CITTA, REGNO D'ITALIA

Federiciana (2005)

Città, Regno d'Italia

Giuliano Milani

Fino a pochi anni fa la valutazione del rapporto che legò Federico II alle città del Regno d'Italia appariva sospesa tra prospettive che privilegiavano intenzioni e progetti dell'imperatore e visioni che, assumendo il punto di vista comunale, mostravano il fallimento di quei piani. Una nutrita serie di studi, compiuti soprattutto in occasione del settimo anniversario della nascita dell'imperatore, ha consentito di sfaccettare questo schema. Oggi quel rapporto appare inserito nel quadro del complesso gioco tra vertice pubblico e poteri locali nello spazio politico del regnum Ytalie così come si era configurato prima e dopo il Barbarossa, un gioco che Federico II si trovò a ereditare e che con lui fu portato alle estreme conseguenze.

Da questi studi è possibile ricavare come l'atteggiamento di Federico II fu improntato con continuità al principio di "attenersi alle disposizioni dei suoi predecessori e salvaguardare il giusto e ben fondato diritto di ognuno" (Keller, 1994, p. 24), ma cambiò, nei fatti, a seconda dello schieramento delle città in favore o contro la sua causa, che modificava, agli occhi dell'imperatore, la giustizia e la fondatezza di quello stesso diritto.

Dal momento che il sostegno o l'opposizione all'Impero trovarono ragioni fondamentali nelle contingenze locali, l'evoluzione della relazione Impero-città appare il risultato di un processo dialettico complesso, spiegabile non solo considerando la crescente consapevolezza politica dell'imperatore, ma anche e soprattutto l'evoluzione degli equilibri politici tra i comuni e tra questi e il papato. Nel fronteggiare queste evoluzioni, che condizionarono in maniera determinante l'azione imperiale, Federico II andò maturando la propria concezione del potere.

Che tale condizionamento costituisse un elemento latente, ma in grado di emergere, specialmente in momenti di particolare bisogno di sostegno da parte di Federico II, si coglie già nel primo passaggio nel Regno d'Italia: il viaggio che Federico compì dalla Sicilia alla Germania nel 1212 per essere eletto. Come attestano fonti cronachistiche, in questa occasione egli si trovò ad affrontare i tentativi di cattura attuati per mare dai pisani e per terra da milanesi e piacentini, tutti sostenitori di Ottone IV. Da queste azioni ostili riuscì a scampare grazie alla protezione offerta da genovesi, astigiani, pavesi, cremonesi, mantovani e veronesi nonché da alcuni grandi signori territoriali. La prontezza con cui le città italiane reagirono al viaggio del puer Apulie mostra chiaramente la vitalità delle alleanze scaturite dalla fine della prima Lega lombarda, coordinate attorno alle città di Milano e Cremona, e delle rivalità per il controllo del Tirreno tra Genova e Pisa, che avevano trovato nuovi argomenti nella crisi di successione al trono imperiale aperta dalla morte di Enrico VI. Il brusco incontro del giovane Federico II con queste linee di divisione fornì l'occasione diretta per la sua prima politica cittadina. Nel 1212 concesse un diploma ai genovesi in cui confermava la piena giurisdizione. Nel 1213, su esplicita richiesta dei cremonesi, bandì i milanesi, colpevoli di aver sottratto territori strategici a Cremona, per tramite del suo nuovo legato in Italia, Federico vescovo di Trento. Nel 1214 concesse al comune di Asti il castello di Annone, atto preliminare a cui, di lì a pochi anni, sarebbe seguito un privilegio di piena giurisdizione.

Tali concessioni si inquadravano, è vero, in una logica di premi e punizioni rispetto al sostegno prestato (largamente percepibile nei coevi diplomi rilasciati a signori piemontesi e lombardi), ma il loro contenuto non si allontanava di molto da quello di analoghi privilegi rilasciati dai suoi predecessori. Esse seguivano, accelerandole o arrestandole, tappe di un'espansione territoriale localmente già tracciata.

In questo schema di azione politica - che visto dalla prospettiva imperiale appariva relativamente semplice, mentre si sfaldava nella complicazione dei diritti e dei poteri al livello dei singoli contadi comunali, lontani dall'essere compiutamente assoggettati e precisamente definiti - veniva a inserirsi lo strettissimo rapporto di dipendenza del giovane re dal papato che, con Innocenzo III, lo aveva sostenuto nell'elezione. Il rinnovato bisogno di appoggio da parte di Onorio III, che lo avrebbe di lì a poco incoronato, costituisce la chiave per interpretare molti diplomi emanati nel 1219 da Spira, dove Federico II aveva convocato una dieta per trattare degli affari italiani. Con uno di essi, Federico confermava al vescovo di Ivrea il districtus cittadino. In ciò egli interveniva in un conflitto precedente, che aveva visto, sin dagli ultimi anni del secolo precedente, il vescovo, titolare del distretto sulla base di una concessione imperiale, sollecitare la protezione papale contro il comune che aveva tentato di eroderne la giurisdizione.

Tale intervento mostra assai bene la collaborazione tra papato e Impero nella difesa delle libertà ecclesiastiche. Se da un lato tale linea politica costituiva la premessa indispensabile dell'incoronazione del 1220, dall'altro essa rappresentava, in virtù delle tensioni tra Chiese locali e poteri cittadini, un'interferenza nella politica di premi e punizioni che Federico II aveva condotto nei confronti delle città in maniera autonoma rispetto al pontefice.

Gli anni intorno all'incoronazione videro le prime manifestazioni di questo contrasto tra le aspirazioni al controllo sul territorio da parte di comuni ancora bisognosi di legittimazioni dell'imperatore e la resistenza dei vescovi e degli altri enti religiosi, ben decisi a richiedere la protezione di un papa forte dell'appoggio imperiale.

Proprio l'aumento delle richieste di riconoscimenti da parte dei comuni e la necessità di soddisfarle in vista della nuova spedizione italiana contribuirono a far sì che queste contraddizioni deflagrassero. Sempre nella dieta di Spira, Federico II confermò privilegi di giurisdizione a favore di città fedeli come Asti, Parma, Cremona. Ma nello stesso anno si trovò a dover sanare, con il pontefice, alcune conseguenze che questi privilegi avevano provocato. In questo senso va letto l'atteggiamento di Federico II nei confronti di Parma, che si concretizzò, prima, nell'emanazione di un nuovo diploma in cui si specificava che il privilegio concesso a quella città non doveva essere interpretato a detrimento del vescovo e della Chiesa, poi, nella presenza dell'imperatore alla scomunica del podestà e del consiglio cittadino, attuata nel 1220. Sempre nel 1220 Federico II dovette intervenire per cassare tutti gli statuti emanati da un altro comune fedele, Asti, contro la Chiesa cittadina, nel corso di un conflitto antico in cui erano intervenuti, pochi anni prima, il tribunale pontificio, il vescovo di Torino, l'arcivescovo di Milano.

Alla contraddizione tra privilegi rilasciati ai comuni e volontà di difendere i diritti della Chiesa si poteva poi aggiungere quella tra incentivi all'ampliamento della giurisdizione delle città fedeli e coevi diplomi rilasciati ai signori territoriali che interferivano con quell'ampliamento. Così la concessione in feudo al milanese Guglielmo di Pusterla di un reddito di 20 marchi d'argento dai proventi dell'imperatore nella città di Asti contrastava con il progetto degli astigiani di rivendicare al comune i proventi pubblici e diede inizio a una vertenza durante la quale Federico II dovette rilasciare altri diplomi.

Sin dal principio dunque la relazione di Federico II con le città era minacciata su due fronti: esternamente, dalla difesa papale della libertas Ecclesiae a cui il re era di fatto costretto, internamente, a causa della concorrenza nella rivendicazione di poteri giurisdizionali tra diversi comuni e tra comuni e signori. Anche le concessioni alle città che non diedero luogo subito a nuovi contenziosi costituivano il segno di una politica filopontificia di Federico II che complicava la sua relazione con i comuni. A Modena Federico II rilasciò un diploma di protezione al vescovo, per sostenerlo rispetto agli attacchi che aveva subito dal comune. A Padova, mediante due distinti diplomi, ingiunse al comune di non molestare nei loro diritti il vescovo e il marchese d'Este, schierandosi decisamente nei conflitti interni al gioco politico cittadino.

La lunga teoria di inviati comunali che si presentò all'imperatore a Roma nelle giornate successive all'incoronazione e la nuova serie di diplomi che essi riuscirono a ottenere riaprì vecchi problemi e ne fomentò di nuovi. La conferma dei privilegi giurisdizionali a Bologna, per esempio, una città non tradizionalmente collegata all'imperatore, che trovò opportuno farsi rappresentare da Guglielmo di Pusterla, veniva a interrompere una linea politica condotta sino a quel momento dall'Impero nei confronti della Romagna, guidata dal tentativo di rafforzare Imola rispetto alle due città vicine che tentavano di egemonizzarla: Bologna, appunto, e Faenza. Inoltre, l'incoronazione di Federico II (il rafforzamento politico che ne risultava) spinse a cercare contatti con l'imperatore le città di due regioni sino a quel momento poco presenti nell'orizzonte federiciano: la Toscana e la Marca trevigiana.

Da questi contatti gli equilibri toscani uscirono profondamente ridefiniti. Pisa, agendo sul timore di un potere eccessivo dei genovesi nel Regno di Sicilia, riuscì a ottenere un diploma con cui si riconosceva l'ampiezza della sua giurisdizione, il controllo sulle coste e sulle isole nonché l'esenzione dalle imposte commerciali in tutto il territorio del Regno. Firenze, l'altra città toscana che andava ormai chiaramente emergendo sulle altre, fu invece duramente colpita in negativo, mediante una cospicua serie di concessioni rilasciate a città e signori concorrenti (Poggibonsi, Pistoia, vescovo di Volterra, conti Guidi, Ubertini), che ne danneggiavano notevolmente l'espansione. In questo trattamento di sfavore non dovette pesare solo la cauta politica dei fiorentini, che non avevano inviato propri cavalieri al seguito del sovrano nel viaggio romano, o un episodio contingente come lo scontro che avvenne tra fiorentini e pisani nell'accampamento imperiale alle porte di Roma, ma anche le complesse vertenze che negli anni immediatamente precedenti si erano aperte tra comune e vescovo, dando luogo, sin dal 1218, a interventi pontifici.

Gli equilibri della Marca trevigiana furono scossi in misura minore. Anche perché le città di questa regione risultavano connesse all'Impero soprattutto tramite grandi domus di tradizione pubblica come i conti veronesi di Sambonifacio e gli Estensi. Fu a costoro che Federico II rilasciò i diplomi più importanti, nei quali confermava il godimento di antichi privilegi, talvolta estendendoli, come nel caso di Azzo VI d'Este a cui, nel 1222, fu conferita la giurisdizione d'appello sull'intera Marca.

Va rilevato, infine, come in questa prima fase le relazioni con le città italiane si concretizzarono negli unici due momenti della presenza di Federico II nel Regno (1212 e soprattutto 1220). Era dunque in qualche misura ovvio che tali relazioni fossero orientate in primo luogo dai destinatari di quelle concessioni (comuni e vescovi), con l'appoggio o l'opposizione del papato. Una politica cittadina originale, da parte dell'imperatore, non ebbe ancora modo di manifestarsi compiutamente. Parziale eccezione a questo dato è costituita dall'azione dei legati imperiali in Toscana che intervennero in maniera più attiva nelle relazioni intercittadine, senza ottenere peraltro grandi risultati. Anche dal rafforzamento della presenza di legati sarebbe partita, di lì a poco, l'evoluzione della politica di Federico II nei riguardi delle città.

A segnare l'avvio di una nuova fase nelle relazioni tra Federico II e le città fu un avvenimento non deciso dalla Curia imperiale: il rinnovo della Lega lombarda. Com'è noto, però, tale rinnovo fu innescato dall'annuncio della convocazione della dieta di Cremona da parte di Federico II, nella quale si sarebbe dovuto discutere della pacificazione del Regno d'Italia in vista della crociata. In particolare, ad allarmare Milano sarebbe stata l'informazione secondo cui, in occasione della dieta, egli sarebbe giunto con truppe armate. Il rapporto tra l'Impero e i comuni dunque prese una nuova piega nel momento in cui Federico II cominciò ad abbandonare la politica di piena soggezione alla volontà pontificia che aveva caratterizzato tutta la prima fase, ed espresse per la prima volta la volontà di risolvere, mediante una politica dotata di valore generale e soprattutto più autonoma, il problema dell'ubbidienza delle città centrosettentrionali.

Da questo punto di vista non si rileva contrasto, ma evoluzione, tra la politica di concessioni locali inquadrate nella tutela della Chiesa, attuata a suon di diplomi dall'imperatore negli anni attorno all'incoronazione, e quella più aggressiva degli anni 1225-1234. Si registra un'intensificazione e una precisazione degli obiettivi, dovuta al tentativo, non necessariamente strumentale, di assumere in proprio la politica di repressione dell'eresia, cioè della disubbidienza, di matrice pontificia. La politica cittadina di Federico II passò quindi dalla tutela immediata delle Chiese locali, soprattutto nei loro conflitti con i comuni, alla sollecitazione di un'azione comunale volta all'espulsione degli eretici, alla rimozione del dissenso, alla pacificazione, anche ricercata con i mezzi coercitivi propri del potere pubblico, in vista della crociata. Ma tale evoluzione si collocava proprio sulla linea dell'azione politico-religiosa dell'Impero, legittimata dall'impegno che Federico II aveva assunto con il papato, emanando all'atto dell'incoronazione le costituzioni antiereticali.

Prima e dopo l'aprirsi del conflitto con le città collegate (11 giugno 1226) è questo il quadro che presentano i diplomi federiciani. Sintomatico è il caso di Pavia, in cui i conflitti tra milites e populus avevano provocato l'intervento di Federico che, tramite il suo legato Corrado di Metz, aveva affidato nel 1220 la città al suo vescovo. Ma, nonostante questa reggenza, i disordini non erano cessati e anzi avevano portato, per effetto di una richiesta di tassazione del clero, a un diretto intervento di Onorio III, che aveva fulminato, nel 1222, la scomunica. I conflitti tra comune e vescovo, dopo una composizione, si erano riaccesi in maniera particolarmente forte nel 1225, provocando l'esilio del vescovo. Nel 1226 Federico II decise di intervenire sciogliendo tutte le società di Pavia e decretando la distruzione della loro documentazione. Come nei disordini interni, Federico II intervenne, in maniera altrettanto categorica, adottando ed estremizzando la prassi pontificia, anche nei conflitti intercittadini. Se in vista della crociata Onorio si era adoperato per porre fine alla guerra tra Milano, Piacenza e Pavia (1217) e a quella tra Pisa e Lucca (1223), così Federico II volle stabilire nel 1226 l'ubicazione dei confini tra Modena e Bologna, ratificare i patti tra Modena e Ferrara, sanare i conflitti tra le città toscane.

È in questo clima che va collocata la ritorsione attuata nei confronti delle città che nel marzo avevano rinnovato la Societas Lombardiae. Non solo Federico II giustificò il bando sulla base della rottura della pace attuata dalle città collegate e del boicottaggio della dieta di Cremona volta alla preparazione della crociata, tutti argomenti di elaborazione pontificia, ma lo attuò mediante una procedura che si inseriva perfettamente nel quadro di difesa della politica papale. Federico II richiese infatti al vescovo di Hildesheim di consultare i vescovi dell'Italia settentrionale per averne pareri in merito all'opportunità di scomunicare le città della Lega, e solo in un secondo momento, in perfetto accordo con quanto era stato decretato nella Constitutio in basilica beati Petri (v.) del 1220, quando la scomunica vi fu, egli fece seguire il bando dell'Impero.

D'altra parte, il contenuto di quel bando era suggerito, per così dire, in negativo, dagli intenti programmatici della rinata Lega lombarda. Tra il marzo e il giugno del 1226 questa venne a costituire un organismo politico sovracittadino dotato di giurisdizione interna, esercitata da due rettori per città, e del potere di deliberare, al fine di difendere quella che, con significativa emulazione del vocabolario pontificio, era definita libertas civitatum. Nella prima dichiarazione di intenti erano richiamati il privilegio di Costanza (1183), che consentiva il rinnovo della Lega, l'esplicita conferma di tale facoltà concessa da Ottone IV e l'implicito assenso che a tale conferma aveva dato, secondo i comuni, lo stesso Federico II acconsentendo alla difesa delle consuetudines nei suoi diplomi indirizzati a singole città. La scomunica e il bando imperiale, emanati nello stesso mese di giugno, privavano le città di tutto ciò che era stato concesso con la pace di Costanza o da qualsiasi altro privilegio. In questo modo non solo si stabiliva la cessazione di quell'insieme di giurisdizioni, regalie, districta, poteri di emanare leggi e di dotarsi di magistrati che, di fatto, costituivano la libertas di ogni civitas, ma si cancellava la possibilità stessa di riunirsi in una lega. Rivelatrice, dunque, l'assenza nel bando del termine societas, sostituito dal peggiorativo riferimento alle coniurationes illicite.

Proprio sulla legittimità della Societas, come è stato affermato (Vallerani, 1994, p. 401), si giocò negli anni 1226-1230 la complessa e non risolta partita tra Federico II e le città lombarde, venete ed emiliane, che vide in posizione di mediatore il papato, prima con Onorio III, scelto già in agosto dallo stesso Federico II per risolvere la disputa, poi con Gregorio IX. Onorio elaborò una bozza di accordo che stabiliva, per l'imperatore, il ritiro del bando e la stipula di una pace, per le città l'invio di forze per la crociata, la tregua con le città nemiche, l'inserimento delle leggi antiereticali negli statuti e la difesa della libertas Ecclesiae. L'immediata accettazione da parte dell'imperatore di questa bozza mostra non tanto la sua debolezza, quanto la sua coerenza con le ragioni che avevano motivato il bando e l'inserimento ancora pieno di Federico II nel quadro della politica cittadina del pontefice. Il ritardo con cui le città collegate sottoscrissero la pace mette in risalto la forte consapevolezza dei rettori della Lega dei rischi di una formale accettazione di quella politica, che fosse promossa dall'imperatore, dal papa o, peggio, da entrambi.

A rinviare una soluzione contribuì il rapido deteriorarsi delle relazioni tra Federico e Gregorio, dovuto con ogni probabilità alla politica ecclesiastica dell'imperatore nel Regno di Sicilia. In quest'area il sovrano trovò modo di esercitare in maniera più compiuta l'egemonia sui poteri e sulle Chiese, come aveva tentato invano di fare in quegli stessi anni in Lombardia. Il successo del riordinamento ecclesiastico nel Meridione mostrava in modo più chiaro, rispetto al Nord, la volontà imperiale di procedere in maniera indipendente dal papato. Così si spiega la reazione di Gregorio IX che, prendendo spunto dal rinvio della crociata, scomunicò Federico II. Questi eventi stabilivano per la prima volta una convergenza di interessi tra pontefice e Lega. Già nel 1229 Gregorio propose alle città lombarde di mettersi al suo servizio per attaccare Federico II e nel 1230 truppe cittadine parteciparono al tentativo pontificio di invasione del Regno di Sicilia. La tregua tra i due poteri universali stipulata nel 1230 a San Germano rallentò il precipitare del conflitto, ma non lo stringersi delle relazioni tra papa e comuni. Essa stabiliva che l'imperatore ritirasse le pene sancite dal bando del 1226 (peraltro mai eseguite), ma non nominava come soggetto politico la Lega. Gregorio tuttavia provvide a inviare proprio ai rettori della Societas la remissione delle spese e la cauzione prestata dall'imperatore.

La rottura con il papato, si è detto, era stata innescata dallo sganciamento di Federico II dai dettami della politica pontificia, in particolare nel Regno di Sicilia. Una simile volontà di autonomia l'Impero la manifestò anche nelle aree in cui tra Federico II e le città non si frapponeva il filtro della Lega, come in Toscana e nella Marca di Ancona. In Lombardia Federico II si dovette limitare a proseguire in modo tradizionale, con concessioni alle città fedeli: rinnovò, in conseguenza dell'iniziativa milanese e leghista, i privilegi a Cremona e Genova, e consentì nel 1227 a Pavia la restituzione della società dei notai sciolta dal suo provvedimento del 1226.

In Romagna e nelle Marche egli intraprese una politica nuova, provando a proporsi come potere alternativo a quello papale. Nel 1228 richiese a Cesena di pagare il sussidio per la spedizione in Terrasanta, nonostante fosse stato scomunicato. Poco dopo, inviò Rainaldo, duca di Spoleto, come legato imperiale nella Marca e, contando sull'azione di questo funzionario, chiese al comune di Civitanova di riconoscere all'Impero diritti che il comune aveva rifiutato al papa. Confermò privilegi a Osimo e Recanati e diede ordine ai giustizieri di restituire beni al comune di Ascoli.

In Toscana continuò a condurre un'azione di contenimento della politica espansiva di Firenze. Proprio perché non esisteva una forma di raccordo superiore come quello rappresentato dalla Lega, la politica imperiale poté svolgersi - con la rilevante eccezione di Pisa, indispensabile all'Impero per la sua potenza navale - in maniera più indipendente dalla volontà delle città fedeli di quanto non avvenisse nel Nord. Così si spiega il precetto, emanato nel 1227 nei confronti di Pistoia, città nemica di Firenze e dunque potenziale alleata dell'Impero, di restituire i prigionieri presi nel Valdarno nel corso di un'assenza del delegato di Federico II.

A partire dalla Toscana, una volta firmata la pace di San Germano, Federico II provò quindi a estendere l'azione di coordinamento portata a compimento nel Regno di Sicilia. Il tentativo cominciò con l'invio di Geboardo di Arnstein come legato (autunno 1230) e proseguì, negli anni successivi, mediante un intervento più attivo nei conflitti di Pistoia, Pisa e Siena alleate contro Firenze, visibile nella convocazione dei senesi alla Curia generale da tenersi nell'aprile 1231, nella richiesta, soddisfatta, presentata a Gregorio IX di intervenire presso i pistoiesi per ricondurli alla pace con le città vicine, nel bando fulminato da Geboardo contro Montepulciano, all'epoca sotto l'influenza dei fiorentini, per non aver mandato propri rappresentanti all'assemblea di pace e, infine, nel bando contro Firenze del 1232.

Ma il problema più scottante rimaneva quello rappresentato dalla Lega lombarda che ormai da cinque anni funzionava come organismo di raccordo superiore, intervenendo nelle divisioni interne delle città e nelle guerre tra comuni. La convocazione di una dieta generale da tenersi a Ravenna nel 1231 provocò un ulteriore rinnovo della Societas e costituì il maggiore fattore di degenerazione nelle relazioni tra Impero e papato. Lo scontro si riaprì quando, come era avvenuto nel 1226, la Lega bloccò la Val d'Adige per impedire l'arrivo dei convocati tedeschi alla dieta e vide, come allora, l'intervento del pontefice come mediatore.

Nel corso della trattativa, che pure si sarebbe conclusa nel 1233 con il ristabilimento di quanto previsto nel 1227 da Onorio III, Gregorio ebbe tuttavia modo di manifestare un appoggio rispetto ai comuni che oltrepassava di molto l'atteggiamento del suo predecessore. La preoccupazione per la crescente autonomia rivendicata da Federico II in materia di repressione della disubbidienza, soprattutto dopo l'emanazione delle Costituzioni melfitane, si accompagnava a quella per il potenziale accerchiamento territoriale dello Stato pontificio che avrebbe potuto operare un Impero forte non solo in Sicilia, ma anche in Toscana e Lombardia. Tali furono le ragioni in base alle quali si produsse il cambiamento dell'atteggiamento del papa nei confronti delle città. Gregorio inviò in Lombardia legati provenienti da Brescia e Vercelli, città collegate, che promisero formalmente di non imporre alla Lega precetti divergenti dalle posizioni espresse dai comuni, consistenti nella volontà di limitarsi a giurare una generica fedeltà all'Impero, previo il ristabilimento dei privilegi di Costanza, e nel rifiuto di ritirare i giuramenti contrari (cioè di sciogliere la Lega) come aveva richiesto Federico II. Anche all'indomani dell'accordo del 1233, che aveva lasciato insoddisfatto l'imperatore, il papa manifestò il suo appoggio dichiarando alle città della Lega che eventuali guerre compiute contro Cremona, Parma e Pavia, cioè le città fedeli all'Impero, non avrebbero inficiato la pace raggiunta. La rinuncia da parte del papato alla difesa della pace in Lombardia, che aveva rappresentato un cardine della politica pontificia, nonché il punto di partenza per i tentativi egemonici compiuti da Federico II, sanciva definitivamente un riassetto dei fronti che vedeva ormai il papa e la Lega uniti contro l'imperatore. A quest'ultimo non restava che consolidare le proprie alleanze e cercarne di nuove. Così procedette negli anni intorno al 1233, confermando privilegi a pavesi, cremonesi, genovesi, pisani, e soprattutto concedendo la propria protezione ai fratelli da Romano, il cui tentativo di inserirsi nella politica delle città della Marca trevigiana era stato coronato da successo. L'assenza dall'Italia tra 1234 e 1236 di Federico II, occupato a riorganizzare il Regno in Germania, non raffreddò il clima di preparazione allo scontro. L'adesione delle città della Lega alla ribellione di Enrico, figlio di Federico II, nel 1234 qualificò definitivamente, agli occhi dell'imperatore, quelle città come nemiche.

Il periodo 1235-1250 emerge dalla documentazione come l'epoca di più stretta relazione tra Federico II e le città del Regno d'Italia. Dal 1235 al 1240 Federico non si recò mai nel Regno di Sicilia ed è stato calcolato che l'imperatore trascorse più della metà del tempo nelle regioni centrosettentrionali (Brühl, 1994, p. 39). La ragione di tale presenza fu l'aprirsi dello scontro militare, anche a giudicare dal fatto che un decimo del tempo, in questo periodo, fu trascorso da Federico II nell'assedio di città ribelli (in particolare Brescia, Faenza e Parma). La convocazione della dieta di Piacenza (1236), oltre alle operazioni di guerra, aprì dunque la fase di confronto più diretto e serrato tra Federico II e i comuni, una fase nella quale le caratteristiche del rapporto, già delineate, appaiono in maniera particolarmente nitida. La volontà di controllo dell'Italia comunale, che Federico II manifestò in maniera più forte, fu condizionata, come e più di prima, dai conflitti che esistevano tra le città e all'interno delle città.

L'inasprirsi dello scontro sembrò catalizzare e rendere visibili tutte le tensioni esistenti. Sul piano regionale si stagliavano, sostenute ora dall'esplicita ricerca di adesioni da parte di papato e Impero, le rivalità tra città, inquadrate in uno schema di alleanze appena più stabile in Lombardia, per effetto dell'esistenza della Lega, più mobile nella Marca trevigiana e in Toscana. A un livello più basso, ma con simili varianti regionali, c'erano le difficoltà delle città, soprattutto di quelle di medie dimensioni, a controllare il proprio contado, dovute alla resistenza di signori rurali e Chiese locali. Soprattutto, ma non solo, nei centri maggiori esistevano poi conflitti tra milites e 'popolo', capaci ovunque di intrecciarsi con quelli interni alla milizia, a loro volta connessi con il territorio. Questi fattori determinarono gli esiti della campagna di Federico II in maniera notevolmente maggiore rispetto alle azioni militari.

Le rapide acquisizioni al fronte federiciano, comportanti giuramenti di fedeltà, che si ebbero tra 1236 e 1239 e che sconvolsero l'equilibrio faticosamente ricercato dalla Lega, possono essere comprese pienamente soltanto considerando la complessa situazione delle singole città che aderirono. Nella Marca, in cui, tra 1236 e 1237, si ebbe la prima serie di successi, pesò la forza militare di Verona e di Ezzelino (a Vicenza), ma anche (a Treviso e soprattutto a Padova) il bisogno di un raccordo esterno che consentisse alle grandi casate impegnate nei conflitti di fazione e alle altre componenti della società di ricomporre equilibri dilaniati, come di fatto avvenne fino al 1239. In Lombardia, nello stesso periodo, passarono a Federico II città che sentivano particolarmente pesante il giogo milanese (come Como e Novara) e comuni che avevano gravi contenziosi aperti con la propria Chiesa locale (come Bergamo, Vercelli, Mantova), che videro nell'Impero ormai nemico del papato una nuova possibilità di espansione. Tutti questi centri ricevettero diplomi che confermavano le consuetudini locali, intese come diritti da far valere nei confronti di concorrenti politico-territoriali, e in alcuni casi ottennero anche di più. Fu il caso di Vercelli, che strappò all'imperatore la promessa dell'esercizio della giurisdizione sul contado, ancora rivendicata dal vescovo.

Solo quando Federico II incontrò situazioni preesistenti che lo avvantaggiavano e riuscì a cointeressare altre forze, urbane e rurali, la sua azione militare risultò incisiva. L'unica battaglia che vinse, Cortenuova nel 1237, fu decisa in buona misura dalla presenza dei milites lombardi intenzionati a far recuperare a Bergamo un castello che si era ribellato. La presa di Alessandria fu possibile grazie allo sforzo dei soldati pavesi, già da tempo interessati a conquistarla. Ed ebbe ragione di un solo assedio importante, quello di Faenza nel 1240-1241, anche in questo caso con l'appoggio decisivo di contingenti provenienti da città che potevano trarre vantaggi diretti dalla conquista.

La propaganda federiciana che, con il contributo determinante di Pier della Vigna, fu allestita per sostenere l'azione militare si concretizzò nell'invio capillare di lettere che informavano sistematicamente fideles italiani e potenze straniere dei successi riportati. Questa produzione, presa nel suo insieme, rivela la progressiva divaricazione tra il valore assegnato alle vittorie e l'entità delle vittorie stesse nel quadro di un progressivo inasprimento dei toni. Al principio, nelle lettere che informano della preparazione della dieta di Piacenza, risalta il riferimento al carattere sacrale del potere di giudice e pacificatore dell'imperatore, e per contrasto la connotazione dei nemici come rebelles. In quelle relative alla battaglia di Cortenuova gli argomenti si fanno più gravi e già nelle epistole (e nei provvedimenti di bando) dell'anno successivo i nemici sono divenuti infideles, meritevoli di "definitiva distruzione". Ma tali obiettivi si danno per raggiunti nel resoconto di episodi non cruciali sul piano militare, come la presa di Piumazzo e Crevalcore, nel Bolognese, o l'ingresso nell'ampio contado di Milano. Rivelatrici di questo crescente divario tra toni e contenuti sono le epistole di rassicurazione agli alleati, scritte nel 1239, in cui, talvolta, emerge la critica esplicita di voci disfattiste e, con questa, la ricerca di appoggio da parte di Federico II, resa più urgente dalla scomunica.

In questa chiave va letto l'allestimento di un sistema di raccordo politico superiore nelle zone sottoposte al suo controllo. È vero che per molti versi si trattava di una grande novità. Non era mai stata espressa, nemmeno negli anni del più rigido controllo da parte di Federico I, la volontà di dotare il Regno d'Italia di una struttura gerarchica come quella disegnata da Federico II nel 1238, che si articolava in nove vicariati, suddivisi al loro interno in castellanie e podesterie. Ugualmente nuovo fu il tentativo di arrogare ai vicari l'esercizio della giustizia ordinaria, oltre che di quella d'appello.

Ma un simile riassetto dovette tenere conto delle esigenze e dei rapporti di forza delle società cittadine e locali. Lo stesso invio di podestà imperiali, comprovati fideles di Federico, in molti casi provenienti dal Regno di Sicilia, del tutto estranei ai circuiti precedenti, fu sollecitato dalle città maggiori (Pavia, Cremona, Parma) per risolvere i conflitti interni. Peggior sorte ebbero le città più piccole, sottoposte a un controllo più arbitrario, ma da parte di ufficiali che provenivano dalle città maggiori della rete filoimperiale. Quanto ai vicari, anche nelle regioni in cui il controllo imperiale trovava minori ostacoli, come la Marca trevigiana e la Toscana, furono spesso condizionati da poteri locali privi di funzioni pubbliche. Così avvenne ai vicari della Marca con Ezzelino da Romano, così anche, su un piano differente, a Pandolfo di Fasanella, il cui ruolo di supremo giudice fu sfruttato da alcune comunità del territorio pistoiese come strumento di pressione per raggiungere un accordo separato con il comune di Pistoia. In generale, l'innovativo riassetto compiuto da Federico II non lasciò tracce consistenti né nell'esercizio della giustizia (Zorzi, 1994, p. 103), né in quello della fiscalità (Cammarosano, 1994, p. 108), né nell'organizzazione militare (Greci, 1994, p. 358).

La ristrettezza del margine di manovra che i preesistenti equilibri locali lasciavano all'azione degli ufficiali imperiali permette di comprendere le ragioni per cui il sistema federiciano entrò rapidamente in crisi anche dal punto di vista politico. L'azione del papato, che sin dal 1238 si attivò in maniera sempre più esplicita in favore delle poche città rimaste della Lega (Milano, Bologna, Piacenza, Brescia), consistette in interventi mirati volti a scardinare i puntelli sui quali quegli equilibri si sostenevano. Il fatto, peraltro, che le nuove adesioni al fronte antimperiale riguardarono soprattutto signori territoriali che egemonizzavano le città o, più tardi, milites cittadini dotati di diritti nel territorio, mostra come, fra i diversi poteri guadagnati alla fedeltà imperiale, non fossero stati i comuni in quanto tali a soffrire maggiormente del controllo federiciano. Di tale controllo avevano sofferto in maniera più consistente le Chiese locali, sostenute da reti di clientele aristocratiche, che, a mano a mano che il conflitto con il papato si intensificò, furono segnate da una serie di conflitti interni, vacanze, presenze di vescovi non consacrati, ritrovandosi complessivamente meno autonome rispetto all'imperatore.

Proprio facendo leva sui soggetti che avevano tratto i vantaggi minori dall'adesione al fronte imperiale il legato papale Gregorio da Montelongo promosse la prima serie di defezioni. Questa fu aperta tra 1238 e 1239 dai nobili della Marca trevigiana colpiti dalla crescente fortuna di Ezzelino (Alberico da Romano ed Estensi, con i loro aderenti). Di lì a poco questo passaggio di fronti ebbe come conseguenza la perdita per il fronte imperiale di Ferrara, proseguì con l'adesione di Pietro Traversari, che portò per breve tempo Ravenna alla pars Ecclesiae. La maggiore possibilità di agire sulle relazioni tra vescovi e comuni che il papato aveva rispetto all'Impero fu sfruttata con vigore da Innocenzo IV, divenuto papa nel 1243, attraverso la generalizzazione dei provvedimenti di riserva delle nomine dei vescovi. Tramite questa pratica, in parte già sperimentata da Gregorio da Montelongo, egli si inserì nelle dinamiche interne alle Chiese cittadine, dunque alle aristocrazie urbane, impedendo la nomina di vescovi non fedeli, favorendo quella di personale di Curia, e promuovendo, anche sulla base di relazioni personali, accordi con ristrette ma cruciali porzioni del ceto dirigente, spesso legate alla sede vescovile. Con questa tecnica, tra il 1243 e il 1247, riuscì a portare dalla propria parte una porzione strategica dei vertici del fronte federiciano: i rappresentanti dei lignaggi militari di Cremona, Reggio, Modena che svolgevano la funzione di podestà imperiali. In Toscana e nella Marca di Ancona agì direttamente sui vicari fomentando congiure. A Vercelli Innocenzo trovò un interlocutore nell'intera struttura comunale. La città, che era passata al fronte imperiale quando Federico II aveva promesso di assegnarle i diritti episcopali sul territorio, ne uscì nel 1243 quando la stessa promessa, su basi più solide, fu fatta da Innocenzo, portando con sé Alessandria e Novara.

Dal momento che, come si è accennato, Federico II non disponeva di una sufficiente capacità militare autonoma e dipendeva dall'apporto dei milites delle città fedeli, questa serie di abbandoni, in particolare quelli dei cavalieri emiliani e cremonesi, ebbe un riflesso immediato sull'evoluzione del conflitto. Così come la fase precedente era stata scandita, nella propaganda epistolare, dalle battaglie vittoriose, così l'ultimo decennio della vita di Federico fu caratterizzato dalle sconfitte, che assunsero, nella cronachistica cittadina e nell'epistolografia pontificia, il valore di luoghi della memoria: così la clamorosa perdita di Vittoria (1247), l'accampamento costruito durante l'assedio di Parma, e allo stesso modo, quando Federico II era rientrato nel Regno, la cattura di re Enzo a Fossalta (1249).

Il fallimento dei tentativi egemonici sulle città, prima da parte del papato, poi dell'Impero, che si consumò nel corso della vita di Federico II, sganciò per molti versi la storia delle città del Regno d'Italia da quella di questi poteri.

Il bisogno di sostegno che essi avevano manifestato nella guerra aveva, da un lato, dotato di maggiori risorse e titoli molte famiglie dell'aristocrazia urbana, dall'altro, favorito le divisioni e i legami faziosi tra le città. Ma al tempo stesso, dalla mancata realizzazione dei disegni egemonici e dalla tenuta della figura del podestà forestiero, pur nella breve parentesi dei funzionari imperiali, era uscito rafforzato anche il potere delle istituzioni comunali, e con esso lo sviluppo di forze 'popolari'.

Si trattava di elementi che nel loro insieme non esaurivano, ma modificavano i conflitti interni a quel Regno di città con cui Federico II aveva dovuto cominciare ben presto a fare i conti. Per almeno un secolo, sulla dialettica interna tra organizzazioni 'popolari' e forze aristocratiche e su quella esterna tra partes intercittadine si sarebbero giocati gli equilibri di città che sentivano ormai in misura sempre minore di far parte di un Regnum.

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