Restauro

Libro dell'anno 2004

Caterina Bon Valsassina

Restauro

Si restaura solo la materia

dell'opera d'arte

(Cesare Brandi)

Le problematiche del restauro in Italia

di Caterina Bon Valsassina

25 marzo

Si inaugura a Ferrara l'undicesima edizione del Salone del restauro e della conservazione dei beni culturali e ambientali. Attraverso 10 mostre, 28 convegni, 76 incontri tecnici e 260 espositori la manifestazione si propone di fare il punto sulle problematiche e le prospettive di un settore in crescente espansione, in termini sia economici sia di occupazione. Si dibatte in particolare delle nuove tecnologie, che consentono lo sviluppo di ambiziosi progetti, del rapporto tra arte e finanza, di sicurezza e dell'insegnamento del restauro, temi che in Italia vedono soprattutto coinvolti l'Istituto centrale del restauro di Roma e l'Opificio delle pietre dure di Firenze.

Definizione giuridica

La prima definizione giuridica del restauro, contenuta nell'art. 34 del d. legisl. 29 ottobre 1999, nr. 490, afferma che "per restauro si intende l'intervento diretto sulla cosa volto a mantenerne l'integrità materiale e ad assicurare la conservazione e la protezione dei suoi valori culturali". La norma individua l'attività del restauro come intervento diretto sul bene (distinto perciò sia dal concetto di salvaguardia sia da quello di conservazione) e sintetizza circa sessant'anni di dibattito teorico e di applicazione tecnica in materia.

Nella legislazione precedente, infatti, in particolare nella l. 1° giugno 1939, nr. 1089, caposaldo in materia di tutela del patrimonio artistico per tutta la seconda metà del Novecento, il termine 'restauro' era citato in più di un articolo, ma a indicare essenzialmente il compito di vigilanza da parte del Ministero attraverso il potere di autorizzare o meno, con eventuali prescrizioni tecniche, qualsiasi restauro sui beni immobili e mobili tutelati dalla legge. Le norme relative erano contenute sia nelle Disposizioni generali (artt. 6, 9) sia nel Capo II della legge, dal titolo Disposizioni per la conservazione, integrità e sicurezza delle cose (artt. 11-21). In particolare l'art. 11 disponeva che "le cose [tutelate dalla legge] non possono essere demolite, rimosse, modificate o restaurate senza l'autorizzazione del Ministro", mentre l'art. 13 estendeva anche ai beni non notificati come affreschi, graffiti, iscrizioni, tabernacoli e altri ornamenti di edifici l'obbligo di richiedere l'autorizzazione ministeriale relativamente all'operazione del distacco. Nessun cenno, quindi, al restauro come intervento diretto e attivo sia da parte dello stesso Ministero sia da parte degli enti locali ed ecclesiastici e dei proprietari privati di beni notificati.

Riveste quindi particolare importanza il riconoscimento a livello legislativo del restauro come disciplina complessa nel già citato d. legisl. 490/1999, ripreso e ampliato nel più recente d. legisl. 22 gennaio 2004, nr. 42, Codice dei beni culturali e del paesaggio. Nel nuovo codice, denominato anche 'Codice Urbani', importante per la definizione del restauro è l'art. 29 della sezione II, Capo III, Misure di conservazione, che al comma 1 asserisce che "la conservazione del patrimonio culturale è assicurata mediante una coerente, coordinata e programmata attività di studio, prevenzione, manutenzione e restauro". Si parte, cioè, dal concetto più generale di 'conservazione' per arrivare a quello di 'restauro' solo dopo una programmazione 'coerente e coordinata' di 'studio, prevenzione e manutenzione'. Le attività di studio e prevenzione non implicano l'intervento diretto sul bene e, anzi, qualora fossero attivate capillarmente e con intelligenza, potrebbero portare, nel medio-lungo periodo, a evitare addirittura l'operazione di restauro. Il Codice Urbani, infatti, introduce per la prima volta in un articolato di legge i concetti - ben noti da decenni fra gli addetti ai lavori - di prevenzione e di manutenzione come attività imprescindibili connesse alla tutela del patrimonio, non meno importanti dell'attività del restauro e a essa complementari.

Per legge, quindi, si intende con prevenzione "il complesso delle attività idonee a limitare le situazioni di rischio connesse al bene culturale nel suo contesto" (art. 29, comma 2); con manutenzione "il complesso delle attività e degli interventi destinati al controllo delle condizioni del bene culturale e al mantenimento dell'integrità, dell'efficienza funzionale e dell'identità del bene" (art. 29, comma 3); con restauro "l'intervento diretto sul bene attraverso un complesso di operazioni finalizzate all'integrità materiale e al recupero del bene medesimo, alla protezione e alla trasmissione dei suoi valori culturali" (art. 29, comma 4). Questo comma riprende quasi integralmente l'art. 34 del d. legisl. 490/1999, compresa l'indispensabilità del miglioramento strutturale degli immobili situati in zone dichiarate a rischio sismico, con alcune varianti: viene utilizzato il più aggiornato ancorché ambiguo termine 'bene' anziché 'cosa' (che rievocava il dettato della l. 1089/1939); il restauro viene giustamente descritto come un 'complesso di operazioni', specificando meglio, quindi, la natura di tale attività rispetto alla più generale definizione, comunque mantenuta anche nel codice, di 'intervento diretto'; al concetto di 'integrità materiale' vengono aggiunti, fra gli scopi del restauro, anche quelli di 'recupero' e di 'trasmissione dei valori culturali' del bene.

Le leggi di tutela dell'ultimo quinquennio, quindi, dal Testo Unico al Codice Urbani, sembrano aver recepito uno dei principali assiomi della definizione del restauro data da Cesare Brandi, storico dell'arte e primo direttore dell'Istituto centrale per il restauro, nella Teoria del restauro (1963) e nella Carta del restauro del 1972, ispirata ai medesimi principi, quando afferma che "si restaura solo la materia dell'opera d'arte".

Non solo: le attività di studio, prevenzione e manutenzione dei beni culturali previste dal nuovo Codice entro il quadro di una programmazione coerente e coordinata hanno trasformato in norma di legge le indicazioni presenti in più di uno scritto di un altro direttore dell'Istituto centrale per il restauro, lo storico dell'arte Giovanni Urbani, che, partendo dal concetto già espresso da Brandi di restauro preventivo, ne ha elaborato il senso profondo, mettendo a fuoco la definizione di conservazione programmata. Fin dal 1976 Urbani aveva tentato di applicare operativamente tale concetto, allora radicalmente nuovo, nel Piano pilota per la conservazione programmata dei beni culturali in Umbria, progetto che non venne mai realizzato e che suscitò polemiche, come spesso accade per le innovazioni scomode e dirompenti.

Sul versante della conservazione, l'art. 29 del Codice Urbani rappresenta un'evoluzione positiva rispetto alla legislazione precedente perché per la prima volta è stato compiuto lo sforzo di delineare un quadro di riferimento organico per tutti gli interventi conservativi sui beni culturali. Un tentativo di definire le attività di manutenzione, restauro e risanamento conservativo, ristrutturazione edilizia e ristrutturazione urbanistica, era stato fatto in precedenza dalla l. 5 agosto 1978, nr. 457, sul recupero del patrimonio edilizio (art. 31), anche se tali disposizioni non avevano carattere vincolante.

Un ulteriore importante precedente, più strettamente legato alla storia dell'attuale Ministero per i Beni e le attività culturali e alla prassi operativa dei suoi organi periferici, le Soprintendenze, è la Carta del restauro, diramata con circolare del 6 aprile 1972 dal Ministero della Pubblica istruzione. Nella Carta, composta di 12 articoli e 4 allegati, sono fornite istruzioni precise per il restauro delle antichità, dei monumenti architettonici, della pittura, della scultura e dei centri storici; nell'art. 4 vengono definiti il concetto di salvaguardia, inteso come "qualsiasi provvedimento conservativo che non implichi l'intervento diretto sull'opera", e quello di restauro, per il quale si intende "qualsiasi intervento volto a mantenere l'efficienza, a facilitare la lettura e a trasmettere integralmente al futuro le opere". Nella relazione introduttiva Brandi menziona la Carta del restauro del 1931, relativa solo al restauro architettonico, lamentando che "disgraziatamente […] non ebbe mai forza di legge".

Evoluzione dei principi del restauro

La prima metà del Novecento

Nel corso del Novecento la disciplina del restauro ha avuto un'evoluzione teorica e, conseguentemente, anche tecnica, che ne ha radicalmente mutato i connotati rispetto a come era stata definita e praticata nei secoli immediatamente precedenti.

Se si mettono a confronto le voci sul restauro dell'Enciclopedia Italiana (1936) e dell'Enciclopedia Universale dell'Arte (1963), è possibile cogliere, nella forma sintetica propria di una voce enciclopedica, la natura e i termini di tale evoluzione.

La voce Restauro dell'Enciclopedia Italiana è contenuta in venti colonne, delle quali quattro sono dedicate ai monumenti, a cura di Gustavo Giovannoni; otto e mezzo a dipinti, sculture e oggetti d'arte, a cura di Pietro Toesca; tre e mezzo a sculture antiche e manufatti archeologici; una e mezzo a libri e manoscritti. Da tale distribuzione quantitativa appare evidente come il campo predominante fosse considerato quello strettamente legato all'allora ancor 'giovane' disciplina della storia dell'arte, tanto che venne incaricato di redigere la voce Toesca, docente all'Università di Roma di Storia dell'arte moderna dal 1923. Toesca non si pone il problema della definizione teorica di restauro, preoccupato piuttosto di cosa non debba essere quando afferma "non consideriamo perciò il restauro inteso ad altri scopi, spesso slealmente venali, che modifica nei suoi caratteri l'opera d'arte per nasconderne la natura, per renderne plausibile qualche più seducente attribuzione". Da questa indicazione 'in negativo' è facile capire come nei primi decenni del Novecento cominciasse a profilarsi in Italia una diffusa inquietudine fra gli storici dell'arte sull'autenticità dei documenti figurativi che passavano sotto i loro occhi ogni giorno. Quanto e come l'intervento dei restauratori poteva averli alterati volontariamente, su istigazione di mercanti e conoscitori? Non va dimenticato, infatti, che nei primi decenni del Novecento il nesso fra storici dell'arte, collezionisti, antiquari e restauratori era strettissimo. Il mercato antiquario - prima della legge di tutela del 1939 - aveva in Italia una miniera da sfruttare a largo raggio proprio in quel patrimonio artistico diffuso capillarmente in tutto il territorio, dalle chiese ai palazzi alle collezioni private, e i musei stranieri, in America soprattutto, erano in concorrenza per gli acquisti di opere d'arte italiana.

In questo contesto, Toesca constata come il restauro dei dipinti possa essere un potenziale pericolo per la salvaguardia dell'autenticità delle opere (si noti, ancora non del patrimonio artistico nel suo complesso) e indica come scopo primario del "ben condotto restauro […] mirare soltanto a conservare l'opera d'arte e a mostrarne le qualità genuine". Lo studioso è però costretto ad ammettere l'estrema difficoltà di riuscire a definire principi generali in questa materia e si limita a dare indicazioni generiche, per sua stessa affermazione, basate ancora sul metodo asistematico del 'caso per caso' e sulla pratica empirica basata su "l'esperienza, […] il gusto e […] l'arte del restauratore" con un'unica indicazione di metodo, all'insegna comunque della massima prudenza e attenzione: documentare sempre con relazioni scritte, soprattutto per le opere d'arte giudicate importanti, i procedimenti e le materie utilizzate per il restauro. Segue un elenco delle più frequenti cause di deterioramento dei dipinti murali, su tavola e su tela, e delle tecniche allora praticate per eliminarne i danni, con la piena coscienza (che contiene un'apertura al futuro) che "la pratica del restauro è in continuo sviluppo per strumenti e per materie nuove di cui può disporre".

Toesca individua infine i pericoli insiti in alcune delle principali operazioni di restauro, allarmato, evidentemente, da una pratica che rischiava di diffondersi indiscriminatamente. Per quanto riguarda i supporti delle opere, il rischio per i dipinti murali è quello del distacco o dello strappo e, per i dipinti su tavola, quello del trasporto. L'intervento più pericoloso (perché irreversibile) per la superficie pittorica è costituito soprattutto dalla pulitura e, in misura minore, dal trattamento delle lacune e dalle reintegrazioni. Nel testo del Toesca troviamo anche, in una forma ancora embrionale, il seme di quei principi ai quali Brandi darà definizione e sistematizzazione all'interno della sua solida architettura teorica, come quando afferma "sembra del tutto sconsigliabile di rinnovare il colore dove esso sia caduto in larghi tratti" o, ancora, "ma meglio si provvederà all'effetto artistico delle parti conservate, che deve primeggiare sullo scrupolo dell'archeologo restauratore, colorandole con tinte locali che non disturbano l'occhio", e nella raccomandazione finale "sapersi trattenere a tempo, rinunciando a strafare, anche conservando quei guasti che non turbino l'effetto dell'opera d'arte, sarà ottima regola del restauratore". Quasi cinquant'anni dopo, Alessandro Conti nel saggio Vicende e cultura del restauro in Italia, pubblicato nella Storia dell'arte italiana (Einaudi 1981, 10° vol.), menziona la voce Restauro di Toesca come antidoto anti-idealista ancora efficace e afferma che "non si può rileggere senza rimpianto […] col suo senso dell'equilibrio che non ha inibizioni davanti alla materia".

La voce Restauro nell'11° volume dell'EUA risale, come si è detto, al 1963. Erano passati poco meno di trent'anni da quella dell'Enciclopedia Italiana, eppure la distanza sembra molto maggiore in termini di metodo, di contenuti e di definizione degli obiettivi.

Il 1963 è pure l'anno della prima edizione della Teoria del restauro di Brandi, ai cui principi è ispirata anche la voce dell'EUA. Lo spazio editoriale di trenta colonne è strutturato in sei sottovoci: Concetto del restauro e Problemi generali di Brandi; I dipinti mobili (supporti, pulitura, reintegrazione) di Urbani; Altre tecniche (dipinti murali, sculture, metalli, legno) di Licia Vlad Borrelli, con particolare, ma non esclusivo, riferimento al restauro archeologico; Restauro architettonico di Renato Bonelli; Istituti e laboratori di restauro di Paul Philippot. Non vi è cenno al restauro dei materiali cartacei e dei beni librari. Il testo ridisegna tutta la complessa rete di relazioni che compongono l'universo del restauro, un mondo nuovo, se lo paragoniamo (ma senza giudizi di merito) all'approccio pragmatico di Toesca tanto rimpianto da Conti.

Nei trent'anni che separavano i due testi era cambiato tutto. La data d'inizio del mutamento, anzi, di una vera e propria inversione di tendenza in materia di restauro, è senza dubbio il 1939 quando Giuseppe Bottai, allora ministro dell'Educazione nazionale, promulgò la legge di tutela nr. 1089 e fondò a Roma l'Istituto centrale del restauro con la l. 22 luglio 1939, nr. 1240. L'istituzione del nuovo "organo essenziale per il patrimonio della Nazione", come lo definì Bottai, era stata illustrata l'anno precedente in un convegno di tutti i Soprintendenti d'Italia da Giulio Carlo Argan, in servizio al Ministero nella Direzione antichità e belle arti. Erano presenti al convegno, fra gli altri, Roberto Longhi e il giovane Cesare Brandi, anche lui funzionario delle 'belle arti'. In quella sede vennero enunciati i nuovi principi sul restauro delle opere d'arte che si riassumono in tre punti fondamentali: 1) il restauro conservativo deve predominare sul cosiddetto restauro artistico; 2) il restauro artistico sarà subordinato a esigenze di ordine critico, limitandosi alla pulitura della superficie dipinta e all'eventuale attenuamento delle dissonanze coloristiche; 3) la preparazione dei restauratori deve essere allo stesso tempo storica e tecnico-scientifica.

Per rendere applicabili i principi enunciati su tutto il territorio nazionale era necessario dotare il Ministero di un organismo nuovo - un 'gabinetto centrale del restauro', come è definito nella relazione di Argan il futuro Istituto centrale - la cui missione si sarebbe dovuta articolare essenzialmente in due direzioni parallele e complementari: ricerca e formazione. Per la ricerca i compiti sarebbero stati 1) di intervento diretto sulle opere d'arte per restauri di particolare difficoltà e importanza, affiancati da 2) un'attività di ricerca tecnica e scientifica sulle tecniche esecutive, sui materiali, sulle cause del degrado, e infine 3) compiti di consulenza in materia di restauro alle soprintendenze territoriali e agli enti locali ed ecclesiastici.

L'altra fondamentale direzione, radicalmente nuova non soltanto in Italia ma anche a livello internazionale, consisteva nel compito di formazione, cioè della creazione di una scuola di restauro che avrebbe dovuto formare una nuova categoria professionale in grado di far fronte ai compiti dell'Istituto e soprattutto di cancellare dalla figura del restauratore quell'"aura di alchimia di miracolo fraudolento", come diceva Brandi, che tanto aveva allarmato Toesca. Molti anni dopo Argan (1989) ricordava come i restauratori a quei tempi fossero artisti o artigiani e perché, quindi, "con Brandi, con cui eravamo fraternamente amici dal giugno del '32, decidemmo di promuovere la trasposizione del restauro da artistico-artigianale al piano scientifico".

I discorsi pronunciati all'inaugurazione dell'Istituto dal ministro Bottai e dal direttore Brandi, ciascuno con la propria specifica valenza di uomo politico e di studioso-funzionario, riflettono la precisa volontà di dare una sterzata significativa alla prassi del restauro tradizionale. Bottai tuona "non vogliamo più dei pittori falliti a esercitare sui capolavori del passato i rimpianti d'una mancata carriera". E Brandi gli fa eco con prescrizioni precise sul futuro modello tecnico-organizzativo della nuova istituzione: "le ricerche sussidiarie di chimica e di fisica, le ricognizioni radiografiche non tolgono nulla alla perizia del restauratore e non diminuiscono l'acume del critico, ma costituiscono mezzi illuminanti dell'uno e dell'altro". E ancora, mentre Bottai proclama "il restauro non è ripristino, è unicamente, solamente, conservazione", Brandi precisa "non esisteva e non esiste in Europa o in America un Istituto così complesso e organico come questo: e la sua organizzazione non è proceduta pertanto per analogia, ma da una visione del tutto autonoma e italiana del problema del restauro".

La voce Restauro dell'EUA riflette esattamente come il seme gettato nel 1939 avesse attecchito, a partire, appunto, dalla fondazione di un nuovo modo di concepire il restauro in tutte le sue articolazioni: è il risultato più sintetico del dibattito teorico e di una gamma complessa di esperienze pratiche (scientifiche e tecniche) condotte per oltre vent'anni (1939-60) nell'Istituto centrale del restauro. Non a caso tutti gli autori, a esclusione di Bonelli, erano funzionari dell'Istituto, dal direttore uscente Brandi a Urbani, che dirigeva il settore dei beni storico-artistici, a Vlad Borrelli, a capo di quello archeologico.

Per la prima volta Brandi tentava una sfida considerata impossibile non solo da Toesca, come abbiamo visto sopra, ma anche da un collega coetaneo e amico fraterno come Argan, che ancora nel 1938 riteneva impossibile fissare principi teorici in materia di restauro. Brandi, quindi, sia nella Teoria sia nella voce dell'EUA, pone dei punti fermi che espone con la chiarezza della dimostrazione di un teorema.

La pietra miliare del suo assunto teorico è una definizione del restauro ancora valida oggi, se se ne coglie l'aspetto 'senza tempo' (si intende non soggetto a mutamenti di gusto dell'epoca, di orientamenti della storiografia, dell'ingresso di nuove tecnologie e/o di nuovi materiali) di indicazione di metodo e mantenendone intatta la versatilità senza interpretazioni dogmatico-fideistiche.

Proviamo a riflettere sulla definizione di restauro data da Brandi: "Il restauro costituisce il momento metodologico del riconoscimento dell'opera d'arte nella sua consistenza fisica e nella duplice polarità estetico-storica, in vista della sua trasmissione al futuro". Scomponendo la frase nella sua struttura logica, abbiamo che il riconoscimento dell'opera d'arte come tale è l'azione primaria; solo dopo può avvenire l'intervento di restauro. In altre parole viene operata la prima fondamentale distinzione fra qualsiasi prodotto dell'attività umana e l'opera d'arte. Questo atto preliminare di 'riconoscimento' - ben lontano dall'idealismo di cui Brandi è stato accusato in seguito, a più riprese e da vari fronti - muove invece da una necessità estremamente concreta, la stessa che era alla base della definizione giuridica delle 'cose' di interesse storico-artistico tutelate dalla l. 1089/1939 e che è tuttora alla base, per es., dei cataloghi delle aste o dei registri degli antiquari. Le opere d'arte esistono in quanto oggetti costituiti di una certa materia (legno, tela, pietra, metallo, pigmenti ecc.), con dimensioni precise e un valore economico, diverso a seconda dell'autore, della provenienza e dello stato di conservazione. L'azione del riconoscimento dell'opera d'arte proposta da Brandi è alla base di qualsiasi successiva operazione, dalla catalogazione al restauro, che diventa in sostanza una 'critica in atto', come ricorda Michele Cordaro (allievo di Brandi all'Università di Palermo, prima funzionario, poi direttore dell'Istituto dal 1994 al 2000).

Stabilito che l'opera d'arte è l'oggetto del restauro, Brandi specifica che si tratta dell'opera d'arte "nella sua consistenza fisica" e aggiunge "nella duplice polarità estetico-storica, in vista della sua trasmissione al futuro", ribadendo un principio fondamentale: l'intervento di restauro si esegue solamente sulla materia costitutiva dell'opera - distinta a sua volta in materia/supporto e materia/aspetto - lasciandosi guidare di volta in volta nelle singole scelte da una sorta di 'bussola', i cui punti cardinali sono, in proporzioni diverse caso per caso, l'aspetto storico e l'aspetto estetico. Brandi codifica infine, alla luce dei vent'anni di esperienza pratica attraverso gli interventi eseguiti direttamente dall'Istituto sotto la sua direzione, come si debba procedere per un restauro corretto, evidenziando alcuni problemi, gli stessi già sottolineati da Toesca, e proponendo una gamma di soluzioni 'sistemiche', utilizzabili in ogni situazione e per qualsiasi manufatto e materiale.

Di queste, la più nota è l'invenzione del cosiddetto 'rigatino' o, più correttamente, 'tratteggio', tecnica utilizzata per il trattamento delle lacune e diventata una sorta di marchio di fabbrica dell'Istituto centrale del restauro, soprattutto negli anni pionieristici della sua attività. Con il tratteggio si superava la tinta neutra utilizzata fino ad allora, giudicata da Brandi "un ripiego onesto, […] ma empirico e insufficiente", allo scopo di far emergere i brani di materia pittorica originale e far arretrare le lacune sullo sfondo. Alla base dell'intuizione brandiana stava il collegamento con i principi della percezione visiva enunciati dalla Gestaltpsychologie.

Altro importante problema messo a fuoco sia nella Teoria sia nella voce dell'EUA è quello di definire il livello temporale al quale deve fermarsi un intervento di restauro, che, per evitare ogni tentazione di restauro di fantasia, deve rimanere solidamente ancorato al momento storico in cui opera il restauratore, senza alcuna utopistica pretesa (peraltro irrealizzabile) di riportare l'opera alle condizioni originarie. A questo problema si collega quello della patina di un manufatto, che Brandi definisce "testimonianza del tempo trascorso" o anche "quell'impercettibile impalpabile sordina posta dal tempo alla materia", il che significa, scendendo nel dettaglio operativo, sapere esattamente a quale livello fermare l'operazione di pulitura. Analoga rigorosa attenzione, alla luce della polarità storica ed estetica di qualsiasi manufatto, andava al problema della conservazione o rimozione delle aggiunte.

Nel primo ventennio di vita dell'Istituto centrale del restauro non mancarono le polemiche sia in Italia sia all'estero nei confronti di Brandi, delle sue posizioni teoriche e anche di alcuni dei principali interventi di restauro. Tra le voci critiche, cominciò a delinearsi quasi subito in Italia la corrente che faceva capo a Roberto Longhi e alla sua scuola, che proseguirà fino agli scritti di Conti, uno degli allievi di seconda generazione. Longhi, insieme a Toesca e ad Argan, faceva parte del consiglio tecnico dell'Istituto centrale del restauro; i suoi interventi in materia sono essenzialmente quello pubblicato nel 1940 nella rivista La Critica d'arte contro i restauri 'di restituzione' degli affreschi della cappella Bardi di Vernio in Santa Croce a Firenze e l'editoriale della neonata rivista Paragone del 1951. In quest'ultimo, per la verità, Longhi enuncia concetti non dissimili da quelli pronunciati da Brandi nel discorso inaugurale dell'Istituto centrale, con alcune significative varianti. Insiste sulla materialità dell'opera d'arte (che preferisce definire 'testo figurativo') e, soprattutto, sul fatto che essa "sia sottoposta a tutte le vicissitudini del tempo e, purtroppo, votata a una vita 'a termine'" e che "un millennio è la durata medio-massima della vita di un'opera d'arte mobile". La polemica diventa più accesa negli anni successivi, non tanto per ragioni di divergenze teoriche, ma contro alcuni dei restauri condotti in quegli anni dall'Istituto (Borsa 2000). Sulla stessa linea saranno anche i più esaustivi contributi di Conti, che, pur riconoscendo a Brandi il merito della felice intuizione del metodo di integrazione delle lacune a tratteggio (che però giudica non applicabile indistintamente a tutte le epoche storiche della produzione artistica) e la posizione rigorista nella conservazione della patina, critica non tanto lo studioso quanto buona parte dei restauri condotti seguendo i suoi principi teorici (Conti 1981; 2001).

La seconda metà del Novecento

All'inizio degli anni Settanta, grazie all'attività e all'esperienza maturate nel Gabinetto dei restauri della Soprintendenza alle Gallerie di Firenze (uno dei più antichi d'Italia), sotto la direzione di Umberto Baldini si configura come altro polo di eccellenza nel campo del restauro l'Opificio delle pietre dure di Firenze. Lo storico dell'arte fiorentino, allievo di Mario Salmi e diventato direttore dell'Opificio nel 1970, proponeva una personale rielaborazione della Teoria brandiana in un saggio che ne rievoca perfino il titolo Teoria del restauro e unità di metodologia (1978), in particolare per quanto riguarda il trattamento delle lacune con una tecnica definita 'selezione cromatica'. Si tratta, in sostanza, di applicare il principio del divisionismo di separazione dei colori, stesi sulla stuccatura a piccoli tratti che possono essere, a seconda della zona del dipinto nella quale cade la lacuna, sia verticali sia circolari sia orizzontali. Come il tratteggio a filamenti verticali diventò il segno di riconoscimento delle reintegrazioni eseguite da restauratori usciti dalla scuola dell'Istituto centrale, così la selezione cromatica lo sarebbe diventata per i restauri eseguiti dall'Opificio fiorentino. Quest'ultima tecnica è stata messa pesantemente in discussione da Conti (2001), che definisce le reintegrazioni a selezione cromatica che sono state eseguite su un dipinto di Tiziano con l'Adorazione dei pastori conservato agli Uffizi un "tratteggio che tende al monocromo, di effetto nerastro" criticando, in generale, "l'ostinazione […] a voler imporre dogmaticamente la soluzione passe-partout".

Nel 1973 diventò direttore dell'Istituto centrale del restauro Urbani, entrato all'Istituto prima come allievo restauratore nel 1944, poi come funzionario storico dell'arte dopo la laurea con Lionello Venturi nel 1947. Con Urbani il dibattito sul restauro si sposta dai problemi trattati fino ad allora - relativi soprattutto alla grande pittura (conservazione della patina, rimozione o meno dei rifacimenti, trattamento delle lacune) - all'aspetto globale della conservazione del patrimonio nel suo complesso, con un approccio olistico lungimirante, ma probabilmente prematuro per la sensibilità culturale e politica di quegli anni. Il fulcro degli scritti di Urbani è concentrato, infatti, attorno al "problema delle opere d'arte trattato in connessione con quello della conservazione dell'ambiente". A scorrere anche solo i titoli delle sue pubblicazioni scientifiche (ora raccolte in gran parte nel volume Intorno al restauro) si chiarisce in quale direzione egli intendesse orientare la 'missione' dell'Istituto centrale nel decennio dal 1970 al 1980. Alcuni dei punti fondamentali del pensiero di Urbani sono: 1) l'inquinamento ambientale come fattore di accelerazione del degrado del patrimonio dei beni culturali; 2) lo sviluppo del concetto già espresso da Brandi di 'restauro preventivo' nel concetto innovativo di 'conservazione programmata', che ha alla base la manutenzione come attività ordinaria e il restauro come attività straordinaria; 3) un approccio diverso rispetto a quello di Brandi circa il ruolo delle scienze esatte (chimica, fisica, biologia) per la conservazione dei beni culturali. Il modello ideale di Urbani ('ideale' non per l'impossibilità oggettiva di dialogo fra discipline scientifiche, storiche e tecniche, ma spesso, anche se non sempre, per difficoltà 'soggettive' legate alle psicologie individuali) prevedeva che per "far sì che lo scienziato svolga un ruolo non solo strumentale e sussidiario, occorrerebbe che fosse tenuto responsabile, come lo storico e il restauratore, anche della realtà ultima dell'opera d'arte e non solo dei suoi materiali costitutivi" (La scienza e l'arte della conservazione dei beni culturali, 1982, in Urbani 2000). Urbani elaborò anche proposte concrete, fra le quali indichiamo le principali soprattutto per la loro "stupefacente attualità" (B. Zanardi, in Urbani 2000): il Piano pilota per la conservazione programmata dei beni culturali in Umbria (1976, il primo progetto integrato che collegava in un quadro organico una programmazione delle ricerche preliminari a un piano di conservazione in grado di superare la prassi degli interventi di restauro 'a pioggia'); la proposta di decentramento nelle Soprintendenze del modello già sperimentato nei trent'anni di attività dell'Istituto in materia di conservazione con un'adeguata formazione (1978, La prospettiva del decentramento delle attività di ricerca e formazione); le proposte per la formazione di restauratori professionisti (1979) e per la salvaguardia dei monumenti dal rischio sismico (1983), problemi recepiti entrambi dal Ministero per i Beni e le attività culturali con forza di legge solo, come si è visto sopra, nella recentissima legislazione del settore (Codice dei beni culturali e del paesaggio, art. 29, comma 4, commi 7-9).

Mentre Urbani non aveva mai messo in discussione la teoria brandiana del restauro - ne aveva semplicemente spostato i termini su un piano più vasto - alla fine degli anni Ottanta critiche al 'sistema Brandi' sarebbero venute dal fronte del restauro archeologico e architettonico. Alessandra Melucco Vaccaro, funzionario archeologo all'Istituto centrale del restauro per almeno un ventennio, mette in discussione l'approccio disciplinare 'idealista e purovisibilista' di Brandi, a suo avviso condizionato a collegare i problemi del restauro solo alla pittura e, quindi, spesso insufficiente a risolvere molti dei problemi di conservazione relativi ai materiali dell'archeologia e alla contestualizzazione di quei materiali sia nei musei sia nei siti archeologici. Melucco Vaccaro si riferisce, per citare alcuni esempi, alla pratica diffusa negli anni Cinquanta del distacco delle pitture antiche, romane ed etrusche in situazioni ambientali di particolare difficoltà (ambienti ipogei soprattutto), all'epoca non ancora affrontate.

La scelta del distacco sistematico dei dipinti murali, indicata da Brandi nella Teoria come unica salvezza possibile, significava dare la prevalenza alla 'materia come aspetto' (cioè la pellicola pittorica, l'immagine che si vede) sulla 'materia come supporto' (cioè l'intonaco e il muro, il legno ecc.) considerati 'inferiori' all'interno di una gerarchia di valori nella quale il punto più alto era rappresentato, appunto, dagli elementi figurati visibili in superficie. Melucco Vaccaro sostiene anche la necessità "di tradurre e reinventare, per oggetti tridimensionali spesso assai frammentari, un codice di comportamento" ispirato ai medesimi principi di riconoscibilità e reversibilità applicati felicemente da Brandi nel settore della pittura con il metodo di reintegrazione a 'tratteggio' e pone il problema della conservazione dei siti archeologici e dei manufatti lapidei e bronzei all'aperto, al quale si collega quello delle copie e delle tecniche innovative rispetto a quelle tradizionali per la loro realizzazione (Melucco Vaccaro 1989). Diversa è l'opinione in materia di Vlad Borrelli, la cui ventennale 'militanza' nel settore archeologico dell'Istituto centrale si riflette nel volume Restauro archeologico: storia e materiali (2003), dove si rivendica, al contrario, l'estrema duttilità (quindi applicabilità) delle teorie brandiane anche ai materiali dell'archeologia.

Nel settore del restauro architettonico la posizione più apertamente polemica verso quella brandiana della Teoria, anzi, della Carta del restauro del 1972, e l'interpretazione rigidamente dogmatica di rispetto feticistico dell''autenticità', spesso applicata concretamente dalle Soprintendenze di settore, è venuta in più riprese soprattutto da Paolo Marconi. Anche recentemente, in un'intervista con Bruno Zanardi (1999), Marconi rivendica la diversità sostanziale fra opera d'arte mobile (pittura, scultura ecc.) ed edificio architettonico, in particolare per quanto riguarda la reintegrazione delle parti mancanti che dovrebbero essere ricostruite come erano, recuperando tecniche e materiali dell'edilizia antica. L'estremismo di Marconi, che non manca di una provocatorietà intellettualmente non priva di seduzioni, ha al suo opposto l'estremismo di Amedeo Bellini e della scuola del Politecnico di Milano, per il quale, in sostanza, la non-reintegrazione delle parti mancanti in un restauro architettonico si identifica con il massimo rispetto dei valori di autenticità di un monumento. Ancora diversa è la posizione di Giovanni Carbonara, che ha recuperato il pensiero di Brandi confermandone l'applicabilità anche al campo del restauro architettonico (Carbonara 1997; ma anche Cordaro 2000).

All'interno dell'Istituto centrale la novità più cospicua, a partire dalla fine degli anni Ottanta, è stata una linea di ricerca nella direzione già espressa da Urbani una decina di anni prima nel Piano pilota del 1976, che ha sancito il passaggio dal concetto del restauro a quello della conservazione di tutto il tessuto connettivo dell'Italia, così denso di testimonianze della storia 'maggiori' e 'minori'. Melucco Vaccaro, Cordaro e Pio Baldi (architetto, funzionario e poi soprintendente vicario all'Istituto dal 1980 al 1994) hanno sviluppato infatti il concetto di 'conservazione programmata' in un progetto di largo respiro, che sarebbe stato la base di partenza per una ricognizione territoriale sistematica del patrimonio nazionale mirata a misurare i fattori di rischio (ambientale, antropico, chimico, biologico ecc.). Il progetto, noto come Carta del rischio (Baldi, Cordaro, Melucco Vaccaro 1987), data la sua vastità è in corso ancora oggi. Un primo monitoraggio è stato pubblicato nel 1997 da Cordaro, che ne ribadisce l'efficacia potenziale di "strumento di conoscenza per valutazioni consapevoli di armonico e controllato sviluppo territoriale". Come tutti gli strumenti, la sua utilità dovrà essere praticata 'sul campo' e testata, attraverso una gestione diffusa dello strumento stesso da parte degli organi territoriali del Ministero responsabili della tutela del patrimonio, cioè le Soprintendenze.

Le sfide del nuovo millennio

Quali sono oggi le nuove frontiere nel campo del restauro? La prima e più importante sfida è senza dubbio la diffusione del know how italiano all'estero a livello sia di formazione sia di progettazione e intervento diretto. In questo ambito sono parimenti impegnati l'Istituto centrale per il restauro e l'Opificio delle pietre dure, ciascuno all'interno della propria 'cultura d'istituto' e delle relazioni internazionali stabilite dal Ministero per i Beni e le attività culturali in collaborazione con il Ministero per gli Affari esteri. Basti citare, per restare solo all'attività degli anni recenti, la presenza dell'Istituto centrale in Argentina (corso di formazione per architetti-restauratori), in Cina (progettazione del restauro del Padiglione della Suprema Armonia nella Città Proibita a Pechino), in Iraq (Laboratorio di restauro del museo di Baghdad), in Egitto (progettazione di un istituto del restauro sul modello tecnico-organizzativo di quelli italiani), a Malta (restauro della Cappella d'Italia nella Co-cattedrale de La Valletta); in Algeria (corsi di formazione sul restauro dei mosaici tardo-antichi). A Malta è stato presente anche l'Opificio fiorentino, che ha curato il restauro della celebre tela del Caravaggio con la Decollazione del Battista. Va aggiunto, inoltre, il crescente interesse suscitato a livello internazionale dai principi di Brandi. Della sua teoria, già tradotta in francese, greco, giapponese e boemo, è in corso la traduzione in inglese che ne garantirà la diffusione in tutto il mondo.

Un secondo aspetto delle 'nuove frontiere' è l'apertura di ambiti finora inediti di indagine e intervento di restauro, come l'architettura e l'arte contemporanea. Rispetto alle conoscenze ormai consolidate dei fattori di degrado e della possibile gamma di interventi conservativi legate agli ambiti tradizionali del restauro architettonico, archeologico e storico-artistico, tale apertura si pone come ricerca e sperimentazione di metodiche applicabili ai materiali totalmente nuovi della produzione contemporanea.

Un ultimo aspetto, forse il più importante, è il futuro prossimo della figura professionale del restauratore, per la quale il Codice Urbani ha previsto l'omogeneizzazione e unificazione dei criteri dei percorsi formativi sia delle Scuole di alta formazione statali (Istituto centrale per il restauro, Opificio delle pietre dure, Istituto centrale di patologia del libro) sia dei corsi regionali e universitari (i regolamenti attuativi sono in corso). Siamo infatti, oggi, in un momento di transizione che prevede un salto ulteriore, analogo a quanto era avvenuto ai tempi di Argan e Brandi nel delicato passaggio dal 'restauratore-artista' al 'restauratore-tecnico'. Il prossimo passaggio dovrà essere quello dal 'restauratore-tecnico' (ma ancora in una posizione subordinata rispetto alle professioni dell'architetto, dell'archeologo e dello storico dell'arte) al 'restauratore-conservatore', in analogia con quanto già avviene in Europa e negli Stati Uniti, come figura professionale che condivide la responsabilità di un progetto di restauro in tutte le sue fasi con le altre figure professionali, a pari dignità e con la propria specifica competenza.

I grandi laboratori di restauro

Il più antico laboratorio di restauro fu istituito presso gli Staatliche Museen di Berlino nel 1888. Nei primi decenni del Novecento l'esempio fu seguito dai maggiori musei europei: nel 1919 il British Museum di Londra e il Museo Archeologico del Cairo, nel 1925 il Louvre, nel 1930 il Metropolitan Museum di New York. Nacquero anche istituzioni indipendenti, come il Laboratoire central des musées de Belgique, diventato, dal 1958, Institut royal du patrimoine artistique, e strutture non più legate a importanti collezioni ma specificamente finalizzate alla ricerca scientifica e alla riflessione metodologica nel campo del restauro.

In Italia le istituzioni statali preposte al restauro sono l'Istituto centrale del restauro di Roma, l'Opificio delle pietre dure di Firenze e l'Istituto centrale di patologia del libro di Roma, divenuti dal 1974 organi del Ministero per i Beni culturali e ambientali anche con la funzione di scuole di alta formazione e di studio. Accanto a questi, una vasta opera è condotta da Soprintendenze ed enti locali. Alla tutela del patrimonio culturale all'interno del territorio dello Stato della Città del Vaticano e nelle aree extraterritoriali della Santa Sede è preposta la struttura tecnico-scientifica dei laboratori di restauro dei Musei Vaticani.

L'Istituto centrale del restauro

L'Istituto centrale del restauro (ICR), istituito con la l. 22 luglio 1939, nr. 1240, cominciò a funzionare nel 1941 e fu diretto da Cesare Brandi fino al 1959. Nel 1974 è stato posto alle dipendenze del Ministero per i Beni culturali e ambientali, con lo scopo di eseguire il restauro di opere d'antichità e arte, di svolgere ricerche scientifiche dirette a perfezionare e unificare i metodi, e di studiare i mezzi tecnici per la migliore conservazione del patrimonio artistico nazionale. Presso l'ICR, inoltre, funziona una delle due scuole statali per restauratori esistenti in Italia.

I compiti dell'Istituto, definiti dal d.p.r. 3 dicembre 1975, nr. 805, sono: svolgere indagini sistematiche sull'influenza che i vari fattori ambientali, naturali e accidentali esercitano nei processi di deterioramento e sui mezzi atti a prevenire e inibirne gli effetti; eseguire le indagini necessarie alla formulazione delle normative e delle specifiche tecniche in materia di interventi conservativi e di restauro; prestare consulenza scientifica e tecnica agli organi periferici del Ministero e alle Regioni; provvedere all'insegnamento del restauro e ai corsi di aggiornamento in particolare per il personale tecnico-scientifico dell'Amministrazione; effettuare restauri per interventi di particolare complessità o rispondenti a esigenze o finalità di ricerca o didattiche.

La struttura organizzativa comprende tre servizi distinti per gli interventi conservativi sui beni archeologici, architettonici e storico-artistici; un servizio per l'insegnamento, l'informazione e la documentazione; i laboratori di chimica, di biologia, di fisica e per i controlli ambientali e le prove sui materiali; undici laboratori di restauro: dipinti murali; materiali lapidei, stucchi, intonaci; mosaici; dipinti su tela; dipinti su tavola; scultura lignea policroma e manufatti lignei; manufatti in ceramica e in vetro; manufatti in metallo e leghe; manufatti tessili; manufatti in pelle e cuoio; manufatti in carta e pergamena.

L'Archivio fotografico, istituito sin dall'inizio dell'attività dell'Istituto per documentare i restauri compiuti su tutto il territorio nazionale, si è accresciuto negli anni e attualmente conserva una cospicua documentazione e fotografie riguardanti le opere di proprietà sia pubblica sia privata restaurate dall'Istituto e quelle su cui è stata data consulenza tecnica e scientifica. L'Archivio conserva anche immagini diagnostiche, cioè radiografie, fotografie di sezioni stratigrafiche e schede relative a indagini microbiologiche e chimiche cui sono state sottoposte le opere che presentano particolari problemi. Il fondo più prezioso è quello dei negativi su lastra di vetro alla gelatina bromuro d'argento, i primi prodotti dal laboratorio fotografico e la cui importanza deriva dall'unicità e storicità delle immagini che riproducono e dall'essere essi stessi documenti storici dell'evolversi della tecnica fotografica.

Si devono all'ICR i restauri di alcuni dei maggiori monumenti italiani e supervisioni tecniche su lavori particolarmente problematici. Esempio emblematico è l'intervento relativo all'ambiente del refettorio di S. Maria delle Grazie a Milano con l'Ultima Cena di Leonardo da Vinci, destinato a sanare i danni prodotti da secoli di incuria e dai bombardamenti del 1943. La campagna di restauro, conclusa nel 1999 dopo vent'anni di lavori, ha consentito innanzitutto di chiarire nei particolari l'inconsueta tecnica usata da Leonardo, consistente in pittura a secco con impiego di tempera grassa fatta di olio e uovo, e rivelatasi poco resistente già all'inizio del Cinquecento quando apparvero i primi segni di cedimento. Si è proceduto poi al restauro vero e proprio per il quale si è applicato il criterio di suggerire le figure mancanti ricostruendo la trama mancante con leggeri tratti reversibili di acquerello (rigatino). L'intervento si è rivolto anche alle strutture circostanti, per evitare il perpetuarsi di danni ambientali: si sono così realizzati un sistema di filtraggio dell'aria e un nuovo accesso al refettorio mediante due 'camere stagne', che impediscono l'afflusso diretto dell'aria esterna.

Il recupero della Basilica Superiore di S. Francesco ad Assisi, danneggiata dal terremoto del 26 settembre 1997, si pone tra i più importanti restauri condotti dall'ICR in anni recenti. Il sisma ha causato il crollo dell'arco della controfacciata su cui erano dipinte le figure di otto santi, delle vele raffiguranti san Girolamo e san Matteo dipinte dal cosiddetto Maestro dei Dottori e da Cimabue, e di parte del timpano del transetto sinistro; ha inoltre distaccato intonaci e strutture dalla sommità del campanile e coperto di uno spesso strato di polvere e detriti gli affreschi di Giotto con le storie di san Francesco. Per i restauri sono stati installati monitor di controllo, effettuate indagini endoscopiche e prove di carico, rimosse tonnellate di detriti, raccolti 300.000 frammenti di colore ed eseguiti interventi di pulitura e consolidamento degli affreschi che hanno visto impegnati 80 operai specializzati, 70 restauratori, 20 volontari. In due anni si è giunti al recupero quasi totale del complesso.

Di diverso tipo il restauro, completato nel 2000, del Cavallo morente di F. Messina collocato all'ingresso della sede RAI di viale Mazzini a Roma il 5 novembre 1966. L'opera, in bronzo, mostrava i segni di degrado tipici di tutti i monumenti di questo tipo collocati all'aperto, a contatto con un'atmosfera urbana altamente inquinata, siano essi antichi, come il Marco Aurelio del Campidoglio, sia moderni, come la Sfera Grande di A. Pomodoro collocata a Roma nel piazzale della Farnesina e talmente deteriorata, in meno di 20 anni, da non essere più restaurabile. Nel caso del Cavallo morente la patina leggerissima e trasparente realizzata per esaltare la sensibilità plastica e luminosa della superficie era priva di qualsiasi funzione protettiva ed esponeva il metallo all'aggressione degli agenti di corrosione; è stato quindi necessario intervenire per rimuovere le incrostazioni corrosive e garantire poi alla superficie un'adeguata protezione.

Alla serie di capolavori della bronzistica antica restaurati dall'ICR (Efebo di Selinunte, Bronzi di Riace, monumento equestre di Marco Aurelio) si è aggiunta la statua del Satiro danzante, ripescata nel Canale di Sicilia, al largo di Mazara del Vallo nella primavera del 1998. All'opera sono stati dedicati quattro anni di lavoro, liberandola dalle numerose incrostazioni dovute alle condizioni fisico-chimiche e agli organismi presenti nel fondo marino, e restituendola alla sua originaria bellezza e forza espressiva. È stato inoltre realizzato uno speciale supporto costituito da un telaio metallico per sostenere la statua priva di una gamba e della base.

Il controllo della situazione statica e il monitoraggio delle antiche lesioni sono stati il punto di partenza del restauro progettato e condotto nel 2002 nella loggia di Amore e Psiche della villa della Farnesina alla Lungara a Roma, che Raffaello e la sua scuola terminarono di affrescare nel 1518. Un primo restauro, condotto con rispetto dell'opera d'arte e con materiali 'reversibili' (lapis e pastello), si era reso necessario già nel 1693 e fu progettato dall'abate Felini ed eseguito dal pittore-restauratore C. Maratti; seguirono altri restauri, meno rispettosi, ma limitati ai fondi del cielo. Il lavoro realizzato dall'ICR è consistito nella pulitura della pellicola pittorica, nell'intervento sulle grappe inserite da Maratti per ristabilire l'adesione tra l'intonaco e la muratura, nel riempimento delle grandi lesioni e nella reintegrazione pittorica tenendo conto delle traversie subite dagli affreschi.

Profondamente innovativa è l'impostazione che l'ICR ha dato al problema della conservazione dei dipinti affrontando, tra il 2000 e il 2002, il restauro della Cappella degli Scrovegni di Padova, affrescata da Giotto tra il 1303 e il 1305 con storie del Vecchio e Nuovo Testamento e il Giudizio Universale. Il metodo impiegato di programmazione ed esecuzione delle indagini scientifiche, ad ampio raggio ma strettamente mirate, costituisce ora un modello da cui non è possibile prescindere. La stessa cosa vale per il modo, articolato e progressivo, in cui sono stati messi in opera i provvedimenti, dai più elementari fino ai più complessi, ma passando dall'uno all'altro soltanto dopo aver verificato la bontà dei risultati ottenuti. Alle opere di miglioramento ambientale più facilmente attuabili (controvetrate schermanti, sostituzione delle lampade a incandescenza ecc.) sono seguite quelle di risanamento dell'edificio e infine l'installazione del corpo tecnologico attrezzato, una sorta di filtro tra interno del monumento e ambiente esterno, che rappresenta l'elemento più complesso (ideato proprio per la Cappella, anche se la realizzazione è stata successiva a quella del Cenacolo di Leonardo a Milano). Dopo aver sottoposto a monitoraggio strumentale per circa un anno la nuova situazione ambientale interna dell'edificio per verificare l'idoneità dei provvedimenti realizzati, sono state intraprese le necessarie operazioni conservative e di restauro sui dipinti murali, interrompendone il gravissimo processo di deterioramento costituito dalla trasformazione dell'intonaco dipinto in gesso con conseguente polverizzazione del colore, e quindi con la perdita degli affreschi. I criteri di intervento sono stati quelli conservativi d'urgenza, per es. nel Giudizio Universale, con la rimozione dei sali solubili, e quelli di consolidamento dell'intonaco; sono state inoltre attenuate le disomogeneità cromatiche derivanti da differenti interventi di restauro passati. Il restauro ha fatto scoprire aspetti e qualità inediti di Giotto, mettendo in evidenza la forza e la qualità cromatica della sua pittura, l'eccezionale capacità di rendere il plasticismo e la volumetria delle forme grazie all'impiego della tecnica dello stucco romano.

La consulenza dell'ICR è stata richiesta da molte nazioni straniere: Argentina (Teatro Colón a Buenos Aires); Cina (Centro di formazione per la conservazione del patrimonio storico culturale della Cina nord-occidentale a Xi'an, Urban environment project - cultural heritage strategic master plan di Chongaing e della provincia del Sichuan); Egitto (Museo della civiltà egiziana al Cairo, Museo della Nubia ad Assuan, Sfinge di Chefren a Giza, Egyptian environmental action plan - natural and cultural heritage); Giordania (Scuola per il restauro del mosaico a Madaba, chiesa di S. Maria Assunta a Salt, Museo di Madaba); India (National research laboratory for conservation of cultural property di Lucknow); Iraq (sito archeologico di Hatra); Israele (barca del lago di Tiberiade, Ippodromo di Cesarea Marittima, Monastero di Kyria Maria a Bet She'an); Nepal (sito di Simraongarh a Terai, Museo di Katmandu); Perù (chiesa Virgen de la Merced a Lima, hueca di Cao Viejo a Trujillo); Siria (Monastero di San Mosè l'abissino a Nebek); Turchia (Museo Topkapi e porta bronzea di Santa Sofia a Istanbul, sito archeologico di Arslantepe-Malatya, stele ittite di Caratepè in Anatolia).

L'Opificio delle pietre dure

L'Opificio delle pietre dure di Firenze, nato nel 1588 per volere di Ferdinando I de' Medici come manifattura per la lavorazione di arredi in pietre dure, negli ultimi decenni del 19° secolo indirizzò la propria attività al restauro dei materiali prodotti nel corso della sua storia, estendendola successivamente a quelli affini. In seguito all'alluvione di Firenze del novembre 1966 e poi con la trasformazione in organismo autonomo del Ministero per i Beni culturali e ambientali nel 1974, all'Opificio vennero annessi tutti i laboratori fiorentini statali di restauro, tranne quelli per i beni architettonici e archeologici. Fu costituito inoltre il Laboratorio scientifico per la diagnostica e la ricerca. L'Opificio è sede di una delle due scuole statali di restauro in Italia, di un museo della produzione artistica in pietre dure, di una biblioteca specializzata, di un archivio dei restauri compiuti, di un centro di ricerca sulla climatologia.

L'attività dell'Opificio si articola per settori di restauro e di ricerca individuati in base ai materiali costitutivi delle opere d'arte (arazzi e tappeti; archeologia; bronzi e armi antiche; dipinti mobili; dipinti murali; materiali cartacei e pergamenacei; materiali lapidei; mosaico e pietre dure; oreficerie; scultura lignea; terracotta; tessili) e viene svolta nelle sedi dei laboratori e all'esterno, sotto forma sia di cantieri operativi sia di consulenze di ordine tecnico-scientifico su tutto il territorio nazionale e in ambito internazionale.

Il settore arazzi e tappeti ospita l'unico laboratorio statale esistente per questa tipologia di manufatti; vi si affrontano tutte le tematiche, dal lavaggio alla scelta e alla tintura dei filati idonei, all'intervento vero e proprio di consolidamento. Il restauro archeologico si intreccia con la storia stessa dell'Opificio, che già tra 16° e 18° secolo, per conto del Granduca, si occupò del restauro di sculture in marmo di epoca romana. Il settore bronzi e armi antiche, creato nel 1975, affronta varie tipologie di manufatti metallici, pur riservando il suo impegno maggiore alla scultura monumentale in bronzo dal Rinascimento in poi e alle armature e armi antiche.

Il settore dipinti mobili trae origine dal primo laboratorio di restauro della Soprintendenza di Firenze, fondato nel 1932 da U. Procacci presso i locali della Vecchia Posta al piano terra degli Uffizi, erede della tradizione dei pittori-restauratori delle Gallerie fiorentine; oltre a svolgere i consueti interventi di conservazione e restauro ha allargato la propria attività alle ricerche sulle tecniche artistiche del passato, all'approfondimento dei moderni sistemi di indagine non invasivi, ai nuovi materiali. Vari e complessi sono i problemi di conservazione relativi al settore dei materiali cartacei e pergamenacei, tra i più fragili ed esposti al deterioramento, impiegati per innumerevoli tecniche grafiche e pittoriche (matita, punta metallica, pastello, tempera, carboncino, acquerello, sanguigna, olio, xilografia, calcografia, litografia), per manufatti di tipo 'tradizionale' (disegni, stampe, cartoni preparatori) e per oggetti di arti applicate realizzati su supporto cartaceo (paliotti, ventagli, paraventi, globi geografici, statue in cartapesta, carta da parati, apparati scenici).

Quello dei materiali lapidei è uno dei laboratori 'storici', attivo dalla fine dell'Ottocento, primo e naturale esito della trasformazione dell'Opificio da laboratorio artistico a centro di restauro. In tempi recenti, lo stato di allarme creatosi per la conservazione delle sculture esposte all'aperto aggredite dall'inquinamento ambientale ha incrementato l'impegno del settore nell'attività operativa e in quella di ricerca, condotta spesso in collaborazione con altre istituzioni. La cooperazione con l'Istituto di Elettronica quantistica del Consiglio nazionale delle ricerche di Firenze, per es., ha permesso la realizzazione di un prototipo di laser appositamente studiato per la pulitura di superfici lapidee.

Discendente in linea diretta dal laboratorio artistico fondato dai Medici nel 1588, il settore mosaico e pietre dure ha coltivato e tramandato la manualità che consente di restaurare i mosaici di pietre pregiate, noti anche come 'commessi', raggiungendo un altissimo livello di specializzazione; per il restauro dei commessi lapidei è infatti necessario padroneggiare la tecnica esecutiva, per essere in grado, ove la situazione conservativa dell'opera lo consenta, di restituirle integrità di immagine e di significato. Fra le attività operative di questo settore rientra anche la scagliola, intarsio in gesso colorato e lucidato particolarmente apprezzato alla corte granducale di Firenze. Il restauro di opere di glittica, nelle quali era specializzata la manifattura medicea, abbraccia, oltre ai cammei e agli intagli di pietre dure, anche opere in avorio, corallo, ambra, tartaruga ecc., ed è condotto a volte in collaborazione con il settore di oreficeria. Dagli anni Ottanta del 19° secolo l'Opificio si occupa del restauro dei mosaici a tessere, avvalendosi ora della collaborazione sia del Laboratorio scientifico, in particolare per lo studio delle malte di allettamento alle tessere e per i supporti più idonei per i mosaici staccati, sia di enti esterni, quali la Stazione sperimentale per il vetro di Murano, l'Istituto di scienza e tecnologia dei materiali ceramici del CNR di Faenza, la Scuola del mosaico della Soprintendenza ai beni architettonici e ambientali di Ravenna. Costante è la collaborazione scientifica e operativa con l'Opera di S. Maria del Fiore di Firenze, per il controllo e restauro dei mosaici del Battistero.

L'uso dei più diversi materiali caratterizza le opere di oreficeria, nelle quali, oltre ai metalli quali oro, argento, rame, bronzo o altre leghe, si trovano frequentemente impiegati legno, pietre preziose e semipreziose, perle, coralli, smalti, avori, vetri, ma anche stoffe e pergamene. Nel laboratorio vengono affrontate tutte le operazioni, dallo smontaggio (per le opere caratterizzate da una tecnica di esecuzione più complessa) alla pulitura, al consolidamento, all'integrazione (di norma limitata alle parti strutturali), fino alla protezione finale (quando si riveli indispensabile per non vanificare l'opera di pulitura). Le indagini preliminari, necessarie per accertare la natura dei materiali costitutivi e delle sostanze che, applicate successivamente, possano aver alterato esteticamente il manufatto, consentono di approntare l'intervento nella maniera più idonea e vengono effettuate in collaborazione con il laboratorio scientifico.

Il settore sculture lignee, oltre a occuparsi delle particolarità strutturali del legno scolpito, deve considerare anche le peculiarità delle superfici dipinte; richiede, quindi, competenze differenziate e si avvale della tradizionale tecnica del restauro fiorentino unita alla ricerca di nuovi materiali, dei più moderni sistemi di indagine e di un affinamento della conoscenza delle tecniche artistiche. Il settore di restauro dei tessili, costituito nel 1982 in forma autonoma, deriva dalla tradizione del laboratorio privato fiorentino dei Clignon, alloggiato presso i locali della Vecchia Posta agli Uffizi. Le nuove metodologie di intervento in questo settore tengono conto sia dell'eredità tecnica del passato sia delle più recenti novità emerse nel panorama internazionale, e a tale scopo sono costantemente mantenuti contatti e scambi con i principali istituti stranieri.

I laboratori di restauro dei Musei Vaticani

I laboratori di restauro dei Musei Vaticani affondano le proprie radici nella tradizione plurisecolare delle raccolte vaticane e costituiscono una realtà per molti aspetti unica, vitale per la conservazione e la conoscenza di un patrimonio culturale immenso quanto variegato. L'esigenza della conservazione delle opere d'arte fu avvertita in Vaticano già nel Cinquecento, quando furono con probabilità commissionati a Sebastiano del Piombo gli interventi sugli affreschi di Raffaello danneggiati durante il sacco di Roma dei Lanzichenecchi (1527). Nel 1543 fu istituito da Paolo III l'ufficio del Mundator per provvedere a periodiche spolverature della Cappella Sistina, della Cappella Paolina e della Sala Regia. La nascita però di veri e propri laboratori si ebbe tra la fine del 19° e i primi decenni del 20° secolo.

Il laboratorio per il restauro degli arazzi e dei tessuti è quello di più antica formazione, poiché raccoglie la tradizione dell'arazzeria romana di San Michele fondata da Clemente XI nel 1710, cui dal 1725 fu affidata anche la manutenzione degli arazzi pontifici. L'attività, trasferitasi in Vaticano dopo il 1870 a opera di Pietro Gentili, capo arazziere di San Michele, determinò la nascita di una Scuola-Fabbrica nel 1915 affiancata, dal 1926, da un laboratorio di restauro. Tra gli anni Venti e Trenta del Novecento, in linea con la riorganizzazione su base tecnico-scientifica di tutto il complesso dei Musei Vaticani, si giunse all'istituzione di laboratori specializzati nei vari settori, dalle pitture ai metalli e ai reperti archeologici, insieme a un Gabinetto di applicazioni scientifiche, seguiti nel tempo dai laboratori dei mosaici, dei marmi e della carta.

Fra gli interventi più significativi eseguiti in tempi recenti si pongono innanzitutto il restauro dei capolavori di Michelangelo (Cappella Sistina, 1980-94), di Raffaello (Stanze, 1985-2000), di Beato Angelico (Cappella Niccolina, 1997). Il giubileo del 2000 ha costituito poi l'occasione per uno straordinario impegno conservativo di tutti i monumenti e capolavori di pertinenza del Vaticano, a partire dalle basiliche romane: S. Pietro (facciata della basilica, colonnato), S. Paolo (ciborio di Arnolfo di Cambio), S. Maria Maggiore (pulitura della tribuna, della facciata settecentesca e dei relativi mosaici di Iacopo Torriti, Presepe di Arnolfo di Cambio), S. Giovanni in Laterano (affreschi della Loggia delle benedizioni, Sancta Sanctorum, facciate della chiesa e dei palazzi lateranensi).

Le moderne tecniche di restauro

Nel corso dell'evoluzione delle tecniche di restauro si è manifestata sempre di più l'esigenza di una conoscenza dell'opera d'arte quanto più possibile approfondita e di un assoluto rispetto della sua 'identità'. Di conseguenza, come supporto per il restauratore, oltre a quelle storico-artistiche, hanno acquistato sempre maggiore rilevanza altre discipline quali la chimica, la fisica, la biologia e la petrografia. Si sono inoltre raffinate sia tecniche specifiche di indagine diagnostica dell'opera, sia metodologie, strumentazioni e materiali per l'intervento di restauro; particolare importanza hanno anche assunto il controllo microclimatico e il monitoraggio. In questo contesto, fin dal 1977 fu istituita in Italia, all'interno del Ministero per i Beni culturali e ambientali, la Commissione NorMaL (Normazione materiali lapidei), con il compito di disciplinare il settore del restauro relativamente ai beni architettonici. Successivamente, nel gennaio 1997, è stata costituita, con la partecipazione del ministero e all'interno dell'UNI (Ente nazionale italiano di unificazione), la Commissione Beni culturali-NorMaL, che ha il compito di redigere norme relative a metodi per la caratterizzazione dei materiali (lapidei naturali e artificiali, malte, vetri, tela, carta ecc.) e a metodologie analitiche per la valutazione dell'efficacia di prodotti biocidi, pulenti, consolidanti, protettivi.

L'indagine diagnostica rappresenta la fase primaria di acquisizione dei dati conoscitivi funzionali all'inquadramento tecnico di un progetto di restauro; prevede, di norma, una ricerca archivistica e documentale, sopralluoghi, rilievi, sviluppo di mappe tematiche, descrizione delle caratteristiche macroscopiche dei materiali e dei fenomeni di alterazione. La seconda fase comporta indagini mirate di dettaglio, per le quali si utilizzano tecniche non invasive e altre che prevedono analisi di laboratorio conseguenti a campionamenti eseguiti sull'opera. L'obiettivo è quello di individuare il corretto grado d'intervento attraverso la valutazione degli elementi specifici di ogni singolo manufatto artistico. La tecnica fotografica, effettuata prevalentemente con macchine digitali, costituisce in generale un valido strumento per un primo studio analitico e di archiviazione documentale dell'opera d'arte e permette di analizzare l'immagine sulla base della sorgente impiegata: radiazione visibile riflessa; radiazione infrarossa riflessa, luce riflessa dall'oggetto nell'infrarosso (la radiazione infrarossa, in un dipinto, può mettere in evidenza sinopie, strati preparatori ecc.); radiazione ultravioletta riflessa (che evidenzia i diversi materiali e gli interventi di restauro); radiazione di fluorescenza nel visibile (che rivela sostanze presenti in superficie, come vernici, leganti, alcuni pigmenti e lacche).

Quando le informazioni ricercate non possono essere ottenute impiegando tecniche non invasive, dopo la fase diagnostica, viene eseguito il campionamento di materiale che deve essere il più rispettoso possibile dei contenuti estetici, storici e dell'integrità fisica del manufatto, limitato nel numero e nelle dimensioni dei prelievi pur garantendone le finalità analitiche, rappresentativo della tipologia e fenomenologia da studiare, selettivo al fine di ottimizzare le operazioni analitiche e l'interpretazione dei risultati. Ciò costituisce un problema particolarmente complesso, sia per l'esigua quantità normalmente disponibile sia per il carattere polimaterico; sono state quindi sviluppate sofisticate metodologie analitiche, basate sull'impiego di tecniche strumentali altamente sensibili e selettive. La microscopia ottica, impiegata preliminarmente alle indagini strumentali, permette di determinare la successione e lo spessore degli strati e di riconoscere alcuni pigmenti o di discriminare tra le classi di leganti definendone la posizione nella policromia. Le tecniche cromatografiche sono invece impiegate per identificare le sostanze organiche e rappresentano il metodo migliore per effettuare separazioni analitiche; sono impiegate, soprattutto, per la caratterizzazione dei materiali pittorici, valutandone le proprietà chimico-fisiche a livello macromolecolare. Permettono, inoltre, di ottenere informazioni sull'effetto di età, trattamenti conservativi e fluttuazioni di fattori ambientali, quali luce, umidità relativa, temperatura, qualità dell'aria in ambiente confinato.

Le tipologie di intervento sull'opera sono molteplici, e ogni progetto può svilupparne di nuove, in relazione alle caratteristiche specifiche del manufatto. Tra di esse le più diffuse sono: la pulitura, la disinfestazione, la stuccatura e l'incollaggio, la foderatura dei dipinti su tela, il consolidamento, le reintegrazioni di dipinti, la stesura di protettivi.

La pulitura è una delle operazioni svolte più frequentemente e una delle più complesse. I materiali presenti sulla superficie delle opere possono essere soggetti, a causa dell'invecchiamento, ad alterazioni strutturali spesso associate ad alterazioni cromatiche, che possono modificare profondamente l'aspetto visivo, arrivando a comprometterne la leggibilità. Nei monumenti esposti all'aperto, in particolare, le tipologie di degrado riscontrabili sulle superfici sono di varia natura e aspetto: da semplici depositi di polveri incoerenti, a strutture di alterazioni stratificate, fino alla formazione di incrostazioni compatte e fortemente coese alla matrice lapidea, come è il caso delle cosiddette croste nere. Tale situazione impone un intervento di pulitura che elimini tutti quei prodotti che possono essere dannosi dal punto di vista sia conservativo sia estetico, preservando le patine naturali; deve essere graduabile e controllabile dall'operatore, selettiva, non aggressiva nei confronti dei materiali costituenti l'opera e non deve lasciare prodotti dannosi per la futura conservazione del manufatto. Per le opere policrome la pulitura richiede tradizionalmente l'uso di soluzioni acide o basiche e di solventi organici, caratterizzati spesso da elevata tossicità e potenziale rischio per l'integrità dell'opera stessa. Si sono sviluppate ricerche applicative mirate a mettere a punto preparazioni acquose contenenti principi attivi specifici (resin soaps, solvent gels ed enzimi), accanto alle quali si va affermando in misura crescente l'impiego di strumentazione laser. Quest'ultima tecnica è caratterizzata da alta selettività, minima invasività e consente un elevato grado di controllo e precisione; per questo il suo impiego è possibile per diversi tipi di substrato, quali materiale lapideo (il più comune), metalli, carta, legno, stoffa.

Quando sull'opera sono presenti biodeteriogeni (batteri, funghi, alghe) si procede alla fase di disinfestazione. Per le strutture lignee il fattore più frequente di degrado di tipo biologico è rappresentato dall'azione di insetti xilofagi che è necessario identificare per la scelta del tipo di biocida.

In una fase successiva, alcuni interventi di restauro possono porsi l'obiettivo di effettuare integrazioni di materia e assemblaggi, per cui possono essere previsti l'incollaggio e la stuccatura. In questi casi il prodotto dovrà presentare buona adesività, basso ritiro, buona durabilità, caratteristiche meccaniche il più possibile vicine ai materiali del manufatto; i prodotti più usati sono le resine acriliche e viniliche. Per quanto riguarda i dipinti mobili viene effettuata in modo generalizzato la foderatura, consistente nell'applicare sul retro dell'opera con un adesivo (colla, pasta, cera, resine termoplastiche) una tela di rinforzo; tale operazione provoca però sostanziali modifiche nell'assetto dei costituenti dell'opera, con conseguenti ripercussioni sul piano dell'estetica, e si preferisce quindi farvi ricorso solo quando il supporto è degradato e non più in grado di esercitare la sua funzione di sostegno.

Nell'intervento conservativo si deve prevedere, solo quando necessario, la fase di consolidamento per ristabilire un grado sufficiente di coesione in materiali che, a causa del degrado, sono venuti a perdere la condizione di aggregazione originaria. Un buon prodotto consolidante dev'essere assorbito uniformemente, presentare un coefficiente di dilatazione termica non molto difforme da quello del manufatto, assicurare permeabilità al vapore acqueo, non provocare la formazione di sottoprodotti secondari dannosi, non determinare cambiamenti cromatici; va quindi scelto in funzione della tipologia e della condizione del manufatto. Possono essere impiegati materiali polimerici, individuabili da specifiche caratteristiche (composizione chimica, grado di tossicità, infiammabilità, proprietà fisiche e ottiche, compatibilità con altri prodotti, reversibilità), come, per es., le resine acriliche. Molto usati per le pietre arenarie sono gli esteri dell'acido silicico, in grado di ben penetrare nei pori e formare nuovi legami. Per il consolidamento di affreschi è diffuso l'impiego dell'idrossido di bario in soluzione. Per i dipinti, una fase complessa è costituita dalla reintegrazione delle lacune; essa comporta una scelta tra più soluzioni operative possibili (abbassamento di livello, reintegrazione imitativa, stuccatura 'ad astrazione', selezione cromatica), ognuna delle quali ha esiti specifici.

In alcuni casi la fase finale del restauro può prevedere la stesura di protettivi, effettuata con materiali dotati anche in questo caso di caratteristiche specifiche, quali inerzia chimica nei riguardi del manufatto, coefficiente di dilatazione termica compatibile, buona permeabilità, stabilità alla radiazione ultravioletta, e in grado di offrire garanzie, anche dopo invecchiamento, di reversibilità dell'intervento.

Tra le questioni che hanno interessato la ricerca e l'attività di restauro tra la fine del 20° secolo e l'inizio del successivo vi è quella della conservazione e del restauro delle opere d'arte contemporanea che, pur in riferimento a una comune metodologia critica e agli stessi principi teorici applicati all'arte antica, presentano alcuni problemi specifici. L'arte contemporanea fa spesso uso di procedimenti estremamente diversificati, di materiali e tecniche nuovi e spesso fragili o deperibili, il cui comportamento nel tempo non è stato ancora verificato; tuttavia, anche tecniche di antica tradizione, come l'affresco o la pittura a tempera o a olio, possono essere impiegate in modo anomalo comportando quindi, in fase di restauro, la necessità di soluzioni specifiche. D'altra parte, il problema della vita dell'opera può essere considerato irrilevante dall'autore nell'ambito del processo creativo e, anzi, l'uso consapevole di materiali deperibili e il deterioramento e la fine materiale dell'opera possono spesso far parte integrante del progetto artistico. Un ulteriore aspetto riguarda quelle esperienze artistiche che privilegiano l'ambito progettuale e processuale: per happenings e performances la documentazione e quindi la conservazione dell'evento può essere affidata solo alla sua registrazione fotografica, filmica o video; di conseguenza, il problema della conservazione e del restauro si traspone a questi media, che del resto sono mezzo espressivo primario di molta parte della ricerca artistica degli ultimi decenni del Novecento. Altri problemi sono legati al restauro di opere d'arte cinetica, land art, installazioni e videoinstallazioni, così come di molti prodotti di arte concettuale, dove il criterio di conservare l'autenticità dell'invenzione artistica può non essere intaccato dalla sostituzione di alcune componenti; o ancora nel caso di opere realizzate assemblando materiali prodotti con procedimenti industriali, per le quali è prevedibile, per esempio, la riverniciatura con analoghi procedimenti o la sostituzione di parti.

Va inoltre ricordato il fatto che interventi di restauro su un'opera di un artista vivente comportano aspetti legali non ancora regolamentati da una precisa normativa. Dal momento dell'alienazione dell'opera il nuovo proprietario ha la facoltà e il compito di provvedere alla sua conservazione e al suo restauro. Pur non disponendo più dell'opera, l'artista può tuttavia disconoscerne la paternità di fronte a un intervento che la alteri in modo considerevole; d'altra parte l'artista stesso può essere interpellato per offrire la sua consulenza o intervenire personalmente nel restauro. È significativo il caso dell'installazione di J. Beuys Infiltration homogen für Konzertflügel (1966, Parigi, Musée national d'art moderne), restaurata dall'autore nel 1984 con la sostituzione del feltro consunto che copriva il pianoforte, conservato tuttavia a fianco dello strumento a testimonianza dell'evoluzione dell'opera e dei suoi materiali.

A prescindere dalle diverse soluzioni studiate per i singoli casi, dal principio sempre perseguito del minimo intervento e della reversibilità fino al ripristino e alla sostituzione, risulta evidente l'importanza della conservazione preventiva e della documentazione, accanto a una formazione specifica del restauratore d'arte contemporanea. Fondamentale in questo caso l'azione di istituti e dipartimenti di restauro e in particolare di quelli sorti presso musei di arte contemporanea: dal Restaurierungszentrum di Düsseldorf ai laboratori del Museum of modern art di New York, della National gallery of art di Washington, del Royal Ontario museum di Toronto, della Tate Gallery e del British Museum di Londra, del Musée d'art moderne di Parigi, dello Stedelijk Museum di Amsterdam, del Museo nacional centro de arte Reina Sofía di Madrid.

riferimenti bibliografici

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