SAVOIA AOSTA, Amedeo di, duca d'Aosta

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 91 (2018)

SAVOIA AOSTA, Amedeo di, duca d'Aosta

Nicola Labanca

SAVOIA AOSTA, Amedeo di, duca d’Aosta. – Amedeo Umberto Lorenzo Marco Paolo Isabella Luigi Filippo Maria Giuseppe Giovanni di Savoia nacque il 21 ottobre 1898 a Torino.

I suoi genitori, sposatisi tre anni prima, erano Emanuele Filiberto di Savoia, duca d’Aosta (figlio di Amedeo, re di Spagna tra il 1871 e il 1873, e di Maria Vittoria Dal Pozzo della Cisterna) ed Elena – propr. Hélène-Louise-Françoise-Henriette – d’Orléans (figlia di Louis-Philippe-Albert d’Orléans, conte di Parigi ed erede al trono di Francia tra il 1842 e il 1848, e della cugina di questi, María Isabel d’Orléans, infanta di Spagna).

Come figlio primogenito appartenente a un ramo cadetto (i Savoia Aosta) della famiglia regnante in Italia, Amedeo avrebbe avuto un proprio ruolo dinastico solo nel caso in cui il ramo principale (i Savoia Carignano) fosse rimasto privo (com’era negli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento) di un erede al trono maschio; qualunque possibile speculazione in tal senso fu però messa a tacere dalla nascita, nel settembre 1904, di Umberto di Savoia (il futuro Umberto II, il ‘re di maggio’). L’anno successivo, gli Aosta di Emanuele Filiberto traslocarono a Napoli – nel palazzo reale di Capodimonte –, quindi lontano da Torino e Roma, ovvero dalla culla della tradizione sabauda e dal centro politico della nazione.

Sin da ragazzo Amedeo crebbe in un ambiente meno rigido e soffocante di quello della corte sabauda, nonché culturalmente più aperto, grazie al profilo internazionale della madre. Si mise in evidenza per un carattere spigliato, dinamico se non proprio irrequieto, poco rispettoso delle rigide regole proprie della classe a cui apparteneva. Fu forse anche per questo che nel 1907, all’età di nove anni, fu inviato in un collegio di Londra, il St. Andrew, dove apprese a ubbidire, ma riuscì anche a formarsi una personalità indipendente; imparò inoltre a parlare in modo fluente la lingua inglese, cosa inconsueta a quel tempo non solo negli ambienti della corte sabauda ma più in generale nella classe dirigente italiana.

Una formazione militare era a quel tempo normale per un principe di casa regnante, pur se di ramo cadetto, per cui, una volta tornato in Italia, nel 1913 Amedeo – che in quegli anni, in quanto erede del ducato d’Aosta, aveva il titolo di duca delle Puglie – fu iscritto alla Scuola militare della Nunziatella, a Napoli. Per tradizione, se il figlio del re serviva in fanteria, il primogenito degli Aosta era destinato all’artiglieria.

Il 24 maggio 1915 l’Italia entrò in guerra. Il 2 giugno Amedeo, non ancora diciassettenne, fece domanda di arruolamento come soldato volontario; fu assegnato al reggimento artiglieria a cavallo (detto ‘voloire’, ‘volante’ in dialetto piemontese), e quattro giorni dopo era già in zona di guerra. Per due anni e mezzo si trovò sulla linea del fronte, nell’altopiano del Carso (monti Santo, Sabotino, Vodice, Hermada) e in quello – in generale più tranquillo dal punto di vista bellico – di Asiago (Val d’Astico, Monte Cengio); infine – dopo la rotta di Caporetto dell’ottobre-novembre 1917 – venne spostato in una zona più sicura, presso il comando dell’artiglieria del XXVII corpo d’armata, che si trovava nelle retrovie.

Nel corso del conflitto Amedeo conobbe una rapida ascesa di grado: nel 1915 passò in un solo semestre prima da soldato volontario a caporale (agosto), poi ad aspirante ufficiale (ottobre), infine a sottotenente in servizio permanente effettivo ‘per merito di guerra’ (dicembre); nel 1916 venne nominato capitano, di nuovo ‘per merito di guerra’. Guadagnò una medaglia di bronzo e una d’argento. Ma soprattutto, quando si trovava sul fronte colpì la sua tendenza, poco ‘gerarchica’, a stare con i suoi uomini del 34° reggimento di artiglieria da campagna, a mangiare assieme a loro, a partecipare con loro alle durezze della vita di trincea: insomma a condividere e non solo a comandare. Era un atteggiamento inconsueto per un ufficiale italiano di allora, e ancor più per un componente della casa regnante. Tutto ciò iniziò a creare attorno a lui un alone di leggenda.

Amedeo lasciò il teatro delle operazioni solo il 6 settembre 1919, quando i combattimenti erano ormai finiti da quasi un anno; fu quindi fra gli ultimi a essere smobilitato. Fu, quella, solo la prima delle ragioni che lo tennero lontano dal clima infuocato del dopoguerra. Il suo temperamento irrequieto, lontano dalle mondanità e poco amante delle pompe reali, non gli permetteva di restare fermo a lungo. Affascinato da tempo dai racconti dello zio Luigi – duca degli Abruzzi, ma soprattutto esploratore africano e imprenditore coloniale –, a partire dall’autunno del 1919 lo accompagnò in un lungo viaggio in Somalia. In quella colonia, e più in generale in Africa, Amedeo vedeva una possibilità di vita esotica e una frontiera di libertà (bianca) lontana dalle formalità europee e dai drammi della guerra.

Tornò in Italia nell’ottobre del 1920; a quasi ventidue anni, pur con alle spalle esperienze diverse – che lo avrebbero segnato per la vita –, non aveva ancora ottenuto la maturità scolastica. A questo fine si recò a Palermo, dove nel 1921 ottenne la licenza liceale. Proseguì poi anche gli studi militari, presso l’Accademia militare di Torino, città che amava e a partire dalla quale poté praticare alcune sue passioni, fra cui l’alpinismo, scalando, ad esempio, il Cervino e la Becca di Grain.

Scomparve quindi per più di un anno, dall’ottobre 1921 al gennaio 1923. Si seppe poi che aveva soggiornato nel Congo belga sotto una falsa identità (quella di Amedeo della Cisterna, dal cognome della nonna paterna) e come semplice lavoratore, in un’azienda di proprietà di un imprenditore inglese, conoscente della madre. Fu, dopo i combattimenti al fronte e dopo il viaggio in Somalia, un’ulteriore esperienza formativa per Amedeo, di certo assai inconsueta per un principe europeo.

Tornato di nuovo in Italia, si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza di Palermo e si laureò, piuttosto rapidamente, con una tesi in diritto coloniale, I concetti informatori dei rapporti giuridici fra gli Stati moderni e le popolazioni indigene delle loro colonie. Nella sua dissertazione, presentata il 4 dicembre 1924, auspicò che si creasse «una solidarietà di vita e di opere, un intensificarsi di cooperazione e di mutualità fra gli elementi sociali» e che l’opera di colonizzazione si risolvesse in un «organo di progresso, educando gli indigeni a bisogni sempre più elevati», dichiarandosi per «la negazione dell’asservimento degli indigeni e dello sfruttamento egoistico del loro territorio».

Tra l’ottobre del 1925 e il gennaio del 1931 Amedeo prese parte, con il grado di tenente colonnello, alla fase finale delle operazioni di ‘riconquista’ della Libia da parte delle truppe italiane (nell’ottobre 1912 – quando, dopo la guerra contro la Turchia, il trattato di Losanna aveva assegnato il Paese all’Italia – solo una parte del Paese era effettivamente occupata). In quegli anni Amedeo alternò semestri sul teatro di operazione e (a partire dall’aprile 1926) semestri di presenza alla Scuola di guerra di Torino (era intanto passato dall’artiglieria alla fanteria), allo scopo di completare gli studi militari, indispensabili per ulteriori avanzamenti di carriera. In Libia venne assegnato ai reparti indigeni ‘meharisti’ (cioè montati su dromedari) e operò fra Buerat el-Hsun, nella Gran Sirte, a Mizda, nel Fezzan, da Zella a Nufilia, da Tagrift a Murzuk, sino a partecipare all’occupazione dell’oasi di Cufra (gennaio 1931); fu grazie a queste operazioni che guadagnò l’appellativo di ‘principe sahariano’.

Negli stessi anni frenetici di impegno, non pago di essere buon cavaliere, nuotatore, schermitore, alpinista ecc., Amedeo si dedicò anche al volo. Se nel luglio 1926 già aveva ottenuto il brevetto di pilota, fra il 1928 e il 1931 ottenne le specializzazioni come pilota di aerei militari di vario tipo (Fiat CR.20, 30 e 32, IMAM Ro.1, 37 e 41, Savoia-Marchetti SM.79 e 81, Piaggio P.32, Caproni AP.1 e altri ancora). Artigliere, soldato coloniale, adesso pilota, Amedeo poteva rappresentare in quegli anni l’icona di un vitalismo modernista e militare.

Fu in questo periodo di alternanza fra la Libia e l’Italia che Amedeo conobbe la cugina Anna d’Orléans (nata nel 1926), con la quale si sposò a Napoli il 5 novembre 1927 e dalla quale avrebbe avuto le figlie Margherita (1930) e Maria Cristina (1933).

Intanto, dopo essere stato promosso colonnello (1928), nel marzo 1929 terminò i suoi studi alla Scuola di guerra di Torino – iniziati, come detto, nell’aprile 1926 –, che volle completare (una sua vecchia passione) con corsi alla Scuola di guerra marittima (1929) e all’Istituto di cultura superiore aeronautica (1932).

Nel gennaio 1931 – stroncata la resistenza libica nella regione della Cirenaica – anche per Amedeo finì, come detto, il periodo delle operazioni in Libia. Tornò definitivamente in Italia, dove dal 12 febbraio fu al comando del 23° reggimento artiglieria da campagna, avente sede a Trieste; lo si volle infatti tenere lontano tanto dai Savoia quanto dal regime. Pochi mesi più tardi, il 4 luglio, morì suo padre, Emanuele Filiberto, e Amedeo ereditò il titolo di duca d’Aosta.

A Trieste Amedeo si stabilì, insieme alla moglie, nel castello di Miramare, dove risiedette stabilmente per più di sei anni, dall’aprile 1931 al novembre 1937. Furono anni di quiete borghese, che però gli servirono per praticare la passione del volo. Dalla fanteria ottenne infatti di passare all’aeronautica, allora diretta da Italo Balbo, che il 2 maggio 1932 gli affidò il comando di uno stormo da ricognizione terrestre (il 21°) e poi da caccia, e negli anni seguenti gli permise di effettuare una rapidissima carriera (generale di brigata comandante la III brigata aerea nel 1934, generale di divisione aerea comandante la I divisione Aquila di Gorizia nel 1936, e infine, nel dicembre del 1937, generale di squadra aerea). Di questo periodo triestino si ricorda una sua visita in Germania alla fine del 1936, nel corso della quale incontrò Hermann Goering e Adolf Hitler; a un’esternazione di quest’ultimo sui programmi espansionistici del Reich e del regime nazista, sembra abbia risposto ambiguamente che secondo lui il fascismo e il nazismo non erano merci da esportazione.

Mentre Amedeo volava, nel 1935-36 il regime fascista aveva occupato l’Etiopia e ‘rifondato’ l’Impero. A metà del 1937 Benito Mussolini giunse alla conclusione di dover sostituire il generale Rodolfo Graziani nell’incarico di governatore generale e viceré dell’Etiopia. Ma con chi? Chi poteva in Italia fare il viceré?

Probabilmente all’interno del ministero delle Colonie nacque l’idea di chiedere al duca d’Aosta di rendersi disponibile per l’incarico. I vari pretendenti alla carica, si pensava, non avrebbero potuto opporsi alla nomina di un componente della famiglia regnante. Inoltre il suo nome poteva andar bene anche a chi non voleva che in Etiopia cambiasse niente, poiché si supponeva che Amedeo – per carattere e per mancanza di formazione specifica – si sarebbe limitato a fare il ‘re travicello’. Come scrisse un suo biografo: «Come se la sarebbe cavata il Duca d’Aosta, bravo soldato sia pure, simpatico giovinotto, ma non esperto in affari politici e tanto meno amministrativi?» (Valori, in Amedeo duca d’Aosta, 1954, p. 59). Amedeo, cosa per certi versi sorprendente, accettò. Prevalse in lui, forse, la nota passione per l’Africa, anche se la sua assoluta mancanza di esperienza dirigenziale e amministrativa lo rendeva oggettivamente ostaggio della burocrazia coloniale e del governo di Roma.

Un’intelligente propaganda, che aveva alcune basi nella realtà, tese immediatamente a distinguere il passato di Graziani dal presente di Amedeo, presentato come epitome del buon padre coloniale, sollecito sostenitore degli interessi dei sudditi indigeni: non v’è dubbio che molte delle intenzioni del nuovo viceré andavano in questo senso, ma la loro concreta applicazione dev’essere valutata con attenzione dallo storico.

In alcuni punti Amedeo seppe imporsi: ad esempio congedando definitivamente Graziani, che avrebbe voluto rimanere con la carica di comandante supremo delle forze armate dell’Africa orientale. Invece in altri punti non poté (o non seppe, o non volle) imporsi. Non vi riuscì, ad esempio, quando Roma gli inviò, proprio per la carica di comandante militare, il generale Luigi Cavallero, che, come Amedeo poté constatare, compiva spesso scelte diverse dalle sue. Per certi aspetti, Amedeo fu aiutato dalla prosecuzione dell’enorme flusso di finanziamenti che il regime continuò a indirizzare, per motivi di prestigio, verso la nuova colonia. Ma certo era difficile passare dalla politica di dominio diretto ed esclusivo da parte degli italiani voluta da Mussolini e da Graziani alla politica di collaborazione paternalistica che Amedeo aveva sognato nella sua tesi di laurea, e che pure per certi versi cercò di mettere in pratica. Su alcuni punti, infine, almeno a quanto oggi è noto, Amedeo semplicemente tacque: fu infatti proprio durante il suo periodo di governo che l’Italia fascista inaugurò la legislazione razziale coloniale, decretata (com’è noto) l’anno precedente a quello che vide il regime avviare la legislazione antisemita.

In realtà Amedeo fu sostanzialmente una vittima, sia pur partecipe, di quella politica del regime che accettando la carica di viceré aveva – forse generosamente e ingenuamente – pensato di poter cambiare. Insediatosi come governatore generale e viceré d’Etiopia il 21 dicembre 1937 – quando già da oltre un anno il regime si era formalmente legato al Reich nell’asse Roma-Berlino –, Amedeo assistette con crescente preoccupazione alla deriva che portava l’Europa in guerra.

Accadde esattamente ciò che aveva temuto. Il 10 giugno 1940 l’Italia fascista entrò in guerra a fianco di Hitler; lo stesso giorno Amedeo venne nominato addirittura generale designato d’armata aerea. Dopo alcuni (ingannevoli) primi successi locali italiani, l’Africa orientale fu il primo territorio attaccato dalle forze del Commonwealth britannico, e il primo lembo di suolo ‘italiano’ (coloniale) a essere perso, alla fine del novembre 1941. Nella disfatta, attorno ad Amedeo fu cucito l’alone di eroe: ‘l’eroe dell’Amba Alagi’ (il massiccio montano dell’Etiopia settentrionale dove resistette, accerchiato con i suoi uomini da soverchianti forze britanniche, per quattro settimane, nell’aprile-maggio 1941).

In precedenza Amedeo aveva compiuto un’altra scelta, a suo modo eroica ma anche tragica e meno nota. A quanto pare, il generale Gustavo Pesenti – comandante del settore del fiume Giuba (al confine con la colonia britannica del Kenya) – nel dicembre del 1940 avrebbe chiesto ad Amedeo di ammettere l’impossibilità di una vittoria militare italiana in Africa e di proporre quindi ai britannici una pace separata che sola, secondo lui, avrebbe salvato l’Impero – e forse l’Italia – da una guerra (Del Boca, 1982, rist. 2001, p. 392). Amedeo avrebbe rifiutato: non poteva pensare di tradire il suo re e Mussolini con una scelta che non gli pareva adatta a un duca d’Aosta. Ciò detto, pur sapendo di non avere speranza alcuna di ricevere aiuti dall’Italia, Amedeo, assunto il comando delle forze armate della colonia, dopo il citato, breve periodo di limitate offensive, comandò la più stretta difensiva. Battute ovunque le sue truppe, ordinò ai pochi uomini rimasti di effettuare una difesa estrema in due ‘ridotti’, a Gondar e all’Amba Alagi, nel tentativo di impegnare il maggior numero possibile di forze avversarie e di impedire che fossero portate sull’altro fronte africano dell’Italia fascista, quello fra la Libia e l’Egitto. La vittoria britannica in Africa orientale era data per scontata, ma si cercava almeno di rallentarla. Scarsa soddisfazione gli diede intanto la promozione a generale d’armata, il 12 febbraio 1941. L’Amba Alagi cadde solo il 18 maggio 1941; dopo aver rifiutato più volte la resa, alla fine Amedeo l’accettò, ma ottenne dagli avversari l’onore delle armi (e dopo la resa rifiutò di fuggire, in occasione di quello che forse fu un momento di distrazione dei suoi catturatori), mentre il ridotto di Gondar, comandato dal generale Guglielmo Nasi, cadde solo in novembre. A quel punto, anche formalmente l’Africa orientale era persa.

Come già per i soldati dell’Africa orientale, e per non pochi civili, anche per Amedeo si aprirono le porte dei campi di prigionia. Egli era ora un ostaggio importante in mano al governo di Londra, dove pure qualcuno cominciò a illudersi di poterlo utilizzare in futuro come sostituto del re Vittorio Emanuele III. La sua non fu una prigionia dorata, e Amedeo rimase – pur se in una casetta tutta per lui – nel campo di Donyo Sabouk in Kenya, assieme ad altri prigionieri italiani, condividendone non poche sofferenze e disagi.

Purtroppo la zona del campo era malarica e questo favorì il reinsorgere in lui di questa malattia – contratta in precedenza –, combinata con il tifo. Assieme alle molte privazioni connaturate alla prigionia, essa creò complicazioni e un repentino aggravamento del quadro clinico che, dopo un ricovero forse non tempestivo (e che comunque, anche se lo fosse stato, difficilmente avrebbe potuto mutare il decorso generale), il 3 marzo 1942 portò alla morte il nemmeno quarantaquattrenne Amedeo di Savoia. Fu sepolto nel cimitero militare italiano di Nyeri, in Kenya, accanto ai suoi soldati.

La morte di un principe della casa regnante, sia pure di un ramo cadetto, non era vicenda da passare sotto silenzio. La propaganda del regime accusò la Gran Bretagna di barbarie, la pubblicistica militare incensò ‘l’eroe dell’Amba Alagi’, e i circoli più vicini agli Aosta – e gli ambienti più sensibili al mito coloniale – misero da parte l’icona (guerresca ed esotica) del ‘principe sahariano’ per porre l’accento su quella del colonialista moderato, ‘buono’. Come in tutti i miti, anche in questo c’erano aspetti veri, ma nel complesso si trattava di un mito falso, o falsificabile: in fin dei conti, Amedeo aveva partecipato alle campagne di riconquista della Libia, aveva aiutato il fascismo accettando la carica di viceré di Etiopia, aveva taciuto sulla legislazione razzista coloniale, e non aveva voluto passare dalla parte delle potenze antifasciste, decidendo di combattere sino in fondo la guerra promossa dal fascismo.

Scrisse di lui un biografo parole che dovrebbero essere meditate: «Il duca Amedeo non aveva un temperamento politico; egli era essenzialmente un uomo d’azione. Nel fascismo egli vide, come tanti altri, il lato patriottico, il mezzo per dare al Paese una disciplina che ne facesse un blocco d’un ideale di grandezza. A tale scopo appariva ragionevole sacrificare anche un poco di libertà» (Valori, in Villa Santa et al., 1954, p. 99).

Certo, aveva compiuto molte delle sue scelte conservando un profilo autonomo, aperto, inconsueto per un Savoia, e per molti versi irriducibile al regime per il quale poi sino alla fine combatté: in questo sta il suo dramma personale, la tragicità della sua vicenda. Una vicenda che per essere conosciuta per intero, però, dovrebbe essere studiata sulle fonti originali di Casa Savoia Aosta, e in particolare sul diario che da più parti si dice Amedeo abbia tenuto, sin da giovanissimo, praticamente per tutta la vita: testo di cui sono state pubblicate alcune pagine, ma in sedi né scientifiche né affidabili. Il diario potrebbe forse trovarsi negli archivi dei suoi eredi, i quali – se questa ipotesi è giusta – sino a oggi non l’hanno mai divulgato, agendo quindi – se, ripetiamo, tale ipotesi fosse confermata – come i principali nemici della memoria e di una giusta considerazione del loro avo.

Opere. Studi africani, Bologna 1942.

Fonti e Bibl.: S. Sandri, Il principe sahariano: S.A.R. Amedeo di Savoia-Aosta, Milano-Roma 1935; C.M. De Vecchi di Val Cismon, Amedeo di Savoia viceré d’Etiopia, Roma 1942; O. Vergani, Il Duca d’Aosta, Roma 1942; A. Berretta, Amedeo d’Aosta, Milano 1948; Id., Con Amedeo d’Aosta in Africa orientale italiana: in pace e in guerra, Milano 1952; A. Tosti, Vita eroica di Amedeo duca d’Aosta, Milano 1952; Il duca d’Aosta: 1898-1942, Roma 1952; N. Villa Santa et al., Amedeo duca d’Aosta, Roma 1954 (in partic. il saggio di A. Valori); A. Berretta, Amedeo d’Aosta: il prigioniero del Kenia. Il diario di Amba Alàgi, Milano 1956; Il principe soldato. La vita di Amedeo d’Aosta da Torino all’Amba Alagi, a cura di M. Malan, Roma 1963; E. De Leone, Amedeo di Savoia-Aosta. Ricordi e testimonianze, Varese s.d. [dopo il 1975]; A. Del Boca, Gli italiani in Africa orientale, III, La caduta dell’impero, Roma-Bari 1982, rist. 2001, ad ind.; G. Speroni, Amedeo duca d’Aosta. La resa dell’Amba Alagi e la morte in prigionia nei documenti segreti inglesi, Milano 1984, poi Amedeo duca d’Aosta. L’eroe dell’Amba Alagi, Milano 1998; E. Borra, Amedeo di Savoia. Terzo duca d’Aosta e viceré d’Etiopia, Milano 1985; A. Vascotto, 34° reggimento artiglieria da campagna. Il reggimento del principe Amedeo di Savoia duca d’Aosta: cenni storici, s.l. [Trieste] 1992; C. Albanese, La principessa beduina. L’avventurosa vita di Elena di Francia duchessa d’Aosta, Milano 2007; I. Fiorucci, Il duca d’Aosta. Amba Alagi 1941. Ricordi di Iago Fiorucci, a cura di P. Matucci, Firenze 2012.

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