PSICHIATRIA

Enciclopedia Italiana - V Appendice (1994)

PSICHIATRIA

Leonardo Ancona

(XXVIII, p. 446; App. II, II, p. 624; III, II, p. 514; IV, III, p. 79)

La descrizione dello scenario della p. dal 1978 a oggi in una voce enciclopedica esige necessariamente un'opzione: quella di astenersi dal resoconto puntuale e completo del contenuto offerto dal campo psichiatrico e della sua contestualità con la cultura cui inerisce. Infatti ben più vasto sarebbe lo spazio necessario per corrispondere a questo compito e, comunque, si lascerebbe sempre da parte qualche importante dettaglio. Sembra invece preferibile approfondire il significato che la p. ha assunto in questo tempo e l'orizzonte evolutivo col quale si confronta, perché da questa prospettiva si possono comprendere meglio gli studi, le ricerche, le applicazioni cliniche che oggi arricchiscono la p. come mai si era verificato in passato.

L'impostazione adottata conduce innanzitutto a rilevare che a livello teorico la p. è caratterizzata oggi da una certa confusione di indirizzi, non riscontrabile in altri campi della medicina: sembra infatti che non riesca a trovare la strada definitiva verso un assetto in cui riconoscersi, che non abbia sicurezza sul come dovrebbe pensare e operare, e che presenti vere e proprie ''fughe in avanti'', interpretabili come tentativi di sfuggire al caos che la informa.

Ciò è ben rappresentato dalla stasi quasi completa in cui si è venuta a trovare in Italia la legislazione psichiatrica, in quanto, dopo la riforma emanata nel 1978 e pur dopo la verifica della sua incompletezza, nonostante la presentazione al Parlamento di oltre dieci progetti integrativi, che non hanno avuto corso, solo nel 1994 è stato approvato dalla conferenza stato-regioni il Progetto Obiettivo Tutela della Salute Mentale. Le linee essenziali del progetto sono l'istituzione nel giro di tre anni in tutto il territorio nazionale di dipartimenti per la tutela della salute mentale (DSM), collegati con strutture particolari (centri di salute mentale; servizi di diagnosi e cura; day hospitals; centri diurni; strutture residenziali, ecc.) e la promozione di progetti per la formazione e l'aggiornamento degli operatori.

In questa situazione di caos concettuale e legislativo, un certo numero di correnti teoriche si è affermato in seno alla p., nel tentativo di sistemare le cose ma costituendo in realtà, per l'istanza monopolizzatrice a esse implicita, quelle ''fughe in avanti'' cui si è accennato.

Una prima corrente è quella che si può chiamare sociogenetica. Nella fase iniziale del suo sviluppo, alla fine degli anni Sessanta e nei primi anni Settanta, si può collocare l'opera tumultuosa di R.D. Laing (v. in questa Appendice) e di D. Cooper (1967) con la loro anti-psichiatria. Secondo questi autori un soggetto, per suo conto particolarmente vulnerabile, finisce col divenire il bersaglio di un gruppo sociale, che scarica in modo perverso su di lui la propria patologia, delegandolo a diventare il ''malato designato''. L'origine della malattia mentale è quindi attribuita alla costrizione esercitata da una società ingiusta, prepotente ed egoista (la cosiddetta ''società dei padroni'') su chi si offre come vittima perché inerme, fisicamente disutile o dotato di minore organizzazione mentale. Si tratta pertanto di una p. fortemente intrisa di istanze politiche − di sinistra e contrassegnate da forte radicalismo − il cui programma terapeutico si è venuto definendo nel progetto di cambiamento sociale come unico strumento di recupero individuale. Intimamente correlato e complementare a questo principio è quello secondo cui la cura psichiatrica del singolo, oltre a essere inutile, è anche persecutoria e mistificatoria, in quanto è la società a render folli alcuni dei suoi membri di per sé mentalmente sani, sono i manicomi le istituzioni che li fanno impazzire e sono i medici con i loro strumenti farmacologici e di contenzione il nemico da battere.

Questa versione ''antipsichiatrica'' si è diffusa qua e là nel mondo occidentale, propugnando lo smantellamento degli ospedali psichiatrici e compromettendo lo stesso sapere medico e la psicopatologia, sino alla temeraria affermazione che la "malattia mentale non esiste" (T.S. Szasz, 1960; 1973). In Italia F. Basaglia, a Gorizia (1971), pur senza condividere la tesi estremistica dell'inesistenza della malattia mentale, è stato l'esponente di maggior spicco dell'estremismo sociogenetico che ha dato luogo alla cosiddetta ''p. democratica''; e attualmente questa, pur non essendo pochi gli psichiatri che continuano a condividerne l'impostazione, è in fase di ridimensionamento, probabilmente per il crollo dell'ideologia comunista che ne costituiva una premessa teorica e un supporto. Comunque questo movimento di idee ha avuto il merito di porre in evidenza il principio che le pressioni sociali, economiche e culturali possono avere una notevole importanza nella patogenesi della malattia mentale, in quanto tendono a imporre al soggetto modelli di comportamento che può essere costretto ad assimilare come compito obbligatorio e di impossibile attuazione, per cui un soggetto particolarmente fragile dal punto di vista psichico ne viene vulnerato e può entrare in una spirale pericolosa di complicanze psicopatologiche (v. oltre: p. ecologica, p. del territorio).

Come ricaduta positiva di questi principi sul piano pragmatico-clinico si possono comunque ricordare alcuni risultati, qui di seguito elencati.

a) L'ulteriore sviluppo dello studio e della terapia della famiglia, intesa come un sistema attivo nel condizionare nel suo seno la malattia mentale, soprattutto la schizofrenia (v. psicoterapia familiare, in questa Appendice). Oggi le ricerche in questo campo sono molto floride e in Italia (a Roma, Milano e Bari) sono rappresentate da specifici gruppi. Il gruppo romano fa capo da una parte a M. Andolfi, direttore dell'Accademia di psicoterapia della famiglia che pubblica un'apposita rivista, Terapia della Famiglia (1988-) e dall'altra a C. Pontalti, primario dell'omonimo servizio all'Università Cattolica. Il raggruppamento milanese è guidato da M. Selvini Palazzoli, autrice, fra l'altro, di Giochi psicotici in famiglia (1988), in cui il termine ''gioco'' è applicato a quell'intreccio perverso di contrapposizioni, provocazioni, ricatti, invischiamenti e strumentalizzazioni che pervadono a tutto campo una famiglia gravemente disturbata sul piano psicologico, sino all'esplosione di una psicosi a carico di qualcuno dei componenti della famiglia stessa, di solito un figlio. Il raggruppamento di Bari è diretto da P. De Giacomo ed è orientato alla ''psicoterapia del paradosso'' e soprattutto alla teoria generale dei sistemi; questa viene ibridata con schemi di intervento multipli e in parte è formalizzata secondo equazioni di matematica avanzata, il che ne accentua l'ermeticità: si tratta di una metodica che ingenera perplessità, ma che tuttavia è stata recentemente oggetto di un lusinghiero giudizio (L. L'Abate, 1994).

b) Lo stimolo a nuove ricerche sulle Emozioni Espresse (E.E.) che hanno confermato l'importanza, nella determinazione di recidive schizofreniche, dell'intensità, frequenza e caratteristiche varie delle esternazioni emotive che, derivando dai familiari del paziente, ne costellano l'ambiente di vita. Ricerche italiane hanno dimostrato una prevalenza del 62% di recidive in un gruppo di schizofrenici ad alto indice di E.E. e del 27% in un gruppo di basso indice. Le E.E. si correlano positivamente anche con la gravità delle singole recidive (Bressi e altri, 1988) e col recupero terapeutico nel corso di una psicoterapia familiare di lunga durata (C. Pontalti e altri, 1991).

c) La promozione della cosiddetta epidemiologia psichiatrica, una prospettiva che in Italia è relativamente recente e rappresenta il viraggio dalla ideologia socio-politica a una p. sociale impostata scientificamente. M. Tansella dell'istituto di Psichiatria dell'università di Verona ha inaugurato in Italia questa dimensione della p. con ricerche importanti, svolte nel quadro della Società italiana di epidemiologia psichiatrica, e della rivista Epidemiologia e Psichiatria Sociale (1991-).

d) L'istituzione della p. ecologica, che studia l'ambiente circostante il soggetto umano, sia come singolo sia come gruppo: qui si mette l'accento sull'importanza dello stress, riconoscendo qualità di stimoli stressanti all'incalzare dei ritmi di vita, ai compiti frammentari e ripetitivi, al diffuso isolamento sociale, alla mancata utilizzazione delle qualità personali (R.A. Karasec, 1982); più in dettaglio, troppo rumore, eccessiva o carente luminosità sul posto di lavoro, carico di impegni con responsabilità esaltata o al contrario lavori troppo ridotti con carenza di autonomia, rapporti sociali e di subordinazione basati su ambiguità, incertezze direttive, conflitti, questi sono tutti agenti stressanti che, agendo su soggetti vulnerabili giustificano l'elevato numero di persone che oggi soffrono di schizofrenia e di depressione psicotica: ben 40 milioni, secondo una stima dell'Organizzazione mondiale della sanità (N. Sartorius, 1986). L'affollamento delle città moderne, gli inquinamenti atmosferici, idrici e telematici cui oggi l'uomo è continuamente sottoposto, e le immigrazioni/emigrazioni in rapida crescita, sono risultati altri fattori di disadattamento e disastro mentale evidenziati dalla p. ecologica.

e) L'istituzione della p. del territorio, che riconduce l'origine della malattia mentale ai disagi personali vissuti in funzione dell'ambiente della vita quotidiana, nel cuore del tessuto urbano e sociale, nel vivo delle strutture della città e del territorio annesso; e pertanto vede la cura e la riabilitazione psichiatrica nello stesso contesto delle cause che hanno portato allo scompenso. È il capitolo della sociopsichiatria o p. sociale in senso lato, emergente dallo studio delle comunità terapeutiche nate in Inghilterra (T.P. Main, 1946), dove per la prima volta fu concesso ai malati mentali un ruolo di parità con i loro curanti, infermieri e medici, nel contesto di un programma di attività ben definito. Oggi questo modo di affrontare la malattia mentale si articola in ''trattamenti domiciliari'', in ambulatori specializzati e in cliniche diurne (day hospitals), cui si aggiungono le ''case alloggio'' per i dimessi dall'ospedale psichiatrico e le comunità protette per lungodegenti. Il concetto di riabilitazione primeggia qui su quello della terapia (M. Buonsante, 1985, 1992).

Una seconda corrente teorica della p., che ha raccolto successi non trascurabili, è rappresentata dalla p. biogenetica, volta a utilizzare nella conoscenza della malattia mentale i grandi progressi verificatisi nel campo della biologia, della genetica e della psicofarmacologia. Tale corrente va interpretata come ''fuga in avanti'' tutte le volte che monopolizza il sapere psichiatrico tramite l'esclusione epistemologica di ogni altra alternativa, come quando riduce la malattia mentale a una situazione soltanto biochimica e neurotrasmettitoriale: per questa teoria la depressione dipende da una variazione della serotonina o nor-adrenalina cerebrale; la schizofrenia da una sregolazione nella trasmissione sinaptica della dopamina o nel metabolismo delle endorfine; l'ansietà da un eccesso di sostanza proteica specifica dell'ansia, e così via. Ne consegue che se la malattia mentale dipende da una sregolazione biochimica a ricaduta psicologica, tutto ciò che occorre al riguardo è di riaggiustare il sistema in disordine con principi antagonisti atti a riequilibrarlo, nella prospettiva di una restaurazione psichica.

Si tratta qui della p. biologica nella sua espressione unilaterale, che come tale contrassegna la medicalizzazione forzata della disciplina, in una ripresa integrale di un programma già attuato nel 19° secolo, e poi superato per le insufficienze dimostrate da una p. che si sarebbe voluto ridurre a neurologia. Di fatto oggi le scoperte fatte nel campo delle funzioni nervose superiori, della genetica e della psicofarmacologia costituiscono una forza di attrazione formidabile, anche perché efficacemente sponsorizzata dall'industria. Una tendenza che promette ben più di quel che può mantenere e che nasconde, nella speranza di sempre nuove scoperte, la povertà concettuale della sua impostazione.

I limiti di una simile concezione si colgono facilmente quando si pensi che un'interpretazione biologica esclusiva delle psicosi endogene si fonda sull'errore di credere che per trattare un disturbo mentale basti curare soltanto la sua patogenesi (la catena dei processi dell'organismo che portano al sintomo) e non la eziologia (la causa iniziale della turba), confondendo disinvoltamente l'una con l'altra: mentre la natura della prima è essenzialmente biologica, quella della seconda è psicologica, dipendendo da un rapporto interpersonale, emotivo o cognitivo, che è stato viziato in origine. Si attua così un'aporia che arbitrariamente riduce la psicologia a fisiologia, la psicodinamica a neurodinamica e di fatto trasforma il paziente da persona umana a semplice meccanismo. Fatte salve queste riserve, è fuori dubbio che la ricerca biologica in p. ha arrecato in questi ultimi anni un enorme aumento di conoscenze e di possibilità operative (E.R. Kandel, 1994).

I capitoli in cui si può suddividere la dimensione biogenetica della p. (dalla quale vengono esclusi i quadri della p. organica o ''esogena'', cioè quelli legati a cause neurologiche, endocrine, dismetaboliche, infettive e mediche in senso stretto) sono elencati come segue.

a) La genetica: è studiata soprattutto nei riguardi della schizofrenia e della depressione. Per la prima, nuove ricerche sono state fatte con riferimento alle adozioni: in una ricerca incentrata sulla morbilità per schizofrenia dei bambini dati in adozione, si è notato che quelli di cui un genitore biologico, nell'ulteriore corso della vita, si era ammalato di schizofrenia, presentavano un'incidenza di questa malattia più elevata (del 10÷15%) rispetto ai bambini di cui nessun genitore si era ammalato; non è stata dimostrata, invece, nessuna differenza nella morbilità per schizofrenia nei genitori di bambini dati in adozione ed evoluti in schizofrenia, nei confronti dei genitori di bambini mantenutisi sani nella nuova famiglia. I risultati collimano pertanto con quelli già osservati nel passato, per i quali la prevalenza della malattia è dell'1% nella popolazione normale, del 15% nelle famiglie degli schizofrenici e del 40÷50% nei gemelli omozigoti (I.M. Neale, T.F. Oltmans, 1982). La concordanza, mai superiore al 50%, dice poi che la malattia non dipende solo da un'alterazione genetica, anche se questa ha grande importanza nella sua patogenesi. Recentemente tramite il metodo del linkage genetico è stato possibile ipotizzare che la schizofrenia abbia almeno un determinante nel braccio lungo del cromosoma 5 (A. Bassett, 1989). Anche questo dato conferma che la schizofrenia non dipende da un singolo gene, sia dominante sia recessivo, ma ha carattere poligenico e multi-fattoriale.

Per quanto riguarda la depressione, in R. Fieve e altri (1975) si trovano dati analoghi a quelli della schizofrenia: una prevalenza del 10% tra fratelli e gemelli dizigoti, in adozione, e del 40÷50% fra i gemelli omozigoti, anche se allevati separatamente. E uguali sono stati i risultati a livello di genetica molecolare. Su un piano più generale si è notato che dal 1940 l'esordio della depressione è anticipato (dai 35 ai 28 anni) e che l'incidenza di casi familiari è significativamente aumentata (E.R. Kandel, 1994).

b) La neurofisiologia cerebrale: su questo parametro la ricerca nel periodo considerato è stata attivissima e ha precisato meglio quanto già iniziato negli anni Settanta. Come esempio paradigmatico della sofisticazione e rilevanza di queste indagini, basti ricordare le ricerche svolte sull'ipotalamo, la struttura del diencefalo deputata a coordinare le risposte endocrine e del Sistema Nervoso Autonomo in rapporto agli stati emotivi; si è precisato che l'ipotalamo tramite il telencefalo entra in connessione col mondo esterno in modo da esprimere appropriatamente queste risposte (F. Toates, 1986). Siamo qui nel campo delle interazioni cognitivo-emotive e le ricerche in questione indicano con precisione come si svolgono i sistemi servo-controllati fra le strutture profonde e corticali del telencefalo: l'amigdala, una di queste strutture, svolge le sue funzioni ricevendo informazioni sia dalle strutture corticali che dal talamo e ipotalamo; quest'ultima afferenza potrebbe (J.E. LeDoux, 1989) mediare risposte emotive rudimentali di breve latenza e preparare l'amigdala alla recezione di informazioni più complesse provenienti dai centri superiori. I segnali efferenti dall'amigdala, insieme a quelli a essa afferenti dal SNV, potrebbero essere poi convogliati verso strutture corticali pre-frontali, dove si convertirebbero in esperienze emotive coscienti. Se si tiene ora presente che a queste complesse interazioni si è sempre di più attribuito un significato nella determinazione delle malattie mentali, che si declinano su neuromodulazioni e trasmissioni neuroniche, si può cogliere in pienezza la straordinaria incidenza di questo parametro a proposito della patogenesi della malattia. Per quanto riguarda la schizofrenia, si sa per esempio che ogni impatto, e adattamento, ai fattori di stress si verifica tramite un incremento dell'attività dopaminergica centrale nei circuiti neuronali mesolimbici e mesocorticali (J.L. Haracz, 1982), con una lateralizzazione emisferica concernente l'amigdala di sinistra; o ancora, come ha proposto D. De Wied e altri (1978), attraverso una diminuzione delle gamma-endorfine e un aumento di quelle beta (nella catatonia), di quelle alfa (nella paranoidia) o della alfa-2-endorfine (nelle forme miste). A loro volta A.F. Oke e N.R. Adams (1987) hanno focalizzato l'attenzione sul rapporto dopamina/nor-adrenalina a livello del talamo. È specialmente il nucleo mediale del talamo che risulta un importantissimo crocevia al riguardo: nei suoi rapporti da una parte col lobo frontale, relativamente alla strutturazione dei cosiddetti sintomi negativi o difettuali della schizofrenia (S. Levin, 1984) e, dall'altra, con l'amigdala, relativamente ai sintomi cosiddetti positivi o aberranti. Questo sempre per quanto riguarda la patogenesi della schizofrenia. Come è stato detto più sopra, altro è invece il discorso sulla sua eziologia, che è riportabile a uno stato emotivo di distress, sottolineato già da tempo da H. Selye (1974), a sua volta causa di disordini trasmettitoriali.

c) La psicofarmacologia: in questo campo sono continuate le ricerche sui neurolettici, con un recupero di interesse per i farmaci IMAO (Inibitori delle MAO, MonoAminoOssidasi); questo recupero è stato reso possibile sia dalla più precisa indicazione clinica per la somministrazione degli IMAO, sia dalla rassicurazione sulla reale gravità degli effetti collaterali da essi prodotti. Ma soprattutto è stata determinante l'entrata in produzione di un IMAO reversibile, la moclobemide, il cui blocco inibitorio sul substrato enzimatico scompare non appena il farmaco viene eliminato dai liquidi biologici. La scarsa epatotossicità, la non-interferenza sulla sfera cognitiva, la rapida scomparsa dell'inibizione indotta, consacrata nella sigla RIMA (Rapid Inhibition MonoAmine oxidase) ne consentono l'agile impiego nel trattamento dei disturbi depressivi e di altre turbe psichiatriche (M. Peronti 1992).

La depressione in tutte le sue forme ha continuato a essere oggetto di ricerca, mentre negli ultimi anni ha assunto un interesse senza precedenti lo studio degli aspetti biologici e clinici della sindrome ossessivo-compulsiva (DOC), per i seguenti fattori: il riscontro che la prevalenza della DOC nella popolazione generale è circa 20 volte superiore a quella stimata in precedenza; la dimostrazione dell'efficacia sui sintomi ossessivo-compulsivi della clorimipramina e degli inibitori selettivi del reuptake della serotonina (fluoxetina, fluvoxamina); l'evidenziazione, attraverso tecniche di brain imaging, di peculiari alterazioni neuroanatomiche e neurofisiologiche associate alla DOC (F. Catapano, 1993). Clorimipramina, fluoxetina, fluvoxamina, già proposte per la terapia della depressione come inibitori del reuptake della serotonina, sono state infatti verificate utili nei DOC, o da sole o in combinazioni con altri agonisti della serotonina (T.A. Pigott e altri, 1992), anche se solo una minoranza di pazienti presenta una risoluzione completa del quadro clinico.

Il disturbo da ''attacco di panico'', riportato al ruolo svolto dalla nor-adrenalina e dal locus coeruleus (T.H. Svensson, 1987), e quello ''post-traumatico da stress'' sono oggi al centro della ricerca della psicofarmacologia (M. Battaglia, 1993). In questo capitolo va infine ricordata la feconda ricerca svolta con i modelli animali della ''eto-farmacologia'', una cui rassegna scientifica è comparsa, a cura di R. Delle Chiaie e altri (1992).

Una terza corrente teorica dell'attuale p. è quella psicogenetica, informata dalla dinamica psicologica sia di superficie che di profondità. Questa versione della p. sorse col deciso proposito di opporsi al riduzionismo biologico in campo mentale con quella che fu detta la ''terza rivoluzione'', dopo quella dell'era manicomiale e quella farmacologica, e si svolse con un rivolgimento di 180° rispetto alle due prospettive della p. sin qui considerate. Poiché la p. sociogenetica e quella biogenetica si declinavano secondo una direzione che andava dalla struttura (società, cervello) alla mente, il rivolgimento seguì la direzione contraria: dalla mente (le funzioni mentali) al cervello (il comportamento clinico): il volano del rivolgimento diventò subito la dinamica psichica inconscia, inaugurata da S. Freud ed entusiasticamente recepita dalla p. nordamericana. Negli anni Sessanta nessuno psichiatra di quei paesi poteva sottrarsi alla convinzione psicoanalitica, sia quella ortodossa (pulsionale) sia quella derivata (relazionale); della prima rimane monumento l'opera di O. Fenichel (1945), della seconda quella di H.S. Sullivan (1940). Si trattò di una vera e propria forzatura, perché intendeva subordinare tutto il dinamismo mentale alla psicoanalisi, e anche per questo tale disciplina è oggi in evidente declino: finita in USA, essa ha però ancora importanza in Europa e in Italia. Un residuo di tutto ciò si ritrova comunque nell'aspro dissenso che oppone oggi in Italia gli psicologi agli psichiatri; i primi, in base alla legge che ha dato loro riconoscimento professionale (l. 12 febbraio 1989 n. 56) e attribuito competenza psicoterapeutica (D.M. gennaio 1993), oppongono agli psichiatri che solo a loro spetta l'esercizio della psicoterapia dei pazienti, trascurando il fatto che innumerevoli volte questo trattamento è indicato e richiesto per i malati mentali, per i quali non esiste una terapia che sia avulsa dalla competenza medica; infatti lo psichiatra o è anche medico oppure nemmeno è psichiatra; d'altra parte è sommamente auspicabile che anch'egli, come lo psicologo, abbia preparazione e competenza psicoterapeutica.

La psicoterapia propriamente detta è il primo capitolo che viene rivisitato nella dimensione psicogenetica; sul piano clinico non si sono avuti originali sviluppi al riguardo, e piuttosto si sono moltiplicati gli approcci al trattamento degli stati limite, sottolineati dal definitivo accertamento che "il problema della efficacia della psicoterapia oggi ha soltanto un interesse storico: la psicoterapia marcia" (P. Hermann, A. Haynal, 1987). Hanno avuto invece sicuri progressi alcune tecniche derivate dalla psicoanalisi ma non a essa omologabili, come lo ''psicodramma'' e la ''gruppo-analisi'', quest'ultima diversa dalla psicoterapia di gruppo tanto quanto la psicoanalisi si differenzia dalla psicoterapia cosiddetta di appoggio.

La gruppo-analisi ha precisato sempre più le sue tecniche di intervento, e le sue indicazioni/controindicazioni (L. Ancona, 1989), integrando il concetto di ''matrice'', originato da M. Foulkes (1967), con quello di pattern, proposto da E. Cortesao (1992). I rapporti dinamici fra i due processi sono stati messi in evidenza da L. Ancona (1994). Inoltre, nel centro di Terapia della famiglia dell'Università Cattolica di Roma C. Pontalti e R. Menarini hanno portato avanti l'integrazione fra la gruppo-analisi e la terapia della famiglia (1994) e ciò ha consentito il trattamento di casi clinici di difficile gestione psichiatrica, per es. i pazienti borderline (C. Pontalti, 1994). La gruppo-analisi è stata svolta sia in integrazione, sia in sostituzione della farmacoterapia. Un aspetto originale della gruppo-analisi, la cui efficacia solo ora comincia a essere esplorata, è la sua conduzione in gruppi allargati, sino a 50, 60 e più persone (L. Ancona, 1993); questa tecnica sembra prospettare la possibilità di trattare con successo gravi situazioni di abuso e dipendenza da sostanze tossiche e da ideologie integraliste. Per quanto riguarda lo psicodramma, numerosi gruppi ne promuovono attualmente lo sviluppo e la sua versione analitica è bene rappresentata dalla scuola di E. Croce (1985).

La psicoterapia cognitiva deriva dall'evoluzione assunta dalla p. nell'ambito della ''psicoterapia del comportamento'' degli anni Cinquanta. Da questa la p. si è resa autonoma per le patenti insoddisfazioni che le erano implicite, cioè l'assenza di comprensione per i processi che in essa si verificavano e la mancata costruzione di un'immagine di sé capace di affrontare in modo nuovo problemi successivi: non si guarisce infatti solo perché un sintomo scompare, oppure è sostituito da un altro sintomo, con la probabilità che il problema originario si ripresenti, ma questo era tutto ciò che la psicoterapia del comportamento poteva dare.

L'insoddisfazione rimaneva anche dopo l'introduzione nel ''comportamento'' delle rappresentazioni e conoscenze del soggetto, come fu fatto dai terapeuti del comportamento di seconda generazione; e non scomparve nemmeno con le teorie cognitivo-razionalistiche, per le quali le reazioni emotive individuali, quindi i disadattamenti patologici, non dipendono dagli eventi reali ma dalla modalità con cui essi vengono interpretati (A. Ellis, 1962) o dall'eleborazione inconscia dell'informazione (A.T. Beck, 1976): le emozioni come risultato e prodotto del processo di elaborazione cognitiva, per cui i pensieri irrazionali, patogeni, che così si costituiscono vanno corretti con altri pensieri, più razionali e funzionali (RET o terapia razionale-emotiva di Beck).

In contrapposizione a queste teorie, la psicoterapia cognitiva è nata agli inizi degli anni Ottanta, stimolata dalle ricerche di W.B. Weimer (1977) e di M.J. Mahoney (1980), che si sono proposti di risolvere il problema teorico e clinico trascurato da Beck ed Ellis, cioè quello della natura paradossale ed ego-distonica della sofferenza nevrotica. Questa psicoterapia si è declinata su un modello di tipo 'costruttivo-strutturalista'', per il quale la conoscenza non si forma per gli input ambientali ricevuti ed elaborati dalla mente in modo passivo, è invece il sistema conoscitivo che costruisce attivamente un proprio modello di mondo. Qui pertanto la rappresentazione dell'esperienza si costruisce in base alle informazioni che il soggetto già possiede di sé e del mondo, immagazzinate negli schemi della sua memoria.

V.F. Guidano e G. Liotti hanno sviluppato il programma indicato da Weimer e Mahoney e hanno proposto (1983) un modello sofisticato di organizzazione cognitiva di tipo costruttivo-strutturalista, articolata nel modo seguente: vi è un livello di regole generali ''tacite'', inconsapevoli, costruite nel corso dello sviluppo dalla prima infanzia e che determinano gli aspetti invarianti della modalità personale di elaborazione delle informazioni; e vi è un livello strutturale ''esplicito'', consapevole, che definisce e mantiene l'identità personale nonché i modelli simulatori e anticipatori della realtà. In questo quadro Guidano e Liotti (1991) hanno descritto i processi dello sviluppo cognitivo e individuale, e la struttura che assume la conoscenza nell'organizzazione fobica, depressiva, ossessiva e in quella dei disturbi alimentari; nonché le strategie di trattamento in caso di scompenso. Base di queste strategie è il concetto che la vita emotiva del soggetto è massimamente influenzata da ''schemi'', di natura essenzialmente interpersonale. La relazione terapeuta-cliente può essere pertanto considerata non solo un eccellente punto di vista dal quale osservare in azione i più importanti ''schemi'' del paziente, ma anche un potente strumento per modificare alcuni di questi ''schemi'' o la loro sopraordinata organizzazione strutturale (A. Semerari, 1992).

La p. fenomenologica è un ulteriore aspetto della direzione mente-cervello. Gli psichiatri di questa corrente sono un esempio paradigmatico di un'apertura di campo che non accetta alcun riduzionismo, né quello socio- né quelli bio- o psicogenetico, e che teme le idee chiare e distinte. Essi per primi hanno avuto il coraggio di lasciare cadere tutto ciò che in p. è orpello pesante, per guardare al funzionamento dinamico della mente e alla comprensione empatica di ciò che vuol dire ''essere insieme'' col mondo e con gli altri (B. Callieri, 1980).

Per quanto sia fondamentale il riferimento, in questo capitolo, al lavoro diuturno e pionieristico di D. Cargnello (1984) e di E. Borgna (1992), sembra conveniente sottolineare specialmente il contributo di F. Barison, un caposcuola che sin dall'inizio della sua attività in p. ha focalizzato il "nucleo assolutamente irripetibile di ogni esistenza, nella fattispecie patologica" (1992) colto nel rapporto tra malato e psichiatra: verità ''ermeneutica'' ma non solipsistica (''psicologistica'' dice Barison) che emerge nel confrontarsi con un malato mentale, al di là del dialogo delle parole e che modifica lo psichiatra e per rimbalzo il suo paziente (1990). Questo dialogo ermeneutico è pertanto un'autentica psicoterapia, di efficacia transitoria o permanente, perché lo psichiatra vi coglie la verità della fusione del proprio mondo con quello dell'altro, e si verifica l'emergenza di un terzo mondo che parla un linguaggio nuovo e determina un modo nuovo di esistere del paziente. Barison ha derivato questo modello, insieme concettuale e operativo, dalla fenomenologia heideggeriana ''post-Kehre'', cioè successiva al momento in cui Heidegger ha trasformato il modo di osservare fenomenologico in un vivere creativo costituito dall'''apparire-nascondendosi dell'essere'': la radura, che non si darebbe senza l'ombra oscura della foresta. Il principio della ricerca di coesistenza tra terapeuta e paziente illuminata dall'apparire, è stato applicato da Barison alla clinica della schizofrenia, dell'autismo infantile, delle psicosi acute non schizofreniche, delle nevrosi e di altre turbe psichiatriche, raggiungendo un livello elevato di meta-psichiatria.

In questa prospettiva appare chiaramente quanto arricchisce la ricerca sulla schizofrenia il distacco, che le è implicito, dalla sua ottica difettuale e dalle strategie riabilitative-gestionali e la sostituzione, nel nucleo centrale della malattia schizofrenica, della turba dell'intenzionalità al posto del deficit (Ch. Mundt, 1990). Un sorprendente risultato è la concezione della schizofrenicità, e persino della sua apatia, nei termini di una originalità e creatività che si dimostra ''analoga alla creatività artistica'' (Barison, 1993).

Dallo scenario sin qui descritto emergono i limiti e i meriti della p. dei nostri giorni. Fra i limiti è saliente quello della disarticolazione, ad excludendum, della complessità della vita mentale in qualcuno soltanto dei suoi costituenti: un errore simile a quello di ridurre un computer solo al suo hard- o software. È infatti evidente che senza il soft il computer è soltanto una macchina potenziale, fatta di metalli e di circuiti elettrici ed elettronici e come tale non funziona. Il soft a sua volta, se preso isolatamente è inservibile, muto, morto e prende significato solo quando viene associato alle strutture dell'hard: avendo queste ultime una natura assolutamente inconfrontabile e irriconducibile a quella del programma simbolico che costituisce il soft. Un'ibridazione che tutti comprendono e che risulta invece difficile applicare al funzionamento della mente umana. È comunque facile fermarsi al fatto che se si interrompe un circuito il computer non funziona più e vedere in ciò l'analogia con una lesione biologica, causa di malattia mentale; ma non è altrettanto facile l'analogia che un disordine o un'errata programmazione del software, al limite un ''virus'', un cortocircuito che giunga sino a bruciare parti essenziali dell'hard, si applichi ugualmente al lavoro mentale: una turba puramente simbolica che a lungo andare produca un danno alle strutture biologiche della mente. Ma ciò è del tutto proponibile come modello di malattia mentale. La p. è pertanto perentoriamente tenuta a ricercare il proprio software e a interrogarsi sul modo scientifico di ibridare lo stesso coll'hardware, che pure la costituisce.

Si è visto che sul piano clinico questo programma si attua quando nella realtà umana del paziente che soffre di una malattia mentale si dà importanza al suo aspetto medico-biologico, cioè alla patogenesi (che è l'hardware del computer cervello), ma si tiene anche fermo il principio che nelle psicosi endogene è il loro significato, la ricerca della eziologia, ciò che costituisce il fuoco dell'intervento psichiatrico.

Sul piano della teoria il problema si pone nella dialettica fra ''modelli'' e ''genesi'' (L. Ancona, 1994): i primi, relativi ai segni indicanti come la malattia inizia, evolve, peggiora o rimette, la seconda relativa alla ricerca del perché quella malattia si è instaurata. Esempio di modellizzazione è l'attivissima ricerca dei markers della malattia mentale, nella quale primeggia oggi quella delle immagini computerizzate (brain imaging): una dimostrazione patente di attenzione all'hardware del lavoro psichiatrico, alla direzione ''dal cervello alla mente''. Si contrappone a essa la ricerca della comprensione del significato che ha quella malattia mentale per quel malato, la sua genesi, il che costituisce lo studio del software secondo la direzione ''dalla mente al cervello''.

In realtà il merito della p. moderna è la sua innegabile tensione all'integrazione. Al di là delle sue parcellizzazioni, oggi si delinea sempre più incisivamente contro di esse l'urgenza di lavorare sulle interfacce. In precedenza si è già considerata l'irrinunciabile importanza delle interfacce ''collettivo-individuo'' e ''mente-cervello''. A queste occorre aggiungere, innanzitutto, l'interfaccia ''conscio-inconscio'', dato che, indipendentemente dal ''credo'' psicoanalitico, quasi nessuno psichiatra contemporaneo trascura di riconoscere, nel trattamento delle grandi psicosi, variabili psicoanalitiche come il transfert, le identificazioni proiettive, le introiezioni e i meccanismi di difesa; in secondo luogo, vi è l'interfaccia ''singolo-gruppo'' per cui sempre di meno la psicosi viene considerata oggi come un fatto personale, circoscritto al singolo, ma è posta in correlazione con la famiglia, con un gruppo, con l'ambiente, sia nella sua genesi che nel suo trattamento; segue l'interfaccia professionale, per la quale lo psichiatra si convince, progressivamente, che egli ''da solo'' non basta e sempre di più sente il bisogno di riferirsi a colleghi dai quali tendeva a distanziarsi: da una parte i neurologi, i neurochirurghi, i biochimici, i genetisti e i neuroscienziati, dall'altra gli psicologi, gli epidemiologi, i sociologi, gli antropologi culturali. Anche nel suo lavoro quotidiano lo psichiatra impara sempre di più a lavorare in équipe, con l'infermiere psichiatrico, con lo psicologo clinico, con l'assistente sociale, con il terapista della riabilitazione e con gli agenti del volontariato.

Deve essere sottolineata infine un'interfaccia particolare, quella ''cognizione-emozione'', che in p. sta assumendo sempre maggiore salienza (v. sopra) ed è stata portata al massimo di specificità e profondità dallo sviluppo attuale del pensiero di Ch. S. Pierce (1868). Questo sviluppo è stato reso possibile dalla teoria di I. Matte Blanco sull'''inconscio come struttura biologica'' (1975; 1989). Si tratta di una teoria di estrema importanza, che permette di trattare dei sistemi deliranti come di mis-conceptions, strutture nelle quali è simultaneamente presente l'aspetto intellettivo e quello affettivo e che indicano il modo di affrontare e sciogliere definitivamente il nocciolo della psicopatologia (P. Bria, 1993).

Questo convergere di attenzione e di campo configura il progresso di quella p. dinamica che è stata inaugurata da D.H. Malan nel 1979 e che ha informato il volume di L. Ancona del 1984; essa si può integrare e riassumere nei seguenti termini:

a) per evitare sofferenze mentali e conflitti e allo scopo di controllare impulsi inaccettabili, l'uomo adotta molteplici strategie difensive, che vanno dall'essere completamente conscie all'essere così totalmente inconscie da poter essere svelate solo con anni di analisi;

b) le strategie difensive sono il prodotto di turbe biochimiche cerebrali e come tali sono causa di emozioni; queste turbe possono essere causate a loro volta da una serie di insoddisfazioni relazionali, che hanno agito nel tempo pregresso: in un caso come nell'altro, da accertarsi volta per volta, il prodotto finale delle strategie difensive in questione è una forma di disadattamento psichico, o un sintomo di nevrosi, di psicosi;

c) i comportamenti patologici sostenuti dalle strategie difensive contengono in forma mascherata le emozioni o gli impulsi proibiti, sono pertanto persistenti e resistenti a modificarsi e frequentemente hanno conseguenze dannose per il soggetto che li presenta e per coloro con i quali interagisce;

d) per quanto il soggetto possa essere consapevole delle conseguenze auto-ed eterodistruttive del suo comportamento, le forze implicate sono così forti, la loro fonte così ignorata, che egli è abitualmente impotente a controllarle: anche perché queste conseguenze dannose istituiscono un circolo vizioso, una dinamica di gruppo patologica tra il soggetto e i circostanti;

e) il modo di intervento per cambiare la situazione e curare il soggetto va da quello più semplice di modificare la dinamica di gruppo patologica e i modelli cognitivi che la caratterizzano, a quello di neutralizzare con farmaci gli squilibri biochimici cerebrali presenti, per finire a quello di analisi e trasformazione delle insoddisfazioni arcaiche, responsabili delle turbe psichiche di effetto patogeno.

È evidente che l'approccio della p. dinamica ibrida ragionevolmente quelli della p. psicoanalitica e biologica: essa, infatti, poggia da un lato sull'idea freudiana del trauma inteso quale shock emozionale che mette in moto la serie di meccanismi difensivi, da un altro lato sul modello di stress tracciato da W.B. Cannon, relativo alle modalità biologiche di risposta dell'organismo nell'impatto-adattamento-disadattamento allo stress, e da un terzo lato sull'azione che questa risposta ha sulla biochimica neuro-trasmettitoriale del cervello e sulla dinamica immunologica spiegando la reattività attuale del sistema psichico in termini di precedenti esposizioni all'agente patogeno.

Così, nel riconoscimento dei propri limiti e nella proposizione dei suoi meriti, la p. contemporanea si prepara ad affrontare al meglio il terzo millennio.

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