenti politici piemontesi del Risorgimento: C. Torta, La rivoluzione piemontese nel 1821, Milano 1908; A. Anzilotti, Gioberti, Firenze 1922; storia del giornalismo moderno in Piemonte: F. Predari, I primi vagiti della libertà italiana in Piemonte, Milano 1861; E. Passamonti, Il giornalismo giobertiano in Torino nel 1847-48, ivi 1914. Per i singoli stati sabaudi, v. genova; nizza; piemonte; sardegna. Per maggiori ragguagli bibliografici, v. italia: Storia.