RUSTICUS

Federiciana (2005)

Rusticus

Emanuele Conte

A prima vista il termine rusticus sembra usato nelle fonti del Duecento in senso assai ampio, a intendere ogni lavoratore della terra. Nella legislazione di Federico II, dalla quale ci si potrebbe aspettare un certo tecnicismo nell'uso delle parole, si menzionano i rustici soltanto nelle enumerazioni di diverse categorie sottoposte a pene graduate o a proibizioni particolari. Qui i rustici possono essere equiparati ai burgenses o collocati sotto di essi, oppure ancora essere identificati con gli angarii, i villici o i villani (Const. II, 32), e il glossatore duecentesco chiarisce che il rusticus, o villano che dir si voglia, è colui che abita nelle villae di campagna, così come il civis è colui che vive in civitatibus.

Per quanto generica, tuttavia, la denominazione di rusticus induce senza dubbio una valutazione dispregiativa: innanzitutto l'equiparazione linguistica a termini di contenuto tecnico come villanus o angarius rivela il collegamento spontaneo della condizione contadina con la dipendenza personale e con l'obbligo alla prestazione di opere periodiche più o meno gravose (angariae): così il commento di Andrea d'Isernia a un altro passo delle Constitutiones di Federico (Const. I, 8) osserva che non deve esser chiamato rusticus chi abita in campagna ma non esercita lavori vili come l'aratura: in tal caso sarebbe più corretto parlare piuttosto di un urbanus.

Se insomma i rustici non erano necessariamente ridotti in condizione servile, essi erano comunque considerati lo strato più basso della società. Il loro aspetto irsuto e trascurato, il colore bruno della carnagione, l'odore acre che emanavano sono riferiti da diverse fonti del Duecento, dalle quali traspare in certi casi il sospetto e il pregiudizio nei loro confronti (Freedman, 1999).

La loro vita si svolge scandita dal ritmo delle coltivazioni e della pastorizia. L'aratro e la zappa sono gli strumenti principali del lavoro agricolo, indispensabili durante la fase dell'aratura, mentre le diverse fasi delle coltivazioni impongono il ricorso ad altri strumenti specializzati per la cura delle onnipresenti vigne, degli olivi, degli alberi da frutto. Questi strumenti, come la falce e il forcone necessari nel periodo della mietitura, appartengono in genere al rustico e non al proprietario della terra, che pone a disposizione, invece, gli animali da lavoro e i recipienti per il vino e per l'olio.

Di regola il rustico non è proprietario della terra, ma la riceve in concessione per mezzo di contratti agrari diversi ma regolati quasi sempre dai tempi di crescita previsti per le varie colture; se si tratta di viti o di olivi, il coltivatore ha stipulato in molti casi un contratto di pastinatio, la cui durata è commisurata allo sviluppo delle piante: talvolta dodici anni, talvolta sei, oppure tre per le viti basse di Puglia. Il contratto obbliga naturalmente il contadino concessionario a corrispondere al proprietario della terra una quota considerevole dei prodotti, ma il loro trasporto al domicilio del dominus sembra essere sovente l'unica prestazione lavorativa cui questi rustici concessionari sono tenuti. Si tratta, per usare la terminologia di epoca sveva, di piccole corvées prestate ratione tenimenti, cioè in corrispettivo di una concessione di terra.

Ma gli obblighi di lavoro cui sono tenuti i rustici non sono sempre leggeri, né possono sempre considerarsi derivanti dal contratto agrario liberamente stipulato: in certi casi le corvées risultano assai gravose e con il tempo sembra che il loro numero vada crescendo. In generale, nell'età sveva la condizione dei rustici si aggrava: da una parte la crescita demografica rende meno preziosa la manodopera per i signori e per i rustici più ambita la possibilità di disporre di un piccolo appezzamento di terreno, anche a prezzo di corvées gravose e perpetue; dall'altra l'inasprirsi della fiscalità sveva nei confronti dei nobili li induce ad aggravare la loro pressione sui contadini. Così crescono gli obblighi cui il rustico è sottoposto.

Le difficili condizioni di vita dei rustici indussero in taluni casi i villani a cercare scampo dalla dominazione signorile rifugiandosi sotto la protezione del sovrano: in un atto del 1224 i villani dei casali di Sorrento si rivolsero alla Corona dicendosi "occupati" con la forza da parte dei signori laici ed ecclesiastici del luogo. La controversia che ne sorse non vide però i rustici come parte in causa, bensì oppose i signori di Sorrento al fisco regio: in discussione non era dunque la libertà astratta dei contadini, ma la loro dipendenza da un signore particolarmente benevolo com'era il sovrano. Il che non significa voler riproporre la figura altomedievale dei Königsfreien, cara alla storiografia tedesca (come ha ritenuto Panero, 1999, p. 303), ma interpretare i dati documentari alla luce delle osservazioni che soltanto qualche anno dopo la morte di Federico avanzava Marino da Caramanico. Al quale appunto sembrava che nel Regnum la protezione regia fosse sufficiente a tutelare l'indipendenza dei contadini liberi, mentre nell'Italia settentrionale i rustici erano costretti a commendarsi presso un potente per ottenere da lui protezione in cambio della prestazione di servizi.

Oltretutto la protezione regia poteva anche rappresentare l'esito di processi violenti in cui i rustici si coalizzavano contro i loro signori, riuscendo in qualche caso a sbarazzarsi del loro potere. È il caso ben noto dell'Aquila, la cui fondazione è ricondotta dalla cronaca cittadina alle vessazioni subite dai rustici sparsi nei territori della valle dell'Aterno. La loro rivolta, descritta come particolarmente sanguinosa, approda alla fondazione della città destinata a divenire la più importante della regione. Fin dall'inizio, informa il cronachista, i rustici si ponevano come obiettivo di "non volere signore se non la magestade" (Cronaca aquilana, 1907, p. 3), di liberarsi cioè del controllo signorile per rifugiarsi sotto la protezione diretta della Corona regia. Cosa che infatti ottennero, qualche anno più tardi, quando Corrado IV promulgò un diploma di fondazione della città che riconosceva la situazione di fatto e consentiva l'affrancazione dei rustici da tutti gli obblighi di natura servile dai quali erano stati gravati. Si tratta, insomma, di un bell'esempio di interpretazione meridionale dell'ampio movimento d'inurbamento delle popolazioni rurali, che nelle città dell'Italia settentrionale e di altre regioni d'Europa si recavano in città a respirarvi 'l'aria che rende liberi', come si diceva nelle città tedesche della fine del Medioevo.

Quest'aria era, nel Regnum, quella del demanio regio, ove il sovrano garantiva i diritti dei rustici, non inaspriva le condizioni di dipendenza, consentiva in certi casi, come all'Aquila, l'affrancazione a condizioni vantaggiose per chiunque fosse venuto ad abitare la nuova città.

fonti e bibliografia

Per il documento del 1224 cf. Historia diplomatica Friderici secundi, II, 1, pp. 378-383.

Per la vicenda dell'Aquila: Cronaca aquilana rimata di Buccio di Ranallo di Popplito di Aquila, a cura di V. De Bartholomaeis, Roma 1907.

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P. Freedman, Images of the Medieval Peasant, Stanford, Ca. 1999.

F. Panero, Schiavi, servi e villani nell'Italia medievale, Torino 1999.

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