RIVOLUZIONE

Enciclopedia Italiana - V Appendice (1994)

RIVOLUZIONE

Luciano Gallino

(XXIX, p. 498)

Nel senso politico-sociale il termine r. indica una trasformazione radicale dei rapporti sociali che formano la base di una determinata società o di uno dei suoi maggiori sottosistemi (la politica, l'economia, il sistema comunitario, la cultura), molto accelerata rispetto ai tempi giudicati normali del mutamento socioculturale e spesso unita a forme estese e prolungate di violenza interna ed esterna. Nella maggior parte dei casi una r., quali che siano le sue origini intrasistemiche, si accompagna, se non anzi s'identifica, con una drastica modificazione dell'ordinamento giuridico-costituzionale dello stato e con l'avvento al potere di una nuova classe o di una nuova élite politica. Per questo il termine si riferisce per lo più a fenomeni macroscopici di mutamento politico, anche quando assume specificazioni che connotano mutamenti estesi ad altri sistemi, in primo luogo alle strutture di classe (per es. ''r. sociale'').

È invalso peraltro l'uso di designare con l'espressione limitativa ''r. politica'' il subitaneo avvicendamento al potere di due diverse classi politiche, sia esso attuato o no con la forza (mentre la conquista violenta degli organi di governo da parte d'un piccolo gruppo di insorti viene piuttosto definita ''colpo di stato''), eventualmente seguito da un insieme pur rilevante di riforme dello stato, quando l'uno e le altre, per ampi che siano, lasciano immutate le fondamentali strutture socio-economiche d'una società. In questa prospettiva circoscritta può definirsi una r. politica anche l'insieme dei mutamenti intervenuti in Italia nel sistema dei partiti e nelle istituzioni negli anni Novanta. Un tipo di r. che può accompagnarsi vuoi a una r. sociale vuoi a una r. politica è la ''r. nazionale'', mediante la quale un popolo si libera dal dominio d'un altro stato formandone uno proprio ex novo.

Ogni r. verificatasi negli ultimi tre secoli si distingue per un suo specifico segno politico, che risulta evidente nelle dizioni ricorrenti di ''r. liberale'', ''r. democratica'', ''r. fascista'', ''r. socialista'', ''r. comunista''. Di nome o di fatto, ogni r. è condotta a favore di un progetto di società che privilegia determinati settori della società in cui essa si attua − classi sociali, gruppi etnici, élites economiche politiche o culturali, talora parti del territorio − mentre ne penalizza altri, contro progetti di società alternativi che hanno o avrebbero effetti contrari sulla distribuzione di risorse materiali e simboliche quali la ricchezza, il potere, il prestigio.

Quali che siano le condizioni che a essa preparano il terreno, una r. sociale, politica o nazionale (e a queste anzitutto si riferirà in questa sede il termine r., salvo diversa specificazione) non si verifica mai per cause spontanee, ma è promossa e guidata di regola da uno o più attori collettivi che ne definiscono altresì la natura e gli scopi. Perciò la determinazione stessa del concetto di r. presuppone che si tenga conto del punto di vista dei soggetti che vi hanno partecipato. Si danno infatti eventi che sia nel momento in cui accadono, sia in seguito, sono considerati rivoluzionari da certe forze sociali ma non da altre. L'avvento del fascismo in Italia nel 1922 e del nazionalsocialismo in Germania nel 1933, per es., vennero interpretati come eventi rivoluzionari dai movimenti sociali di destra che ne furono protagonisti, ma per le forze di sinistra essi costituirono piuttosto forme di controrivoluzione volte a impedire l'espansione a occidente della r. comunista iniziata in Russia nell'ottobre 1917.

Una r. introduce di proposito, o mira a introdurre, una discontinuità categorica nella società in cui si verifica; è un'azione intenzionalmente diretta a costruire con mezzi artificialmente congegnati una società diversa. Pertanto al concetto di r. è stato spesso contrapposto, dai critici liberali delle r., che paventano simili interventi ''costruttivisti'' scorgendo in essi una fonte di gravi rischi per le libertà fondamentali, quello di evoluzione socio-culturale come processo naturale e spontaneo di mutamento delle società.

Concetto e teoria delle r. rimangono a tutt'oggi indelebilmente contrassegnati dalla r. francese del 1789 e dalla r. russa dell'ottobre 1917, archetipo la prima delle r. borghesi o democratiche, la seconda delle r. socialiste o comuniste, sebbene ambedue abbiano avuto degli antecedenti sotto il profilo cronologico. È in esse infatti che si saldano con inusitata evidenza la presa violenta del potere, il radicale mutamento costituzionale, la pretesa di legittimità dei rivoluzionari, la trasformazione delle strutture di classe. Tuttavia l'analisi storica e sociologica delle decine di r. che si sono susseguite negli ultimi due secoli ha condotto a formulare una serie di ipotesi che nel mentre ambiscono a fornire una spiegazione generale dei fenomeni rivoluzionari pongono limiti alla credenza che una r. non è tale se non comprende tutti gli aspetti suaccennati, emersi nelle r. francese e russa.

Collocazione sistemica e diffusione intersistemica delle rivoluzioni. -Entro ciascuno dei sistemi sociali fondamentali, in quasi tutte le società moderne e contemporanee si sono verificate una o più rivoluzioni. La ''r. industriale'', introducendo in esso una spinta incessante all'autoinnovazione espansiva, ha trasformato il sistema economico prima dell'Inghilterra, all'incirca nel periodo 1780-1830, poi degli altri paesi occidentali, del Nord-America, infine del Giappone e di altri paesi dell'Asia orientale. A cavallo tra il 20° e il 21° secolo, l'integrazione di microelettronica, informatica, robotica, telecomunicazioni viene designata, ancora con riferimento al sistema economico, come ''r. tecnologica''. Le ''r. democratiche'' hanno introdotto nel sistema politico il suffragio universale, le libertà di parola, di movimento, di associazione, di fede religiosa, le Costituzioni che fissano limiti invalicabili ai diversi poteri dello stato. Il sistema culturale delle società europee e successivamente di molte altre nel mondo è stato cambiato alla radice, a partire dal 17° secolo, dalla ''r. scientifica'' fondata sul primato della matematica − la lingua in cui è scritto il ''libro della natura'' secondo Galilei −, dell'osservazione empirica, dell'esperimento: nel medesimo sistema si collocano anche le r. di natura religiosa, come per es. la ''r. islamica'' svoltasi in Iran nel 1978-79. Trasformazioni macroscopiche sono state indotte nel sistema delle comunità dalla ''r. urbana'', che in pochi decenni ha portato in molti paesi a concentrare in un solo vastissimo aggregato metropolitano fino a un terzo della popolazione, dianzi distribuita in migliaia di comunità di villaggio.

Tra le r. che si verificano in uno dei sistemi fondamentali d'una società e le r. che si verificano in altri sistemi sussistono complesse interrelazioni, sincroniche e diacroniche, le quali rendono ardua −a onta delle teorie della r. che assegnano con certezza la priorità all'uno o all'altro sistema, in specie a quello economico − la ricerca di un primum movens. Le r. borghesi del periodo 1789-1848 si possono configurare fra l'altro come la rivendicazione d'un maggior potere politico da parte di classi di imprenditori, finanzieri, mercanti europei che avevano già acquisito il dominio economico tramite la r. industriale; ma quest'ultima non avrebbe quasi certamente avuto luogo in quel tempo e in quei paesi senza la r. politica (culminata nella cosiddetta ''r. gloriosa'' del 1688-89) verificatasi in Inghilterra nel secolo precedente, che limitò drasticamente i poteri della corona e dei nobili. La r. tecnologica attualmente in corso è derivata da spinte primariamente economiche e militari, ma i suoi effetti stanno sconvolgendo il sistema educativo, le comunicazioni di massa, l'editoria, la ricerca scientifica, ovvero la totalità del sistema cultura.

Diffusamente intersistemiche sono le drastiche modificazioni della stratificazione sociale, ovvero della struttura dei rapporti di classe, che prendono il nome già menzionato di r. sociale. In essa una o più classi dianzi collocate al fondo della piramide della stratificazione in termini di potere, ricchezza e prestigio posseduti, ma più spesso un'élite politica che si propone come la loro avanguardia, puntano a raggiungere la cima della piramide stessa, scalzando le classi che vi si trovavano e spingendole a loro volta verso il fondo, quando non procedano ad annientarle come entità sociale e talora come entità fisica. In questo senso tipiche r. sociali sono state la r. francese del 1789, quando la borghesia subentrò alla nobiltà nel controllo dell'apparato statale; la r. cinese del 1911, quando i contadini insorti sotto la guida di Sun Yat-sen abbatterono il dominio dei latifondisti e della burocrazia imperiale; la r. russa del 1917, che inaugurò la dittatura del proletariato, ovvero del Partito comunista sovietico come sua avanguardia rivoluzionaria, su tutte le altre classi.

Come si è già notato, ciò che colloca categoricamente in una sfera a parte le r. sociali, le r. politiche, e le r. nazionali, rispetto alle r. industriali, scientifiche, culturali o altre, è il perseguimento consapevole di uno scopo, che è presente in somma misura nelle prime, e virtualmente assente nelle seconde. Della r. industriale del 1780-1830 si è detto che essa "avvenne", o che "crebbe come un albero", senza che nessuno l'avesse voluta o prevista; lo stesso si può dire della r. tecnologica dei giorni nostri. Invece qualsiasi r. sociale o politica o nazionale risulta da un'azione deliberata di ben determinati individui, gruppi, élites e classi sociali, orientata consapevolmente a uno scopo, sebbene questo nel corso della r. spesso muti.

Rivoluzione sociale, nazionale e internazionale. - Per r. nazionale si può intendere sia l'affrancamento d'un paese o d'un popolo, di solito per mezzo di una guerra o di un'insurrezione armata, da un dominio considerato straniero; sia la formazione o il ''risorgimento'' d'una nazione unitaria, su un territorio in precedenza suddiviso tra diversi potentati. Progenitrice delle r. nazionali nella prima accezione fu la r. americana (1763-87) che portò le colonie del Nord America all'indipendenza dalla Gran Bretagna, seguita di lì a poco dalla r. messicana volta ad affrancarsi dalla Spagna (1810-21). Numerose sono state le r. nazionali nel 20° secolo, avvenute sia tra Europa e Asia (Turchia, 1922), sia in Africa (Algeria, 1958) e nel Sud-Est asiatico (Vietnam, 1954 e seguenti). Nella seconda accezione un caso tipico di r. nazionale fu il processo di unificazione dell'Italia che si può datare a partire dal 1831, quando G. Mazzini fondò a Marsiglia la ''Giovine Italia'', ancor oggi considerata dai teorici delle r. il prototipo delle organizzazioni nazionali rivoluzionarie.

Dalle origini ai giorni nostri il concetto come la prassi di r. nazionale sono stati in conflitto su due fronti. Per taluni movimenti rivoluzionari (ma il conflitto è spesso intervenuto anche entro un medesimo movimento) la r. nazionale rivolta all'esterno dovrebbe coincidere con una r. sociale all'interno; di questo avviso furono tra i primi sia Mazzini sia L. Kossuth, eroe del primo moto d'indipendenza dell'Ungheria dall'Impero asburgico (aprile 1849). Per altri movimenti, al contrario, ne sia o no dichiarato l'intento, il potere politico deve rimanere saldamente nelle mani delle classi che già lo detenevano sotto il dominio straniero: di fatto così avvenne nella r. americana. Ambedue gli orientamenti si sono ripetutamente manifestati nelle r. intervenute in molti paesi nel corso del 19° e 20° secolo, sebbene nelle più recenti r. nazionali del periodo della decolonizzazione, dopo il 1950, in Africa come in Asia, sia stato il primo a prevalere. Tanto in Vietnam quanto in Algeria, per es., la r. contro il dominio francese (e successivamente, nel primo caso, contro l'intervento statunitense) s'identificò esplicitamente con la r. sociale.

Archetipo dell'identificazione di r. sociale e r. internazionale, quindi dell'avversione a far coincidere una r. sociale con i confini di una sola nazione, è stata la r. russa, dai moti del 1905 agli anni Venti. Nel numero del 1° gennaio 1905 un articolo dell'organo dei socialdemocratici russi, Iskra ("La scintilla"), formulava una previsione certa: "La rivoluzione russa sconvolgerà il mondo borghese". Subito dopo la rivoluzione d'Ottobre il programma per una r. sociale mondiale venne formalmente lanciato da Lenin con la fondazione della Terza Internazionale (Mosca 1919). Ma tra i nuovi dirigenti sovietici, passato il primo periodo della r., soltanto L. Trockij continuò a sostenere l'idea dell'impossibilità di realizzare una società socialista nel quadro di una singola nazione, tanto da provocare così facendo la propria fine politica. Lo stesso N. Lenin, e dopo la sua scomparsa (1924) I.V. Stalin, N.I. Bucharin, L.B. Kamenev, dinanzi alle difficoltà interne ed esterne della costruzione del comunismo ripiegarono ben presto sulla formula del ''socialismo in un solo paese''. Nonostante gli insuccessi della Terza Internazionale, sciolta nel 1943, molti movimenti e ideologi rivoluzionari del 20° secolo, specie nell'America latina, hanno continuato sino ad anni recenti ad affermare la necessità di combinare la r. sociale nei loro paesi con la r. mondiale, ovvero a scorgere in quest'ultima la premessa ineludibile o l'unica garanzia della prima.

Fattori delle rivoluzioni: situazione prerivoluzionaria e cause scatenanti. - Una r. è preceduta di solito da mutamenti di lungo periodo, sia strutturali che distributivi, dei sottosistemi fondamentali d'una società. Specialmente rilevanti per costituire una situazione prerivoluzionaria sono i mutamenti che vanno sotto il nome di ''modernizzazione'': questa modifica i rapporti preesistenti tra la politica e la cultura, tra il sistema produttivo e la scuola, tra la sfera della famiglia e la sfera del lavoro. Comunità tradizionali si disgregano, altre originali si formano, la popolazione si concentra nelle città, si attivano flussi migratori interni ed esterni. Gravi tensioni si creano tra le istituzioni e tra i diversi poteri dello stato. Simili mutamenti hanno due conseguenze complementari sulla stratificazione sociale: nuove classi chiedono maggior potere; classi abituate a una posizione d'inferiorità economica e civile si ribellano a essa.

Se in un determinato paese una nuova classe si forma, in base a mutamenti intervenuti nell'economia, nel sistema politico o in quello socioculturale, essa si troverà quasi certamente in una condizione di marcato squilibrio di status. Dei quattro fondamentali parametri che definiscono la posizione d'una classe nella società − ricchezza o reddito, potere politico, potere economico, prestigio − essa ne possiederà in elevata misura uno o due, ma non gli altri. Così gli imprenditori e i finanzieri francesi dei primi decenni dell'Ottocento possedevano ricchezza e potere economico, ma non potere politico e, a paragone dei nobili, scarso prestigio. I managers americani ed europei del Novecento di cui A.A. Berle e G.C. Means, già agli inizi degli anni Trenta, e più tardi J. Burnham portarono in luce l'inusitata autorità organizzativa e il considerevole prestigio, avevano una ricchezza limitata e poco potere politico. Gli intellettuali dei paesi in via di sviluppo godono sovente di un elevato prestigio, ma all'inizio della loro storia come classe a sé sono in genere ben lontani dalla ricchezza come dal potere politico ed economico. Prima o poi, pertanto, la nuova classe pretenderà dalla classe dominante una rappresentanza e un potere nel sistema politico che siano adeguati agli elementi già acquisiti del suo status, come la ricchezza, il prestigio o il potere economico. Se la rappresentanza le viene negata dalla classe dominante, o se quella che le viene concessa è giudicata inadeguata, essa chiederà in modo più diretto un maggior potere, e l'intensità del conflitto crescerà. Laddove la classe in ascesa trovi sbarrata dalla rigidità delle istituzioni in essere, o da intenzionali atti ostili della classe dominante, la via pacifica verso il potere, essa comincerà probabilmente a guardare con favore all'opzione rivoluzionaria.

La storia registra innumerevoli casi di classi sfruttate, socialmente reiette, sopravviventi a malapena in condizioni endemiche di povertà, che per generazioni e talora per secoli − è il caso dei contadini in Europa, in Asia, nell'America latina − rimangono affatto passive, salvo sporadici moti di protesta facilmente repressi dalle classi dominanti. Ma talora accade che una di esse, quasi all'improvviso, si configuri come un attore rivoluzionario. Vari fattori concorrono a motivare tale salto dall'inazione all'azione, dalla sopportazione passiva allo slancio in direzione d'una rivoluzione. I processi di modernizzazione rendono più visibile alle classi inferiori la ricchezza delle classi superiori e moltiplicano i contatti con i loro membri, favorendo così la comparazione tra opposte condizioni di vita. Se migliorano le comunicazioni e i trasporti, un maggior numero di individui prende coscienza della propria appartenenza di classe. Forme inedite di mobilitazione sociale e politica si dimostrano efficaci dove altre erano fallite. Nessuno di questi fattori è sufficiente a spingere i membri d'una data classe sociale ad ''assalire i palazzi del potere''; ma quando si combinino in una sequenza appropriata, il silenzio dei mansueti può far posto all'urlo incontenibile che precede le rivoluzioni.

Siano intrecciati o no ai processi di modernizzazione d'una società, allo sviluppo di una situazione prerivoluzionaria contribuiscono i processi di delegittimazione dell'autorità tradizionale, messi in opera da intellettuali, filosofi, letterati, giornalisti. Quasi certamente non vi sarebbe stata la r. francese senza l'opera di erosione dell'autorità politica della corona e insieme dell'autorità morale della Chiesa praticata nei decenni precedenti dal pensiero illuminista. Le aspre critiche rivolte ai governi in carica, allo stato, ai partiti tradizionali dal giornalismo e dall'editoria ideologica, spesso clandestina, svolsero un ruolo efficacissimo nel predisporre il terreno per le rivoluzioni del 1848 in tutta Europa, del 1917 in Russia, del 1933 in Germania, degli anni Novanta in Italia (nei limiti già ricordati in cui si può parlare di r. in quest'ultimo caso). Ovunque nel mondo siano intervenute, le r. comuniste del 20° secolo successive a quella russa hanno tratto vantaggio dall'opera di demolizione dei fondamenti teorici e morali della democrazia liberale condotta nei decenni precedenti da intellettuali ispirati dalla filosofia marxista. Tra i fattori capaci di generare situazioni prerivoluzionarie, ma anche − come si dirà oltre − di far crollare regimi sorti da una r., vanno poste altresì in primo piano le guerre perdute. Una guerra perduta fa apparire inetta seppure non colpevole la vecchia classe dirigente; le perdite subite in vite umane e distruzioni materiali vengono sentite come inutili; la moneta crolla, la disoccupazione cresce velocemente; le clausole dei trattati di pace imposte dai vincitori sono interpretate come ferite insanabili alla dignità dei cittadini e della nazione; classi ed élites vecchie e nuove si fanno più aggressive. Tra le r. di sinistra la r. russa del 1917, e tra le r. di destra la r. nazionalsocialista del 1933, ebbero ambedue inizio avendo sullo sfondo simili esiti d'una guerra perduta.

In tutti i casi, per sfociare nella r. una situazione prerivoluzionaria necessita di uno o più detonatori operanti in appropriata successione. Uno di essi è costituito da partiti o frazioni di partito o élites politiche, spesso di minuscole dimensioni, che essendosi specializzate in strategie e tattiche rivoluzionarie sanno individuare l'evento adatto per dar inizio alla rivoluzione. Quest'altro detonatore può quindi essere rappresentato in qualsiasi momento da un moto di piazza represso con eccessiva violenza dalla polizia; un periodo di carestia; l'improvviso aumento del prezzo di un bene primario; una legge che colpisca con particolare durezza gli interessi d'una classe sociale già minacciati per altre cause; un omicidio politico; il precipitare d'una crisi economica; una prolungata crisi istituzionale.

Gli attori delle rivoluzioni. - Espressioni quali ''r. borghese'', ''r. contadina'' o ''r. proletaria'' lasciano trasparire il fatto che una r. è condotta in genere da determinati attori collettivi, o è comunque intrapresa in loro nome. Inoltre appaiono designare con chiarezza gli attori di cui caso per caso si è trattato. L'evidenza apparente di tali espressioni non deve però far dimenticare che sulla scena delle r. interviene di regola una pluralità di attori, che diversi attori vi svolgono ruoli i quali contraddicono le loro vesti e che vi sono attori che non compaiono sulla scena, ma agiscono efficacemente da dietro le quinte.

Tra le molte specie di attori che vanno distinte nelle r. si trovano, in ordine decrescente di genericità e di dimensioni, la ''massa'', il ''movimento'', la ''classe'', il ''partito'', il gruppo o l'élite (politica o militare); infine i ''capi'' della rivoluzione.

Una massa è una forma della sociabilità prima che una collettività concreta; capita dunque che in essa si raccolgano individui appartenenti alle più diverse classi sociali, legati per un certo tempo da un comune orientamento emotivo e cognitivo all'azione rivoluzionaria in luogo degli ordinari legami di classe. Incorporando artigiani e insegnanti, mercanti e operai, funzionari e professionisti, impiegati e contadini, e fondendo le loro identità sociali in un'unica pulsione collettiva, le masse che abbattono la Bastiglia nel 1789, assaltano il Palazzo d'Inverno nel 1917, partecipano nel 1932-33 alle sterminate manifestazioni organizzate dal Partito nazionalsocialista di Germania, appoggiano tra il 1953 e il 1959 i guerriglieri di Fidel Castro contro la dittatura di Batista, prefigurano l'uomo e la donna nuovi, affrancati dai tradizionali legami di classe, che ogni r. desidera costruire nella società da essa rigenerata. Senza l'azione d'una massa non si fanno r., ma la massa non porta di per sé a compimento una r.; ne costituisce, per così dire, il combustibile, ma altri sono gli incendiari. A questo scopo occorre che esistano collettività aventi un grado più elevato di consapevolezza rivoluzionaria e di organizzazione. Secondo una versione diffusa della teoria delle r., una o più classi dianzi politicamente inerti, allorché si verificano l'una o l'altra delle condizioni ricordate al paragrafo precedente, tendono a esprimere un movimento sociale − ossia un comportamento collettivo interessante gran numero di persone − coscientemente diretto a modificare a loro vantaggio l'ordine sociale esistente. La stessa espressione ''movimento sociale'' è stata originariamente formulata verso la metà del 19° secolo da L. Stein per designare il concerto di rivendicazioni, di moti di piazza, di scioperi delle classi lavoratrici.

Peraltro, quali che siano nel sospingere e guidare un processo rivoluzionario le funzioni rispettive del movimento o del partito da un lato e della classe, della élite o élites politiche o militari dell'altro, esse risultano affatto ambivalenti, e mutevoli con il corso della rivoluzione. Talora una classe appoggia in maniera unitaria e sistematica, con le risorse politiche ed economiche di cui dispone, un movimento o un partito che non proviene affatto dai suoi ranghi, ma nel quale scorge un provvido strumento di difesa dei propri interessi contro altre classi. Dopodiché può accadere che tale strumento, una volta avviata la r., si renda autonomo, s'imponga come alleato vieppiù esigente, e anzi utilizzi le classi mandatarie ai propri fini. Fu appunto questo il caso negli anni Trenta degli industriali e dei finanzieri tedeschi, ma soprattutto dei militari, nei loro rapporti con il movimento nazionalsocialista in Germania. Altre volte una ristretta élite di politici o di intellettuali, che prende eventualmente la forma d'una frazione di partito, assume la direzione di un movimento rivoluzionario avviato da altri, impone le proprie direttive alle classi sociali che lo esprimono, conquista il potere avendo alle spalle la pressione di queste sulle istituzioni in essere, e una volta compiuta la fase iniziale della r. stabilisce sulle stesse classi un ferreo dominio per mezzo di un grande partito unico di cui si afferma che impersona la loro provvisoria dittatura al fine di rinnovare dalle radici l'ordine sociale. Rientra in questo modello la vicenda della frazione bolscevica del Partito operaio socialdemocratico russo. Composta da appena 30.000 membri al momento della r. di febbraio del 1917, e da non più di 200.000 nel successivo mese di ottobre, essa concepì e diresse il movimento che abbatté il governo dei partiti moderati. Subito dopo diede origine al Partito comunista dell'Unione sovietica, che arrivò ad avere circa 30 milioni di membri, e in nome della dittatura del proletariato esercitò di fatto su questo un potere totalitario.

Nella fenomenologia dei capi delle r. s'incontra la duplice funzione del capo quale iniziatore e teorico del processo rivoluzionario, e quale simbolo metodicamente costruito della r. per mano del movimento o del partito rivoluzionario, una volta che la r. si sia affermata. Uno o più capi sono indispensabili affinché il gruppo dirigente di un movimento o di un partito sappia sfruttare una situazione prerivoluzionaria e avviare un moto che porti alla rivoluzione. Ma una r. non regge a lungo se non riesce a esibire un capo-simbolo che appaia incorporare stabilmente agli occhi d'un popolo la missione, le virtù, il significato trascendente, ancorché affatto terreno, di essa. In concreto le due funzioni possono trovarsi compendiate sequenzialmente nel medesimo individuo, anche se molti capi-iniziatore non arrivano a diventare capi-simbolo perché la r. fallisce o viene schiacciata dopo breve tempo, oppure perché altri capi prendono il loro posto. Accadde a Mazzini come a Kossuth; mentre Sun Yat-sen e Mao Zedong, Lenin e Stalin, Castro e Tito tra i rivoluzionari di sinistra, Mussolini e Hitler tra quelli di destra, svolsero per decenni la seconda funzione dopo aver già ricoperto la prima.

Legittimità e illegittimità delle rivoluzioni. - Il concetto stesso di r. si è sviluppato, dal Settecento in poi, attorno all'idea che i rivoluzionari posseggano titoli legittimi, sul piano morale se non su quello del diritto positivo, per abbattere le istituzioni dominanti e prenderne il posto. Prima di allora, sebbene processi che oggi sarebbero considerati rivoluzionari fossero registrati e analizzati fin dall'età greca e romana e poi in quella medievale, si parlava di ''sommosse'', ''sollevazioni'', ''insurrezioni'', ''rivolte'', tutti termini che connotavano l'intrinseca assenza di legittimità dei relativi comportamenti collettivi. Permane comunque anche oggi la necessità, già notata all'inizio, di far riferimento al punto di vista degli attori della rivoluzione. Non v'è infatti dubbio che per Luigi xvi e i nobili francesi nel 1789, per l'imperatore e i mandarini in Cina nel 1911, per la famiglia imperiale Romanov e gli industriali russi di San Pietroburgo nel 1917, la r. che s'annunciava nei loro regni per mano rispettivamente dei borghesi, dei contadini e degli operai rappresentava il colmo dell'illegittimità. Per contro, agli occhi dei rivoluzionari dei rispettivi paesi e momenti era affatto legittimo insorgere contro un potere che consideravano ingiusto. In tali casi si verifica una contrapposizione netta tra due concezioni dell'agire legittimo, quella della classe che subisce la r. e quella della classe che di essa è attrice. Tuttavia, ai fini di una teoria globale delle r. le relazioni tra legittimità e r. sono più intricate di quanto non possa apparire da simili esempi.

Esse sono complicate anzitutto dai casi in cui la r. comincia con un atto pienamente legittimo, quale la nomina del capo d'un nuovo governo da parte del capo dello stato nel quadro della costituzione vigente. Quando in Germania il presidente P.L. Hindenburg nomina il 30 gennaio 1933 cancelliere del Reich il vincitore delle ultime elezioni, A. Hitler, lo fa badando a rispettare scrupolosamente il dettato costituzionale della repubblica di Weimar. Undici anni prima, in Italia, B. Mussolini era stato nominato presidente del Consiglio dal re Vittorio Emanuele iii in modo conforme alle leggi istituzionali in vigore, seppure sotto le pressioni della piazza. Le due r., nazionalsocialista e fascista, furono successivamente attuate a partire da codeste situazioni di legittimità formale, secondo la tecnica del ''colpo di stato a rate'' (espressione di K. Heiken). Mediante questo, il nuovo governo, divenuto depositario legittimo del potere di controllo sulla burocrazia statale, sulle forze armate, sulla polizia, instaura una dittatura, trasformando a colpi di leggi e decreti l'ordine sociale preesistente in un ordine affatto illegittimo dal punto di vista della costituzione nel cui quadro ricevette l'investitura legale, e definisce esso stesso questa procedura una rivoluzione.

Un diverso rapporto tra legittimità e r. è quello che può enuclearsi dal discorso d'insediamento a presidente degli Stati Uniti d'America di A. Lincoln (4 marzo 1861) nel corso del quale ebbe ad affermare: "Questo paese, con le sue istituzioni, appartiene al popolo che lo abita. Ogni qualvolta il popolo si stancherà del sistema di governo esistente, esso può esercitare il suo diritto costituzionale di modificarlo, o il suo diritto rivoluzionario di scioglierlo o di abbatterlo". In questo caso è la stessa massima autorità dello stato che riconosce al popolo − distinguendolo espressamente dal diritto costituzionale −il diritto di compiere una r. quando non trovi più sopportabile, e nemmeno utilmente modificabile, il sistema di governo in essere. Con ciò la r. è definita legittima al di là e al di sopra del quadro costituzionale. Secondo il suddetto schema interpretativo il quadro costituzionale è legittimo se coincide con il sentire del popolo, ma diventa esso stesso illegittimo se devia marcatamente da questo. In simile schema traspare la contrapposizione, fattasi via via più precisa dalla fine del Settecento, tra legalità come conformità alla legge razionalmente istituita per conseguire o soddisfare determinati scopi o bisogni in presenza d'una data situazione storica, e legittimità come conformità alla volontà o morale del popolo (nella visione laica) ovvero alla volontà divina (nella visione cristiana). In età moderna e contemporanea tale contrapposizione è stata caratteristica del campo conservatore, ostile per principio all'idea che la società possa essere trasformata di proposito con interventi dall'alto. Tuttavia essa è stata più volte riproposta da vari movimenti rivoluzionari, per tutto il Novecento, in specie da quelli orientati nell'America Meridionale dalla teologia della liberazione, per affermare il diritto legittimo dei popoli a insorgere contro le forze dominanti anche in presenza di un ordine formalmente legale per quanto attiene le basi istituzionali.

Corso e durata delle rivoluzioni: la rivoluzione permanente. - Dibattute sono le condizioni a fronte delle quali sia esatto affermare che una r. è giunta a compimento. Il primo rivoluzionario ad annunciare ufficialmente "Cittadini, la rivoluzione è finita" (nel senso che si era compiuta) fu forse Napoleone, poco dopo aver effettuato, il 18 Brumaio 1799, il colpo di stato contro il direttorio sortito dalla r. iniziata dieci anni prima. Ma quasi tre lustri più tardi, da imperatore, si smentiva scrivendo al suo ministro della Giustizia, L.-M. Molé: "Dopo di me la rivoluzione o piuttosto le idee che l'hanno fatta riprenderanno la loro opera con nuova lena". Tali ondeggiamenti del pensiero napoleonico sul corso della r. francese sono emblematici. Fin da quell'epoca infatti rivoluzionari e controrivoluzionari d'ogni campo, non meno dei teorici dei processi rivoluzionari, si sono chiesti con travaglio quando una r. possa dirsi veramente realizzata; quali siano gli stadi principali di essa; se il corso di ogni r. sia soggetto a leggi inderogabili che rendano virtualmente impossibile modificarlo quando sia iniziato.

Di fatto simili quesiti sono interdipendenti, poiché rispondere a uno qualsiasi di essi implica la soluzione degli altri. Al centro di essi v'è la nozione di tempo delle rivoluzioni. I tentativi di assegnare un tempo limite, con un punto d'inizio, una durata e un termine parimenti definiti, ai diversi tipi di r. muovono dall'osservazione che per far precipitare una r. politica sono spesso sufficienti pochi giorni di tumulti nelle città o nelle campagne, quando non basti un assalto di poche ore al palazzo del governo o del parlamento. Per contro una r. sociale, un mutamento strutturale dei rapporti di scambio e di dominio tra le classi, richiede al minimo parecchi anni. Infine una r. industriale o tecnologica, per quanto rapida, si protrae di solito per decenni. Da ciò seguirebbe che la r. politica è caratterizzabile come un processo di breve periodo; di medio periodo sarebbero le r. sociali e di lungo periodo quelle industriali, tecnologiche o scientifiche.

Siffatte temporizzazioni delle r. sono contraddette da un'analisi appena più ravvicinata della dinamica di esse. Per intanto stabilire che una r. riuscita sia giunta alla fine presuppone che essa abbia scopi definiti e stabili nel tempo. Ove detta condizione sussista, è possibile concludere a un dato momento che gli scopi della r. sono stati raggiunti, dunque che la r. si è avverata. Ma seppur con ampie variazioni nei rispettivi itinerari nessuna r. si pone e persegue stabilmente, nel suo corso talora lungo, i medesimi scopi. Viene anzi considerato parte del lato creativo, innovatore delle r., su cui insistono in special modo le teorie della r. di sinistra, il definire e ridefinire di continuo i propri scopi in modo da adattarne il corso alle situazioni interne ed esterne che via via emergono dal suo stesso dispiegarsi.

Inoltre ogni r. è esposta al rischio di fenomeni involutivi che ne snaturano il carattere originario: il movimento sociale che la sospinse si trasforma in burocrazia di partito e di stato, i quadri dirigenti diventano conservatori, le istituzioni assumono un grado di rigidità nel comprendere i mutamenti della società, e nel reagire a essi, analogo a quello del sistema politico che la r. volle abbattere. Caratteristico al riguardo è il caso del Messico, dove il partito al potere uscito dalla r. del 1911 e dalla successiva decena tragica ("decade tragica") si chiama tuttora Partido Revolucionario ma con l'aggiunta di Institucional: un predicato (Institucional) apparentemente incongruo rispetto al primo, che tuttavia descrive efficacemente lo stato di una società che dopo decenni di r. sociale appare per più versi assomigliare ad altre società dell'America latina che una tale r. non hanno mai conosciuto. Un tentativo tipico di restituire a una r. lo slancio originario fu la r. culturale cinese tra il 1965 e il 1977 (anno in cui fu dichiarata ufficialmente terminata, ma conclusa di fatto verso il 1970), concepita e guidata dall'alto da Mao Zedong. Va però notato che la storiografia è lungi dall'aver chiarito se in ciò si esaurissero i reali motivi che indussero il cosiddetto ''Grande Timoniere'' e i suoi alleati a lanciare un movimento di purificazione rivoluzionaria che doveva cancellare le ''tre grandi differenze'' sopravvissute ai primi lustri della r. comunista cinese: tra il lavoro manuale e il lavoro intellettuale, tra operai e contadini, tra città e campagna.

Il predicato ''permanente'' o ''permanenza'' applicato alla r. si trova già in scritti di K. Marx del 1844 (Zur Judenfrage), di P.-J. Proudhon del 1848 (Toast à la Révolution), di F.J. Stahl del 1852 (Was ist Revolution? Ein Vortrag). In questi autori, dalle pur differenti posizioni politiche e dottrinali, il concetto di r. permanente intende sottolineare che la r. non può risolversi in un unico atto; di là dal mutamento dell'assetto costituzionale, che è stato visto sovente concludersi in tempi rapidi, la progettata trasformazione dei rapporti sociali ed economici, l'eliminazione di ogni forma di sfruttamento e di alienazione, l'abbattimento di tutte le autorità tradizionali, il mutamento in profondità della cultura e delle coscienze, non soltanto richiedono tempi lunghi, ma non possono mai essere considerati propriamente conclusi. Peraltro, quando L. Trockji teorizza nel 1906 il concetto di r. permanente, facendone la bandiera del movimento operaio internazionalista, lo riveste di significati alquanto diversi, che saranno ripresi da Lenin nel 1917 per denunciare i limiti della r. di febbraio. In quest'ultima accezione non tanto la lunga durata, resa inevitabile dall'immensità dei compiti che si prospettano ai rivoluzionari, quanto la necessità di saltare le fasi intermedie caratterizza la r. permanente. Il proletariato non deve accettare di operare per un periodo indeterminato entro il quadro della democrazia borghese, in attesa che maturino le condizioni per passare a uno stadio rivoluzionario più avanzato, ma deve procedere immediatamente sulla strada della r. socialista.

In una prospettiva plurisecolare, forse in omaggio al significato originario e astronomico del termine r. (che vale "compiere un giro intero su se stessi"), le r. sono state anche interpretate da taluni autori, specie dal sociologo russo-americano P.A. Sorokin, come espressione d'un corso e ricorso storico, elementi d'un ciclo perenne d'alternanza di tre tipi di rapporti sociali: familistici o comunitari, contrattuali e coercitivi. Il primo accentua i rapporti di solidarietà che prescindono da ogni forma d'interesse strumentale, le forme di coesione spontanea che si ritrovano nei gruppi di vicinato, nelle comunità tradizionali, nelle cosiddette ''società intermedie'' (associazioni culturali, volontariato). Il secondo tipo abbraccia quei rapporti che tanto nella sfera politica quanto in quella economica, tanto tra i singoli individui quanto tra l'individuo e lo stato, sono regolati da forme di contratto o di mercato. Nel terzo tipo rientrano i rapporti imposti ai cittadini, in tutti i loro campi d'azione, dallo stato o in nome di esso. Sebbene a favore di tale interpretazione delle r. come alternanza ciclica di rapporti sociali categoricamente differenti deponga una voluminosa documentazione storica, essa sbiadisce alquanto ove si consideri che la più radicale espressione della volontà di restituire all'uomo l'armonia e la naturalezza della comunità originaria, le r. socialiste e comuniste del 20° secolo, hanno prodotto al tempo stesso, e durevolmente, uno smisurato incremento dei poteri coercitivi dello stato.

La fine delle rivoluzioni. - Numerose r. nella storia sono terminate non perché avevano raggiunto i loro scopi − un traguardo, s'è detto, difficile da accertare e per taluni improponibile − ma perché sono state schiacciate sul nascere, o dopo pochi anni, dal potere contro il quale si erano levate, oppure perché travolte da una sconfitta militare o da una controrivoluzione; o, ancora, perché il sistema politico da esse instaurato si è dissolto a causa delle sue interne deficienze strutturali. Rientrano tra le prime le r. europee del 1848, la r. della Comune di Parigi del 1871, la r. russa del 1905, la r. indonesiana del 1949-65. Tra le seconde si collocano, come si è già ricordato, la r. fascista in Italia e la r. nazionalsocialista in Germania. Un caso imprevisto e clamoroso di autodissoluzione di sistemi politici sortiti direttamente o indirettamente da una r. è stata nel 1989-90 la caduta dei regimi comunisti nell'Unione Sovietica e nei paesi da essa ridotti a propri satelliti dopo il 1945: Polonia e Repubblica Democratica Tedesca, Cecoslovacchia e Ungheria, Bulgaria e Romania.

A seconda del modo in cui una r. termina appare variare il numero delle vittime che la sua fine direttamente comporta. Le repressioni e le campagne controrivoluzionarie sono in genere sanguinose. Per schiacciare la Comune di Parigi − l'istituto di autogoverno nato dall'opposizione popolare al governo conservatore e all'ingresso in città dell'esercito prussiano − le truppe regolari comandate dal generale E.P.M. MacMahon fecero decine di migliaia di vittime, molte delle quali fucilate a freddo dopo la fine dei combattimenti. Al regime del generale Suharto che nel 1966 s'impegnò a liquidare la r. indonesiana s'imputa l'uccisione di circa un milione di comunisti. Al confronto appare meno sanguinosa la fine di una r. sconfitta dalla guerra come quella nazionalsocialista, ma ove si tenga conto che nulla meno della guerra del 1939-45 − da essa stessa voluta − fu necessario per abbatterla, sul conto della sua fine andrebbero allora iscritti tra i 40 e i 50 milioni di vittime. Quasi immune da spargimenti di sangue fu infine la caduta dei regimi comunisti nell'Europa orientale a partire dal 1989; una riprova del fatto che un sistema che si disintegra per debolezza propria comporta meno costi umani che non il disintegrarlo con la forza, ma forse anche un riflesso della memoria collettiva dei milioni di vittime che dall'instaurazione di tali regimi − a onta delle istanze etico-politiche su cui pure si fondarono − furono prodotti a cominciare dagli anni Venti.

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