RINASCIMENTO

Enciclopedia Italiana (1936)

RINASCIMENTO

Federico CHABOD
Gustavo GIOVANNONI
Pietro TOESCA

. I. - Il concetto di Rinascimento nasce si può dire a un parto con il correlativo concetto di Medioevo; nasce cioè in quanto alla media aetas, iniziatasi di sulle rovine dell'impero romano e considerata come mondo di barbarie, si contrappone il praesens tempus, cioè l'Italia del sec. XIV e del XV, che par risorta e avviata a edificare una nuova e robusta civiltà. Ma se della barbarie dell'età di mezzo le tracce si rinvenivano in ogni campo; se all'origine di ogni male stava la declinatio imperi romani, cioè un fatto di ordine politico-morale; se quindi la contrapposizione avrebbe dovuto risultar evidente in ogni ambito, in realtà essa diveniva palese soprattutto quando ci si facesse a considerar l'arte e le sue manifestazioni. Perocché se l'anelito a una più alta vita a una "rinascita" morale e politica poteva esprimersi come aspirazione e speranza, ma non ancora vedersi concretato nella realtà di ogni giorno - si rammentino invece le invettive, dal Petrarca al Machiavelli, contro l'ordine di cose esistente nel campo politico - se la Roma restaurata rimaneva pur sempre mito e vagheggiamento, quando si pensasse a Roma come caput mundi; nelle opere di pittori e scultori e architetti, da Giotto in poi, la nuova coscienza poteva bene veder effettuato il passo innanzi, poteva ritrovar quei motivi di compiacimento e di autoesaltazione, necessarî precisamente perché si potesse contrapporre alla media aetas, rozza e incolta, la nuova età dell'oro. Qui era possibile celebrar le lodi dei miei egregi dipintori fiorentini... i quali quell'arte smarrita e quasi spenta suscitarono...", e affermare che l'arte era ritornata a "sormontare", che le "nuove inventioni" consentivano di riallacciarsi alla grande tradizione degli antichi, rimasta pressoché spenta per tanti secoli, che, abbandonata la "rozzezza" bizantina, si ritornava all'arte vera, all'arte "naturale", tutta misura e proporzione e gentilezza, alla pittura "... emulatrice della natura... preziosa e piacevole...": siccome scrivevano, già lungo tempo prima del Vasari, il Boccaccio, Filippo Villani e, soprattutto, Lorenzo Ghiberti nei suoi Commentarii.

Ora, siffatta accentuazione dell'elemento artistico-letterario doveva diventar decisiva per la fortuna del concetto di Rinascimento; e a renderla sempre più netta e sempre più esclusiva doveva contribuire potentemente la stessa diffusione della civiltà italiana oltre frontiera. Poiché se l'Italia apparve allora maestra di vita all'Europa, ciò avvenne con esclusivo riferimento alla vita dell'arte e delle lettere: non, invece, alla vita politica, dove se un motivo di ammirazione era offerto dall'"arte di stato", dalla tecnica diplomatica, dei Veneziani specialmente, il crollo improvviso degli stati italiani di fronte alle invasioni straniere, sul finir del sec. XV e sull'inizio del XVI, diffondeva l'impressione, corroborata dai giudizî degli stessi Italiani (Machiavelli), che dietro allo splendore di vita intellettuale delle corti della penisola e dietro all'abilità formale dei loro reggitori si celasse un sostanziale vuoto politico; non alla vita morale, ché anzi alcuni degli stessi umanisti europei, cresciuti su culturalmente alla scuola italiana, annotavano e deploravano la mancanza di fede e di "buoni costumi" degl'Italiani (e, poco più tardi, la Riforma doveva rincarare e rendere assai più veementi le accuse contro un popolo tacciato di irreligiosità, cioè di fiacca vita morale, e di depravato sentire). E divennero così definitivi i giudizî sui principi italiani ai quali bastava "negli scrittoi pensare una acuta risposta, scrivere una bella lettera, mostrare ne' detti e nelle parole arguzia e prontezza, saper tessere una fraude, ornarsi di gemme e d'oro, dormire e mangiare con maggiore splendore che gli altri, tenere assai lascivie intorno, governarsi co' sudditi avaramente e superbamente, marcirsi nell'ozio, dare i gradi della milizia per grazia, disprezzare se alcuno avesse loro dimostro alcuna lodevole via, volere che le parole loro fussero responsi di oracoli..." (Machiavelli), ai quali importava più il divenir "ingenieux et sçavants, que vigoreux et guerriers..." (Montaigne); e si diffuse, di fronte alla vita italiana, quello stato d'animo per cui il Commynes si estasiava di fronte a Venezia, "la plus triumphante cité que jamais j'aye veüe", e ammirava la sapienza diplomatica e l'arte di governo dei Veneziani, ma, nel contempo, trovava non saldi il carattere del popolo italiano e non buoni i costumi. Era pertanto logico che, parlandosi di rinnovamento, si rivolgesse lo sguardo sempre più esclusivamente alle arti e alle lettere; logico che, esaltandosi il rifiorir degli studia humanitatis, si risolvesse la humanitas soprattutto nel suo aspetto letterario-filologico.

Si perviene così a quella che può considerarsi una formulazione tipica del Rinascimento: vale a dire alle affermazioni del Vasari, il quale procedendo sulla stessa via del Ghiberti, vede l'inizio vero del rifiorimento in Giotto che superando la "rozza maniera", vuoi bizantina vuoi gotica, ha riportato per primo l'arte ai fastigi da cui era declinata col crollo del mondo antico. Una formulazione che, ripresa via via da critici d'arte e di lettere e da storici, ribadita fra gli altri dal Voltaire, per il quale pure vanto dell'Italia nel Rinascimento era stato quello di far uscire dalle rovine della barbarie les beaux-arts qui se tiennent comme par la main et qui d'ordinaire périssent et renaissent ensemble" (Essais sur les Moeurs; e cfr. l'Introduction al Siècle de Louis XIV), era destinata a regnare sovrana per lungo tempo, determinando, fra l'altre conseguenze, quella di fissare i "canoni" dell'arte sul modello dell'arte del Rinascimento - riassunto nella triade Leonardo, Raffaello, Michelangelo - di stabilire una ben determinata "classicità" che doveva essere imitata e presa a modello, e di far sorgere, nella storia della letteratura come dell'arte, il concetto di "periodo aureo", localizzato, s'intende con approssimazione, nella seconda metà del Quattrocento e nella prima metà del Cinquecento.

Ma una siffatta concezione del Rinascimento determinava necessariamente il sorgere di una seconda questione che sarebbe poi stata indissolubilmente connessa con la prima, cioè con la valutazione del Rinascimento stesso: vale a dire il sorgere del dibattito circa l'influenza maggiore o minore che sul movimento di rinascita delle arti e delle lettere nell'Italia trecentesca e quattrocentesca avrebbe esercitato il culto degli antichi. Forse che proprio il Trecento e il Quattrocento non erano stati contrassegnati dall'imitazione dei classici, palese specialmente nelle lettere, in cui il volgare era stato negletto in omaggio al latino, e a un latino ripolito dalla barbarie medievale sulle orme del gran padre Cicerone, ma palese pure nell'arte, in cui s'erano prese a modello le dissepolte statue dell'evo antico. E non erano stati forse gli stessi uomini del Rinascimento, all'origine e alla fine, a esprimere ben chiaramente quanto essi dovevano agli antichi, dal Villani che nella contemplazione di Roma trovava l'incentivo primo a nuovi pensieri, a quel pittore genovese G. B. Paggi il quale nel 1590 osservava come l'arte avesse dovuto la sua rinascita allo studio dell'antico? ("non sì tosto si cominciarono in Roma a cavare dalla terra le sepolte statue antiche, che l'arte con esse a rinascere tornò, stante l'osservazione e studio che gli uomini sopra d'esse a farne intrapresero").

Sorge così, anche se non espresso ancora nei termini moderni, quel problema dei rapporti fra Umanesimo e Rinascimento che affaticherà e, anzi, svierà la maggior parte dei critici moderni. Un momento decisivo nella storia dell'Umanesimo stesso sembra si debba riscontrare nella venuta in Italia dei sapienti Greci, circa la metà del sec. XV, e nella conseguente maggiore e diretta influenza dell'antica civiltà ellenica sulla nuova civiltà italiana: da quel momento si giudica che veramente s'inizi il periodo più fruttuoso della civiltà italiana, e poiché con questo giudizio concorda quell'altro di marca soprattutto vasariana, che fa raggiungere la perfezione nell'arte nel periodo di Michelangelo, ecco, di conseguenza, venir formulandosi quella distinzione fra due periodi (Umanesimo, fin verso la metà del sec. XV; Rinascimento vero e proprio, dall'età di Lorenzo de' Medici a quella di Paolo IV all'incirca) che, riprodotta poi nei manuali di ogni lingua, è divenuta consuetudinaria.

Tanto profondamente radicati erano, nella tradizione, i criterî di giudizio che si sono or ora analizzati, da pesare fortemente persino sull'atteggiamento e il modo di vedere di chi, a mezzo il sec. XIX, dava del Rinascimento, un quadro d'insieme destinato a rimaner classico, e al termine stesso "Rinascimento" conferiva definitivamente il valore storicamente determinato, divenuto poi d'uso comune: vale a dire di Iacopo Burckhardt, la cui Kultur der Renaissance in Italien costituì e costituisce ancor oggi l'opera classica sull'argomento. Poiché anche nel Burckhardt, nonostante l'ampiezza del quadro, in cui venivano in primo piano non soltanto arti e lettere, ma politica e religione, vita pubblica e vita privata, dottrine e costumi; nonostante lo sforzo di prospettare la "civiltà", vale a dire tutti i molteplici elementi che avevano costituito la vita del popolo italiano durante più che due secoli; nonostante quel suo accentrare lo sguardo sull'individuo e l'individualismo del Rinascimento, vale a dire su un motivo unico, dominante, che poteva manifestarsi in tutti i campi di azione; anche nel Burckhardt era palese, di fronte al Rinascimento, un compiacimento di natura essenzialmente estetica: siccome dimostrava proprio la sua celebre formula dello stato-opera d'arte, dove non v'era che la trasposizione, nel giudizio politico, dei vecchi criterî tramandatisi dal Vasari giù giù attraverso l'Illuminismo e il Romanticismo. Per placare le proprie esigenze morali, il critico doveva rivolgersi verso la Riforma: proseguendo dunque anche in questo un non nuovo orientamento d'animo e di pensiero per cui se all'Italia del Quattrocento era lecito chiedere lezioni di armonia e di grazia e di equilibrio formale, di bello scrivere e di sapiente argomentare, solo alla Riforma luterana era possibile chiedere lezioni di forte vita morale, di interiorità e di raccoglimento.

L'uno e l'altra venivan posti all'inizio del mondo moderno, che nell'uno e nell'altra ritrovava, già affermate talora e talora puramente in germe, le proprie aspirazioni ed esigenze di pensiero e di vita; ma i due movimenti rispondevano, ciascuno, soltanto a un certo ordine di idee e di sentimenti, in guisa da essere, di per sé, incompleti e parziali. E soprattutto il Rinascimento continuava a essere una specie di Giano bifronte, tutto luce per un verso, ma tutto ombra per l'altro: splendore di forma, raffinatezza ed eloquenza per un verso, e per l'altro verso immoralità, privata e pubblica, scarsa interiorità di fede e nessun senso del dovere (epoca di "cultura" non di grande "civiltà", aveva affermato C. Balbo). Tal che poi, quando ci si facesse a esporre e commentare il pensiero di quegli scrittori che più erano rappresentativi dell'età, da parte dei critici benevoli si invocava, a scusa delle presunte immoralità, il "clima storico", l'ambiente, che, si diceva, rendeva quasi necessarie le immoralità e le disonestà: come avveniva per il Machiavelli, che potrebbe esser bene assunto, nelle vicende varie della sua fortuna, a simbolo del Rinascimento, e che proprio nel sec. XIX veniva difeso, dalle accuse dei moralisti, in base al criterio che egli non aveva fatto se non effigiare la società del suo tempo (Macaulay e anche Villari). Mariolo sì, ma profondo, diceva, don Ferrante del Machiavelli; immorale sì, ma seducente, pensava del Rinascimento la communis opinio.

E d'altronde, nel solco della tradizione si continuava a rimanere anche sotto altro aspetto, per quel persistere del Rinascimento nello splendido isolamento in che l'avevan già posto i critici d'arte e di lettere del Rinascimento stesso. Come una volta per Lorenzo Ghiberti e per il Vasari, così anche ora, pur dopo il Burckhardt, il Rinascimento continuava ad apparire come splendido fiore sbocciato all'improvviso nel deserto: il problema delle origini, il Burckhardt non può dirsi l'avesse affrontato; e poiché la rivalutazione che il Romanticismo aveva effettuata del Medioevo era stata rivalutazione della sua coscienza e unità cristiana, della sua anima interiore (Schlegel), ma non era ancor divenuta rivalutazione concreta delle lettere e dell'arte medievali, e poiché quindi continuavano, di fronte all'arte bizantina e gotica, a predominare i canoni tradizionali, il Rinascimento continuava a rimanere nettamente, troppo nettamente staccato dall'età che l'aveva preceduto e ad apparir improvviso rifiorire di vita culturale dopo la barbarie, almeno artistica, del Medioevo. Troppo improvviso, troppo staccato dall'età immediatamente precedente appariva questo rigoglio di vita nuova nell'Italia trecentesca e quattrocentesca: doveva pertanto continuare logicamente il dibattito, pur esso già iniziato da tempo, se "causa" del Rinascimento non fosse stato l'Umanesimo. Il quale fu dunque anch'esso nuovamente e parallelamente studiato, analizzato: non per puro caso a un solo anno di distanza vedevano la luce le due opere classiche sui due argomenti, Die Wiederbelebung des klassischen Altertums del Voigt (1859), Die Kultur der Renaissance del Burckhardt (1860). E tuttoché il Burckhardt si fosse ben guardato dal far dipendere il Rinascimento unicamente dalla passione per l'antichità classica, dal porre un rapporto di causa ed effetto fra il secondo e il primo evento, nell'opinione dei più il rapporto era stato concretato: anche qui, dunque, rimanendosi nell'orbita di una tradizione ormai trisecolare.

Il compito che si poneva agli studiosi dopo il Burckhardt era pertanto anzitutto quello di ricercare i legami di continuità fra il Rinascimento e l'età che lo aveva preceduto; ma era anche quello di approfondire la conoscenza dei legami tra Rinascimento ed età successive, per vedere sino a qual segno la "scoperta dell'uomo e della natura" proclamata come caratteristica del Rinascimento già dal Michelet e poi, con maggior forza, dal Burckhardt, avesse influito sulla civiltà europea, dal sec. XVI in poi.

E ciò avrebbe significato poi nient'altro che una nuova e più accurata analisi dei caratteri del Rinascimento stesso, delle sue forze costruttive e del suo svolgersi storico. Porsi il problema della "continuità" storica, voleva dire ristudiare a un tempo, in sé stesso, il "periodo storico" di cui si cercavano i vincoli di collegamento con le età precedenti e le età seguenti: non diversamente da quanto succedeva, proprio in quegli stessi ultimi decennî del sec. XIX e primi del XX, per il "periodo" tradizionalmente contrapposto al Rinascimento, cioè per il Medioevo, di cui pure si cominciavano a ricercare con maggior insistenza i legami col mondo classico e di cui si approfondiva a un tempo la conoscenza e la valutazione.

Per vero, l'attenzione sempre più minuziosa con cui gli storici della filosofia si volsero al pensiero del Rinascimento, per vedere quali ne fossero precisamente i rapporti col pensiero moderno, doveva condurre a risultati così fecondi, che attraverso tali ricerche - iniziate già dallo Spaventa, a mezzo il secolo XIX, proseguite con sagacia e fortuna grandi dal Dilthey e continuatesi sino ai giorni nostri, col Gentile; col Cassirer e altri molti - vennero addirittura spostandosi i criterî tradizionali di giudizio del Rinascimento: non solo alla valutazione anzitutto artistico-letteraria sottentrò definitivamente un più ampio e organico criterio di giudizio, per cui fatto artistico e fatto letterario non apparvero più se non a guisa di parziali manifestazioni di una visione della vita e del mondo che trovava altre contemporanee espressioni nel campo strettamente speculativo e in quello morale; ma soprattutto alla valutazione "psicologica" alla Burckhardt - il quale pure aveva cercato il quadro d'insieme - si sostituì una valutazione sostanzialmente ideologica", l'unica, come vedremo, che permetta di evitare i grossi equivoci addensatisi attorno al concetto di Rinascimento. Di più, ne derivò anche uno spostamento nel quadro cronologico tradizionale, in quanto le massime testimonianze della capacità speculativa del Rinascimento furono ritrovate in pensatori viventi dopo, anche parecchio tempo dopo l'età "dell'oro", dopo cioè l'età di Lorenzo de' Medici, di Giulio II, di Leone X, in pensatori come Telesio e particolarmente Bruno e Campanella, epigoni cronologicamente, ma idealmente veri, i più veri rappresentanti di quel travaglio speculativo del Rinascimento, nel quale si è vista l'origine del pensiero moderno.

Tuttavia ancor più notevoli, forse, sono state le ripercussioni determinate, nello studio del nostro argomento, dalla ricerca delle "origini", di quei nessi con il Medioevo su cui il Gebhardt gia insisteva nel 1885, proprio intrattenendosi sull'opera del Burckhardt. E qui la ricerca si è svolta in una duplice direzione, e con orientamento e proposito nettamente divergenti.

Da una parte, cioè, si sono cercati i nessi del Rinascimento (nei suoi tradizionali limiti cronologici) con la storia italiana prerinascimento; si è andati in traccia delle origini italiane di un movimento italiano, collegando Trecento e Duecento, età delle signorie ed età dei comuni, Petrarca e Cola di Rienzo e Francesco d'Assisi e l'abate Gioacchino. Ricerca a sua volta sdoppiatasi, attraverso coloro i quali hanno messo in rilievo, soprattutto, gli elementi storico-pratici che collegano età dei comuni e Rinascimento tradizionale, i quali hanno prospettato il Rinascimento come il moto stesso di ascesa del popolo italiano, nella sua coscienza di nazione, nella sua attività politica ed economica oltre che culturale e artistica, e hanno pertanto fatto tutt'uno fra Rinascimento e storia del popolo italiano a partire dal sec. XI; e attraverso coloro i quali hanno, di preferenza, lumeggiato gli elementi storico-ideologici che ricollegano il trionfante movimento dei secoli XIV e XV ad aspirazioni, credenze, idee dell'età precedente. Due visuali, che trovano la loro più significativa espressione da un lato in uno scritto del Volpe (Bizantinismo e Rinascenza), dall'altro in un primo tempo negli studî del Thode, risalenti già al 1885 (Franz von Assisi und die Anfänge der Kunst der Renaissance in Italien) e, in un secondo tempo, nell'opera monumentale di K. Burdach.

Particolarmente importanti queste ultime ricerche, per cui venivano in luce le radici religiose del tanto vantato "profano" Rinascimento (il termine stesso di rinascita o rinnovamento è stato ricollegato con un'iniziale attesa escatologica), e l'anelito verso una nuova vita appariva contessuto di alti ideali morali e religiosi, per molto tempo accomunati, non disgiunti, dagl'ideali puramente umani e letterarî: ciò che significava dare al movimento di rinascita una complessità di motivi, una forza creatrice e un'energia vitale assai più lata e più profonda di quanto non fosse stato percepibile sino a quel momento. E qui, anzi, nella conclusione, tornavano a confluire e l'uno e l'altro degl'indirizzi sopra accennati, i quali, se pur insistevano a preferenza su questo o quel motivo, erano tuttavia concordi nel dare al concetto di Rinascimento una capienza, cronologica e qualitativa, mai avuta sino allora.

Risultati di questo genere inducevano, per immediata conseguenza, a prospettare in modo del tutto nuovo la vexata quaestio dei rapporti fra risorgimento dell'antichità classica e Rinascimento vero e proprio. Trasferite le origini di quest'ultimo assai prima che non cominciassero il culto umanistico della bella prosa latina e la febbrile ricerca dei codici e l'idoleggiamento del padre Cicerone e di Livio, appariva infatti evidente che il rifiorir dell'amore per gli antichi era stato non causa, bensì effetto - il primo e più palese degli effetti, anzi - della rinnovata vita degl'Italiani dei secoli dal XIII al XVI: i quali Italiani, nella loro ansia di crearsi un proprio mondo spirituale, che meglio rispondesse alle necessità nuove dei tempi e dell'anima popolare di quanto non potessero più fare le vecchie ideologie religioso-feudali, nel loro bisogno di foggiarsi ideali di vita più consoni al modo d'intuire e sentire la vita proprio della società nuova, venuta su dall'Italia dei comuni, si rivolgevano verso il mondo classico per ritrovare ivi il modello da seguire, per attinger ivi le norme di vita, il programma di pensiero e di azione. "Mito", dunque, quello dell'antichità classica: mito che a sua volta doveva poi fortemente contribuire a plasmare la vita spirituale degl'Italiani in certa determinata maniera, ma che aveva potuto sorgere, esso stesso, solo perché nuovo fervore di vita aveva ricominciato a pulsare nella penisola.

E anzi, dalle ovvie considerazioni di cotal natura si doveva ben presto trapassare, ad opera di alcuni studiosi, a deduzioni soverchiamente affrettate e ardite: siccome avveniva quando il Neumann affermava che la nuova civiltà italiana, così rigogliosa e prometteme nel sec. XIII, era poi stata soffocata, inaridita, tramutata in pesante armeggio di eruditi proprio per colpa dell'imitazione del mondo classico; siccome è avvenuto ancora di recente, quando il Toffanin ha posto un troppo netto divario tra la civiltà comunale del secolo XIII, libera, semiereticale, e l'Umanesimo che cerca di soffocare nei secoli XIV e XV il libero giuoco delle forze creatrici e di piegarle nuovamente sotto il giogo del principio d'autorità.

In quest'indirizzo complessivo di studî, quali si fossero le divergenze di apprezzamento particolari, era comunque ben ferma la constatazione del sostanziale valore del Rinascimento, considerato come fase d'importanza decisiva nella storia dell'incivilimento umano. Sennonché, allato di quegli studî e ricerche, veniva a poco a poco manifestandosi una tendenza critica, negatrice della vera e propria originalità e sostanzialità del Rinascimento italiano.

Anch'essa prendeva le mosse da un più attento esame della vita medievale, da una rivalutazione dell'arte, della letteratura, del pensiero dell'età gotica; ma, questa volta, non per cercarvi le origini di un movimento che avrebbe poi trasceso d'assai, in estensione e profondità, le sue fonti e avrebbe acquistato un carattere proprio e inconfondibile, bensì per osservare che tutte le pretese conquiste del pensiero, dell'arte, ecc., del Rinascimento erano già state attuate nelle età precedenti, e che pertanto il Rinascimento stesso non poteva essere considerato come un nuovo e fruttuoso rifiorire dello spirito umano. Di più, innestando sulla questione cronologica anche la questione topografica, si cercava di porre in rilievo come, tutto sommato, patria del rinnovamento spirituale europeo fosse stata non l'Italia ma la Francia e i Paesi Bassi, la cui civiltà dal sec. XI al XIV era stata maestra anche per gl'Italiani.

E come una volta l'originalità del Rinascimento era stata inizialmente riconosciuta nel campo delle arti figurative, così ora i primi attacchi contro la tradizionale esaltazione della civiltà italiana dei secoli XIV e XV venivano sferrati proprio nel campo dell'arte: nel quale campo - siccome sosteneva sin dalla fine del sec. XIX L. Couraiod - la via alle nuove fortune era stata già aperta, completamente aperta, dagli artisti fiamminghi del sec. XIV. Procedendosi su questa via, e trasferendo l'osservazione anche nel campo letterario e scientifico, si è contrapposta alla "latinità" italiana dei secoli XIV e XV la "latinità", francese essenzialmente del secolo XII: secolo di rinascenza generale ma soprattutto francese (cfr. H. Haskins, The Renaissance of the twelfth century, Cambridge 1927); alla ricerca scientifica italiana, le cognizioni dei maestri medievali; all'"individualismo", al "realismo", tanto esaltati, del Rinascimento un individualismo e un realismo medievali, per nulla inferiori: spesso cercando di annullare addirittura ogni sostanziale diversità dal tradizionale Medioevo, di ritrovare una "continuità" storica fra le due epoche non solo senza soluzioni, ma anche senza quasi vero e proprio svolgimento e senza sostanzialì novità, sempre con l'intenzione di dimostrare che il Rinascimento italiano non costituisce se non una fase; e non decisiva, di un generale processo di rinnovamento della cultura, già in atto da vario tempo in altre regioni europee. La vera Rinascenza, si dice, comincia in Francia nel sec. XII; nel sec. XIII tutto l'essenziale è già acquisito alla cultura europea, non resta che da sviluppare le conquiste fatte... (J. Boulenger, Le vrai siècle de la Renaissance, in Humanisme et Renaissance, I, 1935).

II. - Proprio da ricerche di quest'ultimo genere converrà muovere, per eliminare i grossi equivoci che intorno al concetto di Rinascimento si sono venuti creando. E occorre anzitutto metter da parte la confusione che si è fatta tra realtà di fatto e realtà di idea, tra eventi pratici e coscienza che di tali eventi l'uomo può o meno avere: confusione palese in chi si affanna a dimostrare che anche nel Medioevo non sono mancate le forti individualità, le grandi personalità storiche, e che pertanto non si può considerare il Rinascimento come inizio del senso dell'"uomo"; oppure in chi cerca di convincerci che gli uomini del Medioevo, lungi dall'essere perennemente curvi per l'angoscia del peccato e continuamente salmodianti, avevano anch'essi un forte attaccamento alla vita terrena, con i suoi molti e non sempre puri piaceri, e che pertanto non c'era bisogno di attendere gl'Italiani dei secoli XIV e XV per imparar, le gioie d'amore e il gusto del vivere piacevolmente (cfr., per es H. Chamard, Les origines de la poésie française de la Renaissance, Parigi 1920, pp. 47, 181). Tutto questo è certo esattissimo e, oggi, pacifico: ma non significa, di per sé, ancora nulla.

Giacché quando si parla di Rinascimento per designare una certa fase, storicamente determinata, dello svolgimento storico europeo, si deve intendere un preciso movimento d'idee, un "periodo" culturale, che ha senza dubbio le sue continue interferenze con la vita pratica, da cui trae evidentemente la sua stessa ragion d'essere, ma che non pertanto rimane anzitutto ed essenzialmente una realtà dello spirito. Come per i correlativi concetti di Illuminismo e di Romanticismo, così anche la validità del concetto stesso di Rinascimento può esser affermata solo in quanto ci si riferisca a un movimento d'idee, storicamente precisabile e circoscrivibile. Quello per cui il Rinascimento è tale, non è l'agire pratico, spicciolo di questo o quel personaggio, non, per es., la sottile abilità politica e diplomatica di un principe; e nemmeno è la vita gioconda, "pagana" dei borghesi della città: ma è il modo con cui propositi e azioni degli uomini vengono sistemati concettualmente e da puro agire pratico, da consuetudine di fatto, diventano un credo spirituale, un programma di vita. Se, p. es., è indubbio che anche nei secoli VII-XII, in molti paesi, abbondano figure di eminenti uomini politici, di condottieri di popoli; se è ovvio che anche in quei secoli - come d'altronde in ogni momento della storia umana - nel loro agire i capi di stato si sono attenuti, all'atto pratico, a quelli che più tardi saranno noti come precetti della ragion di stato, non è meno certo che la teoria della politica come politica, al difuori e al di sopra di ogni considerazione di altra natura, è stata enunciata per la prima volta solo in pieno Rinascimento, dal Machiavelli, il quale, trasformando un precetto di carattere meramente pratico in affermazione teorica, di validità universale, dimostra quale sia la sostanziale differenza fra le due età. Allo stesso modo, se un Carlomagno, un Ottone I, un Filippo Augusto sono "individualità", non certo inferiori a un Francesco Sforza, un Lorenzo de' Medici, un Cesare Borgia, del tutto diverso è il rilievo che queste grandi figure hanno rispettivamente nella storiografia medievale e in quella fiorentina della fine del sec. XV e dell'inizio del sec. XVI: e ciò che importa è precisamente - quando si tratti la nostra questione - il fatto dell'importanza che gli uomini assumono nel pensiero storiografico, come artefici di storia, come creatori di eventi. Infine, che anche gli uomini del Medioevo abbiano, nella loro vita quotidiana, dato gran peso alle cose terrene, e che la carne, teoricamente disprezzata, abbia anche allora effettivamente ed efficacemente contrastato il dominio dello spirito, è cosa tanto ovvia che non metterebbe conto d'insistervi su; ma questo non ha nulla a che vedere con la questione se siano peculiari o no del Rinascimento affermazioni sul tipo di quelle con cui l'Alberti dava dignità di norma teorica, di precetto di vita a quella "dolcezza del vivere" che in quanto sensazione immediata e istintiva è propria degli uomini di ogni età.

Messa da parte siffatta pregiudiziale, è possibile affermare che i caratteri creduti specifici del Rinascimento sono già proprî della civiltà medievale, almeno nella sua ultima fase, la fase del gotico?

Coloro i quali vogliono negare o almeno limitare grandemente l'importanza e l'originalità del Rinascimento si rifanno, anzitutto, ai due concetti di realismo e di individualismo - designati come tipici del Rinascimento - per dimostrare che il realismo dell'arte italiana non è se non lo sviluppo, la prosecuzione del realismo già contrassegnante di sé l'arte gotica, e che il riconoscimento - anche teorico - dell'"individualità" è già palese negli scrittori dell'età di mezzo, senza che si debbano attendere l'Alberti, il Machiavelli e il Guicciardini (cfr. p. es., A. Dopsch, Wirtschaftsgeist und Individualismus im Frühmittelalter, in Archiv für Kulturgeschichte, XIX, 1928, pp. 53-55). Ancora, si osserva che il culto per Roma antica - mai spento d'altronde per tutto il Medioevo - rifiorisce con novello slancio e si riflette nelle manifestazioni spirituali - arte, letteratura, ecc. - assai prima che si abbia, col sec. XIV, in Italia, il cosiddetto rinnovamento dell'antichità classica; e si vanta, invece, la nuova "latinità" della Francia del sec. XII-XIII, e si citano a esempî Ildeberto di Le Mans o le figure anticheggianti della cattedrale di Reims.

Ma anche in affermazioni di questo e simil genere si annida un grosso equivoco. Non v'è certo alcun dubbio che lo spirito d'osservazione della realtà, della natura, fosse vivo già negli scrittori negli artisti medievali: e ne derivano precise, minute, colorite descrizioni e raffigurazioni di uomini e cose, condotte con uno scrupolo di riproduzione veristica ch'è difficile immaginare maggiore (si pensi ai fabliaux o all'intromettersi del particolare realistico nelle stesse sacre rappresentazioni). Ma questa aderenza alla realtà sensibile è ancora e sempre di carattere sensitivo, non concettuale, è tuttora immediata e non riflessa; perciò è limitata al particolare, all'episodico: se "realistico" è il particolare, non "realistica" è la concezione d'insieme, dal momento che il primo motore della vita e della storia umana è posto fuori del mondo, e i destini degli uomini sono determinati, sempre, dalla volontà di Dio. La sensibilità è "umana" e "terrena"; ma lo spirito si alimenta di una vita interiore che ha il suo centro fuori della città terrena e dell'umanità carnale.

In nessun campo, forse, è più immediatamente e facilmente percepibile la differenza profonda fra i due "realismi" che nella storiografia: al cronista medievale il quale accumula, magari, i particolari veristici e si compiace, nell'episodio, di naturalistica vivezza di colori, ma poi, nel guardar dall'alto il corso delle vicende umane, vede, ovunque, arbitra suprema, la mano di Dio, si contrappongono i grandi storici fiorentińi del Rinascimento, che possono anche compiacersi meno di rifiniture veristiche, ma che creano un quadro d'insieme tutto e continuamente sorretto dal senso della realtà umana, della volontà degli individui singoli che con i loro interessi e le loro passioni tessono la trama della storia universale. A un verismo naturalistico, puramente descrittivo, che constà di frammenti e manca, potremmo dire, di prospettiva - e caratteristica del cronista o comunque scrittore medievale è precisamente il cumulo dei minuti particolari, giustapposti - si sostituisce un realismo" concettuale, che può anche trascurare il verismo di un particolare, essere meno "fotografico", proprio perché la vivezza impressionistica di un particolare isolato ha assai minor rilievo e importanza in un quadro tutto dominato dal senso della realtà umana. E basti confrontare, per es., la descrizione di Carlomagno ch'è in Eginardo, con la descrizione di Clemente VII ch'è nel Guicciardini: nel primo v'è lo sforzo di ritrarre il protagonista cogliendo l'un dopo l'altro i varî aspetti della sua personalità, fisica anzitutto (e si osservino la minuzia di Eginardo nel descrivere il corpo e l'abbigliamento di Carlomagno), ma in pari tempo v'è l'incapacità di raggruppare le singole osservazioni in un tutto organico; nell'altro, il rapido, sicuro, potente tratteggiamento della personalità del pontefice, colto - si noti - esclusivamente nel suo carattere e nelle sue doti spirituali e morali, laddove i particolari fisici sono lasciati da parte. Qui, pertanto, è in nuce tutto lo storico, la cui concezione di una vicenda determinata puramente da motivi umani è perfettamente espressa e riassunta dall'analisi dei personaggi e dei loro motivi d'azione; nel cronista medievale invece il ritrattar le fattezze fisiche di questo o quel principe è, ancora, pura esteriorità, elemento decorativo e ornamentale di un edificio che è costruito da un altro, e ben più alto, artefice.

Non diversamente le preoccupazioni dei pubblicisti medievali di cogliere e additare norme che si confacciano alla vita pratica, alla realtà politica, non impediscono che il "realismo" delle loro speculazioni sia del tutto diverso dal "realismo" di un Machiavelli, il quale, per primo, afferma la necessità e validità della politica, come sfera di attività autonoma al di là del bene e del male, senza fini estranei da quelli che le sono imposti dalla sua stessa natura, e per primo svincola lo stato dai presupposti e dalle finalità di carattere metafisico a cui per l'innanzi esso era stato legato.

Ma anche a riguardar l'arte e le sue manifestazioni, si perviene a conclusioni identiche. Anche qui altro è il particolare naturalistico e altro l'ispirazione d'insieme, altro l'aderire della sensibilità alla natura e alla vita terrena e altro l'afflato mistico da cui sgorga la "fede" dell'artista: l'artefice medievale crea a gloria di Dio e cerca, secondo si esprime Teofilo, di "far lodare il Creatore nella sua creatura, Dio nelle sue opere", e vuole infondere nella sua opera un contenuto morale, né più né meno del cronista che scrive per ammonire gli uomini a disprezzare le incerte e labili cose terrene e a evitar la superbia, e del poeta che nel significato allegorico vede il vero ed utile frutto della sua fatica; laddove l'artista del Quattrocento, già ben consapevole del valore in sé dell'opera sua, già convinto che l'uomo è capace da sé stesso di ogni miracolo, si applicherà soltanto, secondo che detta l'Alberti, a conoscere il vero e, sulla base di precise conoscenze, a creare un'opera "bella", immortale, che gli dia gloria presso gli uomini. Dov'è appunto la novità essenziale del Rinascimento: il suo cosiddetto "realismo" conduce, come nell'arte e nelle lettere, così nella scienza, nella teoria politica e nella storiografia, all'affermazione del valore autonomo, indipendente da premesse e fini metafisici, e dell'opera d'arte e della politica e della scienza e della storia, con una linea di sviluppo continua che dall'Alberti prosegue nel Machiavelli, nell'Ariosto e nel Galilei; conduce cioè allo sbriciolamento della concezione del mondo tipica del Medioevo, in cui nessuna forma di attività umana può esser considerata a sé fuor del nesso con l'insieme. All'allegoria si risponde col molto noto precetto dell'arte per l'arte: e sono due mondi essenzialmente diversi.

In questi due mondi è infine ovvio che molto diversi siano il culto e l'influsso dell'antichità classica. Vivissima, certo, l'eco di Roma antica anche nel Medioevo: ma quest'eco non tocca ancora nell'intimo l'anima degli uomini, che hanno la propria attività spirituale incardinata su ben diversa base. Poeti e scrittori classici offrono, a dovizia, materia per considerazioni, soprattutto per quegli exempla che sono tipiche espressioni della mentalità medievale: ma il loro spirito, le loro concezioni restano assenti e, se mai, si ha invece il travestimento di un'anima pagana in veste cristiana (esempio classico, Virgilio). Persino quando l'artista medievale sembri maggiormente subire l'influsso di opere d'arte classiche, e si palesi netta l'imitazione stilistica, persino allora sotto un manto simile si avverte il pulsare di un diverso sentire: come accade proprio per una delle opere di più vantata classicità, la Visitazione della cattedrale di Reims, dove l'apparente assimilazione delle figure a quelle della statuaria antica non osta a che esse rimangano profondamente "gotiche" per il soffio ispiratore che le ha create (cfr. E. Panofsky-F. Saxl, Classical Mythology in Mediaeval art, in Metropolitan Museunt Studies, IV 1933, p. 166 segg.).

Senza dubbio, nel sec. XII Roma classica ha seguaci entusiasti e devoti, che si professano zelatori degli antichi a dispetto dei cani e dei porci (Pietro di Blois): ma la diversità di sentire fra le due epoche appare chiaramente quando si paragoni lo stato d'animo di un Ildeberto di Le Mans, che pure è il tipico rappresentante del classicismo francese del sec. XII, a quello di un Cola di Rienzo, il rimpianto del primo per la decadenza della città eterna alla volontà del secondo di ricreare una nuova Roma, degna dell'antica. Che è proprio lo stato d'animo peculiare del Rinascimento nella sua più alta espressione: agire, in conformità di quanto s'è appreso dagli antichi; imbeversi, non puramente delle loro frasi, ma del loro spirito, e credere di non essere degni di vivere se non si rinnovano i loro fasti. Al "vix scio quae fuerim, vix Romae Roma recordor, vix sinit occasus vel meminisse mei..." di Ildeberto di Le Mans risponde Cola col suo dichiararsi non degno di vivere "si, quae legendo didiceram, non aggrederer exercendo" (Cola di Rienzo, Briefwechsel, ed. Burdach, p. 204). L'antichità classica, cioè, da mezzo e strumento di una vita spirituale che trae il suo stimolo da altra fonte, da ornamento esteriore, si connatura con lo spirito e la sensibilità stessa degli uomini. È, come fu detto, questione di modo di vedere, non di diversa materia (Faral, Recherches sur les sources latines des contes et romans courtois du Moyen Âge, Parigi 1913, p. v111): ma nella storia dello spirito umano quel che importa è proprio il "come", non il "quanto".

III. - Certo, non subito, gli Italiani pervennero a foggiarsi quel nuovo modo di concepire e intuire la vita e la storia, che avrebbe poi caratterizzata la loro civiltà; e il nuovo "come", non sbocciò improvviso, ma costituì invece l'epilogo di un lungo, faticoso e talora contraddittorio svolgimento spirituale, in cui per gran tempo continuarono a frammischiarsi motivi del pensiero e del sentire medievali e motivi nuovi, di cui solo a mano a mano l'uomo divenne pienamente consapevole.

Fu la graduale conquista di un proprio mondo spirituale da parte di chi aveva, già prima, dato nuove basi alla propria attività pratica e alla propria vita quotidiana.

Era infatti una società nuova, quella ch'era venuta affermandosi tra il sec. XII e il XIII nell'Italia, e specialmente nell'Italia settentrionale e centrale. Rovinata a basso, politicamente ed economicamente, la feudalità; disfattasi la potenza politica dei vescovi, dominavano ora la scena le classi cittadine che avevano costruito il comune, domati i feudatari vicini e lontani, strappato all'impero il riconoscimento della propria autonomia e battagliato contro le pretese ecclesiastiche, piccole e grandi; che avevano dilatato la propria sfera d'azione, abbracciando con i traffici Oriente e Occidente, e dato alla propria vita un indirizzo e un ritmo, a carattere mercantile-industriale, ben diversi da quelli d'un tempo. Come ceto sociale, era già ben robusto e capace quello che, con termine moderno, chiameremmo borghesia, ormai differenziato nettamente dai chierici e dai feudatarî - anche se più volte avesse accolto e accogliesse nel suo grembo uomini delle vecchie casate - e che, nel suo bisogno di nuove leggi, già aveva cominciato a ricorrere e sempre più ricorreva, alle fonti di un diritto diverso da quello germanico, edificando i suoi ordinamenti sulla base del rifiorente diritto romano, creando cioè un sistema politico-sociale su fondamenta ben diverse da quelle del mondo cristiano medievale.

Questo gagliardo e irrompente fiotto di vita nuova trovava presso che subito una sua prima, grande espressione morale e spirituale, ma non sul terreno della cultura cosiddetta laica, bensì su terreno prettamente religioso; e se all'origine stessa del risorgere di più d'una delle città italiane (Milano, per es.) già era stato connesso col fatto politico il fatto religioso, onde fautori della riforma della chiesa e fautori del nuovo ordinamento cittadino erano stati per certo tempo tutt'uno, ora, all'inizio del sec. XIII, era la società italiana tutta quanta che appalesava le sue rinnovate esigenze di vita morale nel movimento francescano. Che era il grande apporto della nuova nazione italiana alla storia della religiosità europea, nei secoli immediatamente precedenti germinata e alimentata sopra tutto in altre terre (si pensi al movimento cluniacense); e che, precisamente per questo, testimoniava di un nuovo fluire di vita nella penisola, ancora dominata, culturalmente, dalla civiltà d'oltralpe e ancor attenta a ricalcar le orme della poesia provenzale o della cultura francese del sec. XII, ma già capace di esprimere i proprî ideali di vita attraverso la parola del Santo d'Assisi.

Ideali tuttora religiosi, e sotto tal riguardo, quindi, non diversi da quelli che da secoli avevano tenuto su la speranza e l'attesa delle nazioni occidentali: e pure già questa religiosità si coloriva di tonalità proprie, e nel suo rinunziare alla discussione teologica per affisarsi interamente nei valori morali, nel suo gioioso avvicinare e gli uomini e le creature e la natura, nel suo bisogno di amore anche per le cose terrene, v'era il segno di una potente vita interiore nuova, che chiedeva di rinnovare, in sé, ma con più fresco e immediato sentire, le vecchie credenze. Quello slancio verso l'avvenire, quell'attesa escatologica, che avevano trovato il loro vate nell'abate Gioacchino, che riapparivano nel movimento francescano e, talora con violenza quasi rivoluzionaria, ispiravano l'azione dei molti gruppi ereticali dell'Italia dugentesca, traducevano veramente, nell'ambito religioso, quel bisogno di guardar innanzi a sé, di aver fede nel futuro, da cui la società italiana riceveva sprone e incitamento nella sua vita quotidiana, sia che si trattasse di muover alla conquista di nuovi mercati nell'Oriente, sia che si trattasse di fronteggiare ancora una volta l'imperatore e i suoi uffiziali; e l'anelito al ritorno verso la purezza dei primi tempi cristiani, che si accomunava nel movimento religioso con l'attesa escatologica, poteva bene riassumere anche quello che, nella vita pratica delle città italiane, era bisogno di reagire all'immediato passato e alle sue istituzioni politiche e di rifarsi più lontano, più indietro nella storia per trovare norme giuridiche sicure e degne. Ché anzi, se in progresso di tempo l'afflato religioso si sarebbe illanguidito e i nuovi pensieri e aspirazioni avrebbero cercato altra cornice in cui rivelarsi, quelle due caratteristiche fondamentali si sarebbero mantenute inalterate nella loro essenza, anche se trasferite su terreno prettamente umano: anche più tardi, come vedremo, l'uomo del Rinascimento avrà, a guisa di contrassegni peculiari, da un lato l'attesa e la fede nel futuro, dall'altro la fede nel ritorno a un modello, già avveratosi nella storia passata. Il mito del "rinnovo", del ritorno ai "principî", trapasserà, sia pure entro ben diversa cornice e con ben diverso sentire, da S. Francesco a Machiavelli: onde, in un certo senso, tutta l'opera del Rinascimento non sarà se non il trasferimento nell'ambito prettamente umano di idee che prima avevano trovato la loro ragion d'essere nella fede in Dio.

Ma un simile processo di trasposizione di valori è assai lento; e, trovata la manifestazione religiosa della sua nuova vita, l'anima italiana stenta assai più a crearsi un proprio mondo di valori umani. C'è, sulla fine del secolo, il tentativo almeno di affemiare una "nuova coscienza e religiosità laica, che propone ed esalta il valore morale dei sentimenti umani" (N. Sapegno, Il dolce stil nuovo, in La cultura, 1930) in quella scuola del dolce stil nuovo, che, poetando in volgare, nella lingua appena appena nata, s'accentra nell'analisi del sentire umano e fa perno di tutto l'uomo con le sue passioni e giunge perfino, con Guido Cavalcanti, alle soglie del dubbio religioso; ma lo stesso scientificismo e logicismo dell'analisi, onde solo a tratti balena luce di poesia, e la preoccupazione casistica rivelano che il dissidio fra le aspirazioni nuove dell'animo e la forma mentis d'un tempo non è ancor superato.

Partendo dallo stil nuovo Dante perviene anzi alla Commedia e alla Monarchia, vale a dire al pieno ritorno ideologico al mondo etico-religioso-politico del Medioevo: ma proprio nell'opera dantesca si possono cogliere le evidenti tracce di quel processo di creazione di un mondo nuovo, sentito di già, ma non ancora pensato, che caratterizza la vita morale dell'Italia d'allora; proprio in essa è dato percepire uno stato d'animo non più sempre consono al pensiero e alla dottrina. E più manifestamente ciò si verifica per la concezione politica, in cui il sentimento, nuovo, della "nazione" italiana - un sentimento che caratterizzerà poi il Rinascimento e che in Dante ha la sua prima, potente espressione - vien tuttavia coordinato e frenato nel mito dell'impero universale, in un mito cioè che il Rinascimento finirà con il rifiutare; o, anche, nell'estetica, incardinata sì sempre sul concetto del valore non autonomo dell'arte, mezzo per la scienza e per la morale (si ripensi al Convivio), e pur già ravvivata da un fresco afflato per quell'esaltazione del volgare, che è, ancora, senso di "nazionalità", e soprattutto permeata da una coscienza cosi alta della dignità dell'arte e dell'artista da condurre poi a un'affermazione di principio ch'è bene e di già affermazione del valore a sé dell'ispirazione artistica ("I'mi son un, che quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch'e' ditta dentro vo significando", Purgatorio, XXIV, 52-54). Ma, più che in particolari aspetti, il nuovo trapela essenzialmente nell'altissimo concetto della dignità umana e del valore dell'azione umana: onde si continua anche nel poeta il tentativo degli stilnovisti di creare una moralità "laica", che trova la sua base teorica nel concetto di "nobiltà" e la sua giustificazione dottrinale nel libro IV del Convivio. Certo, la fede nell'uomo resta tuttavia consacrata dalla fede in Dio; né il senso potentissimo del valore individuale, umano, conduce ancora a dissidio con il senso della grazia divina: ancor fusi l'uno nell'altro essi appaiono nella volontà di riforma che anima il poeta, riforma politica e riforma morale, dell'Impero e della Chiesa, dell'uomo singolo come della collettività.

Ma, sebbene ideologicamente involto in dottrine e schemi del passato, v'è nel pensiero e nello stato d'animo dantesco quello stesso lievito che già ha contrassegnato il movimento francescano e che è indice, precisamente, del sorgere di una nuova forza creatrice di civiltà: vale a dire la volontà di azione, di riforma del mondo attuale in vista di un futuro migliore, una volontà per cui nel poeta il ricordo di Roma antica già perde il carattere di una semplice, patetica rimembranza del tempo che fu e diviene invece incitamento ad agire, sulle orme del modello - non diversamente da come l'esaltazione delle pure virtù cristiane, anziché limitarsi a un semplice accenno elogiativo o a rimpianto, si traduce nell'aspra invettiva contro la Chiesa mondana e il papato degenere. In siffatto atteggiamento, sia che ne derivi l'invettiva contro "Alberto tedesco", sia che ne derivi lo sdegno contro l'avarizia del papato, è veramente compendiata quella che costituisce la prima fase del Rinascimento italiano: l'erompere delle nuove, giovani forze che dànno vita alla nazione italiana, e che cominciano a trasfondere la loro pienezza di energie dal terreno puramente pratico al terreno delle ideologie e dei miti, senza ancor ripudiare concetti e schemi teorici delle età precedenti, ma gli uni e gli altri ravvivando per il fatto stesso di proporseli a programma d'azione immediata, di trasformarli da semplice pensamento in mito.

Ed è questa, la caratteristica anche di Cola di Rienzo, dell'uomo cioè che, in un certo senso, più rimane vicino alle aspirazioni dantesche, e che - a prescindere dall'elemento prettamente personale, dallo spirito particolare del tribuno, con quei suoi subitanei ed eccessivi abbandoni a visioni fantastiche - contrassegna anch'egli l'età sua: anche qui, senso nazionale e volontà di riforma, morale e politica, si riconnettono a un profondo e sincero stato d'animo religioso; anche qui, il rinnovamento vien concepito non come mero rinnovamento individuale, bensì collettivo; anche qui, infine, l'idea di Roma appare in veste sostanzialmente diversa dall'idea medievale e da semplice vagheggiamento di un passato ormai tramontato si trasforma in volontà di far rivivere la grandezza d'un tempo, di costruire l'avvenire sulla base e per mezzo di un ritorno alle virtù d'un tempo.

Il tono religioso della predicazione del tribuno; la sua volontà di rinnovare insieme la Chiesa e lo Stato; la sua fede nel prossimo avvento di un'umanità migliore, sotto il segno di Cristo; in parte, anche, talune delle sue stesse fantasticherie e delle sue stesse ingenuità: tutto ciò riflette assai bene lo stato d'animo e di spirito del primo Trecento, ancora animato da una volontà di organizzazione sociale politico-morale, che poi verrà meno in seguito, quindi preoccupato di una "riforma" di valore e carattere collettivo, e, nello stesso tempo, ancora strettamente legato non pure all'idea religiosa, ma a dottrine e persino a superstizioni e a leggende del non lontano passato.

S'è detto superstizioni e leggende: e di tal genere sono, p. es., le credenze magiche e astrologiche che hanno tuttora un peso così grande nella vita dei singoli come delle folle, e che si esprimono non pure nei pensieri e atti di un Cola, ma anche nello spirito di un uomo come Giovanni Villani ch'è, per tanti riguardi, proprio l'opposto dell'immaginoso tribuno romano e che vien riguardato piuttosto come tipico rappresentante della borghesia venuta su tra gli affari, calcolatrice e pratica, con i piedi ben fermi sulla terra e poco incline ai voli dell'immaginazione e alle teatralità alla Rienzo. Calcolatore ed equilibrato e ben attento alla terra, certo, il Villani: ma pure in lui, allato di atteggiamenti che preannunciano una nuova visione del mondo, allato del sempre crescente interesse per l'uomo e le cose umane, sussistono i vecchi motivi, di stampo agostiniano, sulla vita terrena e sul volere divino, sussistono schemi dottrinali, e credenze ingenue del passato. E nulla più caratterizza questo tipico borghese del Trecento del fatto che, mentre all'atto concreto egli osserva con gioia il fiorir della vita economica e ne esalta le singole forme, sino ad introdurre nella storiografia questo nuovo elemento (si rammenti la celebrazione del fiorino d'oro), quando poi si trova a dover giustificare, in linea di principio, quella stessa attività, non sa far altro che rifugiarsi nei vecchi assiomi, dai quali sgorga non il riconoscimento, ma la condanna o, al massimo, la diffidente tolleranza di commerci e traffici e cambî. Veramente classico esempio di un fatto pratico che non riesce ancora a divenir coscienza teorica, principio di vita: il mercante agisce in effetti secondo la ragion mercantile, ma quando si rivolge in sé stesso e si chiede il perché della propria vita, non ritrova una risposta che lo assicuri, e si rifugia in norme morali che traggono la loro vitalità da ben altra fonte.

Siffatto dissidio fra coscienza umana e coscienza religiosa, fra desiderio dell'abbandonarsi alla gioia del vivere e far della terra e degli uomini e delle passioni umane il centro di ogni moto dell'animo, e senso - persistente - del peccato e della colpa, della miseria originaria dell'umanità e della necessaria aspirazione verso un altro mondo non contaminato, doveva venir espresso con tutta chiarezza, per la prima volta, dal Petrarca. In lui non solo continua a balenare, a tratti, quel mito del rinnovamento universale, su base essenzialmente religioso-morale-politica, che, come s'è visto, ha costituito sino a quel momento il carattere saliente della vita spirituale italiana; ma, quel ch'è più, il senso del peccato - questa nota fondamentale del cristianesimo - riappare con un'intensità psicologica e una vivacità passionale sconosciute alla più equilibrata e sicura coscienza dantesca, e la ben architettata, serena e raziocinante dottrina tomistica cede il luogo al pieno riaffermarsi del più inquieto, torbido anche, e angoscioso stato d'animo di agostiniano influsso, per cui unico e assillante rimane il problema della salvezza dell'anima. Non a caso il Petrarca scende in polemica contro la "scienza", contro gli averroisti; non a caso insiste sulla necessità di accettare "con umile fede" i segreti della natura, i misteri di Dio, che gli stolti credono di potere spiegare; non a caso alla scienza egli contrappone la poesia e la retorica, vale a dire al ragionamento e alla teoria logicizzante il momento dell'ispirazione: necessaria conseguenza di un atteggiamento fondamentale che chiede all'animo, anzitutto, e non al pensiero il segreto della vita.

Ma proprio in questo si rivela la crisi ormai aperta: in questo rinunziare a un'inquadratura teorica d'insieme per ridursi a lottare contro sé stessi nello sforzo di domare la carne, in questo accentrare tutto nell'uomo, nell'animo umano, in questo insistente psicologismo che, superata ormai la casistica intellettualistica degli stilnovisti, sempre più concentra gli sguardi sull'uomo e le sue passioni. L'uomo nuovo rinuncia, tuttora, a risolvere i varî perché e a costruirsi una visione della vita che sia in piena coerenza con il suo sentire: ma già in scena resta lui e lui solo, e lo stesso suo tormento interno, fra amore e morte, fra gloria e umiltà, non fa se non metterlo sempre più in risalto, come un microcosmo che in sé contenga ogni cosa degna di essere studiata.

E che del problema religioso preoccupasse intimamente il poeta non la parte dogmatica, bensì solo la parte morale - la salvezza dell'anima - era un altro significativo indizio di siffatto umanizzarsi del mondo: anche qui, non a caso, la preoccupazione religiosa degli uomini del Rinascimento - e soprattutto degli umanisti non italiani - sarebbe stata anzitutto preoccupazione non teologica ma morale, e avrebbe, in tal modo, aperto la via alla Riforma, nel suo nucleo originario e centrale dominata precisamente dal problema della salvezza.

Così profondo era il senso dell'uomo come personalità singola, che veramente col Petrarca s'iniziava l'aspirazione alla humanitas, peculiare del Rinascimento: nel progressivo disfacimento della volontà di riforma universale, dell'escatologismo collettivo, cominciava ad emergere la volontà di creare, non un'umanità o un popolo, ma degli uomini nuovi, di creare il vir, con un processo di autoelevazione morale e spirituale, di continuo arricchimento interiore, al quale doveva anzitutto servire l'educazione letteraria e che doveva trovare nel culto del bello, nella politezza della forma e nell'accurata conoscenza del pensiero umano la sua espressione saliente. Ritrovamenti eruditi e scoperte antiquarie, culto di Cicerone e volontà di dissipare gli errori e la rozzezza medievali ristudiando daccapo i modelli - non meri modelli senz'anima, ma modelli per l'appunto di uomini nella pienezza delle loro forze spirituali e morali - erano pertanto non semplice esteriorità, non bizantinismo di eruditi, bensì naturale sbocco di un anelito al rinnovamento che, sempre meno curando la collettività e sempre più il singolo, continuava pure a rimaner fermo nel mito del rinnovo e del modello nel passato: a Cesare - simbolo dell'Impero e vivo, in tutta la tradizione medievale, proprio come simbolo assai più che non come persona concreta - si sostituiscono gli "eroi" di Roma repubblicana, e anzitutto gli Scipioni, i quali vengono scelti a rappresentare non il mito collettivo, bensì il mito individuale, la perfezione del singolo; ma sussiste la fede, di schietta origine religiosa, che in un momento della storia si sia già rivelata la Verità e che ad esso si debba pertanto mirare ove si voglia progredire; e questo momento - modello per la creazione della nuova humanitas - è rappresentato da Roma e dalla Grecia antiche.

S'iniziava per tal modo l'Umanesimo, che se poté talora ridursi a opera di scrittori di secondo e terz'ordine, a mera formalità, a imitazione senz'anima, rimase tuttavia, nell'insieme, contrassegnato da quelle caratteristiche che il Petrarca aveva già dato alla sua ammirazione e amore per gli antichi, cioè dal desiderio di creare, se non un'umanità, almeno uomini migliori, prendendo a modello e incitamento un grande passato: sì che il fervore erudito avrebbe condotto all'inizio della filologia e dell'archeologia in senso moderno, avrebbe cioè creato armi potentissime a sussidio dell'intelligenza umana, completando e perfezionando l'ideale della humanitas e influendo con ciò profondamente su tutta la vita e tutta l'educazione europea dei secoli venturi. Ma poiché la humanitas avrebbe mantenuto quella nota di aristocratico distacco dal comune dei mortali; poiché le sue doti peculiari, la dignitas sui, la maturità intellettuale e morale ne avrebbero fatto l'attributo di uomini d'eccezione e, allontanandola dalla "umanità" naturale, l'avrebbero posta troppo in alto per le masse, ne sarebbe derivato alla cultura umanistica quel suo carattere di cultura di circoli ristretti, di cultura aristocratica che la differenzia profondamente da altri movimenti d'idee e ne limita d'assai il valore "sociale", proprio a differenza di quanto era successo e doveva succedere con la civiltà cattolica del Medioevo e della Controriforma, sempre a largo contenuto sociale, sempre civiltà di masse, non di singoli.

Nel Petrarca il dissidio fra senso dell'umano e senso del divino era rimasto soprattutto uno stato d'animo, un fatto psicologico assai più che non ideologico. Ma con il progressivo rafforzarsi del senso dell'individualità il dissidio, meno acuto e in più d'un caso quasi superato come fatto di coscienza, si trasferiva inveee precisamente nel campo ideologico, dal sentimento al pensiero; e a porre il problema in questa luce contribuiva altresì quel progressivo affermarsi del senso della natura, quel bisogno di "scienza" da cui erano caratterizzate le generazioni post-petrarchesche. E qui la via nuova è tracciata soprattutto dagli artisti e dai critici d'arte, i quali dal canone fondamentale dell'"imitar la natura" derivano i corollarî della conoscenza "scientifica", matematica della realtà: ottimo artefice può essere solo colui "el quale ara imparato conoscere li orli della superficie et ogni sua qualità" (Alberti); onde il valore fondamentale che acquista il problema della prospettiva - il centro teorico di tutta l'attività artistica del Quattrocento - e di una prospettiva basata su precise regole geometriche; onde, in seguito, lo studio anatomico, la minuziosa preparazione tecnico-scientifica dell'artista, che giungerà al massimo grado con Leonardo.

Come non un filosofo, bensì un poeta aveva per primo dato pienezza di rilievo alla personalità umana e alle sue passioni, così non scienziati puri - in questo campo, i passi sono ancora assai più lenti -, ma artisti rivelano nuove leggi della natura: altro caratteristico esempio di quel prevalere dell'immaginazione sul raziocinio, dell'ispirazione artistica sulla deduzione logica, che contraddistingue il Rinascimento e che gli dà un "tono" in netta antitesi con quello che sarà il tono dell'Illuminismo, iniziato invece e condotto innanzi sotto gli auspici della filosofia e della scienza, non dell'arte.

Si è cosi attuato e completato quel processo di immersione nel mondo sensibile, nella realtà terrena, iniziatosi con l'apparizione dell'uomo nel centro della scena: poiché il rivolgersi verso la natura non vuol più dire semplice riproduzione veristica di particolari e contemplazione di forme esterne - com'era avvenuto da tempo -, bensì e soprattutto orientamento deciso dello spirito verso la pura realtà terrena, oblio del senso del peccato e abbandono invece alla dolcezza del vivere, che permea di sé l'artefice e gl'ispira tutta l'opera sua, rivolta ormai non ad honorem Dei, ma a gloria dell'artefice stesso e a letizia degli uomini. L'opera d'arte si abbarbica alla terra: e in luogo del tentativo di evasione verso l'alto, si ha, fin nelle chiese, nei templi di Dio, la ricerca del solido contatto con la terra: massa a linea orizzontale e cupola fan rimanere in questo mondo, non avviano il pensiero all'al di là. Il Tempio Malatestiano di Rimini è la traduzione architettonica di quella "dolcezza del vivere" che l'Alberti, in altro momento, esalta nel dialogo Della Famiglia.

Con ciò, si spezza il nesso fra l'attività artistica e l'attività morale-religiosa: la prima appare ormai avulsa da altri legami che non siano quelli, intrinseci, imposti dai suoi stessi fini, libera da premesse e aspirazioni metafisiche, attenta solo a creare l'opera "bella"; e, come fu già osservato, assai prima che non apparisse il politico-eroe del Machiavelli, apparve l'artista-eroe dell'Alberti, distaccato dal resto dell'universo, solo con sé stesso e i suoi sogni di linea, di forma, di colore (cfr. L. Venturi, Il gusto dei primitivi, Bologna 1926, pp. 101-102). Prime fra le varie forme di attività umana, poesia e arte avevano conquistato la coscienza della loro autonomia.

Ciò significava dunque lo sgretolamento del mondo medievale: uno sgretolamento che, questa volta, si esprimeva non più soltanto come fatto psicologico, ma come fatto ideologico. Ma di fronte a simili esaltazioni dell'uomo e della sua volontà, diveniva grave il problema dei rapporti fra il microcosmo ch'è l'uomo e Dio; non diversamente da come s'imponeva l'altro problema dei rapporti fra natura e Dio e uomo, tra fato e fato naturale e dignitas hominis, o, per dirla con termini familiari agli scrittori del Rinascimento, tra provvidenza, fortuna e virtù. Fu il grosso problema attorno a cui si travagliarono i pensatori del Quattrocento, da Niccolò da Cusa a Pico della Mirandola. E quel senso dell'uomo e della sua potenza, prima rivelatosi come intuizione poetica e artistica, venne elaborato sul terreno della logica, coordinato in un nuovo sistema che ebbe appunto nell'uomo, nel microcosmo, il suo centro; e alla rivelazione petrarchesca dell'anima umana e delle sue passioni, alla glorificazione del corpo umano, in pieno rilievo nello spazio, che era il succo delle tavole di un Piero della Francesca o di un Mantegna, corrispose l'esaltazione della "dignitas et excellentia hominis" che da Giannozzo Manetti si continuò fino a Pico della Mirandola, fino al Bovillo: ed ecco il grido della conquista, da parte dell'uomo, del mondo: "Nostra namque, hoc est humana, sunt, quoniam ab hominibus effecta, quae cernuntur, omnes domus, omnia oppida, omnes urbes, omnia denique orbis terrarum aedificia, quae nimirum tanta et talia sunt, ut potius angelorum quam hominum opera, ob magnam quandam eorum excellentiam, iure censeri debeant. Nostrae sunt picturae, nostrae sculpturae, nostrae sunt artes, nostrae scientiae, nostrae sapientiae... Nostrae sunt denique... omnes adinventiones, nostra omnia diversarum linguarum ac variarum literarum genera... Nostra sunt denique omnia machinamenta... Haec quidem et coetera huiusmodi tot ac talia undique Lonspiciuntur, ut mundus et eius ornamenta ab omnipotenti Deo ad usus hominum primo inventa institutaque, et ab ipsis postea n0minibus gratanter accepta, multo pulchriora multoque ornatiora ac longe politiora effecta fuisse videantur" (Manetti, De dignitate et excellentia hominis, ed. Basilea 1532, pp. 129-131); ecco l'uomo che Dio ha creato "... nec... coelestem, neque terrenum, neque mortalem, neque immortalem... ut tui ipsius quasi arbitrarius honorariusque plastes et fictor, in quam malueris tute formam effingas. Poteris in inferiora quae sunt bruta degenerare. Poteris in superiora quae sunt divina ex tui animi sententia regenerari. O summam Dei patris liberalitatem, summam et admirandam hominis felicitatem. Cui datum id habere quod optat, id esse quod velit..." (Pico, De hominis dignitate, in Opera omnia, ed. Basilea 1557, pp. 314-315), e che, posto "in omnium medio... tanquam publica creatura... quod relictum erat in Natura vacuum, potentiis, umbris, speciebus, imaginibus. et rationibus supplevit" (Bovillo, De Sapiente, ed. Klibansky, in Cassirer, Individuum u. Kosmos in der Philosophie d. Renaissance, p. 355)

Eccolo padroneggiare la storia umana e, relegato nel fondo - in un fondo a malapena percettibile - il volere divino, creare da sé, con la sua volontà e sotto l'impulso delle proprie passioni e interessi, il corso degli eventi: la nuova grande storiografia, di Machiavelli e di Guicciardini, parla solo di lui e delle sue gesta, e dalle pagine delle Istorie Fiorentine o della Storia d'Italia egli domina la scena, sia che lo storico lo effigi - come personalità morale assai più che non fisica - con pochi ma sicuri tratti, sia che lo faccia parlare in quei discorsi non per pura voluttà retorica inseriti, ora, dagli storiografi nel loro racconto. Eccolo infine padrone della vita statale e crearsi una dottrina politica che non conosce altri fini se non fini prettamente umani, di potenza, che si governa con le proprie leggi senza più riguardar né a religione né a morale, con piena autonomia d'azione: altro grosso strappo nell'involucro universalistico medievale.

Ma, per quanto alto fosse il posto dell'uomo, il suo predominio non era ancora senza nubi: e il grosso problema di conciliar la sua libertà e possanza con le leggi della natura - a mano a mano rivelatasi come entità a sé, come realtà oggettiva fuori dello spirito umano e quasi quasi fuori, persino, dei volere divino - e, ancora, con la volontà divina, risorgeva tanto più grave quando ci si faceva a costruire una visione unitaria. Se l'uomo appariva capace di padroneggiar la natura, non era men vero che questa manteneva una realtà a sé, con forze proprie; s'egli era riuscito a crearsi una estetica e una dottrina politica autonome, non era tuttavia giunto a crearsi un sistema morale sciolto dai nessi con i presupposti e i fini metafisici, cioè religiosi: donde l'oscurarsi del quadro d'insieme, le incertezze e frammentarietà di pensiero e quel che di misterioso che rimane attorno all'uomo, impenetrabile anche al più fermo dei voleri, quella fortuna, così cara al Rinascimento e greve di significato oscuro - parte concatenamento necessario e fatale degli eventi stessi, parte ancilla Dei e della imperscrutabile volontà divina, parte ancora magico influsso di stelle e fatalità astrologica - che cozza costantemente con la "virtù" e ora n'è vinta e ora invece con "straordinaria malignità" l'atterra, anche se strenuissima, offrendoci, col suo perpetuo ritorno, l'immagine più schietta del dissidio che mina sempre nel profondo la speculazione del Rinascimento, e che impedisce alle sue concezioni d'insieme di pervenire a quella lucidità fredda e decisa, espressione di una compiuta e piena coscienza di tutto il problema, che caratterizza invece le sue concezioni particolari dell'arte e della politica.

Nonché eliminato, l'assillo religioso riappariva dunque più forte: il bisogno di giustificare l'essere e il mondo, natura e creatura, volontà e fortuna, di salvare l'universalità della legge morale, di ritrovar l'unità al disopra del crescente disgregarsi delle forme di vita, riconduceva il pensiero dell'uomo alla Provvidenza: una Provvidenza certo parecchio diversa dalla Provvidenza dantesca e petrarchesca, una Provvidenza che recava già in sé taluni di quei caratteri di razionalità pura sviluppati in ben altra maniera, circa due secoli più tardi, dai deisti inglesi, che per avvicinarsi l'uomo - la grande creatura - stava perdendo proprio la sua nota più profondamente e dolorosamente umana, la nota del peccato e dell'espiazione, ma che nonostante tutto trascendeva pur sempre l'uomo. Proprio sul finire del Quattrocento, attraverso le preoccupazioni dei neoplatonici fiorentini e i loro tentativi di una religione-filosofia e il loro sincretismo mistico-religioso riappariva più nettamente un bisogno di evasione dal puro ambito terreno che pareva riportare, in certo senso, ai primi periodi della nostra vicenda. Il movimento savonaroliano non era, sotto questo punto di vista, un mero anacronismo; né mero episodio erano l'amicizia con il riformatore del principe dei filosofi fiorentini, l'esaltatore della "dignità" dell'uomo Pico della Mirandola, e i propositi di conversione di quest'ultimo e, ancora, la caratteristica ultima fase dell'arte botticelliana.

Riapparivano, queste preoccupazioni, proprio nel momento in cui la civiltà del Rinascimento italiano cominciava a imprimere solido e durevole marchio nelle terre d'oltralpe, dove anzi esse si sarebbero ripercosse con ancor più insistente eco: a Marsilio Ficino e a Pico specialmente avrebbero guardato gli umanisti europei, da Colet a Tommaso Moro a Erasmo, i quali, procedendo più oltre, rianimando il dibattito meramente speculativo con un acuito senso di rinnovamento cristiano e dando nuovamente prevalenza decisiva all'elemento morale - la salvezza dell'anima - sull'elemento puramente dottrinale e teologico, avrebbero aperto la via alla Riforma.

Ma come le preoccupazioni religiose, così veniva riaffermata con la massima forza - e sia pure con ben altra applicazione - un altro dei motivi fondamentali che si sono scoperti all'inizio del Rinascimento: vale a dire il motivo del rinnovo, di una ricostruzione nel prossimo futuro che s'ispira a un modello nel passato, al momento-rivelazione che contiene i "buoni principî" a cui bisogna ritornare per liberarsi dalle scorie e dalla barbarie - morale o intellettuale - provocata dai calamitosi tempi più recenti. Il motivo era ripreso, con singolare perspicuità, dal meno religioso degli spiriti del Rinascimento, dal Machiavelli, e su un terreno il più lontano possibile da quello ch'era stato caro alle anime pie del Duecento (v. machiavelli): ma la trasposizione su terreno puramente umano non impediva che risorgesse così un atteggiamento di pensiero, una forma mentis alla cui origine stava una schietta esperienza religiosa e che, pertanto, continuava a costituire il più vero e profondo legame fra Rinascimento e Medioevo, fra le vecchie e le nuove generazioni. Una forma mentis che escludeva di per sé l'idea di progresso, e si doveva invece richiamare alla dottrina dell'eterno avvicendamento delle cose umane, dell'immutabilità della natura umana attraverso i secoli: e se nell'umanesimo "borghese" della Firenze quattrocentesca, nelle meditazioni, per es., dell'Alberti, nel trattato della pittura, era già balenata l'intuizione, nuova, della superiorità dei moderni sugli antichi, e cioè l'intuizione del progredir della storia, col Machiavelli si ribadiva invece, in pieno, quella dottrina del vero e del bello incarnati in un frangente della storia passata, che aveva costituito la ragion d'essere dell'Umanesimo.

Vengono ripresi, dunque, questi motivi; e passano, l'uno e l'altro, nella Riforma: anche il motivo del rinnovo. Perché se la Riforma vuol ripristinare il regno di Dio e non il regno della humanitas, se dunque sotto questo riguardo il distacco non potrebbe essere più netto, anche i riformatori, almeno nella prima fase del sommovimento, credono nella possibilità dei rinnovi e si affisano in un modello lontano, la vera parola di Cristo, per ritrarne impulso verso l'avvenire, verso l'imminente novus ordo - nesso sostanziale questo, di mentalità, fra Rinascimento e Riforma e fra l'uno e l'altra insieme e il Medioevo.

Ma proprio allora il mito del rinnovo vien meno nella terra che l'ha alimentato per tre secoli. La reazione contro l'"antico", come modello e norma; il contrasto fra le due mentalità, quella che crede ancora nella possibilità di rinnovi sulla base di un ritorno a "principî", di vita e d'azione, di un momento del passato, e quella che rifiuta invece il valore dell'"esempio" e del modello storico e postula invece semplicemente la conoscenza della realtà attuale, troppo diversa dalla passata e quindi non padroneggiabile sulle tracce altrui, questo contrasto, espresso con la più plastica e immediata evidenza nel contrasto Machiavelli-Guicciardini, ma percepibile sempre - ad es., nei paralleli fra Roma antica e Venezia moderna - e precorritore della massima bruniana che i veri antichi sono i moderni e della grande querelle des anciens et des modernes, segna veramente il tramonto del Rinascimento.

Tramonto in stretta connessione con l'infiacchimento della vita italiana, con la iniziantesi decadenza politica ed economica, con il venir meno delle grandi speranze e della volontà d'azione, in una parola con il tramonto delle forze creatrici che avevano dato alimento ed essere alla nuova civiltà e ne avevano fatto l'espressione piena del vigoroso sorgere della nazione italiana: e basterebbe a dimostrarlo il ralfronto fra il Machiavelli, che dall'esempio dei Romani attingeva di continuo l'entusiasmo d'azione, la volontà di rinnovare la vita politica italiana, e il Guicciardini che, se rinunziava al modello, rinunziava nel contempo alle grandi aspirazioni. Il "mito" del modello moriva in quanto moriva anche il correlativo mito del novus ordo, del nuovo secolo d'oro: attesa escatologica e fede nel rinnovo cadevano, insieme, come insieme erano sorte. E già nell'arte, in quella stessa di Michelangelo, apparivano i segni di quella più tormentata intuizione delle cose che doveva, poi, dar alimento al Barocco; e già nella storiografia si riverberava l'amarezza delle sventure politiche della penisola, e sulla fede nella capacità di azione dell'uomo tornavano a proiettarsi, più forti, i dubbî, e tornava ad apparir il "miracoloso" di Dio o la precarietà assoluta della fortuna; e già nel pensare politico si rifuggiva dalla lineare chiarezza e semplicità della meditazione machiavelliana, assillati come si era da risorgenti e angosciose domande sul bene e sul male, sul lecito e sull'illecito. Era cioè di già, verso la metà del sec. XVI lo stato d'animo della Controriforma che prevaleva. Ché se lo spirito speculativo del Rinascimento doveva giungere, proprio allora, alle sue ultime, ma più forti manifestazioni, e trovare nel Bruno il più efficace coordinatore dei termini contrastanti fra cui esso s'era dibattuto, il tono generale dell'epoca era ormai mutato. Come un poeta, Francesco Petrarca, aveva per primo espresso, pur tra i dubbî e i pentimenti della sua anima travagliata, che nuovo centro dell'universo era diventato l'uomo, così ora un altro poeta, Torquato Tasso, esprimeva, invece, il tormento nuovamente sopravvenuto nell'uomo e nell'anima sua, ricondotta all'angoscia del peccato.

Bibl.: Fondamentali la classica opera di J. Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia, trad. it., voll. 2, n. ed., Firenze 1921; gli studî di W. Dilthey, L'analisi dell'uomo e l'intuizione della natura dal Rinascimento al sec. XVIII, trad. ital., voll. 2, Venezia 1927; K. Burdach, Riforma, Rinascimento, Umanesimo, trad. ital., Firenze 1934: id., Rienzo und die geistige Wandlung seiner Zeit, in Vom Mittelalter zur Reformation, II, i, Berlino 1913-1926 (è l'introduzione all'ed. dell'Epistolario di Cola di Rienzo. Del Burdach cfr. anche Deutsche Renaissance. Betrachtungen über unsere künftige Bildung, 2ª ed., Berlino 1920 e Dante und das Problem des Renaissance, in Deutsche Rundschau, 1924. E cfr. pure P. Piur, Cola di Rienzo, trad. it., Milano 1934). Cfr. inoltre sempre la classica opera di F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, voll. 2, Bari 1925.

Per la storia del concetto e discussioin relative cfr. soprattutto: K. Borinski, Die Weltwidergeburtsidee in der neueren Zeit, I., Der Streit um die Renaissance und die Enstehungsgeschichte der historischen Beziehungsbegriffe Renaissace und Mittelalter, in Sitzungsberichte des bayerische Akademie d. Wissensch., 1919; e inoltre C. Neumann, Byzantinische Kultur und Renaissancekultur, in Historische Zeitschrift (1903); W. Goetz, Mittelalter und Renaissance, in Historische Zeitschrift, XCVIII (1907); K. Brandi, Das Werden der Renaissance, 2ª ed., Gottinga 1910; A. Philippi, Der Begriff der Renaissance, Lipsia 1912; W. Weisbach, Renaissance als Stilbegriff, in Histor. Zeitschrift, CXX (1919); E. Troeltsch, Renaissance und Reformation, in Gesammelte Schriften, IV, Tubinga 1924; H. Hefele, Zum Begriff der Renaissance, in Historisches jahrbuch, XL (1929); J. Huizinga, Das Problem der Renaissance, in Wege der Kulturgeschichte, trad. tedesca, Monaco 1930; D. Cantimori, Sulla storia del concetto di Rinascimento, in Annali d. R. Scuola Normale superiore di Pisa, s. 2ª, I (1932); F. Chabod, Il Rinascimento nelle recenti interpretazioni, in Bullettin of the international Committee of Historical Sciences, XIX (1933); N. Nelson, Individualism as a Criterion of the Renaissance, in Journal of English and Germ. philology, XXXII (1933); R. Stadelmann, Zum Problem des Renaissance, in Neue Jahrbücher, X (1934); G. Weise, Der doppelte Begriff der Renaissance, in Deutsche Vierteljahschrift für Literatur, Wissenschaft u. Geistesgeschichte, XI (1933); H. W. Eppelsheimer, Das Renaissance-Problem, ibid.; C. Neumann, Ende des Mittelalters? Legende von der Ablösung des Mittelalters durch die Renaissance, ibid., XII (1934); E. Anagnine, Il problema del Rinascimento, in Nuova rivista storica, 1934. Cfr. inoltre G. Falco, Il problema del Medioevo, I, Torino 1933; F. Neri, La Rinascitamedievale, in Atti R. Accademia di scienze di Torino, LXVIII (1933).

Per l'Umanesimo, oltre la classica opera di G. Voigt, Il Risorgmento dell'antichità classica, trad. ital., Firenze 1888-90, cfr. G. Toffanin, Che cosa fu l'Umanesimo, Firenze 1929; id., Storia dell'Umanesimo, Napoli 1934; id., La fine dell'Umanesimo, Torino 1920 (per maggiori indicazioni v. umanesimo).

Per i caratteri sociali-politici del Rinascimento, G. Volpe, La Rinascenza in Italia e le sue origini, in Momenti di storia italiana, Firenze 1925.

Per il pensiero filosofico del Rinascimento: B. Spaventa, Rinascimento, Riforma, Controriforma, Venezia 1928 (ristampa di saggi già pubblicati nel 1867); G. Gentile, Giordano Bruno e il pensiero del Rinascimento, 2ª ed., Firenze 1925; id., Studi sul Rinascimento, ivi 1923: id., I problemi della scolastica e il pensiero italiano, 2ª ed., Bari 1923; G. Saitta, La filosofia di Marsilio Ficino, Messina 1923; id., Filosofia italiana e umanesimo, Venezia 1928; F. Olgiati, L'anima dell'Umanesimo e del Rinascimento, Milano 1924; E. Cassirer, Individuum und Kosmos in der Philosophie der Renaissance, Lipsia-Berlino 1927 (trad. ital., Firenze 1935); G. De Ruggiero, Rinascimento, Riforma e Controriforma, voll. 2, Bari 1930; e cfr. i saggi di E. Walser, raccolti in Gesammelte Studien zur Geistesgeschichte d. Renaissance, Basilea 1932, e anche il lavoro d'insieme di V. Zabughin, Storia del Rinascimento cristiano in Italia, Milano 1924.

Tra i lavori più particolari, ma utili anche per lo sguardo d'insieme, cfr.: H. Baron, Das Erwachen des historischen Denkens im Humanismus des Quattrocento, in Historische Zeitschrift, CXLVII (1932); id., La rinascita dell'etica statale romana nell'umanesimo fiorentino del Quattrocento, in Civiltà Moderna, VII (1935); e, dal punto di vista economico-sociale, F. Engel-Jánosi, Soziale Probleme der Renaissance, Berlino 1924; A. v. Martin, Soziologie der Renaissance. Zur Physiognomik u. Rhytmik bürgerlicher Kultur, Stoccarfda 1932; A. Fanfani, Le origini di spirito capitaistico in Italia, Milano 1933. Per l'attività scientifica, v. L. Olschki, Geschichte der neusprachlichen wissensch. Lit., voll. 3, Lipsia 1919-1927.

Come esempio delle esagerazioin della critica antirinascimento, v. il mediocre lavoro di J. Nordström, Le Moyen Âge et la Renaissance, Parigi 1933. E, invece, per un'esatta valutazione delle differenze fra arte, letteratura, ecc., del Medioevo e del Rinascimento, cfr. il fondamentale studio di M. Dvorák, Idealismus u. Naturalismus in der gotischen Skulptur u. Malerei, in Kunstgeschichte als Geistegeschichte, Monaco 1924. Cfr. anche E. Norden, Die antike Kunstprosa, II, 2ª ed., Lipsia e Berlino 1909; E. Panofsky, Idea, Lipsia-Berlino 1924; A. Goldschmidt, Das Nachleben der antiken Formen im Mittelalter, in Vorträge d. Bibliothek Warburg, I (1921-22).

Un'amplissima e ottima rassegna degli studî recenti sul Rinascimento è quella di H. Baron, Renaissance in Italien, in Archiv für Kulturgeschichte, XVII (1927) e XXI (1931), alla quale si rinvia per ulteriori indicazioni.

Architettura.

Una delle più concrete e tipiche espressioni della civiltà del Rinascimento italiano è precisamente l'architettura che, insieme con la pittura e la scultura, ha così fortemente influenzato il concetto tradizionale di Rinascimento (v. sopra). La sua formula del "risuscitare la buona Architettura antica" secondo le parole del Vasari, ricollega la produzione nuova alle opere architettoniche della romanità: le quali non erano soltanto lontani ricordi, ma costruzioni in parte ancora esistenti a Roma e in tante altre città d'Italia, oggetto di venerazione e di leggende e insieme di studio e d'ispirazione d'arte.

Si è sopra accennato alle cause profonde di questo movimento; qui basterà ricordare che nell'architettura, come in tanti altri campi della civiltà e dell'arte, la preparazione di questa ripresa di classicismo in Italia era stata lenta, quasi latente per secoli. Tutto l'Occidente, ma soprattutto Roma, aveva mantenuto nelle chiese lo schema basilicale; il romanico-lombardo aveva fin dal sec. XI affrontato, riprendendo l'esperienza costruttiva romana, le soluzioni della copertura a vòlta nella chiesa di tipo latino, e i battisteri avevano fin nei secoli più oscuri del Medioevo conservato lo schema dell'edificio centrale coperto a cupola; e nel romanico-toscano, a Pisa e a Firenze, e in parte in quello del Mezzogiorno d'Italia, erano apparse opere precorritrici del Rinascimento nelle proporzioni e nelle forme; e in Roma e nel Lazio i chiostri e gli atrî delle chiese eseguite dai Cosmati avevano ancor più accentuata questa tendenza, due secoli prima che divenisse costante e regolare.

L'invasione del gotico estero sembrò interrompere la continuità di questo andamento stilistico, ma solo apparentemente, perché ad essa è immediatamente seguito il fenomeno di trasformazione e di adattamento; sicché, come dice il Burckhardt, l'anima stessa dello stile settentrionale è stata sacrificata, ed è rimasto il carattere tutto meridionale dello spazio ampio, delle masse a linee longitudinali, delle proporzioni e delle linee ispirate a sensi di pura bellezza.

Malgrado questo, nella lenta evoluzione propria dell'architettura, alcune sopravvivenze di forme gotiche rimangono, mescolate con le forme nuove, ancora in moltissime opere architettoniche italiane del sec. XV; e più ancora rimane spesso l'organismo costruttivo e lo schema in rispondenza al programma del palazzo pubblico o della casa privata, della loggia, delle soluzioni urbanistiche, quale si era già in parte elaborato nel Trecento. Il che non vuol dire che nel Rinascimento siano vere influenze esotiche, come alcuni sostengono. Esso è una schietta produzione italiana, che si forma su nostri modelli e prosegue in una evoluzione autoctona e si compone per essa nelle varie fasi d'un vero e completo stile; il quale comincia nel sec. XV con manifestazioni ineguali e prevalentemente regionali, per divenire nel Cinquecento stile unitario ed avviarsi nella seconda metà del secolo XVI ad invadere l'Europa e a divenire stile mondiale.

La formula del ritorno all'antico, anche nel campo dell'architettura, fu più che altro un programma inteso a stabilire una disciplina e una meta. Il compito arduo e apparentemente artificioso di risolvere temi nuovi sulla base di canoni antichi ispirati ai modelli classici, riuscì in modo mirabile perché si mantenne nel campo della intuizione d'arte, anziché passare in quello della compassata imitazione accademica, che farà più tardi fallire il tentativo neoclassico del sec. XVIII.

Uno dei più importanti tra i temi architettonici svolti nel Rinascimento è quello delle sistemazioni cittadine (v. piano regolatore; urbanistica). Dal carattere irregolare e trito delle città medievali si ritorna a schemi geometrici che tendono verso la regolarità e la simmetria, pur senza rinunciare ad un garbo d'arte ed a forme individuali nell'aggruppamento delle masse edilizie. I tracciati di vie si avvicinano all'antico tipo reticolato, ma uniscono le curve alle rette e larghi laterali, ed accidentalità varie nel percorso. Le piazze mantengono il carattere racchiuso come di grandi sale, ma tendono ad una sempre maggiore unità architettonica.

Esempî di reti stradali di città o di borgate nel Quattrocento si hanno a Pienza, a Cortemaggiore, ad Ascoli, a Ferrara, ed anche a Roma in quel quartiere di Ponte sorto sotto Sisto IV, con le vie formanti ventaglio verso Castel S. Angelo. Le piazze di S. Marco a Venezia, di Udine, di Fabriano, di Faenza mostrano altrettanti esempî quattrocenteschi di armonica composizione negli spazî, in cui spesso entrano i portici nel perimetro. Nel Cinquecento i nuovi quartieri di Mantova e di Carpi, la Piazza dell'Annunziata a Firenze, la Piazza Farnese a Roma, la Piazza dei Signori a Padova seguono ed accentuano queste tendenze, che alla metà del secolo troveranno nuove espressioni nell'edilizia romana. La sistemazione delle tre vie convergenti a Piazza del Popolo, avvenuta sotto Paolo III, preluderà al piano regolatore stellare di Sisto V e alle soluzioni di vie rette convergenti su visuali monumentali che tante applicazioni avranno in Italia e all'estero. La Piazza del Campidoglio, ideata da Michelangelo e lentamente proseguita, è esempio perfetto di unità architettonica nella concezione di uno spazio edilizio. La Piázza degli Uffizî, di Firenze, in parte la Piazza dei Signori di Vicenza seguiranno, in diversa forma, tale soluzione, che il Ssicento porterà a ben più vaste applicazioni.

Il tema dell'edificio di abitazione ha seguito nel Rinascimento quasi costantemente questo programma: suddivisione di tre reparti della casa in tre piani: al piano terreno servizî e magazzini, al primo piano, il più importante ed ampio, ambienti di ricevimento, al piano superiore l'abitazione vera e propria, spesso priva di disimpegno e di comodità. Elementi essenziali architettonici: il vestibolo d'ingresso, il portico nel cortile quadrato o rettangolare che ne occupa uno, due e talvolta tutti e quattro i lati, la scala a due rampe contigue a cui questo portico mette capo, i saloni del primo piano. E questo programma, a gradazioni diverse e con varianti relative a taluni elementi (botteghe, loggiati ai piani superiori, piani aggiunti) trova espressione sia nei palazzi fastosi sia nelle modeste case.

Le soluzioni planimetriche e costruttive delle chiese possono aggrupparsi intorno allo schema longitudinale o a quello centrale. Prevale il primo nelle chiese quattrocentesche, spesso a forma basilicale con braccia allungate nel transetto e nel coro. Prevale il secondo, che tuttavia pur nel Quattrocento aveva avuto opere assai notevoli, nella prima metà del Cinquecento, quando i progetti per S. Pietro di Roma creano un modello che architetti di tutte le regioni cercano di imitare. Quando la Controriforma reca una stretta disciplina anche nell'architettura chiesastica, lo schema torna decisamente longitudinale. Ma sia nell'uno come nell'altro tipo è quasi costante l'adozione della cupola.

Quanto ad altri edifici, si hanno le sedi di confraternite, come le scuole veneziane, pubblici edifici, come la Zecca di Roma e quella di Venezia, le Procuratie veneziane e gli Uffizî di Firenze; biblioteche, come la Malatestiana a Rimini, la Laurenziana a Firenze e la Marciana a Venezia; collegi e scuole, come il Collegio Romano a Roma; e grandi ville, dapprima semplici, poi sempre più vaste, che intendono a riprendere il programma decentrato della villa antica, a cominciare dalla Villa Madama di Roma e seguitare con i tanti esempî di Bagnaia, di Tivoli, di Firenze, di Vicenza.

Il teatro dalle soluzioni provvisorie che si riportano allo schema antico tende a passare, a Parma ed a Vicenza, alle più complete espressioni della sala coperta e racchiusa.

I castelli e le altre opere di fortificazione, ad esempio, le porte di città (a Verona, a Perugia, a Napoli, a Roma, a Padova) prendono spesso aspetto civile, robusto ma ricco, e nei bastioni ampî, a pianta poligonale, sprovvisti di merlature e di alte torri, si riflettono i nuovi metodi di guerra basati sulle artiglierie, rispondenti ai nuovi tipi d'architettura militare, che è vanto di architetti italiani, come Francesco di Giorgio, i Sangallo, il Sanmicheli, di aver fissato e diffuso (v. fortificazione).

Varia è questa tipologia, ma non molto complessa nei volumi e nelle forme. Solo tende a divenir tale alla fine del Cinquecento, quando, ad esempio, al palazzo a massa parallelepipeda tende a sostituirsi una massa movimentata, a sporgenze e rientranze, a curve che si uniscono alle rette.

Applicate a questi schemi e rese di applicazione sobria e schietta da tale loro semplicità organica, si sviluppano le forme architettoniche, le quali tendono ad un concetto di bellezza e di armonia, che nel Quattrocento è spesso prevalentemente di superficie e si basa sull'eleganza dei particolari, ma che poi si afferma definitivamente nel ritmo perfetto delle proporzioni, nei ben determinati rapporti tra tutti gli elementi della composizione: tra lo spazio esterno e l'edificio dominante su una piazza, tra i vuoti e i pieni della facciata, tra le masse ed i particolari.

Il Thiersch (v. proporzione: Architettura) ha tentato di riportare questi metodi ad una unità ricercando nelle facciate o nelle piante rapporti geometrici elementari basati su figure simili; ma occorre dire che i risultati assai interessanti dei suoi studî e di altri che lo hanno seguito valgono più per noi che per gli architetti del Rinascimento, i quali avevano ormai nel proprio spirito acquisito il sentimento della proporzione. Solo essi hanno avuto una norma precisa, quasi grammaticale, nell'adozione degli ordini architettonici classici e delle loro misure modulari.

È stato questo il tema principale dei tanti trattati che si sono seguiti per interpretare e volgarizzare gli astrusi dati di Vitruvio: da quelli dell'Alberti a quelli di Francesco di Giorgio, del Serlio, del Palladio, fino ai "Cinque Ordini" del Vignola, che hanno avuto il grande merito della semplicità e dell'autonomia lasciata alla composizione, pur nell'inquadratura formale.

A questa elevatezza d'arte non sempre risponde quella costruttiva. Quando si escludono alcune opere singolari, come la cupola di S. Maria in Fiore e quella di S. Pietro, si può dire che la produzione generale del Rinascimento è nei riguardi tecnici inferiore a quella del precedente periodo gotico, sia nella concezione dell'organismo statico sia nell'esecuzione degli elementi di costruzione. Disciolte le vecchie maestranze, l'architetto è essenzialmente un artista che spesso proviene da altre arti; e nei semplici temi ordinarî non vede la necessità di una grande preparazione tecnica: nei temi vasti la cognizione statica gli giunge, più che dalla esperienza direttamente tesaurizzata, dalla concezione spaziale derivata dallo studio di antichi monumenti.

Così le vòlte si adottano in forme geometriche abbastanza semplici: e sono la vòlta a botte, o continua o lunettata, la vòlta a padiglione intersecata (specialmente nel Quattrocento lombardo) da lunette fitte sorrette da peducci, la cupola portata da pennacchi sferici ed avente ordinariamente superficie sferica, ma talvolta di sesto rialzato come nei due grandi esempî su indicati, di cui il primo, quello di S. Maria del Fiore, ancora può riportarsi alla tecnica gotica.

Primo Rinascimento. - Il primo dei tre grandi periodi in cui si suole dividere l'architettura del Rinascimento - e la divisione risponde bene, salvo non lievi interferenze e ritardi di fase, al carattere generale del tempo - è quello del Quattrocento. Esso s'inizia in Toscana nei primi decennî del secolo, nelle altre regioni intorno alla metà: ed è periodo ineguale e spesso incerto, che però appunto nella varietà della ricerca primaria e nella timidezza degli elementi architettonici, ingentiliti da un ornato di delicatezza spesso meravigliosa, trova i suoi elementi principali di bellezza.

Nella formazione dello stile può dirsi che convergano sì la teoria dell'eroe come quella dell'ambiente. Da un lato appare l'opera collettiva di maestranze, di artefici, minuto popolo dell'arte, che ravviva schemi architettonici spesso ibridi con la ricerca del piccolo particolare preziosamente lavorato; dall'altro si forma un'aristocrazia di architetti e di studiosi che intende il Rinascimento classico in modo organico nei concetti di spazî e di proporzioni, e precorre i tempi e costituisce scuole in cui si svolge il progresso dello stile. Sono tra queste alte figure di fondatori e di precursori alcuni architetti prevalentemente teorici, quali Leon Battista Alberti, Francesco di Giorgio, Fra Giocondo: altri prevalentemente pratici, come il Brunelleschi, Luciano di Laurana, Giuliano ed Antonio Giamberti da Sangallo e il Bramante.

Per tutti, il metodo di preparazione è stato quello dello studio dei monumenti antichi, nella ricerca, per taluni, dei particolari, per altri delle armonie spaziali; ed i numerosissimi disegni di rilievi che ancora si conservano, ci mostrano tale lavoro assiduo. A questo si è accompagnato lo studio teorico basato sul testo di Vitruvio ritrovato da Poggio Bracciolini.

Come già s'è accennato, la produzione architettonica quattrocentesca mantiene ordinariamente il carattere regionale che ebbe quella dei secoli precedenti, e con tali suddivisioni va quindi considerata.

Più fiorente fra tutte la scuola toscana, in mezzo al mirabile sviluppo d'ogni forma d'arte, e suo caposcuola il Brunelleschi. Di pochi artisti è l'opera più varia e complessa della sua. Grande tecnico nell'elevare la cupola di S. Maria del Fiore (avente struttura di duplice superficie a racchiudere i costoloni meridiani), il B. creò il nuovo tipo del palazzo fiorentino (nei palazzi Pitti e Pazzi), che poi Michelozzo, il Cronaca, Giuliano da Sangallo ed altri seguirono (nei palazzi Medici, Strozzi, Gondi a Firenze, Piccolomini a Siena, ecc.): cioè una forma robusta e solenne nell'esterno aspetto, col forte bugnato, le finestre a sesto semicircolare col sovrastante arco estradossato, la cornice di coronamento classica, tipo ancora ibrido, per il permanere di elementi medievaleggianti ispirati al Palazzo della Signoria, ma già rispondente a regolarità ed ampiezza di proporzioni. Più classico fu il Brunelleschi negli edifici chiesastici: le chiese fiorentine di S. Lorenzo e S. Spirito, di pianta basilicale, la cappella de' Pazzi, a pianta centrale con antistante portico l'inizio della chiesa degli Angeli, le costruzioni minori come la sacrestia di S. Spirito e l'interno della Badia Fiesolana, ove più ancora che nelle opere maggiori si manifesta un'arte semplice e severa, con grandi pareti nude racchiuse entro smilzi ordini architettonici; ed è l'arte che sarà mirabilmente sviluppata dai seguaci, come Michelozzo nei chiostri e nelle cappelle di S. Croce in Firenze, nella cappella Portinari a Milano; Giuliano da Sangallo nella Madonna delle Carceri di Prato; Francesco di Giorgio in S. Maria del Calcinaio presso Cortona, ecc.

L'opera di un altro grandissimo, Leon Battista Alberti, si riannoda in parte alla scuola fiorentina, ma è essenzialmente di un teorico isolato, il cui classicismo si svincola da tendenze regionali ed applica sistematicamente gli ordini architettonici desunti dai modelli antichi. Così nel palazzo Rucellai a Firenze, imitato dal Rossellino nel Piccolomini a Pienza, ove si ha nella facciata un ordine per ciascun piano; nel Tempio Malatestiano di Rimini, in S. Andrea ed in S. Sehastiano di Mantova, forse nel cortile del Palazzo di Venezia in Roma.

Il sottostile del Quattrocento lombardo differisce sostanzialmente dal sereno equilibrio di quello toscano, per il sopravvivere in esso di schemi ancora gotici, rivestiti di particolari decorativi classicheggianti, nei quali sfoggia un vero virtuosismo di finezza ornamentale. Si sviluppa alquanto in ritardo, ma invade con l'opera dei maestri dello scalpello, e talvolta con gli ornati in terracotta formati in serie, gran parte dell'Italia settentrionale, e vi permane anche nell'avanzarsi del Cinquecento.

I chiostri della Certosa di Pavia e, più tardi, la facciata della stessa Certosa, in cui ha avuto parte essenziale l'Omodeo, i pilastri e le porte nel fianco della cattedrale di Como, dei Rotari, la cappella Colleoni di Bergamo, fondata tra il 1470 ed il 1476, dell'Omodeo, la tomba di Gian Galeazzo Sforza a Pavia, di Cristoforo romano, sono le opere più significative di quest'arte, più da scultori che da architetti.

Ogni tanto, in mezzo a questa produzione, si levano alcune figure isolate, come quella del fiorentino Michelozzo nella su indicata cappella Portinari in S. Eustorgio di Milano, costruita intorno al 1465, del Formentone nella Loggia di Brescia (cominciata nel 1489), e, sopra tutti, del grandissimo Bramante nell'opera svolta sotto Ludovico il Moro a Milano, a Pavia, a Vigevano, ad Abbiategrasso.

L'architettura di Venezia si attarda in gran parte del secolo nella costruzione del Palazzo Ducale (di Bartolomeo Buon e dei suoi figlioi)) e di palazzi privati come la Ca' d'Oro. Il Rinascimento vi giunge di Lombardia, con i maestri Martino, Pietro, Moro, Tullio Lombardo ed altri, e si svolge in forme sottili prevalentemente decorative; nella chiesa di S. Zaccaria, cominciata nel 1456, in quelle di S. Maria dei Miracoli e di San Giovanni Crisostomo (intorno al 1480), nel palazzo Vendramin Calergi (circa del 1480), nella scuola di S. Marco (del 1485), a cui seguirono più tardi la scuola di S. Rocco e la corte del Palazzo ducale.

Bologna è terreno d'incontro tra i maestri lombardi, che eseguono mirabilmente colonne e capitelli dei portici schierati lungo le vie, e la scuola toscana a cui in parte può riportarsi il palazzo Bevilacqua, forse dell'architetto Nadi; il Palazzo del comune, quello degli Strazzaroli, il palazzo Fava, ed altri, hanno accenti più tipicamente locali. Il Palazzo del podestà, forse di Aristotile Fioravanti, assurge ad un carattere di classica ampiezza nel vasto porticato e negli ordini architettonici che inquadrano le finestre.

In Ferrara, sotto il vivace impulso della corte estense, è intenso il rinnovamento cittadino nel nuovo quartiere costituito nella zona a settentrione e nella vecchia città. Il campanile del duomo, che si vuole attribuire all'Alberti, il palazzo di Ludovico il Moro e quello di Schifanoia, più tardi il cosiddetto Palazzo dei Diamanti, cominciato nel 1493 per Sigismondo d'Este, le chiese di S. Francesco (intorno al 1494) e di S. Maria in Vado (iniziata nel 147), la Casa Romei, ecc., ne sono gli elementi più significativi; e l'architetto locale di maggior conto, equilibrato e savio, è Biagio Rossetti.

Urbino ha il mirabile Palazzo ducale, poi imitato in quello di Gubbio; Pesaro il Palazzo ducale ed il castello; e sono tutte opere di Luciano di Laurana, dalmata, al servizio, dal 1467, di Federico da Montefeltro. Loreto ha la grande chiesa, forse di Marino di Marco Cedrino, coronata nel 1500 dalla cupola di Giuliano da Sangallo.

Perugia vanta la Porta S. Pietro e la Chiesa di S. Bernardino, di Agostino di Duccio; Napoli la Porta Capuana e la Nolana e l'Oratorio Pontaniano, e soprattutto il Castel Nuovo rinnovato nel tempo degli Aragonesi ed abbellito dall'arco di trionlo di Alfonso il Magnanimo, finemente ornato di sculture da Francesco di Laurana. Nei palazzi Colobrano e Gravina (di Gabriele d'Agnolo) si ha un interessante riflesso dei palazzi fiorentini.

Torino ha il duomo, opera di Meo del Caprino; Padova la bella Loggia del Consiglio, forse del Rossetti; Verona il Palazzo del Consiglio, che si attribuisce al grande Fra Giocondo; Lucca il Palazzo Pretorio; Ascoli un grande numero di palazzi e di case; Narni e Viterbo il completamento dei palazzi comunali, ecc.

In Roma la produzione architettonica quattrocentesca non corrisponde per importanza al grande centro di studî sui monumenti antichi. Essa comprende principalmente il Palazzo di Venezia, iniziato nel 1455 dal cardinale Barbo, poi Paolo II, nelle opere attuate sotto Sisto IV, cioè le sistemazioni urbanistiche nel rione di Ponte, le chiese di S. Maria del Popolo e di S. Agostino, l'ospedale di S. Spirito, la Cappella Sistina; e presso Roma, le rocche di Tivoli, di Ostia, di Nettuno, di Civita Castellana. A cavaliere tra i due secoli, il Palazzo della Cancelleria, iniziato nel 1485 dal Riario, e continuato lentamente fino al 1511, forse dal Bramante, che intanto elevava un'opera simile nel palazzo del cardinale di Corneto (1504).

In Sicilia, il primo Rinascimento arriverà con ritardo di un secolo. Le chiese timidamente classiche di S. Caterina e di S. Maria dei Miracoli in Palermo, sono della seconda metà del Cinquecento, mentre edifici quattrocenteschi, come il palazzo Corvaia in Taormina e S. Maria della Catena in Palermo, hanno ancora i caratteri del gotico aragonese.

In mezzo a questa grande varietà di opere qualcosa di comune si trova nell'architettura italiana del Quattrocento, specialmente nelle manifestazioni minori. Così nelle porte e nelle finestre a mostra larga e piatta ma di timido aggetto; nei portici, che seguono costantemente il tipo dell'arcata portata direttamente da colonne, che quasi sempre presentano una colonna anche nell'angolo sporgente o rientrante, sostituita solo in casi di eccezione da un pilastro complesso a L, o ad aggruppamento di colonne (nel palazzo di Ludovico il Moro a Ferrara, nella Loggia del Consiglio di Padova, nel cortile del palazzo di Urbino e poi in quello della Cancelleria in Roma); nell'ornato elegante e sottile, in cui ancora vive spesso il senso individuale dell'artefice; in alcuni tipi di architettura decorativa, come nelle tombe addossate alle pareti delle chiese, aventi come elemento principale l'urna con la figura giacente del defunto; e, più in generale, nel carattere decorativo che reca intima unione con la scultura e con la pittura.

Medio Rinascimento. - Sull'architettura del Medio Rinascimento svoltasi all'incirca nella prima metà del sec. XVI, dominano Roma e la grande figura del Bramante. Questi, nell'opera della seconda fase della sua vita, più che portare a compimento edifici, costituisce modelli per la scuola formatasi intorno a lui, che terrà il campo per molti decennî ancora.

Il primo periodo del Bramante in Lombardia aveva prodotto opere architettoniche, come la parte centrale di S. Maria delle Grazie e S. Satiro, ed i chiostri di S. Ambrogio in Milano, e la chiesa di Abbiategrasso, ed i modelli per il duomo di Pavia, nelle quali, pur indulgendo alla tendenza locale del diffuso ornato sottile, già si affrontavano con senso classico i grandi problemi dell'architettura spaziale e specialmente quelli del sacro edificio a pianta centrale. A Roma questa ricerca, dopo le prime opere di transizione, si afferma in pieno nel tempietto di S. Pietro in Montorio, nei progetti per S. Pietro in Vaticano, cominciati a tradurre in costruzione nel 1506; nel Palazzo dei Tribunali e nel Palazzo Vaticano, nella casa elevata per Raffaello in Borgo. Egli stabilisce così i tipi del palazzo pubblico, della casa, della chiesa monumentale.

Appartengono alla scuola di Bramante il nipote Raffaello Sanzio, autore del palazzo Pandolfini in Firenze e della cappella Chigi, del palazzo Caffarelli (poi Vidoni), del palazzo Dell'Aquila (demolito) in Roma; Antonio Cordini da Sangallo che ha per capolavoro il palazzo Farnese in Roma, ma che in tutta Italia ha lasciato opere civili e militari come il pozzo di S. Patrizio in Orvieto, le fortificazioni di Perugia e di Ancona; Baldassare Peruzzi, autore in Roma del palazzo Massimo e della villa Chigi detta la Farnesina, in Bologna del palazzo Albergati, a Siena forse dei palazzi Pollini e Mocenni; Giulio Romano, a cui si debbono in Roma il palazzo Alberini, in Mantova il Palazzo del Te; Michele Sanmicheli e Iacopo Sansovino, che specialmente operarono nel Veneto; il primo a Verona, ove sono sue opere le fortificazioni e le porte urbane, i palazzi Pompei, Bevilacqua, Canossa, Guastaverza, la chiesa di San Giorgio, ecc.; il secondo a Venezia, ove la sua feconda attività è esplicata nella Biblioteca di S. Marco, nella Zecca, nella chiesa di S. Francesco della Vigna, ecc.

Anche al Bramante si riconnette direttamente l'arte di Andrea Palladio, il quale nei palazzi e nelle ville vicentine, nel teatro Olimpico, nella Basilica e nella Loggia del Capitanio nella Piazza dei Signori a Vicenza, nella chiesa del Redentore a Venezia, porta a sviluppo sempre maggiore l'applicazione degli ordini desunti dagli antichi monumenti, ad inquadrare con nuovo ritmo le composizioni architettoniche.

Tutta una pleiade di architetti lavora con nuovo fervore nelle città italiane in quel tempo: sopravvivono al Bramante Fra Giocondo e Giuliano e Antonio il Vecchio da Sangallo; e fioriscono Cola dell'Amatrice ad Ascoli e ad Aquila, il Della Genga a Pesaro, lo Zaccagni a Parma, il Montorsoli a Genova, il Dosio e Baccio d'Agnolo a Firenze, il Formigini a Bologna (intorno al 1525), Nanni di Baccio Bigio e il Mangone e Girolamo da Carpi e Andrea Sansovino a Roma. Tutti, dal più al meno, seguono il carattere impresso dal Bramante all'architettura: di regolarità ritmica, di ampiezza negli spazî, di ricerca degli effetti negli aggruppamenti semplici delle masse e delle linee, e non più nell'ornato.

Nelle chiese, il modello di S. Pietro, a pianta centrale e a grande cupola, è imitato, in scala minore, in opere numerosissime: S. Maria della Steccata di Parma, S. Maria della Consolazione di Todi, S. Giorgio di Verona, la chiesa dell'Umiltà a Pistoia, S. Maria delle Vergini a Macerata, ecc., e solo qua e là riprende la forma longitudinale come nella chiesa di S. Spirito a Roma, o in S. Francesco al Monte presso Firenze.

Nei palazzi, più vasti e di più classici motivi che non nel tempo precedente divengono i cortili, con i portici ad arcate che ritrovano il motivo romano del colosseo.

Nelle facciate diverse sono le soluzioni. Alcune seguono il tipo fissato dal Sangallo nel palazzo Farnese, senza ordini architettonici, a conformazione liscia di parete da cui risaltano le divisioni orizzontali, a bugnato che accentua gli spigoli e le inquadrature, robustamente rilevate, delle porte e delle finestre; nella quale disposizione semplice ed aderente alla costruzione l'effetto è dato essenzialmente dai rapporti armonici tra gli elementi e la massa.

Ordinariamente in questo tipo il cornicione di coronamento, imitato dagli antichi templi (quello del palazzo Farnese è stato completato da Michelangelo) ha altezza ed aggetto che misurano da 1/12 ad 1/17 dell'altezza dell'edificio, mentre le cornici intermedie di piano o di davanzale assumono un valore assai minore e spesso si trasformano in semplici fasce per lasciar dominare la generale inquadratura architettonica. Talvolta è bugnata, talvolta liscia la zona basamentale.

Le soluzioni invece ehe si valgono degli ordini architettonici addossati al prospetto si iniziano già nel Quattrocento (col palazzo Rucellai dell'Alberti) con la sovrapposizione degli ordini, uno per piano; ed il motivo è seguito in non pochi edifici cinquecenteschi, come in quelli veneziani del Sansovino, nel palazzo Malvezzi a Bologna, nella Farnesina a Roma. Talvolta, quando i piani sono due soltanto, la zona basamentale si fa bugnata e su essa si pone l'ordine architettonico, secondo un tipo che Bramante aveva adottato nella casa di Raffaello e che Raffaello stesso seguirà nel palazzo Caffarelli, il Sanmicheli nel palazzo Pompei.

Ma questo ordinamento, se non è applicato a vasti spazî, risulta spesso meschino e crea non poche difficoltà nella cornice di coronamento, sia che questa si proporzioni all'ultimo ordine, sia che corrisponda con giusto rapporto a tutto l'edificio. Si determina allora la soluzione dell'ordine architettonico che abbraccia due piani, e l'adotta nei palazzi veronesi il Sanmicheli, nei vicentini il Palladio, il quale giunge poi nel palazzo Valmarana ed in quello del Seminario alla soluzione estrema dell'ordine gigantesco che racchiude tutto l'edificio, sormontato or sì or no da un alto attico di cui forse il Foro di Nerva a Roma ha dato il primo modello.

Pur negli altri tipi di edifici lo stesso sentimento di trasportare la composizione nelle masse e nelle grandi linee viene a manifestarsi. Così, ad esempio, nelle tombe, che nel Quattrocento erano opera di scultura decorativa e che rimangono tali fino a quei capolavori che sono i sepolcri Sforza e Basso di Andrea Sansovino in Santa Maria del Popolo in Roma; e poi subito si trasformano in opere architettoniche come nei monumenti di Leone X e di Adriano VI in Roma, del Doge Vendramin a Venezia. Solo vi comincia ad intervenire l'elemento cromatico dato dai marmi colorati, che già Raffaello aveva introdotto nella cappella Chigi in S. Maria del Popolo in Roma.

Tardo Rinascimento. - Naturale evoluzione e stanchezza di forme semplici hanno verso la metà del Cinquecento avviato l'architettura a nuovi atteggiamenti, in cui si riproduce il fenomeno di sviluppo stilistico apparso, ad esempio, nell'architettura romana dopo il secolo I d. C. o nella gotica alla metà del Trecento.

Già nel periodo precedente non erano mancati i tentativi individuali di ricerca di novità per ottenere forme e ritmi inusati. Così Giulio Romano a Mantova aveva profuso effetti di illusione prospettica nel Palazzo del Te, e negli interni del Palazzo ducale e nella facciata della propria casa aveva sfoggiato linee contorte, timpani spezzati, decorazioni invadenti di stucco e di pittura. Lo stesso Peruzzi, il più puro degli architetti del Rinascimento, aveva nella Farnesina in Roma adottato il partito planimetrico delle due ali avanzate, come più tardi il Maderno e il Bernini faranno nel palazzo Barberini; e le applicazioni di marmi colorati avevano già cominciato a sostituire negli interni la severità delle pareti lisce o degli ornati in semplice pietra.

Ora la tendenza si accentua e rende più ricche e complicate le espressioni architettoniche, quasi polifonia che si sostituisca al limpido e sereno canto del Palestrina. E la ricerca del nuovo si compie o con aggruppamenti di ordine più vasto di quelli che erano dati all'architettura di superficie piana e regolare, cioè con l'imprimere movimento alle masse, o con lo studiare ampie disposizioni urbanistiche, ovvero con l'adottare complesse linee a partiti suddivisi, o infine con l'appesantire e rendere bizzarro il particolare e col sovrapporre un diffuso ornamento invadente, reso spesso facile dall'impiego dello stucco.

Talvolta invece, a contrasto con questi tentativi di novità, si vedono gli stessi architetti più arditi, o per stanchezza propria o per imposizione di committenti, ritrarsi in un'architettura convenzionale, che sviluppa in modo banale e freddo i temi del periodo precedente; e così, ad es., la facciata sangallesca trova numerosissime applicazioni che non vi aggiungono altro che un modo grossolano di sagome, o al più ne accentuano il motivo della finestra centrale.

Si vedrà così l'Ammannati alternare la composizione del palazzo Mattei (poi Caetani) in Roma con quella nuova e vivace del Collegio Romano e col Palazzo ducale di Lucca, che per più rispetti si può già considerare un'opera barocca; Galeazzo Alessi svolgere opera sobria nei palazzi e nelle ville genovesi ed a Milano sbrigliarsi nell'ornato del palazzo Marino o di S. Maria presso S. Celso, il Vignola creare la villa di Papa Giulio in Roma, a sporgenze ed a grandi esedre, ed iniziare il grande palazzo Farnese a Piacenza che sembra un moderno casamento di affitto; Domenico Fontana passare dal Palazzo Lateranense di Roma al Palazzo reale di Napoli.

Il tempo di cui ci occupiamo ha, in altre parole, carattere dinamico di transizione verso concetti a cui gli architetti non sono ancora pienamente preparati e maturi. Fiorirà subito di poi, come logica continuazione, il Seicento, seguendo ed accentuando i tre concetti ora accennati, che possono dirsi il nuovo fermento recato all'evoluvione architettonica dell'ultimo cinquantennio del Rinascimento. E giustamente quindi autori come il Wölfflin, il Muñoz, il Riegl, il Gurlitt iniziano la trattazione del Barocco architettonico da questo periodo dell'arte italiana, e in particolare di quella svoltasi a Roma.

Molti di questi caratteri sono riassunti dalla grandissima figura di Michelangelo che nella Sacrestia Nuova ha espresso già, entro una inquadratura brunelleschiana, accenti personali di forme architettoniche nuove. A Roma i progetti già menzionati per la sistemazione della Piazza del Campidoglio aprono la via a un concetto architettonico e urbanistico di ampiezza e di sviluppo in aggruppamenti edilizî; la porta Pia ha nella linea d'insieme e nel grandioso portale un forte carattere che può definirsi completamente barocco; ma l'opera maggiore sta nella fase definitiva della costruzione di S. Pietro, da lui iniziata nel 1546. Ivi Michelangelo ha ripreso il concetto bramantesco dell'edificio a pianta centrale, ma ha sfrondato la pianta e l'alzato da tante opere minute, imprimendo una salda unità di linee e di spazî. Con l'adozione dell'ordine gigantesco, che doveva accentuarsi nel pronao, ha dato all'esterno adeguato carattere di grandezza; con la concezione, da lui attuata soltanto in parte, della cupola, ha immaginato forse l'opera più perfetta che mai abbia dato l'arte degli spazî.

In nessun modo paragonabili con il grande, ma numerosissimi ed attivi, sono gli altri architetti che hanno operato nella seconda metà del Cinquecento in temi che sono quelli della casa, del palazzo, della chiesa, della scuola, della villa: Giacomo Barozzi da Vignola; Bartolomeo Ammannati; Giorgio Vasari; Galeazzo Alessi; Giacomo della Porta; Pirro Ligorio; Domenico Fontana, l'architetto di Sisto V, ch'è il realizzatore delle grandi concezioni urbanistiche romane; figure minori sono Pellegrino Pellegrini in Lombardia; Giacomo del Duca a Roma e a Messina; il Lurago ed il Seregni, continuatori della scuola dell'Alessi; Martino Lunghi, Flaminio Ponzio, Ottaviano Nonni in Roma; lo Scamozzi nel Veneto; il Pennone e il Lurago a Genova; il Camiliani in Sicilia.

Nella tipologia degli edifici di questo tempo assume posto principalissimo la chiesa che può dirsi della Controriforma, in quanto segue i canoni della liturgia ed esprime i criterî di schema architettonico adottati, anche perché acconci alla predicazione, dai nuovi ordini religiosi dei gesuiti, dei teatini, dei padri dell'Oratorio. La chiesa assume forma planimetrica a croce latina con una vasta navata longitudinale, affiancata da cappelle laterali contenenti i numerosi altari, in modo da poter abbracciare tutto lo spazio con uno sguardo ed evitare le suddivisioni delle navatelle. La costruzione è a vòlta con contrafforti interni che si prolungano in esterni speroni, ripetendo in certo modo, con un concetto assai significativo, l'organismo delle sale termali romane; e nell'incontro tra la nave e il transetto si eleva la cupola. La facciata è ordinariamente a due ordini sovrapposti, di cui il superiore è coronato da timpano e collegato lateralmente con due volute all'inferiore. Solo in casi isolati (a Venezia nella chiesa del Redentore, a Roma in S. Francesca Romana) si adotta l'ordine unico seguendo un tipo già iniziato dall'Alberti a Mantova.

La chiesa del Gesù è il primo ampio esempio, a cui seguono innumerevoli altri a Roma, nel resto d'Italia, all'estero. Salvo lievi varianti, tale rimarrà il tipo comune nelle chiese del Seicento, in cui solo si darà assai maggiore rilievo e più vario movimento agli ordini architettonici della facciata (a cominciare dalla chiesa di S. Susanna, elevata dal Maderno a Roma intorno al 1600) e si renderà più ricco l'interno. A questo schema s'innesta la cupola, nella forma che Michelangelo e i suoi continuatori, il Fontana e il Della Porta, avevano plasmato in S. Pietro, dove la rispondenza alla funzione costruttiva si fonde con l'armonia astratta della forma e delle proporzioni. E anche questo elemento, con cui si chiudono in alto le masse salde e si lanciano al cielo come un'offerta, verrà imitato in infiniti esemplari, quasi un simbolo di dignità d'arte e di unità religiosa.

Si chiude con questo degnamente la storia del Rinascimento architettonico, ma comincia quella della sua generazione feconda a diffondere nel mondo civile schemi e forme germogliate in Italia.

Già intorno alla metà del Cinquecento questa diffusione stilistica si inizia: in Francia con i castelli di Blois e di Chambord, con la villa di Fontainebleau, con la prima costruzione dei palazzi del Louvre e delle Tuileries, con l'opera di architetti come il Lescot, il Delorme, i Du Cerceau, che si possono dire allievi del Bramante, o con quella di artisti italiani, quali il Primaticcio ed il Serlio; in Germania col castello di Heidelberg, col Rathaus di Colonia, con il Pellerhaus di Norimberga; in Spagna con le cattedrali di Granata e di Valladolid, la casa Lonja di Siviglia e il palazzo dell'Escorial in cui molto ha lavorato il Vignola; nel Belgio col Palazzo comunale di Anversa, ecc.: propaggini a cui seguirà nel Seicento una vera invasione delle nuove forme classiche, recate da architetti e da artefici nostri, o diffuse per mezzo dei trattati; talora aggruppate a costituire speciali formazioni stilistiche nazionali o regionali.

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Scultura e pittura.

È opportuno riprendere qui alcuni dei motivi critici già accennati di sopra, per svolgerli con particolare riguardo alla pittura e alla scultura.

Nella storia delle altre arti, forse più che in quella dell'architettura, il termine "rinascimento" si è andato estendendo a periodi diversissimi, anche a reviviscenze molto parziali di forme remote o dissuete, né soltanto dell'arte classica: si è affermato un rinascimento dell'arte antica nei secoli V e VI, dell'arte bizantina nei secoli IX e X, e nell'arte carolingia, e nel periodo svevo dell'Italia meridionale; più in genere, si è detto rinascimento qualunque rifiorire d'intensità e di qualità nell'operare dell'arte. Né rifiutiamo, quando sia definita a volta a volta, qualunque ragionata accezione di quel termine, poiché molte volte si sono dati nell'arte periodi di rifiorimento e di rinascita (il Vasari già disse di "rinascita" l'arte italiana del sec. XIII, con Nicola Pisano e con Cimabue), e frequenti sono stati i ritorni al passato, anche se di necessità abbiano sempre portato a qualcosa di diverso: ritorni che sono per lo più effetti normali di una causa sempre operante, quando concorrano le condizioni favorevoli, qual'è l'azione delle opere d'arte, anche remote di tempo e di spazio, su artisti che siano disposti a risentirla. Ma "Rinascimento", senza altre qualifiche, ha un senso ormai legittimato da uso secolare: e, sebbene sia quasi impossibile definirlo recisamente, in sé e nella sua durata, essendo uno di quei complessi fatti spirituali che non si possono isolare senza reciderne molte radici nei precedenti e molte propaggini nel seguito, il Rinascimento è bene individuato nel suo nucleo centrale da certe qualità che sorgono, insistono variamente, hanno loro vicende nell'arte italiana dei secoli XV e XVI, non meno nelle altre arti che nell'architettura.

Quando non si attribuiscano al Rinascimento, come suoi particolari, caratteri generici che si trovano anche in altri periodi dell'arte; quando non soltanto si mettano in evidenza alcune sue qualità più profonde che appartengono, definite in modo vago, a molti altri momenti dell'arte, ma si precisi anche come esse prendano forma nell'arte, il Rinascimento assume figura concreta, squisitamente italiana, con una storia tutta italiana.

Il "naturalismo", che comunemente si afferma dominante nel suo primo periodo, del Quattrocento, non basta a definire il Rinascimento della scultura, né di fronte alla plastica francese del principio del sec. XIII, né di fronte a quella fiammingo-borgognona della fine del sec. XIV; ed è ancor più insufficiente a definirlo nella pittura al confronto dell'arte dei fratelli van Eyck: perciò chi lo prese come carattere essenziale della Rinascita non mancò di affermare ch'essa sia stata iniziata fuori d'Italia, dall'arte oltramontana. D'altro lato, il Rinascimento non si può definire nella scultura, e ancor meno nella pittura, quale un modificarsi di quel naturalismo tra i riflessi dell'arte antica, se pur questi siano stati uno dei suoi particolari coefficienti, e in qualche momento, cioè nel sec. XVI, abbiano avuto un'azione profonda: caratterizzarlo in tale maniera sarebbe diminuirne, misconoscendola, l'originalità.

Cause d'incertezza e di confusione nel definire il Rinascimento, specie nella pittura e nella scultura, sono state la confusione e l'incertezza nel concetto di arte "gotica", cagionate dal definire lo stile gotico con caratteri troppo generici, che si ritrovano in periodi e in opere d'arte diversissimi fra loro. E occorre qui indugiare a chiarire una questione che non è di pura terminologia. Nella scultura e nella pittura, riguardando specialmente la loro forma, si è indicata come carattere più distintivo dello stile gotico la riduzione del rilievo - spazio, volume - a superficie, a composizioni lineari: e, seguendo questa tendenza "gotica" insistente attraverso i secoli, si è affermato esservi un nesso tra cose disparatissime, che vanno dall'arte barbarica a Sandro Botticelli; riguardando alle emozioni che quella forma esprime, si è attribuita all'arte gotica la qualità di trascendere ogni limite di "naturalezza" pur di comunicare più fortemente la concitazione di affetti, che ad essa sarebbe particolare: perciò si sono dette "gotiche" molte opere di Donatello, dalle porte della sagrestia di S. Lorenzo in Firenze alla Deposizione nell'altare del Santo a Padova, e "neogotico" è stato detto il Botticelli. È facile riflettere che, alla stregua degli stessi caratteri, non meglio determinati da altri concomitanti, si potrebbero dire "gotiche" tutte le opere in cui l'arte trascenda la comune misura del naturale per giungere ad una più intensa espressione: i capolavori dell'arte bizantina; quelli dell'arte preistorica nelle pitture delle grotte iberiche o nelle sculture di figure steatopigiche come la statuetta di Savignano sul Panaro: e "gotico" si potrebbe dire l'impressionismo della pittura e della scultura dell'età ellenisti-coromana come l'"espressionismo". Ma come non fu privilegio dell'arte ch'ebbe centro oltralpe fra il sec. XII e il XVI, e si suole dire gotica, il trasporre il rilievo in linee e superficie, anzi in altri suoi momenti e in altri luoghi l'arte - o quella dell'Estremo Oriente o la musulmana - lo conseguì non meno altamente, non fu particolare all'arte gotica l'empito degli affetti che travolga in sé le immagini rendendole apparentemente scomposte, in realtà meglio espressive: questi sono modi di vedere, mezzi di esprimersi che ricompaiono in opere d'arte diversissime tra loro, differenziate profondamente da altri caratteri che ne integrano l'essere. Il divulgato "linearismo" del Botticelli, e quello del Pollaiolo, già tra loro differenti per sottili qualità individuali, differiscono assai dal gotico e per le impressioni plastiche che vi sono incluse e per capacità di contenuto spirituale, nonché dal "linearismo" della pittura dell'Estremo Oriente, cui qualcuno suggerisce di collegare l'arte gotica e quella del Rinascimento; e altrettanto divaria dall'"impressionismo" gotico, sia pur di Giovanni Pisano, quello dell'arte classica seriore, o quello di Donatello. È virtù di critica, pronta a vedere l'arte al disopra d'ogni contingenza storica, il trovare certe qualità che uniscono, al disopra dei tempi, al disopra dello spazio, le opere d'arte che forse non ebbero nessun legame tra loro: e può così meglio scoprire le rispondenze tra i fini e i modi dell'arte; ma non meno importa vedere ogni opera d'arte nell'interezza dei suoi caratteri, che ne formano un'entità non confondibile con altra: allora le relazioni generiche, che parevano rivelatrici del fondo delle cose, si mostrano insufficienti a definire l'opera d'arte e il suo stile; esse, pur esistendo per la perenne natura dell'arte, vengono sommerse in un complesso di altre relazioni più particolari che formano un nesso storico - non solo nell'arte, ma nella cultura - più aderente all'intero essere dell'opera e dello stile.

Il Rinascimento, veduto nell'insieme dei suoi caratteri quali si manifestano nella pittura e nella scultura, è fortemente individuato fin dal principio, e poi nelle successive vicende, anche se le sue origini sembrino perdersi lontano, anche se in esso si trovino strascichi, persistenze, e qualche ritorno dell'arte gotica. Suoi remoti precedenti sono nell'arte del sec. XIII, per la scultura nelle opere di Nicola Pisano e di Arnof0, per la pittura in quelle di Giotto, tutte collegate a un rinnovamento spirituale già profondo; e si possono rintracciare nel Trecento quasi sperduti sotto un nuovo rigoglio dell'arte gotica: ma il Rinascimento non fu pienamente che nella prima metà del Quattrocento; e mostrò allora, con tutto l'aspro vigore delle forze nascenti, la sua natura in opposizione all'arte gotica. Si costituì a Firenze, come nell'architettura: vi fu attuato non per lento lavorio collettivo ma quasi d'un tratto per virtù di artisti di genio; fu opera, fin dalle origini, di quello spirito d'individualità che ne rimase l'animatore in ogni fase vitale e che per sé stesso contrastava ai modi convenzionali dell'arte gotica. Questa era andata avvolgendosi in formule, risultato di lunghe sublimazioni del contenuto e della forma in raffinati rapporti: aveva costretto in gran parte il contenuto entro schemi, anche nobili e grandi, costituiti in funzione di una forma che doveva valere per sé stessa più che per immediata espressione di emozioni vive e nuove, consistendo essa in una trasposizione ornamentale dei valori plastici che perseguiva un suo scopo, indifferente quasi al variare del contenuto: un ritmo in sviluppi melodici di linee, anch'essi ridotti a formule come in sottile giuoco di contrappunto. Formule impersonali, di comune dominio, se pure a volta a volta rianimate da qualche artista di genio, si scoprono facilmente all'analisi comparativa delle sculture e delle pitture di tutto il territorio "gotico" anche italiano, del Trecento e del principio del sec. XV, e improntano in molte parti anche quelle opere in cui è una tensione spirituale nuova, come le potenti sculture di Claus Sluter; si vedono negli atteggiamenti, e sopra tutto in quel sensibile rivelatore delle intenzioni stilistiche ch'è il modo del panneggiare, condotto con tale esuberante superfluità da dimostrare che il giuoco di linee cui esso si prestava, nello snodarsi e rincorrersi delle curve delle pieghe, era fine a sé stesso. Ma il Rinascimento si affermò in antitesi con le concezioni gotiche e con le loro formule.

Nella scultura a Firenze, sul principio del Quattrocento, un artista di genio aveva ripreso le formule gotiche, traendone ammirevoli partiti di ritmi con poetica fantasia: Lorenzo Ghiberti. Anch'egli sottilmente sensibile all'arte classica, di cui raccoglie a frammenti, nel suo S. Matteo (Firenze, Orsammichele) parve indurre qualcosa dalla statuaria greca; e, nondimeno, si mantenne intimamente gotico fin nell'ultima porta del Battistero fiorentino, pur tanto già invasa da riflessi nuovi, compiuta (1452) quando il Rinascimento era in pieno. Nello stesso tempo a Firenze nella pittura lo stile gotico aveva avuto squisito interprete Lorenzo Monaco; e nel 1428 l'Adorazione dei Magi di Gentile da Fabriano collocata in S. Trinita aveva riaffermato la sua vitalità, rinvigorita da nuovi concetti - lo "stile gotico internazionale" - spiegandone in modv affascinante il fantastico splendore e la brillante superficialità d'intimi sensi e di forma. L'arte gotica aveva ancora a Firenze ammiratori e maestri mentre il Rinascimento se ne scioglieva in assoluto contrasto con essa.

Nella scultura Donatello fu il massimo iniziatore del Rinascimento. Le sue opere mostrano il nascere, e presto la pienezza, del nuovo stile che in esse rivela, e con molteplici aspetti, i suoi profondi caratteri. Nella sua statua prima - uno dei due piccoli profeti sulla "porta della mandorla" in S. Maria del Fiore - Donatello è ancora puerilmente impacciato nei modi gotici, ma subito tende a sciogliersene nel vicino Profeta; poi se ne libera con instancabile foga nelle successive statue e nei rilievi; e seguirlo nel suo operare, vedendo che cosa egli sostituisca alla vecchia maniera, è vedere in atto il formarsi del nuovo stile. Nell'insieme, alle cifre impersonali e ai vaghi ripetuti ritmi gotici Donatello sostituì un comporre che a volta a volta, in ogni opera, sembra determinato soltanto e immediatamente dall'emozione profonda, sempre nuova e unica, ch'egli doveva esprimere. Sorge questa emozione da una commossa coscienza degli affetti: li coglie con certezza nel loro tono diverso, e li esprime in una forma che mira soltanto a estrinsecarli, fuor d'ogni canone prestabilito pronta a modellarsi su ogni loro aspetto fuggevole, ma piegandolo sempre a rivelare in modi così intensi la vita interiore da dargli valore universale (apparente "naturalismo" dello Zuccone, del Niccolò da Uzzano, ecc.). Dal David marmoreo (Firenze, Museo Nazionale), dal S. Giovanni Evangelista (S. Maria del Fiore) nel quale le cadenze gotiche acquistano una gravità nuova, alle statue del Campanile, al David di bronzo, impetuosamente Donatello respinge le formule e il sempre astratto se non superficiale contenuto psicologico dell'arte gotica, per esprimere in una forma immediata ciò che lo attrae e lo commuove nel sentire e vedere a fondo la struttura e l'animo dell'uomo: e sono ora il busto di S. Lorenzo (Firenze, S. Lorenzo), ora la Deposizione di Padova, ora gli ultimi rilievi del pergamo di bronzo. Di certo lo incitava anche la conoscenza dell'arte classica, ma non a imitarla: a togliersi dagli impacci gotici, ad ardire ogni forma, ché ben le sculture greco-romane, pure scadenti, meglio degli avorî gotici, gli poterono apprendere sprezzature di modellazione, e il pittorico rilievo a schiacciato. L'Annunciazione (Firenze, S. Croce) mostra quanto il conoscere l'arte classica fosse non diminuzione ma accrescimento di potere creativo in lui, e insieme come egli trasfigurasse nella sua arte ogni reminiscenza gotica.

Nello stesso tempo a Firenze, per gli stessi scopi, concorde con Donatello e col Brunelleschi, Masaccio liberava dal goticismo la pittura: alle sottili convenzionalità che l'arte gotica aveva composte sostituiva altri mezzi di espressione, in antitesi con quelle, perché rispondenti a una coscienza del tutto diversa del mondo fisico e morale. Né c'è arte quanto la pittura rinnovata da Masaccio, che riveli a fondo il rinnovamento spirituale del Rinascimento. Un nuovo mondo usibile si schiuse all'artista: se non dimenticato, esso era stato filtrato attraverso tante necessità dello stile gotico da essersi sublimato nella sfera delle astrazioni medievali anche nei suoi aspetti più urgenti sui sensi: spazio, volume, luce. Masaccio lacerò il velario gotico: esplorò con libero senso il visibile nella profondità dello spazio, nei fenomeni della luce, nel rilievo (onde altri dirà del suo "naturalismo"), ma nello stesso tempo esplorò, liberato da ogni canone di espressione, il profondo e i moti dell'animo umano: anzi, pose la rivelazione dell'intimo a scopo ultimo della sua arte, e a quella coordinò tutto il visibile. Anche nelle Fiandre, sul principio del Quattrocento, i van Eyck avevano rinnovato in modo analogo la pittura estendendone la visione in tanta vastità - dal paesaggio al senso cosmico della luce - che fu sempre ammirata nel Quattrocento italiano e non mancò d'influssi su pittori del Rinascimento come Piero della Francesca e Antonello da Messina; ma essi mantennero molti manierismi gotici - nel drappeggiare, nei moti, e soprattutto nelle relazioni di spazio - che poi dovevano persistere, e riprender forza, nella pittura oltramontana del sec. XV, distinguendola in tutto dalla pittura del Rinascimento: né giunsero a quella profondità psicologica che fu dei nostri maggiori.

A raccogliere insieme le qualità del rinnovamento operato da Donatello e da Masaccio, iniziatori del Rinascimento nella pittura e nella scultura non meno che lo fosse il Brunelleschi nell'architettura, si può dire ch'esso consistette nell'affermare, di fronte all'impersonale idealismo gotico, la coscienza individuale sia sul visibile sia sul mondo interiore; il quale determina la forma di loro arte. E come gl'iniziatori dopo di loro i grandi maestri della scultura e della pittura del Rinascimento, a Firenze nel Quattrocento, s'immersero ciascuno nel mondo visibile con le proprie facoltà di sensi e d'animo traendone quanto conveniva a loro arte, in tali rapporti con il proprio temperamento da essere in tutto fallace la loro qualifica di "naturalisti", mentre anche chi fra loro sembra più intento a definire scientificamente un vero esteriore - sia la profondità per Paolo Uccello, sia la luce per Piero della Francesca - ne fa invece nell'arte una esaltazione. Entro la libertà di creazione individuale, necessaria al loro operare, ebbero importanza fondamentale come mezzi di espressione plastica e pittorica alcuni aspetti del visibile: spazio, volume, luce, movimento. Fra questi i logici rapporti di distanza, a lungo studiati per ridurli nella prospettiva lineare e ad unità di veduta (vedi prospettiva), caratterizzano più concretamente la pittura fiorentina del Rinascimento di fronte a quella della rinnovantesi pittura nordica, mentre tutti quegli aspetti sono graduati variamente dai diversi maestri secondo il proprio scopo, in una varietà di modi che corrisponde a quell'assoluto prevalere dell'individualità. Qui non è luogo per vedere quanto siano uniti e quanto distinti il Beato Angelico, anch'egli partecipe del Rinascimento, e Botticelli, Andrea del Castagno, il Pollaiolo, Luca Della Robbia e gli altri grandi. Nell'inoltrarsi del Quattrocento non vi fu punto nella pittura e nella scultura fiorentina l'asserito rivolgimento che le abbia riportate all'arte gotica: l'attenuarsi del senso plastico nell'arte di Agostino di Duccio o in quella del Botticelli, il risolversi delle masse in contorni nell'arte di Andrea del Castagno o in quella di Antonio Pollaiolo fu necessità d'arte per i due primi, e loro originalità, a esprimere inafferrabili moti spirituali, fu mezzo agli altri per liberare più viva l'energia dei moti. Ben si possono riconoscere saltuarî suggerimenti dell'arte gotica, ch'era presente in innumerevoli opere, ma le rispondenze con l'arte gotica, non tutte accidentali, sono soverchiate dal complesso di cose nuove, che appartengono al Rinascimento, anche nella Deposizione (Milano, Poldi-Pezzoli) del Botticelli o nella sua Natività (Londra, National Gallery).

Vi furono invece altri rivolgimenti a Firenze nel Rinascimento che per sua natura, sollecitato da quel perenne impulso d'individualità, non poteva avere stasi, ed era un innovarsi continuo. Da principio, quando tanta parte del visibile si era scoperta agli artisti, essa li aveva attratti anche con le sue più effimere apparenze. L'amore del "caratteristico", che si manifesta non soltanto nei ritratti di cui è piena ogni sua opera, ma nel paesaggio e nelle particolarità d'ogni cosa rappresentata, diede all'arte fiorentina del Quattrocento tale gusto di indugiare su ogni aspetto contingente da giungere quasi nel Ghirlandaio a uno spassionato oggettivismo, onde qualcuno ha insistito anche troppo sugli evidenti influssi della pittura fiamminga. I maestri più grandi lo superarono per un loro potere di semplificazione nella forma e di rivelazione interiore che riuscì a significati universali pur sotto specie transitorie, come Donatello nel S. Giovanni di casa Martelli (Firenze, Museo Nazionale) o nel Gattamelata, come lo stesso Botticelli nelle sue Grazie della Primavera, individuate come ritratti eppur liriche esaltazioni della sensività. Ma verso la fine del Quattrocento nell'arte fiorentina si andò accentuando la tendenza a distaccarsi dal "caratteristico" per un più schietto processo di idealizzazione che rendesse più puri, e come liberi da esteriori contingenze, i moti spirituali e ne elevasse il tono. Il trapasso alla nuova concezione è già sensibile nell'arte del Verrocchio se si confronti al volto del Gattamelata di Donatello quello del suo Colleoni, non più un ritratto, anzi maschera umana che l'enormità dei tratti nella parossistica concitazione rende ideale figura del furore; si attua ancor più nei modi ammanierati del Perugino, stretto aderente dell'arte fiorentina, e in quelli altrimenti ispirati del Botticelli, dagli affreschi della Cappella Sistina alle ultime opere, mentre il rivolgimento era più complesso e già compiuto nei due eroi di una seconda era del Rinascimento: Leonardo e Michelangelo.

Leonardo nei suoi scritti spesso riafferma l'amore quattrocentesco del "caratteristico", dell'infinitamente varia natura; ma, secondando il suo abito scientifico di cercare nel fenomeno la legge, anche nell'arte egli cercò certi canoni, di proporzione, di composizione. di espressione dell'intimo: e lo studio ne è evidente soprattutto nel Cenacolo e nella S. Anna. Se altri dopo di lui teorizzando, come il Lomazzo, spinse a grottesche astrazioni quelle ricerche, egli ne superò il pericolo, di raffreddare ogni ispirazione, contenendole con arte: nei suoi capolavori, e nella stessa Sant'Anna (Parigi, Louvre), l'emozione più profonda e più alta sorge fuori d'ogni idealistico concetto, dalla rivelazione ai sensi e all'animo di una vita universale in cui sommergersi e trasmutarsi, portati - come sentiamo dinnanzi alla Gioconda - ai limiti dell'inconoscibile nell'inafferrabile crepuscolare trepidazione delle luci e dell'ombre; ed è questo un meraviglioso trascendere.

Michelangelo operò lungamente nel Cinquecento, fra mutate condizioni spirituali, quando già Leonardo era scomparso: e in lui fu altrimenti forte e decisa la volontà di ascendere anche nell'arte dal sensibile all'universale; era mossa anche in lui dall'intelletto preso dalle dottrine neoplatoniche, sì ch'egli rinsalda più d'ogni altro, con Leonardo, la più alta vita intellettuale del Rinascimento e l'arte. Di certo, nel suo procedere, Michelangelo fu confermato da quelle opere dell'arte antica che gli erano più affini: i colossi fluviali e quelli di Montecavallo, al Quirinale, lo animarono a "far grande", a eroizzare l'Uomo; il "torso di Belvedere", poi (1506) il Laocoonte lo poterono confermare a rendere più grave l'appassionato senso che già aveva echeggiato nelle opere di Iacopo della Quercia e di Donatello, e al quale egli diede nuovo valore; ma l'arte classica, che egli vide addentro nelle sue qualità di idealizzazione, non fece che accrescere forza al suo creare, come già a Donatello. Ridotte in breve, se non lasciate del tutto, quelle intenzioni di rappresentazione in qualche modo oggettiva che ancora sono nel suo David gigante (Firenze, Museo Nazionale), nella vòlta della Cappella Sistina, o nel Mosè, nelle quali nondimeno è tutto il suo potere di idealizzatore, non fu più intento ad altro, qualunque fosse l'apparente soggetto - Titani della tomba di Giulio II; Apollo o David del Museo Nazionale di Firenze; le Ore del Giorno nelle tombe medicee - che a esprimere il suo profondo animo, o piuttosto l'insistente sua concezione della vita: somma affermazione d'individualità nel Rinascimento. E se Leonardo aveva trovato serenità in un'effusione nella natura, egli profondandosi nella propria coscienza ne trasse il dolore che sorge dalla colpa, dal destino infrangibile, dalle inutili lotte; lo esaltò come generatore di forza nell'animo umano, lo placò componendolo con l'arte in armonie; lo superò operando. Aveva trovato nella sua forma idealizzata, libera dalle accidentalità, il mezzo conveniente a esprimere in modo universale l'eterna tragedia.

Individualità, vita interiore, senso della struttura delle forme, dello spazio, dei moti fisici e spirituali, tutti i caratteri del Rinascimento si elevarono a nuova potenza in Leonardo e in Michelangelo che nondimeno, proseguendola, trascesero l'arte del Quattrocento lasciandone la vaga varietà per riuscire a un proprio assoluto. Nell'operare si unirono in essi più insistentemente che nei maestri del Quattrocento alle emozioni dell'animo le forze dell'intelletto: i loro capolavori ne hanno una profondità che ora attrae, ora sgomenta; e dalla riflessione intellettuale, pronta a formare canoni (il comporre "piramidale" del tondo di Michelangelo agli Uffizî e della S. Anna di Leonardo al Louvre; le figure "serpentinate" di Michelangelo), nonché dall'istintivo senso ritmico, traggono una conclusa armonia, formata di ponderazione e di misura. Questa ultima qualità, in cui soprattutto si vuol far consistere il troppo vago concetto di "arte claśsica", veramente è insita sempre in ogni opera d'arte e ne asseconda con mutevoli modi la varia natura; ma allora essa assunse aspetti particolari, evidenti più ancora che nelle opere di Leonardo e di Michelangelo in quelle di Raffaello, unito ai due Fiorentini, sebbene minore, nell'esprimere la stessa elevazione ideale in un'arte anche più riflessiva. La Scuola di Atene, meglio che nel suo soggetto, che s'addentra tanto nella vita intellettuale del Cinquecento, rivela nell'arte l'essere del Rinascimento nel secolo XVI, o piuttosto lo integra tra l'indefinita aspirazione di Leonardo e la illuminata coscienza di Michelangelo, costruendo un insieme in sé concluso come la bramantesca architettura del suo sfondo, dominato dall'Uomo con le diverse eppur concordi attitudini dell'intelletto, nella libera felicità del loro operare; e nel mondo delle forme riafferma ancora, altamente, i caratteri essenziali della Rinascita: spazio, struttura, moti fisici e spirituali.

L'arte di Leonardo, di Raffaello, di Michelangelo aveva già in sé stessa, in quanto sorgesse più dalla riflessione intellettuale che dalla ispirazione, motivi di debolezza, assai sensibili nelle ultime opere dei tre maestri: nel S. Giovanni di Leonardo, negli affreschi della Cappella Paolina di Michelangelo, e come altrove nella Trasfigurazione di Raffaello. Nella tendenza a canoni stilistici, rispondente ai suoi processi di idealizzazione, racchiudeva un principio che poteva portare a un'antitesi con il libero individuale spirito del Rinascimento: e, dopo una pleiade di artisti geniali che accompagnarono più liberamente quei sommi - da Fra Bartolomeo ad Andrea del Sarto, al Pontormo, per ricordarne qualcuno -, portò al manierismo leonardesco, raffaellesco, michelangiolesco, o svariatamente complicato, che fu parte non più viva del Rinascimento, sebbene si tenti ora di riabilitarlo.

Ma il Rinascimento non era stato ristretto all'arte fiorentina: generato a Firenze, vi aveva avuto quello sviluppo vitale che abbiamo accennato fino al termine delle sue linee principali; intanto, nel sec. XV, si era propagato in Italia rinnovandovi la pittura e la scultura, non meno che l'architettura, in qualche parte a stento, altrove più facilmente. Nel Veneto avevano operato i maggiori maestri fiorentini: Donatello, Filippo Lippi, Paolo Uccello a Padova, Andrea del Castagno; e i risultati furono immediati e meravigliosi nelle opere di N. Pizzolo, anche scultore, soprattutto in quelle di A. Mantegna nella cui arte risaltano con chiarezz" quasi schematica i caratteri della nuova concezione della pittura - spazio, struttura delle forme, luce - accompagnandosi con l'umanistico studio dell'antico. Padova, con i capolavori di Donatello, con l'opera del Mantegna, fu da principio il massimo centro di diffusione del nuovo stile nell'Italia settentrionale dove opere e artisti giungevano pure qua e là di Toscana, prima che sul termine del Quattrocento il Verrocchio operasse a Venezia, e Leonardo si stabilisse a Milano. Nondimeno, per tutto, nell'Italia settentrionale, fu tenace la resistenza dell'arte gotica: durò fino al principio del sec. XVI dove era rinforzata da immediati contatti con l'arte oltramontana, come mostrano nel Piemonte i dipinti di Defendente Ferrari; cedette solo a poco a poco nella seconda metà del sec. XV in Lombardia, a Verona (Antonio Pisano l'aveva confermata col suo genio nella pittura, abbandonandola invece nelle sue medaglie, che sono tra le più nuove creazioni plastiche del Rinascimento, squisitamente armoniche con l'arte fiorentina); cercò anche compromessi con il nuovo stile, tra cui i più geniali furono nell'arte di Iacopo Bellini e di Carlo Crivelli. Le propaggini del Rinascimento nell'Italia superiore presero grande rigoglio: presto, mantenendo dalle origini i caratteri essenziali, li modificarono in varietà diverse; ogni regione, ogni città operosa ebbe una propria "scuola". Singolare nella scultura la scuola emiliana, e più la scuola lombarda prodiga di artisti anche a Genova e a Venezia, dove trapiantata acquistò sottili intenzioni umanistiche; ma sopra tutto meraviglia la varietà di scuole nella pittura, concatenate tra loro per vicinanza di luoghi e per trascorrenti influssi di opere e d'artisti, distinte spesso per caratteri così proprî che sembrano nascere dalla natura del suolo, nel Piemonte e nella Lombardia, nell'Emilia, nelle Romagne, nel Veneto. Venezia, a lungo involuta nei modi gotici così nella scultura come nella pittura, poi schiuse al Rinascimento tutte le arti e gli diede non soltanto una moltitudine di capolavori ma una nuova vitalità che doveva durare vigorosa quando già altrove esso era esausto. Nell'arte di Giovanni Bellini sembra che si rinnovi il primo Rinascimento, così vivo e più urgente d'opera in opera vi è un modo di vedere e di sentire, concorde nelle qualità essenziali a quello fiorentino e al padovano, ma nuovo nei mezzi ch'esso scopre e negli aspetti del visibile che esalta: mobilità continua della forma e della luce nel colore, atta a rivelare in tutte le cose - nel paesaggio; in mutevoli apparenze - la fuggevole vita, a incantare l'animo, a unire l'uomo con la natura. Mentre Leonardo effondeva nella vita universale la psiche umana tra il misterioso pulsare delle luci e delle tenebre, Giorgione, mosso da Giovanni Bellini, fondeva forme, spazio e animo nel vibrare del colore e dell'atmosfera, riuscendo a connaturare psiche e natura e componendo il tutto, come nella sua Venere dormente (Dresda, Galleria), in così piena conclusa armonia da attuare, anche in questo, nel modo più alto le qualità del Rinascimento. Il Correggio, non solitario, anzi in tutto sempre più partecipe del mondo spirituale di cui Leonardo, Giorgione, Michelangelo, Raffaello erano aspetti diversi ma concordi, vi spiegò la propria individualità piena di grazia, di voluttuosi sensi; trovò anch'egli per esprimersi più altamente idealizzazioni squisite: le quali indussero i suoi seguaci, con le stesse sorti dei seguaci degli altri grandi maestri, a un loro manierismo, se pur questo, nell'arte del Parmigianino e del Baroccio, fosse poi fecondo, come l'opera stessa del Correggio, di concetti e di forme per l'arte barocca.

Le vive fonti del Rinascimento si mantennero perenni quasi per tutto il Cinquecento nella pittura veneziana, per l'individuale sentire di artisti sovrani. Sopra tutti sorgeva il genio di Tiziano: e nella sua opera quell'intensità della vita interiore, infinitamente varia e libera da impacci, nobile nel suo essere e nelle azioni, che è rivelata in modo più immediato dai mirabili ritratti, ha paragone soltanto nel potere della visione pittorica, continuamente rivolta a impressioni più rapide, a espressioni più complesse e travolgenti. Se nell'arte di Tiziano, ed è suo sommo pregio, tutto sembra nascere dall'emozione dell'animo e dei sensi, essa implica nondimeno, recondite ma fortemente attive, tutte le qualità piu intellettuali: l'Amor sacro e l'Amor profano, in cui tutto è così chiara espressione da rendere inutile qualunque esegesi, è anche uno dei più alti frutti della cultura del Rinascimento, tanto l'Umanesimo vi è fatto sostanza a nuova creazione (nessuna immagine più classica e più nuova della Ignuda), e tale ritmo classico risuona nelle sue armonie e in nuovo modo si diffonde all'infinito dalle figure a tutte le cose. Paolo Veronese trovava intanto nei sensi e nell'immaginativa un cielo suo; il Tintoretto forzava ogni limite alle proprie visioni, pur sempre forti delle qualità essenziali del Rinascimento, al quale congiungeva nel modo più intrinseco gl'imminenti principî dell'arte barocca.

Nel Quattrocento, nell'Italia centrale, il Rinascimento aveva trovato lunghe resistenze dell'arte gotica, diffondendosi da Firenze. Siena fu il centro più forte di opposizione, impenetrabile dentro anche quando in apparenza cedeva. Nella scultura il trapasso dal vecchio al nuovo vi era stato segnato da Iacopo della Quercia, assertore di certe qualità dell'arte gotica, nell'armonizzazione della composizione, mentre trovava tal forza di struttura e così profondo contenuto psichico che pongono lui, per tanti aspetti gotico, fra i più grandi iniziatori del Rinascimento. Dopo Iacopo la scultura a Siena, sollecitata dalle opere senesi di Donatello, era stata meno tarda a seguire i nuovi principî, col Vecchietta, col Neroccio, con Francesco di Giorgio Martini.

La pittura senese, invece, rimase più lungamente rivolta alle concezioni gotiche anche quando accettò in parte le nuove, come dimostrano Domenico di Bartolo, il Sassetta, Sano di Pietro e altri minori, e come si vede anche poi, dove l'accettazione del Rinascimento è più intera, perfino nei dipinti di Francesco di Giorgio Martini, finché dal Peruzzi e dal Sodoma non fu pienamente convertita. Né fu breve nelle Marche e nell'Umbria il persistere dei modi gotici: ma intanto Urbino diveniva, nella corte dei Montefeltro, splendida sede alla cultura e all'arte del Rinascimento; artisti come Piero della Francesca e il Perugino partecipavano come forze vive all'operare dell'arte fiorentina: si preparava, con Bramante, Raffaello.

Roma che aveva già chiamato a sé nel Quattrocento i maggiori artefici del Rinascimento, da Donatello al Pollaiolo, da Masaccio e dall'Angelico al Mantegna, a Melozzo da Forlì e ai pittori della Cappella Sistina, fu campo nel sec. XVI alle creazioni di Raffaello e di Michelangelo e vide finire nel manierismo il loro impulso prima che ne risorgesse il rinnovamento dell'arte barocca.

Nell'Italia meridionale la penetrazione del Rinascimento, nel sec. XV, saltuaria per tutto, mediante opere ed artisti, mentre vi sopravviveva l'arte gotica, era stata più intensa e continua a Napoli, specie nella scultura - dall'Arco di Castel Nuovo alle opere di A. Rossellino, di G. Mazzoni - nella pittura trovava ostacolo nel deciso favore dato alle opere e ai modi "ponentini", di Spagna, di Provenza, delle Fiandre. Questi prevalevano anche nelle isole, sebbene in Sicilia la scultura fosse esercitata dai Gagini e dal Laurana: e dovette esserne avviato Antonello da Messina a intendere più addentro la pittura fiamminga prima di appropriarsi tanto la larga e sintetica maniera italiana da inserire la sua opera, come necessaria e integrante, nella pittura del Rinascimento.

In questa si possono cogliere a volte rapporti con la pittura oltramontana, dovuti a scambî occasionali o promossi da intime affinità, come nella scuola ferrarese o in opere del Pontormo; ma ben altrimenti importante dei pochi debiti fu quanto il Rinascimento diede all'arte oltramontana anche nella scultura e nella pittura. Già nel sec. XV suoi artisti e sue opere erano ricercati ed emigravano oltralpe e oltremare, nella Spagna, in Ungheria, a Costantinopoli: Carlo VIII inviava in Francia con Fra Giocondo e con Domenico da Cortona, Guido Mazzoni, orafi, ricamatori, intarsiatori. Nel sec. XVI, mentre aumentava l'accorrere in Italia di artisti stranieri (allievi spagnoli ebbero Leonardo e Michelangelo; fiamminghi ebbe Tiziano, ecc.), divenne anche più intensa la diffusione oltralpe di opere, di artisti e, per mezzo dei trattati teorici, delle concezioni del Rinascimento. Ne derivò nei diversi paesi, dove ancora vigoreggiava l'arte gotica con virtualità di ulteriori sviluppi, una contaminazione di forme e d'intenti molte volte di mediocre valore: e non intendiamo seguirla mentre pur tra noi abbiamo veduto il Rinascimento soltanto nei tratti essenziali e nei maggiori artisti. Dalla scultura e dalla pittura il nuovo stile si diffuse per tutti i minori rami dell'arte, lentamente perché sebbene le arti "minori" fossero trattate anche dai più grandi maestri, esse furono più inerti a staccarsi dalle forme gotiche, ch'erano ricche di partiti nella decorazione, e da gran tempo adattate ai diversi lavori: all'oreficeria. agl'intagli, alle stoffe; nelle quali si protrassero fin nel secolo XVI inoltrato gli ornati gotici orientaleggianti. Il repertorio ornamentale si mutò prima che nelle opere minori nelle grandi decorazioni plastiche e pittoriche; e in esso si potrebbero vedere, in altri aspetti, le vicende dello stile del Rinascimento, sia nel contrasto e nella commistione col gotico, sia nel passare da modi più costruttivi ad altri dominati soltanto dal capriccio, sia nel variare dei rapporti con gli esemplari dell'arte classica, prima veduti più liberamente, poi imitati dappresso, negli stucchi, nelle grottesche, nei mobili, nelle maioliche, nelle armi e in qualunque oggetto d'arte.

V. tavv. LXV-LXXXII.

Bibl.: Oltre la bibl. agli articoli sui magigori maestri (Masaccio, Donatello, Leonardo, ecc.) e quella sulle varie regioni (Francia, Inghilterra, Germania, ecc.), per la diffusione dello stile del Rinascimento, vedi sulle questioni generali: L. Courajod, Leçons professés à l'école du Louvre, Parigi 1901; id., Les véritables origines de la Renaissance, in Gazette des Beaux-arts, I (1881); H. Thode, Franz von Assisi und die ANnfänge der Kunst der Rénaissance in Italien, 2ª ed., Berlino 1904; H. Wölfflin, Klassische Kunst, Monaco 1899 (anche in trad. franc.); W. Worringer, Formprobleme der Gothik, Monaco 1927; A. Schmarsow, Gothik in der Renaissance, Stoccarda 1921; M. Dvorák, Geschichte der italienischen Kunst im Zeitalter der Renaissance, Monaco 1927; D. Frey, Gothik und Renaissance, Augusta 1929; A. Haseloff, Begriff und Wesen der Renaissancekusnt, in Mitteilungen des kunsthist. Instituts in Florenz, III (1930), pagine 373-392; F. Antal, Studien zur Gotik im Quattrocento, in Jahrbuch d. preussischen Kunstsamml., XLVI (1925), p. 330 segg.