Progresso

Enciclopedia del Novecento (1980)

Progresso

Gennaro Sasso

di Gennaro Sasso

Progresso

sommario: 1. Introduzione. 2. Diversità d'accenti nella critica dell'idea di progresso. a) Il ‛tramonto dell'Occidente' e l'avvento degli ‛uomini metallici'. b) L'atteggiamento di Flaubert. c) Le Meditazioni di Burckhardt. d) Nietzsche: la ‛malattia storica' e l'ewige Wiederkehr des Gleichen. 3. Le formulazioni ‛positive' dell'idea di progresso. a) Illuminismo e storicismo; la concezione hegeliana. b) Marx e il marxismo. c) Comte. 4. La svolta del secolo: trionfo e dissoluzione della fede nel progresso. La trasformazione dell'immagine scientifica dell'universo. 5. Freud: il ‛disagio della civiltà'. 6. Problematicità della posizione crociana. 7. Toynbee: le ‛sfide' senza ‛risposte'. 8. L'antistoricismo odierno. Considerazioni conclusive. □ Bibliografia.

1. Introduzione

È opinione diffusa che il XIX secolo sia stato per intero dominato dalla fede nel progresso e nella razionalità della storia. Ma in realtà, se nelle sue manifestazioni essenziali quella fede non incontrò chi seriamente sapesse metterla in dubbio nel suo fondamento e sradicarla dalla coscienza europea, è pur vero che la sua vittoria non fu senza resistenze e contrasti. In effetti, voci variamente negative non erano mancate. E al momento del passaggio al nuovo secolo, il clima della cultura europea si presentava, soprattutto in Germania, inquieto, teso nell'aspettativa di cose nuove e paurose.

Quando si pensi alla grande storiografia affermatasi fra Otto e Novecento, ai Droysen, ai Ranke, ai Meinecke; quando si rivada al sentimento e anche al concetto che il primo dei tre, lo scopritore dell'ellenismo, ebbe in parziale accordo con il secondo, non solo dello Stato nazionale e della sua ‛necessità', ma anche della Weltgeschichte e del progresso; quando si ripercorra la linea complessa e, per la verità, non priva di dolorose fratture che, fra il 1907 e il 1924, il terzo di questi scrittori aveva tracciata dei rapporti fra cosmopolitismo e Stato nazionale, ἔϑος e κράτος, universalità assiologica e individualità storico-naturale: quando si pensi a tutto questo tornano alla mente le riflessioni che il protagonista di un racconto di Thomas Mann, il professor Abel Cornelius, svolge, durante le sue passeggiate pomeridiane, sul nesso che di necessità stringe insieme l'amore del passato e l'amore della morte. Né la cosa deve sorprendere. Dopo tutto, c'è un elemento fondamentale, un profondo tema conduttore che unisce il professor Cornelius alle vicende della cultura europea fra Otto e Novecento, e al suo concetto della storicità e della storia. Dietro i pensieri che, durante le passeggiate serali, gli affollano la mente, è ben riconoscibile l'inquieta ricerca antilluministica, antiprogressiva, antidemocratica delle Betrachtungen eines Unpolitischen (1918); e sebbene quello di Thomas Mann abbia forma abbastanza peculiare, e meriti di essere studiato in sé, è pur vero che l'antilluminismo costituisce uno dei caratteri fondamentali del secolo che celebrò l'idea del progresso, e poi elaborò gli strumenti essenziali della sua negazione e distruzione. Quando, con dolorosa meraviglia, osservava che all'essenza di ‛ciò che è storico' conviene il passato, non il presente e, meno che mai, il futuro, Cornelius coglieva bene questa situazione paradossale per la quale il ‛senso della storia' era come costretto a negare alla storia in atto o in fieri il valore che invece riconosceva al suo prodotto, alla storia maestosamente immobile nel suo esser accaduta; coglieva bene questa scissione autocontraddittoria fra storicità e illuminismo, passato e presente, storia e politica.

Del resto, sebbene, chiuso nella sua giovanile adorazione di Schopenhauer, Wagner e Nietzsche, Mann riuscisse nel complesso a tenersi abbastanza lontano dalle forme più veementi dell'irrazionalismo tedesco degli inizi del XX secolo e, per parte sua, non condividesse che in modo indiretto le tendenze antiscientifiche e antifilosofiche che, tra l'altro, avrebbero lasciato un segno profondo sull'arte di Robert Musil, l'aria ne era tuttavia a tal punto satura che, in un modo o in un altro, anche i suoi personaggi dovevano di necessità risentirne. E già molti anni prima che Abel Cornelius conducesse i suoi passi malinconici lungo il fiume all'ora del crepuscolo invernale, quell'ora era stata assunta come il simbolo metafisico dell'Occidente, Abendland, ‟terra della sera", come più tardi, nella sua grande meditazione del Nihilismus, Martin Heidegger avrebbe specificato. In realtà, come i ‛rappresentanti dello spirito' sono spesso, assai più dei politici, capaci di captare i segni profondi dei tempi, così non s'era aspettata la conclusione della guerra mondiale del 1914 per revocare in dubbio la fede illuministica del progresso e l'indissolubilità delle sue nozze con la parallela e concomitante fede nella democrazia politica e sociale.

2. Diversità d'accenti nella critica dell'idea di progresso

a) Il ‛tramonto dell'Occidente' e l'avvento degli ‛uomini metallici'

Connesso, in Germania, con la costituzione e l'affermazione del George-Kreis e, almeno in parte, con la riscoperta che L. Klages aveva fatta del Bachofen, del suo profetismo storico-filosofico, e della filosofia della storia come alternanza di progressi e decadenze che fa ad esso da fondamento, un torbido sentimento della fine e del tramonto s'era infatti già diffuso nei circoli intellettuali e politici durante il primo decennio del nuovo secolo; e nel suo libro su Stefan George e i suoi seguaci, ripensando a quegli anni, Fr. Wolters doveva scrivere: ‟non vi era alcun dubbio che il mondo apparisse maturo per il tramonto: perché, e su questa base, dunque, aspettare?" (v. Wolters, 1930, p. 240).

Quando, dunque, a guerra non ancora conclusa, Oswald Spengler pubblicava il primo volume di Der Untergang des Abendlandes, e si accingeva a dar vita al più sconcertante e travolgente ‛caso' storico-filosofico-letterario del dopoguerra, i tempi erano in effetti più che maturi per quell'apparizione; e sebbene il libro di quell'autodidatta e ‛dilettante' non privo d'ingegno fosse caratterizzato da una quasi commovente mancanza di generosità nei confronti di coloro che pur gli avevano insegnato qualcosa, e su questi ultimi egli esercitasse un silenzio persino più appariscente della loquacità riservata ai nomi di Nietzsche e, soprattutto, di Goethe, la sua connessione con i temi della cultura europea, quale si era venuta svolgendo tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del nuovo secolo, risulta oggi (e già risultò ai contemporanei) così ovvia e stretta che il suo libro potrebbe essere indicato quasi come quel gigantesco ripostiglio di oggetti già scoperti e poi, in parte, dimenticati o perduti, nel quale l'Astolfo ariostesco si imbatté dopo che l'ippogrifo l'ebbe depositato sulla superficie della luna. L'esplosione che dalla miscela di quegli elementi disparati, eterogenei e di per sé non originali egli seppe trarre fu tuttavia, senza dubbio, spettacolare; così spettacolare che, già turbata e inquieta, la coscienza europea ne fu come affascinata e sconvolta. E chi oggi torni sul suo libro, avendolo letto sul serio e non, come spesso capita, ricavandone i concetti dalle esposizioni altrui, non potrà, se è serio, limitarsi a disprezzarlo, e, ad esempio, dar torto ad Adorno che, in anni recenti, ne ha pur rivendicato, entro precisi limiti, la suggestione e il significato profetico.

Come tuttavia è giusto ribadire, uscendo fra il 1918 e il 1923, Der Untergang des Abendlandes non scopriva niente di nuovo nemmeno rispetto al suo assunto fondamentale; e non tanto perché (come subito, e a ragione, obiettava Benedetto Croce) soltanto l'ignoranza e la beata presunzione potevano aver suggerito a Spengler che fosse da considerare come una scoperta l'antichissima dottrina ellenica dei cicli storici che, con ben altra genialità e profondità, Giambattista Vico aveva ripresa e ripensata nel secolo XVIII; bensì piuttosto per la più essenziale ragione che, se la tesi del ‛tramonto' non era neppur essa nuova, l'irrisione del progresso e della democrazia lo era ancor meno, e in molte altre tesi del libro l'influsso di altre storiografie e di altre filosofie si avvertiva chiaro. Affermata da alcuni, negata da altri, la derivazione del suo impianto filosofico dalla ‟critica della ragione storica" di W. Dilthey può effettivamente apparire, quando la si prenda con assolutezza, non in tutto persuasiva. Ma in dubbio non può invece essere posto questo punto fondamentale: che come la tendenza a pensare le cose storiche nella figura concettuale dei cicli ricorrenti non era mai del tutto scomparsa nel pensiero storico e politico dell'Occidente, se è vero ad esempio che, per rimanere ai tempi stessi di Spengler, tracce di essa potrebbero essere ritrovate non solo in Bachofen, riscoperto dai Georgianer, bensì anche in L. Frobenius e persino in Max Weber, così, allo stesso modo, i concetti filosofici che reggono l'interpretazione e la visione della storia presente in Der Untergang des Abendlandes derivano, direttamente o no, dallo storicismo tedesco, quale si era svolto da Dilthey a Simmel, nonché dal neocriticismo di Rickert e, per certi aspetti, persino di Windelband. Autori, questi ultimi, tutti regolarmente passati sotto silenzio, in omaggio all'aureo principio che, nel mondo che si ripete, l'unico che non ripeta alcunché da niente e da nessuno è Oswald Spengler. Autori, per altro, senza i quali proprio non si sa come egli avrebbe potuto formulare le sue tesi filosofiche principali; e non solo quella che in ogni essere distingue il divenire dal divenuto (e che, mentre consuona con le più raffinate e rigorose formulazioni di Giovanni Gentile, non è forse esente da qualche influsso bergsoniano), ma anche l'altra, più generale e atteggiata in forma gnoseologica, secondo cui nei termini e nei concetti di ‛natura' e di ‛storia' si ‟contrappongono le due possibilità estreme date a ogni uomo per ordinare in una immagine del mondo la realtà che lo circonda. Una realtà è natura se in essa il divenire è subordinato al divenuto, è storia se in essa il divenuto è subordinato al divenire" (v. Spengler, 1918; tr. it., p. 154). E ancora, il ‛divenuto' è numero, ‟e si identifica a ciò che è meccanicamente delimitato, a ciò che è esatto una volta per tutte, a ciò che è posto. La natura è la totalità del deterministicamente necessario. Solo come leggi naturali esistono delle leggi [...]. La legge (das Gesetz) - il posto (das Gesetzte) - è ‛antistorica'. Essa esclude il ‛caso'. Le leggi naturali sono forme di una necessità inorganica che non soffre eccezioni. Così è chiaro perché la matematica, quale organizzazione del divenuto mediante il numero, si riferisce sempre a leggi e a causalità, e ad esse soltanto" (ibid., p. 155). Il divenire, invece, ‟non ha numero. Solo l'inanimato (e il vivente solo in quanto non lo si consideri in ciò che ha di vivente) può esser contato, misurato, analizzato. Il puro divenire, la vita, è in questo senso, senza limiti. Esso sta di là del dominio ove vigono causa ed effetto, legge e misura. Nessuna ricerca storica vera e profonda cerca dei determinismi causali: se lo fa, essa non comprende la propria specifica natura" (ibid., pp. 155-156). Ebbene, fatte le debite concessioni a quanto è pur di Spengler, e che qui sembra consistere soprattutto nella disinvoltura e nella rozzezza delle semplificazioni, da una parte, nella ricerca dell'effetto, da un'altra, questo è (non senza qualche già notato influsso bergsoniano) storicismo tedesco: con in più quella tendenza a identificare ‛profondità' e ‛simbolicità' che l'autore di Der Untergang des Abendlandes aveva attinto alle sue ‛fonti' più congeniali, al profetismo irrazionalistico così diffuso, come si è accennato, nella cultura tedesca del primo decennio del Novecento.

Come, poi, e perché, ossia con quale coerenza e intrinseca necessità, da questa concezione si passi all'altra, in forza della quale, sebbene fondata sulla linearità temporale, la realtà dell'accadere si curva nel ciclo, Spengler non spiega in alcun modo: senza averne distinta consapevolezza, lascia che il lettore sia lui a porsi il problema, a indagano e, eventualmente, a risolverlo. Ma per sforzi che quest'ultimo compia per riconnettere, nel quadro unitario di Der Untergang des Abendlandes, quei due divergenti svolgimenti filosofici, l'unità è destinata a sfuggirgli; e in suo luogo, come Kant avrebbe detto, egli trova un autentico ‛nido' di procedimenti viziosi. Per un verso, infatti, natura e storia, legge e infinità, divenuto e divenire appaiono, nel discorso di Spengler, alla stregua di due diverse funzioni, come due punti di vista critico-metodologici costruiti, e assunti, allo scopo di rendere possibile il dominio conoscitivo della realtà. Due punti di vista diversi, ma pur inclusi entrambi all'interno di una funzione unitaria - la metodologia - che, assumendoli di volta in volta a seconda dell'esigenza che essi esprimono, ne media la differenza e li rende compossibili. Per un altro verso, tuttavia, il piano metodologico viene abbandonato per essere risolto nella considerazione ontologica; e il trapasso del divenire nel divenuto, dell'infinità nella legge e nel numero non è più visto come la conseguenza dell'assunzione metodologica: è invece dichiarato intrinseco alla struttura obiettiva delle cose, che dunque hanno in sé quella specifica tendenza, quel destino di trasformazione nel proprio contrario, che spezza il momento attivo, lo interrompe e lo risolve nella passività del ‛concluso'.

Nella struttura concettuale di Der Untergang des Abendlandes questa seconda prospettiva è di gran lunga la più forte. Così è intrinseco alla natura ontologica della storia che sempre il momento della Kultur si esaurisca e dia luogo all'esteriore e decadente Civilisation; e non è allora evidente che, per pensarla nella necessità di entrambi i suoi momenti costitutivi e del fatale trapasso che ne definisce il destino simbolico, Spengler avrebbe dovuto costruire un organo adeguato a render conto, dall'interno, del divenire, del divenuto, della loro connessione e risoluzione l'uno nell'altro? In questo modo però, ossia se fosse riuscito a innalzarsi fino a questa più matura consapevolezza, egli avrebbe dovuto modificare nel fondamento l'impianto metodologico e categoriale che invece regge la sua filosofia della storia; avrebbe dovuto non già contrapporre la storia alla natura, la libertà alla legge, il divenire al divenuto, bensì piuttosto cercare di mediare in un concetto adeguato le due esigenze, antinaturalistica l'una, biologica e naturalistica l'altra, dalle quali il suo pensiero era, con pari energia, mosso e agitato. In realtà, egli non è mai riuscito a rendersi conto delle contrastanti esigenze che, l'una cozzando contro l'altra, si muovevano nel suo personale ‟regno delle madri". E sebbene, con la consueta iattanza, solesse affermare che le contraddizioni sono inevitabili là dove si dia mano alle grandi rivoluzioni copernicane, non si accorse di questa, che certo era tale da impedire, non si dice una rivoluzione, ma una pur modesta riforma parziale dell'universo storico. Il risultato fu che, in un libro che con tanta enfasi predicava il tramonto dell'Occidente, e anzi lo vedeva ormai entrato nella via di un'inesorabile attuazione, proprio la necessità concettuale del ‛tramonto' appare filosoficamente non giustificata e non dedotta; e per quanto questa fondamentale inconseguenza non sempre sia stata colta nella sua autentica radice filosofica dai critici e dagli studiosi del suo pensiero, questa fu la ragione, o una delle ragioni, per la quale Der Untergang des Abendlandes fu letto e sentito come un'autentica provocazione, e alla sua ὕβρις e mancanza di misura si rispose con pari violenza e altrettanta mancanza di misura. Non a torto (a parte l'opportunità, sempre dubbia, di rispondere alla violenza con la violenza). Quando, per una ragione o per un'altra, per incapacità concettuale o per puro spirito di provocazione, una tesi viene affermata senza che la mente ne mostri l'intima necessità, si esercita violenza e, nello stesso tempo, se ne subisce il fascino perverso. Il carnefice diviene la vittima compiaciuta e morbosa del suo stesso delitto. E questo non può non provocare conseguenze.

Pochi libri hanno, con maggiore asprezza, diviso il campo dei lettori. Anche a prescindere dall'eccezionale successo editoriale, Der Untergang des Abendlandes ebbe adoratori fanatici (la cui storia meriterebbe di venir ripensata) e odiatori altrettanto esclusivi. Uomini insigni lo considerarono l'opera di un genio; altri, non meno insigni, l'opera di un turpe pagliaccio. E, nella disputa, le ragioni politiche e il contrasto violento delle relative passioni ebbero, com'è evidente, parte preponderante. Il libro di Spengler non conteneva infatti soltanto una profezia tanto apocalittica quanto, poniamo, generica e indeterminata: con quasi pedantesca precisione ne specificava i caratteri, ne scandiva le fasi, ne fissava i tempi, i modi, le date. Con schietto orrore o, a seconda dei gusti, con il sottile compiacimento che la cattiva coscienza suole mettere in questo genere di esercitazioni, il lettore europeo poteva trovarvi scritto che, in Occidente, l'epoca delle grandi filosofie sistematiche aveva raggiunto il suo culmine con Kant, sì che dopo di lui ‟doveva sorgere una filosofia specificamente da grande città, non speculativa ma pratica, irreligiosa, etico-sociale", una filosofia che, nel fatto, già era stata iniziata da Schopenhauer e che, all'occhio dell'esperto comparatista, appariva del tutto equivalente a quella coltivata nella scuola ‟dell'‛epicureo' Yang-chu, del ‛socialista' Moh-tze, del ‛pessimista' Chuang-tze, del ‛positivista' Meng-tze" (v. Spengler, 1918; tr. it., pp. 79-80); e con sentimenti non dissimili, sempre a seconda dei gusti, poteva incontrarvi il concetto che, ad esempio, poiché ‟anche per noi l'epoca delle teorie volge verso la fine" (v. Spengler, 1922; tr. it., p. 1327), liberalismo e socialismo sono entrambi senza avvenire, con l'ulteriore conseguenza, tuttavia, che ‟dalla miseria dell'anima e dai tormenti della coscienza [...] già oggi germoglia una nuova rassegnata religiosità che rinuncia a dare un nuovo volto a questo mondo, che invece della cruda lucidità dei concetti cerca il mistero e che finirà per trovarlo nelle profondità della seconda religiosità" (ibid., p. 1328). Ma con orrore o compiacimento anche maggiore, in Der Untergang des Abendlandes quel lettore avrebbe potuto imbattersi nella ‛scientifica previsione' che (usiamo, per sintetizzare in breve, le parole di Benedetto Croce, il quale, certo, per suo conto, era fra coloro che inorridivano) ‟il periodo dal 1900 al 2000 corrisponderà a quello degli Hyksos in Egitto, all'ellenismo e al regno dei diadochi, e al periodo romano da Scipione a Mario, e sarà contrassegnato dal cesarismo, dal crescente naturalizzarsi delle forme politiche, dalla decadenza degli organismi nazionali che discenderanno a masse amorfe internazionali, e dal riassorbimento di esse in un impero di tipo primitivo-dispotico. Dopo il 2200, ci sarà, dappertutto in Europa, egittismo, mandarinismo, bizantinismo: il meccanismo imperiale s'irrigidirà e decadrà anch'esso; si verrà in preda di popoli giovani o di conquistatori stranieri; e via via si riformeranno condizioni preistoriche, si tornerà alla selva, a una selva, per quel che sembra, con scarsi alberi".

Può senz'altro concedersi che, nella parafrasi di Croce, non tutto corrisponda a quel che effettivamente Spengler aveva pensato e detto. Non per questo le ragioni dell'orrore o del compiacimento vengono meno. In effetti, al di là o al di qua delle profezie più insistite, nel pensiero che circola in Der Untergang des Abendlandes era presente, e agiva, una singolare ambiguità che, anche per capir meglio le ragioni profonde di tanto scandalo, occorre cercare di cogliere con precisione. Come già si è accennato, Kultur e Civilisation non costituiscono, per Spengler, la prerogativa, e i caratteri profondi, dello spirito tedesco, l'una, di quello francese e latino, l'altra: sono invece, in generale, come ‟il corpo vivo di un'anima e la sua mummia" (v. Spengler, 1918; tr. it., p. 528); sono ‟come l'organismo che nasce da un paesaggio e il meccanismo risultante dall'irrigidimento di esso. L'uomo di una civiltà (Kultur) vive rivolto verso l'interno, quello di una civilizzazione vive rivolto verso l'esterno, nello spazio, fra corpi e ‛fatti'. Ciò che l'uno sente in termini di destino, l'altro lo conosce solo come una relazione di causa ed effetto. A partire da tale momento si è materialisti in un senso specifico, valido solo all'interno di una civilizzazione: lo si è, che lo si voglia o no, restando indifferente il fatto che le idee buddhiste, stoiche e socialistiche si presentino, o no, in forma religiosa" (ibid., p. 529). In questo senso, il mondo della Civilisation è insieme il mondo della decadenza e della ‛razionalità' utilitaria, dell'irrigidimento intellettuale corrispettivo allo spirito d'esattezza: in una parola, è il mondo della scienza, quale la intende un pensiero a cui sia diventato del tutto estraneo il concetto goethiano della lebendige Natur, della natura vivente. ‟Così - scrive Spengler in uno dei suoi paragoni ‛ingegnosi' - il Faust della prima parte del dramma, l'appassionato ricercatore delle notti solitarie, ha dato logicamente luogo a quello della seconda parte e del nuovo secolo, al simbolo di un'attività pratica, rivolta all'esterno, guardante lontano. In ciò Goethe ha anticipato psicologicamente tutto il futuro dell'Europa occidentale. È la civilizzazione in luogo della civiltà, il meccanismo esteriore invece dell'organicità interna, l'intelletto come putrefazione dell'anima in luogo dell'anima stessa, ormai morta. Faust, all'inizio e alla fine del poema, corrisponde, come posizione nel mondo antico, all'elleno del tempo di Pericle e al romano del tempo di Cesare" (ibid., pp. 530-531).

Di fronte a una prospettiva di questa qualità, e alla logica che inesorabilmente la sottende, l'uomo di oggi dovrebbe sentirsi senza scampo condannato a sapere di non poter conoscere il suo destino se non nelle forme estrinseche, ‛spaziali', ‛scientifiche', morte e putride, della semplice conoscenza intellettuale e razionale. Non potendo mai superare l'‛impossibilità' in cui viene a trovarsi, dovrebbe avvertirsi nel mentre vive la sua costitutiva incapacità di conoscere sul serio il suo destino, la cui essenza, infatti, non può essere, a giudizio di Spengler, conosciuta, ma ‛sentita'. E anche senza voler giungere alla più radicale, e coerente, conclusione che, nella dicotomia spengleriana, il ‛cuore' non dovrebbe saper nulla del ‛cervello', e questo addirittura ignorare che il suo posto era una volta tenuto dal cuore (sì che, con altrettanta coerenza, l'equivalente etico delle due situazioni dovrebbe essere costituito dalla loro reciproca estraneità), ci si attenga pure alla precedente, meno rigorosa, dicotomia. Ma da essa si tragga allora l'inevitabile conseguenza che, nell'atto stesso in cui si viene ponendo come l'infelice consapevolezza di non poter risolvere la conoscenza in intuito, la scienza esatta nel destino e nel simbolo, l'uomo della decadenza dovrebbe infine consumare la sua vita morale nel desolato rimpianto di un mondo mai sperimentato e posseduto. E invece (ecco, potenziata al massimo grado, l'ambiguità), anche nei periodi di decadenza e di irrigidimento, di scienza esatta e di putredine, l'uomo non divide la sua anima secondo le due parti che costituiscono quella del Faust goethiano; ma è faustiano e basta, non conosce la compassione di sé e il ripiegamento, non rimpiange che il suo non sia il tempo di Pericle e del Partenone, né un tempo che, in qualche modo, gli corrisponda: accetta invece il suo tempo di decadenza e lo elabora in autentica volontà di potenza e di affermazione. Il suo ideale moderno e, insieme, il suo precursore più prossimo è Cecil Rhodes: ‟il precursore di un tipo occidentale cesareo, per il quale tuttavia i tempi non sono ancora giunti" (ibid., pp. 66-67). L'essenza della civilizzazione, o ‛civiltà in declino' che si voglia definirla, è infatti l'imperialismo; ed è nella comprensione ferma di tale essenza che l'uomo del XX e dei secoli a venire si gioca la sua capacità di vivere all'altezza dei tempi. ‟Chi non comprende che questa fine è inevitabile, chi non comprende che si deve volere o ‛questo' o nulla, che si deve amare questo destino o disperare dell'avvenire, della vita, chi non sente la grandezza che sta anche in questa attività di possenti menti, in questa energia e disciplina di nature metalliche, in questa lotta condotta coi mezzi più freddi e astratti, chi indulge nell'idealismo da provinciale, in nostalgie per lo stile della vita di tempi passati - costui deve rinunziare a capire la storia, a vivere la storia, a creare la storia" (ibid., p. 68). Del resto, posti dal ‟destino in questa civiltà, e nel punto del divenire in cui il danaro celebra i suoi ultimi trionfi" e il cesarismo avanza con passo tanto silenzioso quanto inesorabile, gli uomini del presente non hanno alternative: ‟è strettamente definita la direzione di quel che possiamo volere e che dobbiamo volere, a che valga la pena di vivere. A noi non è data la libertà di realizzare una cosa anziché l'altra. Noi ci troviamo invece di fronte all'alternativa di fare il necessario o di non fare nulla. Un compito posto dalla necessità storica ‛sarà' in ogni caso realizzato: o col concorso dei singoli o ad onta di essi. Ducunt fata volentem, nolentem trahunt" (v. Spengler, 1922; tr. it., p. 1398).

Ora si comprendono meglio le ragioni per le quali Spengler suscitò passioni così violente; e forse anche si comprende meglio perché, pur essendo diventato un ‛caso' letterario di così grandi proporzioni, il suo libro fosse piuttosto vilipeso che criticato anche da chi, per suo conto, avrebbe ben avuto la capacità di criticarlo senza vilipenderlo. Chi abbia la curiosità di seguire la storia, o si dica pure (se si preferisce) la varia vicenda delle lodi, dei riconoscimenti, ma soprattutto delle critiche, delle invettive e quindi delle contumelie con cui la prima parte di Der Untergang des Abendlandes fu accolta fra il 1918 e il 1922, non ha che da leggere Der Streit um Spengler (1922) di M. Schröter. Ma anche senza bisogno di ricorrere a quella ‛fonte' (che del resto, opera di un amico e seguace, non è sospetta) è ben noto che, mentre al fascino emanante dal suo libro non si sottrassero né uno storico sommo come E. Meyer (che nel 1926 gli dedicò un saggio) né un narratore del talento di Musil, né, in tempi recenti o più recenti, studiosi come J. Huizinga, P. Sorokin e Th. Wiesengrund-Adorno, Croce lo recensì subito in termini assai aspri, e talora addirittura sarcastici. E se Karl Kraus soleva scherzare acremente sull'autore, deformando in Der Untergangster des Abendlandes il titolo della sua opera più nota, Thomas Mann non fu da meno. Del prodotto letterario parlò infatti come di un'infamia, e del produttore come della ‟scimmia di Nietzsche", anzi, senz'altro, come di una ‟iena". Non erano, per la verità, soprattutto queste ultime, battute lievi; e la cosa va pur notata, perché se Croce non rifuggiva dalla polemica aspra e Kraus dai feroci paradossi verbali, nemmeno nelle pagine più veementi delle Betrachtungen eines Unpolitischen Mann aveva mai raggiunto toni così estremi.

È stato detto molte volte (e nel giudizio c'è, senza dubbio, del vero) che la reazione a Spengler significò soprattutto il rifiuto della sua profezia, il cui contenuto era, infatti, la finis Europae. In quella reazione, in quel rifiuto, c'è, tuttavia, molto di più e di più profondo. In realtà, si chiamasse Burckhardt o Nietzsche, pensasse come Schopenhauer o come Tocqueville, nessun teorico, o profeta, della ‛decadenza' era mai giunto all'audacia impudente di identificare la propria missione e destinazione di uomo con la trista realtà che il pensiero affidava e additava come ‛necessaria' e ‛irreversibile'. Dinanzi agli occhi inorriditi di quanti ancora ritenevano che l'Europa costituisse la forma definitiva della ‛civiltà', il compiaciuto teorico del non poter ‛volere' che il ‛necessario', o nulla, svelava un volto di ‛traditore' intellettuale ben altrimenti inquietante di quello che, alcuni anni più tardi, sarebbe stato descritto nel famoso libro di J. Benda. Come, meditando (nel secondo dopoguerra) sulle lezioni congiunte di Spengler e di A. Toynbee, L. Febvre avrebbe scritto, la ‛filosofia della storia' si atteggiava nella forma dell'opportunismo, e, quel che era ancora più grave e insidioso, l'opportunismo si atteggiava a ‛filosofia della storia'. Quasi per una legge di inesorabile contrappasso, accadeva qui quello stesso che, da tante parti, si era lamentato a proposito delle interpretazioni ‛necessaristiche' o ‛fatalistiche' del marxismo. Ma con la differenza che i seguaci del Capitale ritenevano che il loro attendere la maturità rivoluzionaria dei tempi sarebbe stato ricompensato dall'autentica realizzazione del ‛progresso' (il passaggio dalla ‛preistoria' alla vera ‛storia' dell'uomo), i seguaci di Der Untergang des Abendlandes, gli uomini dalla volontà di ferro e dal cuore di bronzo, marciavano invece, fidenti e consapevoli, nella direzione stessa dell'abisso. Il simbolo dei primi era la vita, e il suo estremo potenziamento. Il simbolo dei secondi era la morte, la perversa attrazione del nulla.

Per quanto credito si voglia concedere (con Adorno, ad esempio) al talento ‛profetico' di Spengler, due punti debbono esser considerati fuori discussione: che il livello della sua consapevolezza filosofica è infimo, e che tuttavia (nella puntuale ‛verifica' di una delle sue tesi caratteristiche) l'importanza enorme di Der Untergang des Abendlandes consiste nel suo cosciente essere andato al di là della teoria, nel suo essersi saputo trasformare in un diretto strumento di lotta politica, nel suo aver condotto, fra le cose stesse, la sua veemente battaglia contro il progresso. In questo senso, l'opera di Spengler è un unicum: nessuno degli elementi che compongono la sua micidiale ‛miscela', né, evidentemente, la miscela stessa, si trova presente con altrettanta forza negli scrittori che, già durante il XIX secolo, contribuirono a infrangere la fiducia che, per intima necessità (come aveva sostenuto Kant), il mondo fosse ‟in costante progresso verso il meglio", che la storia coincidesse con l'espandersi e con l'affermarsi, sempre più profondi, della libertà, e che, come nel sogno o nel delirio di Faust, campi infiniti si estendessero dinanzi all'intrapresa liberatrice dell'uomo di buona volontà.

b) L'atteggiamento di Flaubert

Come si diceva, la miscela spengleriana non si presenta in alcun altro autore: non in Nietzsche, non in Burckhardt, non in Tocqueville o in Flaubert. Lasciando da un canto, per ora, il difficile ‛caso' del dionisiaco cantore di Zarathustra, che comunque dev'esser trattato con grande cautela, negli altri scrittori che si sono citati l'affermazione della ‛decadenza' fu sempre accompagnata da paura, talvolta da sarcasmo o da aspro sdegno morale per la perversità delle cose, o degli uomini che l'avevano provocata; la critica del ‛progresso' prese il significato di un rifiuto opposto al presente in nome di un ideale (che può essere anche, a seconda dei casi, ‛reazionario', ma non è mai tuttavia sentito come il consapevole e volontario adeguarsi alla ‛necessità' dell'irrigidimento, della barbarie e della morte); e la rinunzia alla ‛garanzia' filosofica, o alla fede, che, ora esplicita e consapevole, ora implicita e non di meno operante, per decenni aveva costituito per l'uomo europeo quasi una seconda natura, non andò mai senza un grave turbamento delle coscienze, un senso profondo di scoramento e di angoscia.

È superfluo perdere tempo a dimostrare che nessun torbido compiacimento sarebbe possibile trovare nelle pagine in cui il liberale Tocqueville espresse le sue più vive preoccupazioni nei confronti del ‛dispotismo' che è come l'anima nascosta della democrazia; e per quanto riguarda, ad esempio, Flaubert, anche chi, prescindendo dal sottile contrappunto artistico-ideologico dei suoi romanzi più grandi, preferisca la ‛sentimentale' immediatezza del suo splendido epistolario, non avrà da durar troppa fatica per convincersi di quanto qui si afferma. Il pessimismo di Flaubert, la sua sensibilità sottilissima ed esasperata, il disprezzo aristocratico per la mediocrità e la paura di esserne contaminato (che talvolta saliva fino al grado di una singolare attrazione), la preoccupazione con cui in genere seguiva le vicende politiche e gli sviluppi della ‛questione sociale', il senso di ‛tragedia senza catarsi' con cui partecipò al dramma del 1870-1871, la guerra franco-prussiana e la Commune: tutto questo è noto, è fuori discussione, e degno tuttavia di essere attentamente meditato. ‟Ho l'impressione che stiamo entrando nel nero", scriveva il 3 agosto 1870, a George Sand, l'uomo che già alla fine del settembre 1868 aveva lamentato che neocattolicesimo e socialismo stessero istupidendo la Francia (‟tutto va in rovina tra l'Immacolata Concezione e le gamelle operaie"); e, come in uno scatto di furore, aggiungeva: ‟vantate il progresso e la cultura, il buonsenso delle masse e la mitezza del popolo francese [...]. Comunque vadano le cose, siamo tornati indietro per molto tempo. Ricominceranno forse le guerre fra le razze? Si vedranno, prima che passi un secolo, parecchi milioni di uomini sterminati in una volta sola? Tutto l'Oriente contro l'Europa, il mondo antico contro il nuovo? Perchè no? I grandi lavori collettivi come il canale di Suez sono forse, sotto altra forma, abbozzi e preparativi di quei conflitti mostruosi dei quali non abbiamo nemmeno l'idea".

Non si può dire, certo, che il concetto di un ‛costante progresso verso il meglio', di un cammino, magari faticoso e anche contraddittorio, ma pur sempre guidato, garantito e rischiarato dalla luce della Raison, non riceva qui durissimi colpi, o che, fra le righe non ricompaiano anche i tratti della dottrina dei cicli e delle ‛fasi' storiche, piegata ora a espliciti significati pessimistici. E del resto, se ancora nel 1869, disgustato dalla politica, incline a ritenere che orleanismo, repubblica, impero non significassero più nulla, e che il suffragio universale fosse altrettanto ‟stupido", ‟sebbene un po' meno odioso", del diritto divino, aveva ancora dato ali all'idea, sua e non soltanto sua, che il compito preminente fosse di far trionfare la scienza, in modo che il governo di un paese diventasse una ‟sezione dell'institut, e non la più importante", in Bouvard et Pécuchet anche quest'ultima illusione cadrà, e il mondo del sapere si rivelerà non meno insidioso e insicuro di quello dominato dalle stupide e folli passioni della politica. Eppure, malgrado il pessimismo, e il fiero sarcasmo esercitato sulle immancabili conquiste del progresso; malgrado il deserto che, trasferendosi nella sua mente e nella sua fantasia, la corrosiva ironia delle cose rischiava di produrre per ogni dove, non solo Bouvard et Pécuchet non è il libro del compiacimento morboso o dell'accettata stupidità: è invece, o soprattutto, un libro di sottile introspezione intellettuale e di terso umorismo, il documento, o la testimonianza, di una singolare fede nella forza della ragione; tal che le tentazioni mortali della décadence non potrebbero essergli più remote e, nell'intimo, estranee.

c) Le Meditazioni di Burckhardt

E che dire di Burckhardt? Il discorso su di lui potrà concludersi in un modo o in un altro; ma, prima ancora di iniziare a parlare delle sue idee sulla storia e sul ‛progresso', di lui deve dirsi che con Spengler, ossia con i pensieri che poi saranno esposti nel suo libro, non ha niente a che vedere. Critico del progresso, e ‛mal conciliato' con l'intera storia moderna, ogni compiacimento ‛barbarico' gli fu, in senso assoluto, estraneo. Se ne avesse percepito l'esistenza nella coscienza degli uomini, di quel compiacimento avrebbe fatto un documento della barbarie, ne avrebbe provato orrore, lo avrebbe condannato, e basta. In che termini, dunque, bisogna parlare di Burckhardt e della sua critica del ‛progresso'? Da quando, a partire forse dal libro che K. Löwith gli dedicò nel 1936, le Weltgeschichtliche Betrachtungen furono interpretate non tanto come una libera meditazione sullo ‛studio della storia', quanto piuttosto come il documento di un pessimismo storico e politico (la politica è ‟malvagia in sé") pronto a trapassare nella critica dello storicismo ‛progressivo' del XIX secolo, e al loro autore si trovò posto non più fra Ranke e Mommsen, bensì invece fra Kierkegaard e Nietzsche, il nome di J. Burckhardt è stato spesso riproposto come quello di uno dei più acuti profeti della ‛crisi', dei più penetranti e consapevoli critici dell'idea del progresso. Del resto l'importante libro del Löwith era appena stato pubblicato, e già, sempre nel 1936, Croce avvertiva il bisogno di ritornare sul Burckhardt; e ripensandolo nella storia dello storicismo e accentuandone lui pure, sebbene con altro animo, il sostanziale antihegelismo, quasi a ribadire che storia e storicismo di radice hegeliana sono inscindibili e che non può negarsi questo senza dover anche negare quella, lo elevava, con Ranke, al dubbio grado di campione di una storiografia priva di ‛problema storico'. Nelle pagine crociane l'accentuazione dell'antihegelismo implicito nel pensiero di Burckhardt suonava come un giudizio negativo; ed egli infatti polemizzava con il Löwith, del quale pure riconosceva la serietà e l'acume. Ma, positività o negatività del giudizio a parte, anche Croce conveniva sul punto che Burckhardt appartenesse a una tradizione diversa, e per certi versi persino opposta, a quella del razionalismo dialettico; e, sotto questo specifico punto di vista, aderiva all'interpretazione di quanti nella sua visione della storia avevano accentuato il pessimismo, l'orrore per il mondo moderno e, soprattutto, per quello futuro, che s'annunziava, la critica del progresso. In questo senso, la convergenza è notevole, e dev'essere sottolineata. Si accentuasse o, a seconda dei gusti, si attenuasse il suo collegamento con Kierkegaard e con Nietzsche, fuori discussione rimaneva, invece, la sua opposizione a Hegel, alla razionalità della storia, al progresso.

In effetti, per quante difficoltà susciti l'inclusione dell'autore della Griechische Kulturgeschichte, di Die Zeit Konstantins des Grossen, della celebre Kultur der Renaissance in Italien, nel filone dei pessimistici critici ottocenteschi dell'idea di progresso; per quante questioni debbano affrontarsi per impedire che questo filone perda la sua individualità e la sua consistenza obiettiva, e si disperda in una rapsodia di sentimenti e di balenanti presagi; per quante cautele vogliano usarsi nel giudizio che deve darsi di una materia come questa, sfuggente e ambigua, sarebbe tuttavia impossibile pretendere che quanto negli ultimi decenni si è pur letto, con occhio più penetrante ed esperto, nelle sue lettere, nei suoi ‛frammenti', nelle stesse Weltgeschichtliche Betrachtungen, corrisponda piuttosto alle preoccupazioni di sensibili studiosi del XX secolo che non alla realtà dei suoi pensieri; e che insomma il critico del progresso, il nemico dello Stato e della sua oppressione sulla società, il profetico ammonitore del rischio mortale che democrazia e proletariato industriale rappresentavano, e sempre più avrebbero rappresentato, per la libertà dell'individuo e per la Kultur, non sia che un personaggio fittizio, nato dalle angosce e dai turbamenti del presente. No, il critico del progresso, il profeta delle sventure europee e mondiali, l'odiatore della forza, non è un'invenzione del nostro tempo. Mentre la polemica antihegeliana circola (pur senza mai raggiungere il grado dell'autentica comprensione critica) da un capo all'altro del libro, non sarà un caso che il solo filosofo contemporaneo a esservi citato con aperto favore sia Arthur Schopenhauer (quello stesso, si ricorderà, del quale, in un saggio del 1858, per certi rispetti memorabile, Francesco De Sanctis aveva scritto che, a differenza del pessimista Leopardi, mai sarebbe andato a combattere sulle barricate del progresso); e per quanto riguarda l'atteggiamento di lui, Burckhardt, basta aprire le Weltgeschichtliche Retrachtungen e di fronte all'evidenza dei testi ogni residuo dubbio è destinato a cadere. Postasi la questione se il cervello e l'anima dell'uomo siano ‛cresciuti' in maniera dimostrabile nei ‛tempi storici', e polemizzando inoltre, contestualmente, contro la tesi di quanti avevano sostenuto, e sostenevano, che ‛moralità' significa ‛sottomissione', non senza forse una qualche ironia, Burckhardt lasciava impregiudicato se una crescita, almeno, fosse riscontrabile nel passaggio dalla preistoria mitologica del genere umano alla storia; ma per quest'ultima non aveva dubbi. ‟Né il cervello né l'anima dell'uomo sono cresciuti in maniera dimostrabile, nei tempi storici; ad ogni modo, quando sono cominciati i tempi storici, le facoltà del cervello e dell'anima erano da lungo tempo al completo. Quindi la nostra presunzione di vivere nell'età del progresso morale è estremamente ridicola, se la si confronta con quei tempi pericolosi la cui libera energia di volontà ideale si slancia al cielo in centinaia di cattedrali dalle alte torri campanarie" (v. Burckhardt, 1949; tr. it., p. 67).

Certo, per mettere d'accordo questa esplicita rivalutazione del Medioevo (che Burckhardt escludeva, per altro, in modo esplicito, potesse mai contenere dentro di sé qualcosa come una ‛nostalgia' alla Novalis) con l'affermazione secondo cui le facoltà del cervello e dell'anima sono, dagli inizi dei tempi storici, ‛al completo', sarebbe necessario presupporre che la storia sia pensata in termini tanto di sostanziale uniformità quanto di ciclica ascesa e decadenza. Ma sia la dottrina dell'uniformità, sia quella del ciclico salire e discendere, sono entrambe incompatibili con l'idea del progresso; e Burckhardt perciò non aveva torto, ed era comunque coerente con se stesso, quando da quelle premesse traeva la sua fondamentale conseguenza antiprogressiva, la sua critica del mondo moderno, la sua stessa ansia per il prossimo domani dell'umanità. La critica rivolta al mondo moderno, alla mostruosa estensione degli Stati, che ora tendono a inglobare in sé l'intero territorio ‛nazionale', ed anzi, ad andare oltre, si legava a quella rivolta a sottolineare l'aumento spaventoso del debito pubblico; e l'una e l'altra trovavano il loro punto di maggiore consistenza (ed era inevitabile) nella critica diretta contro la Rivoluzione francese. Fu infatti in seguito a quella che i bisogni aumentarono dovunque; che, con i bisogni si affermarono teorie economiche a essi convenienti, e insieme crebbero senza misura anche i debiti pubblici, ‟che sono la grande e fondamentale e miserevole burla del XIX secolo. Già questo modo di sperperare in anticipo il patrimonio delle generazioni future prova che il tratto fondamentale di questo secolo è una superbia spietata" (ibid., p. 141). E, per converso, irritato contro le stolte presunzioni che, nascendo da quella superbia, inducevano a parlare del passato in termini di ‛violenza', ‛corruzione', ‛rozzezza', ‛barbarie', riprendeva la sua discreta difesa dei secoli di mezzo, ed esclamava: ‟di fronte al Medioevo dovremmo starcene zitti, non foss'altro perché quei tempi non hanno lasciato ai loro successori nessun debito pubblico" (ibid., p. 137).

Lo scoppio della guerra franco-prussiana, che tante altre coscienze europee (si pensi, oltre a Flaubert, a Fustel de Coulanges e a Renan, a De Sanctis e allo stesso Nietzsche) doveva scuotere, turbare, indurre a una più intensa riflessione e a una più amara autocritica, non ebbe forse per lui, che già pensava entro quell'ordine di idee, effetti altrettanto sconvolgenti. Ma l'impressione fu tuttavia forte; come si vede nelle ‛aggiunte' che fece al manoscritto delle lezioni che, dopo la sua morte, divennero le Betrachtungen sulla storia del mondo. ‟Ora - scriveva in un appunto del 18 gennaio 1871 - viene una guerra gigantesca, fa fermare tutto questo lavorio e questi pensamenti, mette alla prova in grande stile potenza contro potenza, e rimanda le due più grandi nazioni d'Europa alle loro forze elementari" (ibid., p. 141). Anche Flaubert, per citare lui soltanto, aveva scritto, in quel medesimo giro di mesi, qualcosa di molto simile. A George Sand aveva infatti confidato la sua penosa previsione che l'intera Europa avrebbe presto indossato l'uniforme, che lo spirito di vendetta avrebbe reso la Francia così feroce che l'assassinio sarebbe diventato, nell'immediato futuro, il suo vero ideale. E Burckhardt: ‟il tipo di vita dominante sarà determinato da una rigida conformità agli scopi che saranno proposti [...]. Le altre guerre che ci saranno faranno il resto per consolidare questo stato di cose. Lo Stato stesso sta assumendo una fisionomia tale che a lungo andare non potrà accadere che un'altra mentalità se ne possa impadronire" (ibid., p. 142). E mentre, ancora nel 1871, Flaubert seguiterà a guardare alla scienza come all'unico rimedio da opporre, fin che si fosse in tempo, alla politica, a sua volta Burckhardt prevedeva bensì ‟una qualche reazione da parte della libera vita ideale, ma solo a costo di una energia e di uno sforzo sovrumani" (ibid., p. 143). A questo suo persistente sogno di riscatto ‛scientifico' dalle turpi passioni politiche ben presto, come si è visto, Flaubert opporrà la lucida ironia di Bouvard et Pécuchet; e, per quanto riguarda Burckhardt, non era, la sua, una previsione che, all'improvviso, ispirasse ottimismo, la fiducia che l'umanità fosse comunque destinata a invertire la marcia che stava conducendo verso l'abisso: era piuttosto il brillare improvviso di un sentimento, simile a quella tenue luce nella notte evocata dal ritirarsi di ogni altro strumento dell'orchestra e dal semplice rimanere ‟del sol sopra il rigo d'un violoncello", che nella Lamentatio doctoris Fausti di Adrian Lewerkühn ha la funzione di indicare agli uomini, che dimentichi del Fidelio e della Nona sinfonia vivono nelle tenebre infernali, il sentiero non subito interrotto della speranza. E in questo, è pur necessario ripeterlo, converrà indicare l'enorme distanza spirituale che divide questo testo dalle torbide apocalissi di Oswald Spengler e dei suoi vari seguaci, il cui nome, quindi, mai avrebbe dovuto esser pronunziato a riscontro di quello di Burckhardt.

Si faccia, tuttavia, attenzione. È stato detto che, come le Weltgeschichtliche Betrachtungen ‟cercano di districare il bandolo di un processo storico in cui la democrazia uccide il liberalismo, lo Stato nazionale strangola le piccole unità regionali e civiche, e il desiderio di potenza cresce in misura inversa all'educazione per il vero e il bello", così il pessimismo nei confronti dell'immediato futuro è temperato dal più radicale pessimismo intorno a ‟tutta la storia umana in quanto il Burckhardt riconosce che le forze storiche regolanti il presente operarono anche nel passato, da cui proviene tutto ciò che di bello, di buono e di vero il mondo possiede". E si è aggiunto che ‟appunto perché privo di illusioni sul costo della cultura, il Burckhardt era pronto a riconoscere le condizioni da cui la cultura dipende. L'analisi non si conclude in un relativismo. Decisivi sono i due capitoli sulla ‛grandezza' storica e su quel che sia esito favorevole (Glûck) in storia. Il primo [...] riafferma la possibilità di un giudizio obiettivo sulla grandezza degli individui. Il secondo invita a sostituire la nozione approssimativa e ottimistica di provvidenzialità con quella del male ineliminabile della storia: l'unica consolazione è nella conoscenza" (v. Momigliano, 1960, p. 289). Qui, senza dubbio, molte osservazioni sono giuste, oltre che ben formulate; e, fra tutte quella non esplicita e tuttavia operante secondo cui sarebbe assurdo se, nelle preoccupazioni burckhardtiane relative al futuro, nonché nelle aspre critiche rivolte alla ‛storia moderna', si volesse cogliere come il riflesso dell'idea di una progressiva caduta dell'umanità da uno stato precedente di perfezione, quasi che, alla maniera del Rousseau del secondo Discours, egli avesse mai rappresentato nella storia più recente la perdita via via più accentuata della felicità e dell'innocenza. È vero invece che, come la storia è sottesa dalla sostanziale uniformità dell'animo e dell'intelletto umani e, su questo fondamento da lungo tempo immutato e immutabile, conosce le relative ascese e le relative cadute, così non avrebbe alcun senso imputare soltanto al presente la decadenza e la miseria. Ma vero è che anche, ad accentuare i termini soltanto teorici di questa relazione pessimistica, la sostanza autentica delle preoccupazioni che il Burckhardt ricava assai più dall'analisi empirica che dall'autoevidenza di una premessa teorica, rischierebbe di venire distrutta. Il prezzo della cultura è alto; e Burckhardt non era uomo che amasse illudere se stesso e quanti lo ascoltassero. Ma se nel passato la proporzione fra potenza e cultura si era pur sempre mantenuta in un equilibrio tale che, nella persistente malvagità del primo termine, il secondo era tuttavia riuscito a venire all'esistenza, il rischio era ora che, nel qualitativo mutarsi dei termini intrinseci a questa relazione, quella nascita non fosse più possibile e nessun raggio di verità, di bellezza e di bontà venisse a rischiarare la notte del mondo. Rimaneva senza dubbio, il conforto della conoscenza; ma, a parte la cupa previsione, o il fiero sospetto, che la logica nefasta della potenza riuscisse inesorabilmente a spegnere anche la luce del libero intelletto, è pur chiaro che, concepita come il Burckhardt la concepiva, distaccata dalla marcia fatale delle cose e incapace di mediarne le necessità, la conoscenza doveva assumere l'ineluttabile carattere della passività contemplativa; e poiché era passiva, consolatrice e dunque, nel fondo, costretta a riflettere su se medesima l'ombra cupa della ‛separazione', così si dimostrava anche impotente a superare il pessimismo, dal quale nasceva e al quale ritornava, come al proprio, immanente destino.

Che quindi, in un'ideale storia dell'idea di progresso (della sua fortuna e, soprattutto, della sua sfortuna) nel XX secolo, l'importanza delle Betrachtungen burckhardtiane non possa essere né diminuita né, tanto meno, svalutata, appare evidente. Il libro di Burckhardt sarà bensì anche una libera meditazione sulla storia e sui principali problemi connessi con il suo studio. È anche, non di meno, un'appassionata meditazione della ‛decadenza' e dell'intrinseca inanità del ‛progresso'. Spengler, tuttavia (e converrà ripeterlo), non c entra; e, come già si è osservato, ha commesso un'autentica (anche se involontaria) falsificazione chi, a proposito delle Weltgeschichtliche Betrachtungen, ha proposto il confronto con Der Untergang des Abendlandes. Quel confronto è legittimo: ma solo se sia diretto a sottolineare l'abisso che, culturalmente ed eticamente, divide le rispettive visioni del passato, del presente e del futuro. Con Spengler, in effetti, Burckhardt non ha niente in comune; e meno che mai, poi, con gli uomini dalla volontà metallica, dei quali, pure, aveva intravisto il volto pauroso. Da essi, e dalla logica del loro agire, lo divideva la Kultur, il suo senso della verità e della bellezza; e se le Betrachtungen burckhardtiane gli fossero state note, e si fosse degnato di prenderle in esame, Spengler avrebbe certo trovato il modo di fare dell'ironia, e forse anche del sarcasmo, sul modo di pensare di cui costituiscono la testimonianza, sull'orrore dell'abisso che, in ogni pagina, comunicano al lettore.

d) Nietzsche: la ‛malattia storica' e l'ewige Wiederkehr des Gleichen

E Nietzsche? Non è questa la sede in cui sia possibile illustrare i suoi rapporti con il grande professore di Basilea o, impresa in ogni caso quasi disperata, la linea fondamentale del suo pensiero; né qui converrebbe porsi in ogni suo aspetto la difficile questione del nesso, assai problematico, che egli intrattenne con la decadenza e il nichilismo. Del resto, come è ben noto, il suo pensiero fu esaltato e vilipeso, trovò adepti che, spesso senza innocenza, contribuirono soprattutto a deformarne i lineamenti, e quindi critici tanto implacabili quanto insensibili alla questione del suo ‛spirito', non meno che della sua ‛lettera'; ed è vero, di conseguenza, che Nietzsche pone il problema della sua vera identità con più forza di quanto ogni grande pensatore non faccia con coloro che debbono interpretarne il senso profondo. A meno che il fanatismo e l'ignoranza non ci abbiano resi ciechi, nessuno oggi crede più alla lettura nazista del suo pensiero o alla lettura del suo pensiero come nazista; e, sempre che non abbia smarrito il senso della misura e della verità, lo studioso della sua opera si chiede come possa essere accaduto che, ancora nel 1947, pur fra le osservazioni intelligenti che non mancano mai nelle sue pagine, G. Lukács abbia potuto scrivere che la ‛verità' di Nietzsche è in Adolf Hitler. Ma la grande varietà delle interpretazioni proposte negli ultimi tempi; il fatto che Martin Heidegger abbia visto in lui quasi il tramite necessario della sua propria interpretazione dell'Occidente come luogo fatale della metafisica e del nichilismo; la tendenza, che sembra quasi obbedire al comando imperioso di un ricorrente destino, a prospettare il suo pensiero nell'immediata dimensione del presente e, soprattutto, in quella del futuro: tutto questo rende assai arduo il tentativo che voglia compiersi di decifrare il senso specifico dei suoi aforismi e del complesso messaggio che, nella loro forma balenante, nitidissima e insieme oscura, racchiudono in sé. In effetti, come il Lukács questa volta ha ben visto, la forma aforistica è, in Nietzsche, espressione tanto della crisi filosofica e culturale che aveva dissolto la filosofia hegeliana, quanto della sua straordinaria capacità di presentire e di avvertire, oltre il piano dell'esistente, i sintomi del ‛non ancora accaduto'.

Donde, appunto, la difficoltà che, al di là delle contraddizioni e dei ‛salti', s'incontra a ricomprendere l'unità e il senso complessivo di un pensiero che, squilibrato in avanti nella previsione del futuro, sempre più, con il passare degli anni, rischiò di perdere la capacità di coincidere con se stesso e con il suo proprio significato esplicito; quasi che, in altri termini, la catastrofe psichica che infine lo travolse fosse già da tempo anticipata da questa ‛separazione' o non coincidenza, intrinseca al suo pensiero e costitutiva di esso.

Eppure, malgrado l'estrema varietà dei significati ai quali la sua ‛filosofia' è stata piegata; malgrado le contraddizioni, e le ambiguità, che ne incidono i tratti; malgrado le deformazioni e le alterazioni alle quali, nel tragico delirio degli ultimi tempi, egli stesso sottopose il suo pensiero, malgrado tutto questo, nessun dubbio può esserci sul punto che, come critico e vittima della decadenza, come testimone e vindice della ‛malattia storica', del nichilismo e della metafisica, come cantore di Zarathustra e teorico dell'ewige Wiederkehr des Gleichen, dell'eterno ritorno dell'identico, Nietzsche entri con pieno diritto nella storia dell'idea di progresso; perché, fra coloro che, nella seconda metà del XIX secolo, lavorarono a prepararne la dissoluzione (e, in qualche caso, la trasfigurazione), egli non è certo il meno radicale, e, per certi rispetti, è il più consapevole.

Sebbene (e non certo a torto) il suo pensiero sia stato spesso legato alle vicende dell'antistoricismo, della storia egli si fece un problema autentico: nei suoi confronti non assunse mai un atteggiamento paragonabile a quello, ad esempio, di Schopenhauer.

E perciò, studiando questo aspetto del suo pensiero, è giusto non dimenticare il suo rapporto con Hegel. Quale che sia stata la conoscenza ‛scientifica' che egli ebbe del suo pensiero, Nietzsche intuì comunque con forza che meditarne la linea e le conseguenze era, per orientarsi nel mondo e capirne il senso, indispensabile. Costituisse una forza o piuttosto, come egli certo riteneva, una debolezza, è pur vero che quella hegeliana era, per lui, una debolezza imponente e grandiosa; e che, per abbatterla o oltrepassarla, occorreva non solo conoscerla, ma tenerla presente e, per così dire, penetrarla e viverla. ‟Noi tedeschi - scrisse una volta - saremmo hegeliani anche se un Hegel non fosse mai esistito, in quanto noi (contrariamente a tutti i latini) attribuiamo per istinto al divenire, allo svolgimento, un senso più profondo e un più ricco valore che a tutto quanto è" (Fr. Nietzsche, La gaia scienza, in Opere, vol. V, t. 2, Milano 1965, p. 228).

Sebbene nella sua opera, e nel grandioso tentativo che Hegel vi compì per persuadere innanzi tutto se stesso ‟della divinità dell'esistente", Nietzsche vedesse il maggior ostacolo che nei tempi moderni fosse stato opposto allo sforzo diretto a superare il cristianesimo e la sua morale, proprio per questo, in definitiva, non si può intendere il suo pensiero senza questo riferimento allo storicismo hegeliano, continuo anche se, filologicamente, non impeccabile, profondo anche se sottoposto alle bizzarrie e alle improvvise impennate di uno spirito tanto delicato e sensibile. In effetti, quel libero riferimento è tanto più da tener presente in quanto, a differenza di Schopenhauer che, per suo conto, non ne era affatto penetrato; a differenza dello stesso Burckhardt, che la studiava bensì, ma, vedendola come insieme uniforme e ciclica, la contemplava dal di fuori, e così vi attingeva il conforto ‛edonistico' nascente dalla conoscenza, la storia costituiva per Nietzsche un problema bruciante: di storia e di senso storico egli era infatti intriso, come soleva dire, ‟fin nel midollo". E non solo, e non tanto, perché, più di Burckhardt, fosse capace di cogliere il divenire e lo svolgimento, ma per la più complessa ragione che il divenire e lo svolgimento della storia erano per lui come la patologia della vita; sì che, meditando sull'utilità e il danno che dall'una derivavano all'altra, egli non sarebbe certo giunto là dove giunse, se la storia non gli fosse apparsa come divenire e svolgimento, e il ‛progresso' non fosse stato da lui contraddetto attraverso l'affermazione, e non attraverso la negazione, della sua realtà.

Qui sta, salvo errore, il punto delicato della sua posizione, l'unicum che essa rappresenta nella storia di questa idea. Il progresso è criticato perché è riconosciuto; e non dunque perché, al suo nuovo indagatore, la storia avesse invece rivelato un volto ontologicamente statico, uniforme e, insieme, ciclico. Va da sé che il seguito del ragionamento implica subito la distinzione fra il progresso come positivo incremento di verità, di forza o di varia vitalità storica, e il progresso come semplice divenire e svolgimento lungo il cui corso la verità impallidisce, la forza illanguidisce, la vitalità assume gli opachi colori della mollezza e del peccato, figlio, come Shakespeare diceva, della ‛malinconia'. E va da sé, naturalmente, che proprio in questo secondo senso, non nel primo, Nietzsche lo intende. Ma, sebbene la distinzione sia fondamentale, e non eseguirla importi inesperienza o ‛inidoneità al concetto', rimane che, con segno mutato, quest'idea del progresso come accumulo paralizzante di esperienze, come nodo o ingorgo di raffinatezze esasperate e di sensibilità resesi via via morbose fino all'impotenza e all'estenuazione, implica una concezione della storia che, almeno all'origine, risente non poco della lezione storicistica e hegeliana, contro la quale, nel risultato, rivolge le sue dure punte polemiche.

Che poi nell'operare il capovolgimento, e nel rappresentare il ‛progresso' come disperdimento di energie vitali invece che come progressivo e potenziato ritorno al ‛fondamento', Nietzsche risentisse non poco del generale clima positivistico da tempo affermatosi in Europa, e del ‛progresso-svolgimento' si facesse perciò un'idea, essa stessa già per molti versi positivistica, è ovvio. Ma non certo positivistica è tuttavia l'intenzione profonda della sua critica; e per comprenderlo, basterà non tanto ricordare il suo dichiarato antipositivismo, o la critica a più riprese rivolta all'evoluzionismo di Darwin, quanto piuttosto riflettere sul punto che, come il positivismo (e il naturalismo che lo sottende) implica pur sempre l'idea che, appunto, natura tamen usque recurrit, la pienezza perduta viene riconquistata, la storia risale le vette momentaneamente abbandonate, niente di tutto questo avviene in Nietzsche. Nel suo pensiero la storia non ha dentro di sé la medicina atta a sanare le ferite che nel suo corso (e a causa di esso) si infligge. La storia è medicata dalla vita, dal magico ἐξαίzνης nel quale il suo tempo si ferma nell'identico vitale, ossia nella pienezza immobile dell'eterno. E in questo senso, allora, occorre riconoscere che, se nell'invertire la direzione del progresso dall'acquisizione piena del suo proprio fondamento alla dispersione della sua forza vitale Nietzsche pagò il suo debito al positivismo e alla logica naturalistica che lo sottende, in quello stesso atto ne consumò il nerbo concettuale, lo capovolse nel suo principio, lo dissolse dall'interno. Dalla storia esaurita ‛volle' che si saltasse al punto opposto e contrario: alla vita. Entrato nella logica dell'esaurimento, non ammise che quella potesse aver termine e che, toccata la meta, la realtà storica trovasse in se stessa la forza della rinascita. Fattosi positivista, divenne ultrapositivista e infranse lo strumento del quale s'era servito per distruggere.

Attraverso la radicalizzazione positivistica imposta al suo iniziale hegelismo, radicalizzò quella stessa radicalizzazione; e proprio in quanto ammetteva che la storia non potesse svolgersi se non nelle forme di un progressivo affinamento, che era anche progressiva impotenza e inopia, cercò di liberarsi della storia, negandola nel suo proprio fondamento ontologico. La storia era annientamento del vivente; e occorreva perciò che fosse, a sua volta, annientata, perché dal suo niente scaturisse il ‛tutto' della vita. In questo senso - e la cosa potrà apparire scandalosa alle tante animule bigotte e variamente timorate del loro dio che, ammantate di spregiudicatezza, vanno in giro per il mondo - la meditazione di Nietzsche e, soprattutto, la sua seconda Inattuale sull'utilità e il danno della storia, trovano per un istante (rapidissimo, ma significativo) un insospettato punto d'incontro con la tesi che Francesco De Sanctis svolse, nel 1872, nella prolusione accademica che intitolò La scienza e la vita. Esempio notevole di come, malgrado le specifiche differenze dei rispettivi impianti concettuali, due libere meditazioni sulla storia dovessero entrambe riflettere in sé, perché entrambe nate dalle complesse vicende dello hegelismo, del positivismo e della loro crisi interna, alcuni tratti di un'essenza comune.

‟Mi è odioso - scrisse Goethe a Schiller il 19 dicembre 1798 - tutto ciò che mi istruisce soltanto, senza accrescere o vivificare immediatamente la mia attività". Con questa citazione Nietzsche iniziava, nel 1877, la Prefazione alla seconda delle sue considerazioni inattuali, dedicata, come già si è ricordato, all'utilità e al danno della storia; e fin dalla prima linea espresse, come meglio non si sarebbe potuto, il senso del suo programma, che era di combattere, in nome dell'autentica cultura, la ‛culturalità'. Certo, ammetteva, ‟noi abbiamo bisogno di storia", (v. Nietzsche, 1874; tr. it., p. 259); e già con questo riconoscimento egli superava l'ambito all'interno del quale invece, nel secondo volume di Die Welt als Wille und Vorstellung, Schopenhauer si era mantenuto. Ma ‟ne abbiamo bisogno per la vita e per l'azione, non per il comodo ritrarci dalla vita e dall'azione, o addirittura per l'abbellimento della vita egoistica e dell'azione vile e cattiva" (ibid.). La storia non è infatti il semplice, indifferente scorrere del tempo, una serie connessa di istanti identici, perfettamente identici e perfettamente estranei, in questa identità, gli uni agli altri. Nel loro scorrere dall'identico all'identico, gli istanti entrano gli uni negli altri, e perciò si appesantiscono; tendono alla saturazione, e nella saturazione la vita perde la sua immediatezza. Non è affatto vero che, come Burckhardt aveva scritto, la storia sia uniforme, e senza sviluppo l'animo e l'intelletto dell'uomo. Non è affatto vero che il triste fardello di sofferenze, di crudeltà e di errori, di cui essa offre tante testimonianze, derivi dall'originaria malvagità dell'uomo, e che non la malvagità, dunque, derivi dalla storia, ma questa, se mai, proceda da quella. Al contrario, il processo delle cose coinvolge, per Nietzsche, tutta la realtà, ne impegna l'essenza e si identifica con essa: nel divenire ‟ne va", per usare l'espressione di Heidegger, dell'essere stesso, che vi si trasforma, vi si complica, vi si indebolisce. ‟In cinque riguardi mi sembra che la saturazione di storia di un'epoca sia ostile e pericolosa per la vita: da un tal eccesso viene prodotto quel contrasto fra esterno e interno di cui si è finora parlato, e da esso la personalità viene indebolita; per questo eccesso un'epoca cade nella presunzione di possedere la virtù più rara, la giustizia, in grado più alto di ogni altra epoca; da questo eccesso gli istinti del popolo vengono turbati, e al singolo non meno che alla totalità viene impedito di maturare; da questo eccesso viene istillata la credenza sempre dannosa nella vecchiaia dell'umanità, la credenza di essere frutti tardivi ed epigoni; per questo eccesso un'epoca cade nel pericoloso stato d'animo dell'ironia su se stessa, e da esso in quello ancora più pericoloso del cinismo; ma in tale stato d'animo un'epoca va sempre più maturando verso una prassi furba ed egoistica, da cui le forze vitali vengono paralizzate e alfine distrutte" (ibid., p. 295).

È difficile dire in quale preciso momento storico la nostra epoca si sia distaccata dal periodo felice (una sorta di età aurea del mondo) in cui non la vita era al servizio della storia, ma la storia era al servizio della vita. Per caratterizzare la decadenza, e segnarne, in qualche modo, il connotato storico-cronologico, Nietzsche parla di ‟uomo moderno", e non si cura di precisarne la data di nascita. Ma, come già nella precedente Nascita della tragedia, anche nella seconda Inattuale il mondo felice è quello dei Greci, ‟quel noto piccolo popolo di un passato non troppo lontano", che ‟nel periodo della sua forza più grande aveva serbato tenacemente uno spirito antistorico" (ibid., p. 289); e sebbene nei suoi scritti più tardi la periodizzazione proposta nel libro giovanile tenda a sfumare nell'indeterminato e il suo rapporto con la Grecia perda alquanto della nettezza e incisività che l'avevano caratterizzato negli anni giovanili, è pur vero che della storia di quel popolo qui egli sottolinea ancora il momento della maggior forza; e quindi, almeno nelle grandi linee, accetta una distinzione di epoche in virtù della quale la decadenza ha inizio dal momento in cui Euripide introduce la forza paralizzante dell'intelletto nel ‟tutto mescolato di Anassagora" e il ‟demonico" Socrate volge sul mondo ingenuo e possente dell'arte il suo ‟unico grande occhio di Ciclope", nel quale ‟non arse mai la dolce follia dell'entusiasmo artistico". Ebbene, come che sia della periodizzazione che, per la prima volta, la Nascita della tragedia propose alla coscienza ‛storicistica' europea, debba essere o no intesa con il rigore estremo che, nel nostro secolo, a essa conferì Martin Heidegger, rimane chiaro che la prima questione era ora, per Nietzsche, la distruzione del es war, del ‛così fu'; e che l'ulteriore questione era se e come fosse possibile invertire la direzione del tempo, la marcia irreversibile della storia.

Quella direzione e quella marcia accennavano all'abisso, e di fatto conducevano a esso. Implicavano quel sempre più accentuato spossamento della vita che, com'è noto, il cristianesimo sarebbe intervenuto a rendere drammatico. E questa era la ‛malattia storica': una malattia mortale. È molto difficile, certo, capire in che termini Nietzsche ne spiegasse, a se stesso, i caratteri: ossia se il suo determinarsi fosse o no iscritto a lettere di bronzo sulla dura pietra della necessità, di quella ἀνάγκη, alla quale non c'è τέχνη umana che, come diceva Eschilo, possa contrastare. Si è a lungo discusso se il suo concetto dell'eterno ritorno dell'identico sia fondato su una cosmogonia o su un'etica; se dipenda dalla forza fatale delle cose, che spezza il nerbo della volontà, o, con paradossale inversione, sull'intima energia di quest'ultima, dalla quale la forza fatale delle cose è piegata. Ma, per quanto concerne la genesi della malattia storica, e mortale, la questione si pone in termini non meno acuti. Se infatti la ‛malattia storica' si produce per la forza inesorabile della necessità, il ciclo discendente della ‛decadenza' non può essere spezzato (il ciclo è inclusivo del ‛tutto'), e l'ossequio ‛inchinevole' alla ‛potenza della storia', esaltata da Hegel, cessa di essere una ‛colpa' per divenire un'ovvia determinazione della realtà, - e del fato.

Non è facile, come si è detto, rispondere a questo quesito.

Ma è certo che, anche se in modo oscuro, al problema che gli si agitava dentro, e lo tormentava, Nietzsche ha cercato di conferire orizzonte e risposta mediante l'elaborazione di quel concetto dell'eterno ritorno che, già presente nelle opere del così detto ‛periodo medio', diventerà il Leitmotiv dei suoi ultimi scritti, dallo Zarathustra al Wille zur Macht. Ma che cosa è, con esattezza, l'ewige Wiederkehr des Gleichen? E in che modo il suo intervento può risolvere la tendenza alla degenerazione, implicita nell'altro concetto della ‛malattia storica'? Se nel precedente concetto della decadenza agiva pur sempre, alterato e deformato, il concetto hegeliano del divenire e dello svolgimento, in che modo, allora, il ricorso all'antichissima concezione del ciclico ‛ritorno del sempre eguale' può riscattarne il vizio originario? Ebbene, per quanto dal Löwith ai più recenti interpreti molti e notevoli sforzi siano stati compiuti al fine di determinare la sua indiscutibile vaghezza, e di risolvere il relativo problema, occorre riconoscere che il testo resiste, e l'oscurità permane discretamente fitta. Non solo il passaggio dal concetto della malattia storica a quello dell'ewige Wiederkehr des Gleichen non si lascia pensare se non secondo la logica, tipicamente irrazionalistica, del ‛salto', ossia, a rigore, non si lascia pensare affatto; ma nemmeno è possibile comprendere in che senso, più ancora che di ‛eguale', qui si parli di eterno ‛ritorno' dell'eguale. La differenza, non è infatti di poco conto. Preso nella sua assolutezza, l'eguale è il sempre identico; e poiché non ha un luogo dal quale possa evadere e nel quale, in seguito, tornare, così l'idea del ‛ritorno' è, rispetto alla sua struttura, contraddittoria. Dove c'è ritorno, c'è stata (e deve esserci stata) dipartita; quindi, in entrambi i sensi, differenza; e dove c'è differenza, né l'eguaglianza né l'identità possono essere prese come ‛assolute'.

Per intendere senza contraddizione la compossibilità del ‛ritorno' e dell'eguale (identico) non è infatti nemmeno proponibile che l'eguale ritorni bensì, ma nell'eguale: per ritornare nell'eguale, dovrebbe esserne uscito; per esserne uscito, e quindi per rientrarvi, dovrebbe previamente essersi reso diverso dall'eguale; con la conseguenza che, essendosi diversificato da sé, l'eguale avrebbe da un pezzo cessato di essere quel che presumeva: l'eguale e l'identico. Per intendere senza contraddizione la compossibilità strutturale del ‛ritorno' e dell'eguale, è dunque necessario che sia l'uno, il ritorno, che l'altro, l'eguale, siano tenuti fermi al loro posto dallo stesso ‛circolo' che, muovendosi secondo la sua legge intrinseca, realizza, insieme, la sua strutturale coincidenza con sé, ossia con la legge del suo muoversi uniforme, e la differenza dei momenti che, dal di dentro, lo costituiscono. Ma, in questo modo, la condizione che, sola, permette di pensare il ‛ritorno dell'eguale' è non solo che il ‛ciclo' sussista sempre come immobile fondamento del suo muoversi: è altresì che l'eguale, al quale appartiene di non andar via da sé e di non tornare a sé (il ciclo stesso), si articoli nel suo interno secondo l'andare e il tornare dei suoi momenti: i quali, identici sempre in sé e a sé, sono pure ciascuno diverso dall'altro. Identici a sé e in sé, essi sono dunque anche i momenti della diversità: l'uno il diverso (contrario) dell'altro. E se l'eguale è la pienezza della vita che torna dal suo essersi allontanata da sé (l'esaurimento), il contrario dell'eguale è lo sfinimento della vita che se ne va. L'uno è la vita, l'altro la decadenza della vita. E non è allora evidente che, inteso così, l'ewige Wiederkehr des Gleichen deve necessariamente includere dentro di sé quel momento del decadere in opposizione al quale s'era costituito?

È dubbio che Nietzsche intendesse (o sia mai riuscito a intendere) in senso rigoroso il concetto dell'eterno ritorno. È anzi probabile che non riuscisse a cogliere e a tener ferma la distinzione fra l'assolutamente identico e eguale, che esclude da sé la possibilità dell'andar via e del tornar di nuovo, e l'eterno ritorno dell'eguale che, per potersi realizzare, deve supporre la differenza, e perciò stesso toglier via una identità eterna e senza eccezioni. È dubbio, in altri termini, che sia sul serio riuscito a intendere che, per la sua stessa logica interna o essenza, la dottrina che egli riprendeva implica insieme, sul fondamento di un ‛permanere' inalterabile dell'essere, la vicenda dei contrari, il doppio movimento dell'allontanarsi e del ritornare: non solo, dunque, del ritorno, ma anche, prima, dell'addio e del commiato. È dubbio che sia riuscito a comprendere che proprio perché suppone l'addio e il commiato, suppone altresì il ritorno.

Sebbene, con il gioco scintillante e ambiguo degli aforismi e delle parabole, la fortissima fantasia nietzscheana renda difficile individuare con sicurezza, nelle opere che vanno dallo Zarathustra al Wille zur Macht, la ferma linea di un pensiero coerente (che potrebbe nascondersi nel profondo, e perciò sfuggirci), è infatti assai probabile che quella linea non sia coerente, quel pensiero non sempre sia un pensiero, e la sovrabbondanza aforistica sia come in relazione inversa alla debole presenza del concetto. E il sospetto è che, in realtà, partito dall'idea di un divenire rettilineo e dalla sua crisi interna, con il pensiero dell'identico ritornante Nietzsche abbia preteso di sostituire a quello non già, come sarebbe stato necessario (dato l'assunto esplicito), il concetto di un tempo ciclico, a determinati intervalli ritornante su se medesimo, bensì invece quello assai diverso dell'attimo, che spezza la linea del divenire lineare, non meno di quello ciclico, e risolvendoli entrambi in se stesso, realizza sul serio la liberazione dalla storia, e l'oblio creatore. In tal modo, il vecchio mito di Faust, la sua illusione che lo spettacolo dell'eterna bellezza femminile potesse costituire il contenuto intrascendibile dell'attimo contemplante, per sempre sottratto alla rapina del divenire e dell'esaurimento: questo mito e questa illusione furono da lui inseriti nell'antica dottrina ellenica dell'eterno ritorno dell'identico (e degli identici). Quella dottrina era ispirata alla più ferrea tirannia dell'ἀνάγκη storica; e sul suo fondamento, autocontraddittoriamente, egli pretese di pensare l'assoluta libertà, il supremo affrancamento da ogni necessità. In forza di questa contraddizione, quasi identificandosi con il Dio creatore (si ricordi la sua ultima, sconvolgente, lettera a Jakob Burckhardt), Nietzsche pretese di esser lui (la sua volontà e il suo pensiero) l'attimo e il creatore dell'attimo, nel quale il massimo dell'intensità spirituale si realizza in opposizione alla pura esclusività della successione storico-temporale. In tal modo, in un'allucinata esperienza mistica, la storia veniva superata e dimenticata; e sebbene in quel tempo del suo svolgimento intellettuale Nietzsche avesse ormai abbandonato Richard Wagner alle equivoche seduzioni decadenti e cristiane del Parsifal, non può escludersi, ed è anzi certo, che, come sull'animo del vecchio Thomas Mann intento alla composizione del Doktor Faustus, anche sul suo quella musica seguitasse ad agire con la potenza arcana del mito. In Wagner, com'è noto, Nietzsche dichiarava di non amare la ‛pesantezza' del pessimismo cristiano congiunto a una torbida e non domabile ‛sessualità'; e in Zarathustra, per contro, celebrava una più alta e pura energia vitale. Ma, anche in lui che, leggendo la partitura del Tristano, dichiarava di volersi mettere i guanti, la ‛vita' era di continuo esposta alla tentazione dell'immobilità estatica, rappresentata dalla danza ciclica. Era, anzi, nel suo momento supremo, proprio questa immobilità; e così, senza che potesse impedirselo, in se medesima rifletteva la ‛decadenza', nel suo ‛moto' l'insidia dell'identico e della stasi. Nell'ewige Wiederkehr des Gleichen anzi, meglio, nel puro attimo - sulla cui ‟soglia", aveva scritto, immaginosamente, nella seconda Inattuale (ibid., p. 264), l'uomo deve ‟mettersi a sedere", ‟dimenticando tutte le cose passate" - la decadenza veniva superata e riscattata, la sua ‛assolutezza' dissolta: ma quel superamento, quel riscatto, quella dissoluzione presupponevano ormai anche il crollo definitivo di ogni idea dello svolgimento e, se si guarda bene, della storia stessa.

E qui, per un momento, conviene fermare l'attenzione su Thomas Mann; e ricordare che il suo Giuseppe non poté realizzare fino in fondo, nella sua coscienza, il suo destino di ‛nutritore', ossia di uomo della politica, della storia e quindi, in un certo senso, della democrazia e del ‛progresso', se non quando ebbe per sempre rinunziato, insieme con la ‛benedizione' del padre Giacobbe, al fascino del mito ciclico che, nella ripetizione, rende incerta la fisionomia individuale degli uomini, che vivono nella concretezza e nella differenza del tempo. Ma, opponendosi all'immobilità del mito e al fascino dell'eterno ritorno, Mann sceglieva, consapevolmente, la via della politica contro quella della pura ‛interiorità'; e così rientrava nella storia, qui ‛decideva' di vivere e di concedere la vittoria all'antico avversario democratico. Era, come sempre in Mann, una decisione complicata, piena di dubbi e di ironia, di wagneriano sentimento del ‛profondo'. Ma Nietzsche era andato assai più lontano. L'eterno ritorno era da lui interpretato come l'‛attimo' e il possesso dell'attimo. Non aveva, in realtà, niente a che vedere con la ciclicità dell'accadere, nel cui richiamo regressivo Thomas Mann aveva di nuovo visto balenare il riso ambiguo della morte. L'attimo era l'attimo, l'ἐξαίϕνης, in cui tutto, la storia, il passato, il presente, il futuro, si brucia nel delirio e nella danza gioiosa di Zarathustra.

3. Le formulazioni ‛positive' dell'idea di progresso

a) Illuminismo e storicismo; la concezione hegeliana

È impossibile che, sia pure a grandi linee (e con l'inevitabile arbitrio di gravi esclusioni), si scriva la storia della idea di progresso nel XX secolo senza che nella narrazione si includano i grandi momenti ottocenteschi della sua crisi. Ma altrettanto impossibile è non compiere un ulteriore passo all'indietro. Vanno infatti raggiunte le formulazioni positive dell'idea. E perciò occorre risalire non solo a Hegel, a Marx, a Comte, ma addirittura ai teorici dell'illuminismo, a Voltaire, a Diderot, a Turgot, a Condorcet. Solo così, e sia pure per semplice approssimazione, sarà possibile avere dinanzi agli occhi un quadro sufficientemente nitido delle trasformazioni e delle riprese, delle cadute e dei ritorni; e la crisi novecentesca dell'idea di progresso potrà essere meglio apprezzata sia in sé che nei vari tentativi, che pur si sono esperiti, di superarla.

A considerare le cose dall'alto, e nelle grandi linee, la caratteristica fondamentale della concezione illuministica della storia consiste nella singolare sintesi onde due diverse idee - quella ‛ondulatoria' del progresso e della decadenza, e l'altra, unicamente lineare, del progresso senza decadenza - vengono tenute insieme. Tenute insieme, ma non sovrapposte, né, tanto meno, confuse. Chi apra il celebre Esquisse che Condorcet redasse fra il 1792 e il 1793 per illustrare il tableau historique des progrès de l'esprit humain, non tarda a rendersi conto che, in questo frutto maturo della Aufklärung francese, le due idee sono bensì connesse, ma, per così dire, in successione diacronica: nel senso, s'intende bene, che se nel compiere i suoi essenziali progressi e nel raggiungere, con Bacone, Galilei e Cartesio, il porto sicuro della scienza e del suo vero metodo l'esprit humain è passato attraverso esperienze molteplici di vittorie e di sconfitte, ha scosso il giogo della religione e della teologia per tornare tuttavia sotto di esso, è pur vero che, raggiunta la chiara luce della ragione, quella vicenda discontinua di ascesa e di decadenza si risolverà nel ritmo costante del progresso, nell'attuazione senza contrasti della ‛perfettibilità'. Lo strumento del progresso è la scienza.

Ma la scienza che lo realizza non concerne soltanto i suoi ambiti specifici: riflette intera la sua luce sulla storia dell'uomo, rischiara la sua mente, esorcizza i torbidi mostri del sentimento e della superstizione. Impugnandolo con forza, l'uomo è ormai al sicuro; e non potrà più accadere che l'ombra oscura della superstizione si allunghi, con la decadenza che inesorabilmente ne deriva, sulla sua storia. Poco alla volta, la superstizione, la religione, la teologia tutto ciò, insomma, che la scienza si trova di fronte come avversario e deve combattere e vincere - saranno appunto combattute e vinte. E trasformando la sua positiva e scientifica filosofia del progresso, o dei progressi umani, in una sorta di profezia laica, Condorcet includerà nella storia del ‛già accaduto' il ‛non accaduto ancora', nel passato-presente anche il futuro; e con commovente fiducia nelle ‟magnifiche sorti e progressive", ironizzate poi da Giacomo Leopardi, proprio al futuro dedicherà l'ultima delle sua dieci ‛epoche'. In tal modo, svincolata dal destino naturalistico dell'ascesa e della decadenza, nella sua luce priva di ombre (e perciò alquanto accecante), la Raison riassumerà in sé l'inesorabilità delle leggi che regolano il corso uniforme della natura, e contro il rischio, l'incertezza e il dramma della storia porrà la sua propria, suprema garanzia, la sua certezza inattaccabile dal dubbio.

Non deve credersi che in questo quadro (così ottimistico da riflettere a tratti su di sé qualche discreto, e pur inquietante, bagliore terroristico) l'illuminismo conosca quasi la caricatura del suo trionfo. Persino un Aufklürer della statura di Kant (che certo, per le indagini dell'intelletto, possedeva una testa ben altrimenti attrezzata), in scritti composti nel medesimo giro di anni aveva cercato di dedurre dalla teleologia intrinseca alla natura quella intrinseca alla storia umana; che era da lui vista non solo come una progressiva uscita dai giardini d'infanzia della ‛minorità', ma anche (ed era assunto coerente) ‟in costante progresso verso il meglio". In effetti, fosse di origine illuministico-francese o venisse invece trascritta nella più controllata teoria di Kant, si chiamasse ancora Raison o riassumesse il nome venerando, e ambiguo, di Provvidenza, l'idea di un incremento progressivo delle epoche storiche rimane, anche nel cosiddetto passaggio dall'illuminismo allo storicismo, fondamentale; e se, ad esempio, si apre la celebre opera in cui Herder riassunse i tratti essenziali della sua ‛filosofia della storia', non può non colpire la difficoltà che egli incontra nello spiegare quell'autentica sospensione dello sviluppo progressivo delle cose, quella drastica ‛anomalia' del progresso, che è costituita dalla caduta dell'Impero romano d'Occidente. A spiegare quella sospensione dello sviluppo progressivo delle cose storiche, quella sconcertante ‛anomalia', Herder invocherà, com'è noto (ed è stato più volte rilevato), l'intervento astratto e livellatore dello Stato, nemico delle singole individualità popolari. E sebbene l'osservazione (in sé schiettamente autocontraddittoria) sia indicativa della scissione che in Herder tanto spesso si determina fra il piano storico-cosmico-provvidenziale e l'apprezzamento delle specifiche individualità popolari e ‛nazionali'; sebbene in lui l'idea illuministica del progresso sia accolta con molte riserve e il senso vivo della complessità storica lo ponga (come il Meinecke ha ben dimostrato) alle origini dello storicismo, è pur vero che anche nella sua visione le forze intrinseche alla Provvidenza vincono e sovrastano le forze dell'intelletto, che frena bensì, ma non paralizza, tuttavia, l'energia progressiva delle cose.

In Hegel questo processo raggiunge il suo culmine, e si compone in un quadro di incomparabile grandiosità. Al lettore esperto, che abbia seguito fin qui il racconto delle vicende che segnano nel profondo la storia dell'idea di progresso, non faremo il torto di somministrare l'ennesima sintesi della concezione che Hegel elaborò del divenire dello spirito dalla certezza sensibile al sapere assoluto, dal sapere assoluto all'idea, dalla famiglia all'eticità dello Stato, e dal mondo orientale a quello cristiano-germanico. E così non ripeteremo che, nelle fondamentali articolazioni del sistema, i vari sviluppi che egli descrive come corrispondenti a quelle articolazioni non si giustappongono, ma si intrecciano, invece, a formare l'unitario processo della realtà. In luogo di queste risapute articolazioni e connessioni, converrà piuttosto osservare che, se il culmine dello spirito oggettivo è rappresentato dall'unitario fondersi dell'eticità statale e della Weltgeschichte, non c'è momento anteriore il cui superamento importi la presenza di qualcosa come la ‛decadenza', l'inopia, il ritorno indietro della realtà.

A differenza di quanto accadeva nella filosofia illuministica della storia, dove la decadenza era pur sempre presente in una fase del processo storico, o in Herder, dove l'azione paralizzante dell'intelletto e dello Stato supernazionale segnava di sé intere sezioni della realtà storica, e con forza contrastava l'azione risolutrice della provvidenza, nella visione hegeliana la decadenza è risolta, eo ipso, nel passaggio da una fase all'altra della storia; e se è vero che il momento della Grecia e poi di Roma rappresenta pur sempre, nei confronti del momento cristiano-germanico, una fase in qualche modo più povera e angusta, non solo di essa si dice che è necessaria e, rispetto al tempo del suo prodursi, perfettamente adeguata, ma, nel suo stesso contraddirsi e risolversi, tale che contiene in sé, oltre la contraddizione, la positività del nuovo, oltre la morte, l'affermazione di una vita più piena. Se perciò di questa ‛filosofia della storia' volesse individuarsi il tratto distintivo, dovrebbe dirsi che in essa la ‛decadenza' è riscattata dal suo essere insieme principio e fine: fine di ciò che deve morire, principio di ciò che, in forza di quel morire stesso, deve nascere e nasce; e che in questa duplice prospettazione del decadere, in questa nuova idea del nesso che stringe il positivo al negativo, e questo a quello, il concetto del progresso riceve la più alta, assoluta e intransigente delle sue celebrazioni.

In realtà, al fondo della concezione hegeliana della storia, e dell'idea, che essa reca con sé, del progresso, varie e diverse ‛tesi' si intrecciano e cercano un accordo più profondo. E questa è, fra l'altro, la ragione per la quale, sia per il difetto soggettivo delle interpretazioni, sia per la non perfetta riuscita obiettiva di quella sintesi, la filosofia hegeliana della storia è stata vista ora come celebrazione dell'infinito lavoro umano, del tenace e inesauribile scavare che la ‛talpa' fa nelle viscere della terra, e ora invece come la ripresa laicizzata dell'antica idea della immutabile ‛sostanza' che, entrata nel dramma della finitezza, ricompone via via le sue lacerazioni, rimargina le sue ferite per ritrovarsi infine, come spirito e come soggetto, nella conclusa pienezza delle sue determinazioni. Non è questa, com'è evidente, la sede in cui sia possibile impostare e risolvere una questione di simile complessità; e, ancora una volta, al lettore non verrà inferto il torto della ‛semplificazione'. Ma se, sia pure rapidamente, si guarda nel fondo di quel problema e delle indubitabili difficoltà che ne derivano, non è impossibile, forse, arrivare a comprendere che Hegel ha in effetti cercato di stringere insieme due concezioni diverse: una, in forza della quale l'impulso era all'infinito, l'altra, in forza della quale, per sfuggire alla presa mortale della ‛cattiva infinità', l'impulso piegava la sua direzione lineare, rifletteva sé in se stesso, e, così internandosi, ritrovava e mediava in forme più ricche il suo proprio fondamento. Donde, appunto, quell'idea di conclusione, e poi anche di non conclusione, di fine e di eterna ripresa, che la filosofia hegeliana ha comunicata, e ancor sempre comunica, ai suoi interpreti piu consapevoli.

b) Marx e il marxismo

Che qui, comunque, nella sostanza che si fa soggetto e nella eticità che coincide con il ritmo stesso della Weltgeschichte, l'idea del progresso tocchi il suo vertice ottocentesco, e forse, in assoluto il suo vertice, nessuno potrebbe revocare in dubbio. E qualunque cosa si pensi della qualità del suo rapporto intellettuale, giovanile e non, con la filosofia di Hegel, è bene da questo vertice che occorre osservare la fisionomia e la linea del pensiero di Karl Marx. Anche qui, e anche ammettendo che le conosca tutte e in buona parte, chi potrebbe rendere conto dell'enorme varietà di interpretazioni, di utilizzazioni, di confutazioni a cui questo pensiero, divenuto una delle principali ‛potenze' del nostro secolo, ha dato luogo? E come sarebbe possibile tentare, in poco spazio, l'impresa consistente nel delineare le sue molteplici morti e rinascite, le sue tante metamorfosi? È un luogo comune, fiorente in regioni diverse del contemporaneo universo ideologico, che con Marx la filosofia si è fatta ‛mondo': frase, senza dubbio, ricca di significati molteplici, e anche, se si vuole, di sapore alquanto ambiguo; ma al fondo della quale questo almeno c'è di vero, e di afferrabile, che il marxismo è andato con tanta forza a far parte del ritmo obiettivo delle cose politiche e sociali che la decifrazione del suo lineamento autentico non è più agevole di quella che attende colui, che memore di Platone e di Rousseau, cerchi di ricostruire le fattezze originarie della statua di Glauco.

Rappresenti o no una variante estrema dello hegelismo filosofico; dipenda dal pensatore di Stoccarda non meno che dai processi obiettivi della storia moderna; rappresenti, rispetto alla tradizione dello storicismo romantico, fondato sulla soppressione del sensibile e sulla sua ‛surrettizia' restaurazione nelle forme mistificate dell'infinito, un radicale ‛salto di qualità', e nei confronti del processo storico che pure lo condiziona si ponga come la sua irriducibile autocoscienza interna; sia infine un pensiero storicista o, sempre più decisamente, ‛strutturalista', è pur vero che quando, procedendo da queste proposizioni storiografiche, in ciascuna delle quali, insieme a cose plausibili, più o meno acuta si avverte la punta dell'idealizzazione ‛ideologizzante', si cerchi di pensare in sintesi l'idea che Marx ebbe dello sviluppo storico, questo appare scandito nel ritmo di uno sviluppo inesorabile che, per intrinseca necessità, dal modo di produzione feudale conduce a quello capitalistico e di qui, attraverso la sua crisi necessaria, alla rivoluzione proletaria. Si è discusso a lungo se questo ritmo possegga o no la necessità dell'‛ontologicamente obbligato'; se si attui attraverso gli uomini e che funzione questi abbiano nel determinarne i passaggi; se la necessità risolva o no in sé l'iniziativa umana; se il marxismo, insomma, sia oppure no l'ultima e, come Antonio Labriola diceva, ‟definitiva" filosofia della storia; se il ‛salto di qualità' che questa dottrina racchiude, per così dire, in sé, ritrovandovi la sintesi fra necessità e rivoluzione, risolva la rivoluzione nella necessità o realizzi la necessità con e nella rivoluzione.

Questioni vitali e brucianti, non solo per i filosofi e gli economisti (i quali ultimi, a loro volta, la specificarono nell'altra, e più tecnica, se il primo libro del Capitale e il terzo siano o no coerenti, e a Marx riuscisse di dimostrare la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto e la trasformazione dei valori in prezzi), ma per la stessa formazione politica dei vari proletariati europei. Questioni che, quando sembrino, sul piano astratto della teoria, esaurite, pur ritrovano, su quello della prassi, la loro vitalità e il loro drammatico mordente. Questioni, infine, che sono state e possono di nuovo essere bensì risolte in modi opposti, ogni volta determinando, nella teoria e nella prassi, contrasti profondi; ma che, comunque risolte, non possono mettere in dubbio il seguente punto fondamentale: che il marxismo è una filosofia del progresso, e che il progresso del quale in essa filosofia si parla non è il riflesso ideologico di un qualsiasi ‛dover essere' di classe. Con ogni evidenza, il marxismo si presenta infatti come l'autocoscienza filosofica, e comunque reale, dei processi obiettivi delle cose, nel cui svolgimento stesso il ‛progresso' è iscritto.

Può anche darsi che, ai giorni nostri, questa perentoria sicurezza epistemologica e filosofica sia entrata in crisi (non nel marxismo dell'Est europeo e dell'Unione Sovietica, che non conosce crisi per ciò stesso che è una litania e non una filosofia, bensì in quello vivo e operante nei paesi dell'Occidente, dove, nel secondo dopoguerra, il pensiero di Marx ha conosciuto una fortuna così travolgente che, nel 1960, un pensatore di diversa origine come J.-P. Sartre vi coglieva l'insuperabile orizzonte filosofico del nostro tempo). E nemmeno potrebbe a cuor leggero escludersi che la crisi sia più profonda, nella teoria, di quanto forse non si sospetti anche da parte di chi la va quotidianamente proclamando: più profonda nella teoria perché più profonda nella prassi politica e sociale, dominata dalle trasformazioni, più o meno rapide, del capitalismo contemporaneo. Ma quali che siano per essere, nell'immediato futuro, gli svolgimenti critici del marxismo teorico, quella concezione del progresso è così profondamente connessa con la sua struttura che, nel 1954, Lukács pubblicò un libro, Die Zerstörung der Vernunft, per sostenere che, con il congiunto suo antiprogressismo, l'irrazionalismo contemporaneo nasce dall'ideologico occultamento delle contraddizioni sociali da cui, prendendone invece coscienza, il marxismo stesso era nato; e non solo dunque, per l'interpretazione della filosofia moderna, da Schelling alla conclusione della seconda guerra mondiale e oltre, si proponeva un tal criterio manicheo, ma al marxismo (ossia al vero razionalismo) si affidava addirittura il compito provvidenziale di determinare, nell'irrazionalismo, un'esasperazione così estrema da lasciar prevedere come prossima, o almeno come inevitabile, la sua crisi e la sua trasformazione positiva.

Si sa quali nessi leghino, nel marxismo classico, o meglio in quello di Marx (per Engels il discorso dovrebbe, infatti, suonare alquanto diverso), la scienza, la filosofia, l'ideologia; ed è nota la disputa che, avendo documenti insigni in Geschichte und Klassenbewusstsein (1923) di Lukács e quindi anche nei padri fondatori della Scuola di Francoforte, da Horkheimer ad Adorno a Marcuse, si è svolta sui caratteri necessariamente reificati della ‛scienza' borghese. Nota è anche l'altra disputa, a questa strettamente intrecciata, se e in che senso Marx sia uno scienziato sociale e in che misura l'ideologia travolga (se la travolge) la sua pretesa scientifica. Il ‛punto d'onore', se così potesse dirsi, di questa discussione concerne la compossibilità di scienza e ‛filosofia della storia'; e qualora (come anche di recente è accaduto) la compossibilità sia negata e nella ‛filosofia della storia' si individui il limite della ‛scienza', il marxismo entra di nuovo in crisi, i tratti del ‛revisionismo' appaiono, per l'ennesima volta, all'orizzonte, e l'idea del progresso viene messa in dubbio nel suo fondamento (che è, infatti, la stessa ‛filosofia della storia').

È comunque, questa, una disputa che, in qualche modo facendo corpo con la fortuna postuma del marxismo teorico, non può essere ricostruita qui nei suoi temi e nelle sue ragioni; e non solo perché, come si è detto, per deciderla, occorrerebbe ristudiare ad una ad una le questioni fondamentali della filosofia di Marx e, in modo particolare, del Capitale, ma anche perché a essa parteciparono i migliori ingegni dell'intellettualità europea, da Böhm-Bawerk a Bortkiewicz, da Labriola a Hilferding, da Croce a Max Weber e a Sombart, e per ricostruirla in modo adeguato si dovrebbe scrivere un intero capitolo di storia intellettuale, e non dei più facili. Se, per altro, il rapporto fra il marxismo e le scienze presenta le complesse e decisive questioni alle quali s'è accennato, più semplice è invece, almeno in prima approssimazione, il discorso concernente Comte.

c) Comte

Non illustreremo qui, perché sarebbe fuori di luogo e anche, in ultima analisi, inutile, la celebre dottrina, che egli desunse dal suo maestro Saint-Simon, delle fasi organiche e delle fasi critiche; e nemmeno l'altra, ancora più celebre, dei tre stadi, percorrendo i quali l'umanità giunge a dissolvere nella scienza positiva la religione e la metafisica. Non ripeteremo che, sebbene ammirasse l'Esquisse di Condorcet, Comte fu critico deciso delle sognanti presunzioni intrinseche alla sua idea di una ‛perfettibilità' infinita del genere umano: fantasie e sogni, appunto, ai quali il maggior teorico del positivismo avrebbe forse contrapposto, se avesse conosciuto di prima mano la Phänomenologie des Geistes, la celebre critica hegeliana della ‟legge del cuore" di necessità trapassante nel ‟delirio della presunzione". In effetti, come nella filosofia della storia di Hegel (che egli non conobbe se non attraverso un compendio apprestatogli dal suo amico Eichthal) e, almeno in parte, in quella di Kant (che, per quanto la considerasse ‛idealistica', tuttavia apprezzò), così nella sua gli individui non contano di per sé, ma solo come funzioni del tutto che, al di là dei propositi e delle astratte intenzioni, essi servono, dipendendone.

E sebbene ai filosofi dell'idealismo classico tedesco Comte rimproverasse, appunto, l'idealismo e la metafisica, che lo alimentava e sosteneva, e a esso sostituisse non certo la provvidenza di Bossuet o la visione ciclica, e priva di speranza, del paganesimo classico, bensì il concetto dell'evoluzione, rigidamente modellata sulle scienze esatte della natura e sul loro inesorabile ordine interno, c'è pure qualcosa che, senza dubbio, connette a quelle ‛idealistiche' la sua idea della storia. Il punto della connessione è costituito a ben guardare, dalla ‛totalità'; che, in Hegel, esplicandosi come libertà, si determina in opposizione alla ‛natura' (nella quale, come scrisse in una pagina famosa della Philosophie der Weltgeschichte, ‟i mutamenti, per infinitamente molteplici che siano, manifestano sempre un moto circolare, che si ripete sempre", e solo quelli ‟che hanno luogo nello spirito" producono, invece, ‟novità"); e in Comte, per contro, si risolve nella legge e nell'ordine. Una diversità, questa, che senza alcun dubbio è da giudicarsi profonda, ricca di implicazioni e di conseguenze; ma che, per il problema che ora interessa, non vale a distruggere la connessione che in qualche modo è pur possibile stabilire fra le loro rispettive concezioni del progresso.

4. La svolta del secolo: trionfo e dissoluzione della fede nel progresso. La trasformazione dell'immagine scientifica dell'universo

Liberata dalle sue complicazioni interne e dai suoi esiti problematici, così filosofici e scientifici come generalmente etici, politici e sociali; sintetizzata o, se si preferisce, contaminata con i pensieri di altri scrittori ‛positivisti', la concezione comtiana dell'evoluzione e del progresso diventò la fede media dell'intellettualità europea e delle stesse classi dirigenti. Fra il declinante secolo XIX e gli inizi del XX, andò a costituire qualcosa come una seconda coscienza dell'uomo europeo, che le già ricordate previsioni apocalittiche non riuscirono in realtà a mettere in crisi prima che risuonasse il colpo di cannone che dette inizio al primo conflitto mondiale. E così profondamente penetrò in quella coscienza, che anche filosofie nate su un diverso fondamento speculativo, e da diverse premesse, ne risentirono l'influsso (si pensi allo stesso marxismo teorico nell'età della Seconda Internazionale), si rimodellarono secondo alcuni di quei principi (l'evoluzione naturale), e così contribuirono alla loro propria autodeformazione.

L'apocalissi contemporanea - scrisse, subito dopo la conclusione della seconda guerra mondiale, E. Mounier - deriva dal crollo delle due grandi religioni del mondo moderno, il cristianesimo e il razionalismo; e postosi a studiare l'‟estensione sociologica" (come la chiamava) di quella catastrofe, osservava che, mentre un secolo fa su cento uomini la grande maggioranza professava la fede cristiana e i più credevano fermamente nell'infallibilità della ragione scientifica, il rapporto si era poi invertito nei suoi termini, e non la fede nella verità del Cristo o della scienza dominava, ma la miscredenza, così religiosa come scientifica. C'è appena bisogno di dire che ‛ragione scientifica' e ‛progresso' sono, nella prosa del Mounier, termini equivalenti e convertibili; e perciò non occorre aggiungere che ‛miscredenza scientifica' significa, in analisi estrema, rifiuto del progresso e delle sue illusioni. Ma, per quanto invece concerne la sostanza della questione, può ben darsi che, nella sua analisi ‛sociologica', il Mounier avesse ragione, o almeno non si sbagliasse del tutto; e nemmeno può escludersi che, spostando l'indagine agli anni più recenti e alle violente crisi che li hanno caratterizzati e ancora li caratterizzano, la sua conclusione di allora debba essere, a più forte ragione, confermata.

Il punto debole di quell'inchiesta, o supposizione, ‛sociologica' stava infatti in altro: nell'essere solo un'inchiesta, o supposizione, sociologica e, quindi, nell'esser condotta senza la consapevolezza che tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del nuovo secolo - quando, se pochi erano (o sembravano essere) i Leo Naphta, moltissimi erano per contro i Ludovico Settembrini, pronti a ripetere a se stessi e agli altri i versi carducciani dell'Inno a Satana - in realtà le tendenze principali del pensiero contemporaneo avevano già per intero corroso il fondamento teorico di quella fede, e avviata la coscienza europea verso il traguardo di ben più oscure e problematiche certezze. Può essere interessante ricordare che, ragionando di Comte, e muovendosi a tutto suo agio nella contemporanea tendenza della più raffinata sociologia a far crollare gli ultimi muri maestri della vecchia ‛filosofia della storia', Max Weber non esitava ad assegnare il suo pensiero a un'ormai esaurita filosofia, in sostanza ‛idealistica', della totalità. E, riprendendo la cruciale questione del progresso, che Comte aveva seguitato a considerare come l'accordo di base di una sinfonia, appunto, ‛totalizzante', distingueva il significato del concetto a seconda che in esso si vedesse il semplice ‟progredire differenziante", la ‟progrediente razionalità dei mezzi", l'‟incremento di valore". Fra queste tre diverse accezioni, Weber vietava che si facesse confusione. Fedele, anche qui, alla sua idea della Wertfreiheit scientifica, solo concetto legittimo dichiarava quello in forza del quale il progresso venisse preso, al di là di ogni assunzione assiologica, nel senso della ‛congruenza' del mezzo al fine.

Se avesse conosciuto il contrasto che, pochi anni dopo la sua morte, insorse, nel Wiener-Kreis, fra i rigidi assertori della Wertfreiheit, o ‛avalutatività', scientifica e Otto Neurath, il quale, per contro, temeva che da quell'atteggiamento ‛neutrale' provenisse, come Rudolf Carnap scrisse, più tardi, nella sua autobiografia, ‟aiuto e conforto ai nemici del progresso sociale", non solo avrebbe dato la sua approvazione ai primi; ma, nel pensiero di colui che protestava, avrebbe forse sottolineato il logoro pregiudizio che progresso e scienza fossero, in sostanza, e immediatamente, la stessa cosa, e che l'esercizio positivo dell'una bastasse a garantire l'attuazione dell'altro.

In realtà, senza nulla voler togliere alla sua individuale grandezza, e alla specificità della sua elaborazione metodologica, il concetto che ora Weber recava in campo, e con il quale così drasticamente colpiva al cuore il positivismo vecchio e nuovo, quel concetto veniva di molto lontano; e pur senza entrare nei particolari di un complesso sviluppo, è pur chiaro che presupponeva la lenta e, non di meno, inesorabile erosione del positivismo, la crisi delle scienze e della relativa gnoseologia, la filosofia dei valori, l'affermarsi, anzi l'essersi affermato, dello storicismo tedesco, non solo con la sua bruciante tensione tra mondo storico e ‛assolutezza', relatività e valori, ma anche, al fondo, con la sua ormai diversa immagine della realtà scientifica. È questo, come si è detto, un processo travagliato e anche intricato, che qui, purtroppo, non può essere indagato e deve, per contro, esser dato per noto: un processo costituito dai pensieri di filosofi diversi, Windelband e Rickert, Dilthey e Bergson, Husserl e lo Heidegger di Sein und Zeit (1927), e quindi, sul versante delle scienze naturali, dalle indagini di uomini (per fare solo qualche nome) come Mach e Avenarius, Poincaré e Duhem, Einstein e Planck, Bohr e Born. Ebbene, è osservazione più volte ripetuta (e qui da noi, in Italia, con particolare convinzione, da Carlo Antoni) che, fra la caduta della vecchia immagine scientifica dell'universo e il costituirsi della nuova fisica, da un lato, e, da un altro, la dissoluzione dell'idea di progresso, il nesso sia così stretto che in realtà niente si comprenderebbe di quest'ultimo fenomeno se l'altro, che ne costituisce la premessa, non venisse profondamente indagato e tenuto presente. Alla caduta della granitica obiettività della ϕύσις, garantita nella sua realtà in sé non meno che nelle ferree leggi regolanti il suo sviluppo, farebbe infatti riscontro, nella considerazione della storia, la distruzione della fede nel progresso, inteso come l'indice riassuntivo, e quasi simbolico, della sua razionale obiettività e necessità in svolgimento.

La tesi, in realtà, non è nuova; e fu in qualche modo formulata in concomitanza con il formarsi stesso del fenomeno ‛storico-spirituale' che essa descrive. Già nel 1922, in due capitoli centrali del suo Der Historismus und seine Probleme, non senza preoccupazione Ernst Troeltsch osservava che le dottrine della ‟relatività storica dei valori" presentano ‟un'indubbia analogia con la dottrina della relatività fisica, che oggi domina in tutto il mondo nell'impostazione problematica così fortemente potenziata da Einstein". Sembrava infatti al Troeltsch che la ‟relatività fisica" non fosse che la forma stessa dell'individualità, pur essa fisica, e cioè la ‟particolarità della posizione" dalla quale è necessario e inevitabile porsi ‟per stabilire di volta in volta e quindi calcolare il sistema dei riferimenti". E gli sembrava altresì che, come la relatività einsteiniana era tuttavia ben lungi dall'instaurare un generale ‟relativismo", privo di regole e di interna capacità di connessione, così a questa ‟relatività-individualità" della ‟posizione particolare" corrispondesse, in storia, l'individualità irriducibile, non però al tutto priva di ‟sistema", delle situazioni reali. Il rilievo del Troeltsch è importante; ma, a guardar bene, non del tutto sorprendente. Coglie, bensì, con precisione, un nesso; ma il nesso era ormai, per così dire, nelle cose stesse. Che quindi la novità della ‛rivoluzione' einsteiniana, e la sua decisiva rilevanza per le stesse Geisteswissenschaften, che una lunga tradizione di pensiero, procedente da Dilthey a Rickert (per non parlare dello stesso Windelband), aveva distinte, sia pure con diversa accentuazione categoriale, dalle Naturwissenschaften, non dovesse sfuggirgli, è ovvio.

E sebbene la sua idea che il teorico della relatività e quello della storia potessero andare d'accordo sul punto che l'‛individualità' costituisce come il luogo d'incontro fra il relativo e l'assoluto fosse, prima ancora che una fragile idea, una di quelle assicurazioni autoconsolatorie che i pensatori poco radicali sogliono formulare per non correre i rischi dell'abisso, era pur naturale che quella connessione tra fisica e storiografia gli apparisse ormai, nel 1922, come un ‛fatto'. La tesi di quella connessione con Einstein divenne del resto, in quel giro di anni, così comune, e fu così spesso ripetuta, che quasi si cristallizzò in una moda o in un topos. Nell'ambiente accademico e universitario tedesco un'idea non diversa da quella del Troeltsch fu ad esempio affermata nel Versuch einer Soziologie des Wissens, che è del 1924, da Max Scheler, ossia da un pensatore che apparteneva a un'altra scuola, avendo, com'è noto, studiato con Husserl.

Non il divenir moda di questa tesi è tuttavia, almeno in questa sede, importante. E se mai occorrerebbe insistere di più sul punto che alla dissoluzione dell'idea prima hegeliana e poi comtiana, o generalmente positivistica, del progresso, come più tardi al suo essere sostituita da una concezione ‛relativistica' e non più ‛unitaria' dello svolgimento storico, non contribuì tanto o soltanto la nuova fisica di Einstein: come già si è osservato, alla dissoluzione e sostituzione di quell'idea contribuirono anche, tra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX, la crisi ‛convenzionalistica' delle scienze e l'affermazione di quello che fu detto l'‛empiriocriticismo'. Si tratta, come già si è accennato, di una vicenda intellettuale di straordinario interesse, e così ricca di obiettive complicazioni interne che, di conseguenza, proprio manca l'animo di schematizzarne gli aspetti salienti in pochi tratti, convenzionali e affrettati. Basti averne richiamata l'importanza; e piuttosto si aggiunga che, quale che sia il nesso che lega Mach, Avenarius, Poincaré agli ulteriori sviluppi della fisica moderna einsteiniana e posteinsteiniana, è certo che la crisi dell'obiettivismo e del ‛sostanzialismo' scientifico è più che implicita, è anzi potentemente operante, nella logica che condusse, e presiedette, alla distinzione fra le ‛scienze della natura', o ‛nomotetiche' (se si vuole usare la terminologia di Windelband) e le scienze dello spirito, o ‛idiografiche' (sempre se si voglia usare la medesima terminologia). Sebbene, infatti, nel distinguere le une dalle altre, non solo i neocriticisti Windelband e Rickert ma anche Dilthey, assegnassero alle Naturwissenschaften gli stessi caratteri di obiettività, sistematicità, uniformità, rigida legalità, che il precedente pensiero filosofico e scientifico aveva riconosciuti nella natura ‛in se stessa', è vero tuttavia che, sia pure con oscillazioni e incertezze, il ‛campo' scientifico veniva ora ottenuto per la via non già dell'indagine metafisica, ma del ‛metodo', e, se così potesse dirsi, della pura disposizione gnoseologica (quale Kant, si riteneva, l'aveva intesa).

Si determinava qui, di conseguenza, quel medesimo capovolgimento di procedimenti che, come s'è visto, indurrà fra non molto Max Weber a sostituire all'idea comtiana del progresso obiettivo delle cose la tripartizione ‛metodologica' del suo significato e, più in particolare, la sua assunzione non già a valore in se stesso puro e assoluto, ma a criterio di ‛valorizzazione' relativo al campo determinato dell'indagine specifica. Che era poi niente altro che un trarre le conseguenze estreme dalle premesse che la tradizione del pensiero ‛storicistico', da un lato, ‛scientifico', da un altro, aveva stabilite. E se, nei confronti di quella tradizione, Weber certo si muoveva con la libertà e la spregiudicatezza che gli derivavano dalla sua straordinaria intelligenza, dalla ricchezza della sua cultura, nonché dal rigore scientifico intrinseco al suo talento, non meno importante della libertà, della spregiudicatezza e si dica pure dell'originalità è l'accordo con quella tradizione, del resto tante volte sottolineato.

Che, dunque, in quella così ricca temperie di discussioni di studi e di ricerche, il concetto del progresso non guidasse più i pensieri dei filosofi e le indagini degli storici, o degli ‛scienziati sociali', può vedersi assai bene, ad esempio, nella filosofia di G. Simmel; e ancor meglio, nella tormentata carriera intellettuale di uno storico come Fr. Meinecke, nella cui opera la fisionomia intellettuale dello storicismo tedesco è bensì presente insieme alle tante altre voci della cultura contemporanea, ma come trasfigurata dalla straordinaria sua finezza e sensibilità, da quel senso così acuto dell'‛inconciliabile' che, soprattutto in riferimento ad altri suoi contemporanei (si pensi, per contrasto, a Troeltsch), costituisce forse la ragione del suo fascino più profondo. In effetti, per l'intera sua vita che, essendo stata assai lunga (morì, più che novantenne, nel 1954), gli riserbò il non invidiabile privilegio di aver assistito, per due volte, alla ‛catastrofe' della Germania, Meinecke si aggirò inquieto e lucido fra le gravi aporie dello storicismo tedesco. Rimasto, fin quasi alla fine, sostanzialmente fedele alla lezione di Leopold von Ranke, e quindi estraneo, se non ostile, alla dialettica hegeliana, le epoche della storia non gli apparvero forse mai in diretto contatto con Dio o con l'assoluto; ma nemmeno gli apparvero connesse nel superiore disegno del progresso guidato dalla provvidenza, o dallo Spirito Assoluto.

Non insensibile alle preoccupazioni del Troeltsch, dominato anche lui dalla questione dell'assoluto e del relativo, dei valori e della storia, sia come interprete del pensiero politico nato dalla cruda lezione di Machiavelli sia come studioso, teorico e storico dello Historismus, visse i problemi dell'individualità a riscontro non solo della ‛causalità', ossia della ‛costrizione' entro la quale, e per la quale, i valori si realizzano nel tempo e nell'esistenza storica, bensì anche della millenaria tradizione del giusnaturalismo, che egli, com'è noto, definì la stella polare dell'Occidente, il supremo garante dell'assoluto. Nella sua opera forse più grande, Die Idee der Staatsräson in der neueren Geschichte, scritta all'indomani della prima ‛catastrofe' tedesca, e pubblicata nel 1924, genialmente aveva visto lo ‛storicismo' generarsi dal terreno stesso della ‛ragion di Stato'; e con estremo coraggio aveva lasciato insoluto il contrasto che in tal modo s'era determinato fra la ‛potenza' e la ‛moralità', il κράτος, come gli piacque di esprimersi, e l'ἔϑος, dichiarando impossibile la mediazione e impensabile la risoluzione. È probabile che in Die Entstehung des Historismus, che egli pubblicò nel 1936, quasi alla vigilia del secondo conflitto mondiale, il suo intento più profondo fosse di superare la crudezza estrema di quel contrasto, e di giungere infine al traguardo che, nella precedente opera, non aveva saputo toccare e aveva dichiarato non attingibile. Ma l'indicazione in Goethe e, quindi, in Ranke degli unici possibili superatori dell'aporia storicistica apparve subito così debole, e perplessa, che nessuno, e forse nemmeno lui, Meinecke, sarebbe stato sul serio disposto a considerar chiuso, in quel modo, il lungo dibattito. Tre anni prima di pubblicare il libro sullo storicismo, quando tuttavia già era profondamente immerso nei suoi problemi, in un saggio, Geschichte, Staat und Gegenwart, che certo non è il meno importante fra quanti ne dedicasse al problema della storia e della politica, era già giunto a vedere con chiarezza quanto problematica fosse, in realtà, la relazione nella quale cercava di mettere ordine; e postosi, ancora una volta, dinanzi alla questione del divenire, ‟che nel suo movimento tutto relativizza e tutto dissolve", ne concludeva che in quel flusso diabolico inevitabilmente si erano relativizzati e dissolti anche i due principali tentativi diretti a ‟padroneggiarlo", ossia il romanticismo, con la sua adorazione del passato, e l'‟ottimismo del progresso".

A superare le conseguenze negative di quel duplice esito catastrofico, Meinecke indicava appunto Ranke e, sopra tutti, Goethe che, nella tarda poesia che intitolò Vermächtnis, aveva cantato l'indistruttibilità del passato, l'immanenza del futuro nel presente, e concluso che l'eternità è l'attimo, in cui il tutto si raccoglie. Era questa, senza dubbio, una soluzione suggestiva e, nel suo motivo profondo, conforme all'ingegno di Meinecke, piuttosto intuitivo nelle conclusioni, che concettualmente rigoroso e ‛discorsivo'; e forse, in luogo di indicarne i problematici esiti teoretici, converrebbe metterlo a discreto confronto con il Goethe che, in quel medesimo giro d'anni, anche Thomas Mann delineò in Lotte in Weimar, e soprattutto con il celebre dialogo della carrozza, che chiude il libro. Sta di fatto che, come debole e concettualmente indeterminato appare il tentativo diretto a raccogliere e a risolvere nell'attimo, nell'eterno presente, le drammatiche questioni che con grande coraggio Meinecke aveva studiate nel loro profilo aporetico, così il momento più intenso e autentico della sua meditazione non in quel tentativo dev'essere indicato, bensì piuttosto nelle linee in cui, in questo saggio, egli respinse insieme Spengler e l'idea del progresso e, di fronte alla corrente infinita del divenire, ripeté le parole di Egmont: ‟Chi sa dove si va? Neppure ci si accorda da dove si è venuti!".

A parte il marxismo, nella cui varia tradizione soltanto G. Sorel (che del resto, com'è noto, aveva subito, fra le altre, la forte influenza di Bergson) si risolse, nel 1908, a parlare delle ‟illusioni del progresso"; a parte, dunque, il marxismo, nella cui logica, sia che si accentui il momento della necessità, sia che si accentui quello dell'iniziativa rivoluzionaria, l'idea del progresso non solo rimane salda, ma viene anche incarnata in uno speciale soggetto storico-sociale, il proletariato, non è forse paradossale dire che l'unica difesa di quell'idea, nella quale sia rinvenibile un forte impegno concettuale, sia stata fornita, nella prima metà del XX secolo, da Benedetto Croce. Da Croce, e non, ad esempio, da Bergson o, per fare il nome di uno scienziato-pensatore, che nessuno storico delle idee politiche, storico-sociali, filosofiche, può sognarsi di mettere al margine, da Sigmund Freud. Chi scambia l'évolution créatrice, l'élan vital, l'attingimento dell'intimo e del profondo ottenuto in alternativa alle operazioni dell'intelletto scientifico che, di necessità, interviene post festum, immobilizza, solidifica e quindi, al limite, spazializza, divide e uccide il vivant; chi scambia queste cose con lo storicismo (e non solo con quello di tradizione hegeliana e crociana, ma anche con l'altro, che discende dal neocriticismo e soprattutto da Dilthey); chi dunque opera questo scambio, o mostra di non sapere che cosa sia l'intuizionismo bergsoniano, o non sa che cosa (nelle sue varie tradizioni) sia lo storicismo. In realtà, malgrado la simpatia che, elaborando la sua personale filosofia della vita, Simmel dichiarò al pensiero di Bergson; malgrado la crisi della gnoseologia scientifica che entrambi questi indirizzi di pensiero riflettono in sé, è pur chiaro che l'interesse del filosofo francese non fu mai quello di elaborare l'Erlebnis di coscienza in una critica della ragione storica. I ‛dati immediati' della coscienza non hanno niente a che fare con la storia: rimangono, al contrario, del tutto inattinti da essa, che, nella sua forma gnoseologicamente compiuta, non può non ripetere il procedimento intellettualistico delle scienze.

Antipositivista in filosofia, Bergson è positivista nella visione del processo storico. E, al di là della critica delle scienze (per la quale, per altro, dall'empiriocriticismo e dallo specifico contributo di Bergson, Croce risaliva a Hegel e, in parte, a Schelling), questo spiega perché il filosofo italiano non apprezzasse mai in profondità il suo collega francese, che, a sua volta, sempre si disinteressò, come di Hegel, così del concetto puro e della dialettica. Si è molto discusso, com'è noto, sul rapporto intellettuale che strinse a Bergson Marcel Proust, così legato alle questioni del ‛tempo' e del ‛passato'; e l'impressione è che, nella negazione che quel rapporto sia stato sul serio specifico, e, per converso, nell'affermazione, il segno sia stato passato, cadendo nell'esagerazione. Ma poiché le ‛concezioni' dei due scrittori hanno certo qualcosa in comune, non sarebbe forse del tutto arbitrario considerare rivolti anche contro Bergson i duri rilievi critici con i quali, nel 1944, Croce prese posizione nei confronti dello ‟storicismo decadentistico", informante la Recherche proustiana.

5. Freud: il ‛disagio della civiltà'

È per lo meno opinabile se, in una storia dell'idea di progresso nel XX secolo, Freud debba essere compreso fra i suoi (molti) critici o i suoi (pochi) difensori. Nessuno, certo, sarebbe oggi disposto a ripetere sul suo conto le accuse infamanti di irrazionalismo o, peggio, di poco edificante tendenza all'esibizione degli aspetti più morbosi e turpi della natura umana, che furono frequenti e, forse, anche inevitabili, quando, uscendo fuori dai cenacoli degli specialisti, le sue teorie presero a circolare nei principali ambienti intellettuali europei. Persino lo scrittore che, nel già ricordato Die Zerstörung der Vernunft, vide irrazionalismo dovunque, e dovunque pretese di individuare i germi maligni della sua inevitabile, ulteriore degenerazione imperialistica, persino Lukács preferì astenersi dall'attaccare apertamente la sua opera; e, in un libro tanto voluminoso e ricco di informazione, o evitò di parlarne o, le rare volte che proprio non poté fare a meno di ricordarla, si studiò di includerla entro le più generali tendenze del pensiero europeo, stemperando in tal modo l'asprezza del giudizio negativo che, in caso contrario, ossia se avesse dovuto giudicarla in sé e per sé, avrebbe dovuto darne.

Eppure, come si diceva, non era stato facile, per Freud, trovare, non si dice credito o immediata comprensione, ma almeno onesto ascolto. E, come caratteristico, può esser citato, in questo senso, l'atteggiamento di Thomas Mann. Nel grande discorso su Freud und die Zukunft, egli non esitò a celebrarlo fra i grandi profeti novencenteschi di una più alta e pura Humanität, nonché dell'autentica liberazione umana. Ma ancora in Der Zauberberg (1924), per contro, aveva rappresentato la psicanalisi (chi non ricorda il dottor Krokowski e la sua ‟tana analitica"?) in termini di voluta ambiguità, che l'ironia e l'autoironia non erano sufficienti a riscattare nelle più serene regioni dell'accettazione razionale o, quanto meno, della simpatia critica.

In effetti, se, limitando l'analisi alla questione specifica del progresso, l'opera di Freud viene interrogata perché, al di là delle facili apparenze, sia possibile coglierne la specifica collocazione storica, l'impresa appare subito ardua. La forte componente pessimistica del suo pensiero reagisce sulla sua tendenza alla liberazione, a quella sorta di radicale catarsi che, innegabilmente, costituisce come l'anima della teoria e della prassi psicanalitica. E vi reagisce non già per la banale ragione che il pessimismo appartenesse alla particolare struttura psichica dell'individuo Freud, e nessuna analisi o autoanalisi fosse riuscita a superarne gli aspetti deteriori o paralizzanti. Vi reagisce bensì per una ragione, che è intrinseca alla teoria: una ragione contro la quale, in Eros and civilisation, si rivolgerà l'appassionata polemica di Marcuse, e quindi, in parte sulle sue orme, in parte su quelle di Fromm, dei cosiddetti freudiani di sinistra: ossia, per dirla in breve, vi reagisce per la ragione strutturale, e niente affatto emozionale o psicologica, che la ‛civiltà', quale Freud la intende, non può mai superare del tutto il ‛disagio' proveniente dalla repressione degli istinti: e la civiltà è, innanzi tutto, repressione degli istinti. Se infatti gli istinti venissero liberati; se, nella radicale distruzione degli strumenti stessi dell'inibizione, essi agissero in totale libertà, la distruzione si estenderebbe dovunque, niente più riuscirebbe a rimaner saldo, lo stesso Eros, al quale Freud assegna il compito primario della vita e della sua continua creazione, si trasformerebbe nel suo contrario, nell'altra grande ‛potenza celeste', l'istinto aggressivo della morte. In tal modo, gli uomini regredirebbero a quello stato precivile, nel quale, come Freud dice con molta nettezza, la libertà è assoluta e pure non vale nulla; rientrerebbero in una condizione in cui ‟le relazioni sociali sarebbero soggette all'arbitrio dei singoli, e cioè il più forte fisicamente deciderebbe secondo i suoi interessi e moti pulsionali" (v. Freud, 1929; tr. it., p. 585).

E chi perciò comprenda che la civiltà non può, a cuor leggero e in un rinnovato delirio ‛estetico', essere abbandonata alla mercé degli istinti e delle pulsioni incontrollate, sotto il cui dominio il destino degli uomini sarebbe in definitiva, a giudizio di Freud, di morte e di annientamento, deve altresì ammettere che anche il ‛disagio', che alla ‛civiltà' è intrinseco, è, in qualche modo, da accettarsi come un destino, un duro, ma meno selvaggio, destino. Certo, la sua accettazione non può essere assoluta, perché alla potenza incontrastata dell'inibizione repressiva corrisponde l'inversa potenza della neurosi, e dell'infelicità. Ma, spostando la ‛meta' delle pulsioni più aggressive e distruttive e trasformando la ‛repressione' in ‛sublimazione', è la stessa civiltà che provvede a mantenere il suo faticoso equilibrio e a garantire la sua propria continuità e sopravvivenza.

Era questa, come si vede, una soluzione non solo di compromesso, ma altresì ‛aristocratica', adatta, poiché ‛sublimazione' significa saper contribuire ai superiori valori dello ‛spirito', ai pochi e non ai molti. Ma, come che sia di ciò, e senza discutere qui la difficile questione che, nel pensiero di Freud, concerne il passaggio (e la possibilità, per la scienza, del passaggio) dall'analisi dell'anima individuale all'analisi dell'anima sociale, sta di fatto che la sua visione della civiltà combina insieme un segreto impulso utopistico, una perplessa, cauta, certo contraddittoria, ma pur evidente concessione alla ‛speranza' (‟gli uomini adesso - scrisse nella pagina finale di Das Unbehagen in der Kultur, tr. it., p. 630 - hanno esteso talmente il proprio potere sulle forze naturali, che giovandosi di esse sarebbe facile sterminarsi a vicenda, fino all'ultimo uomo. Lo sanno, donde buona parte della loro presente inquietudine, infelicità, apprensione. E ora c'è da aspettarsi che l'altra delle due ‛potenze celesti', l'Eros eterno, farà uno sforzo per affermarsi nella lotta con il suo avversario parimenti immortale") con la ferma convinzione che, in quanto ‛eterne' ed eternamente contraddittorie, le ‛potenze celesti' mai potranno essere sintetizzate in un nesso meno imperfetto e precario di quello che la Kultur offre agli uomini. Il progresso, che, ponendo in atto le sue tecniche di liberazione e poi di controllo degli istinti, l'umanità realizza, non si costituisce come un reale ‛progresso' rimane una ‛tecnica'; e, in quanto tale, rinvia piuttosto ai valori psicologici (e mai a pieno realizzabili) della serenità interiore, della felicità, della pace e dell'equilibrio che non alle progredienti conquiste dell'umanità, che, da un suo rappresentante a un altro, tramanda il testimone della Kultur, e così ne approfondisce i caratteri e ne scava l'essenza.

In questa complessa tendenza del pensiero di Freud a trapassare, senza realmente poter trapassare, in utopia della completa ‛liberazione' umana, la concezione che egli ebbe del progresso viene alla luce con i suoi caratteri tipici, e insieme con i suoi forti limiti. Lasciamo da parte qui, dove non potrebbe essere trattata con la necessaria precisione, la non facile questione del debito che, nell'elaborare quell'idea, egli mantenne nei confronti del pensiero positivistico: il paragrafo conclusivo di Die Zukunft einer Illusion (1927) è, da questo punto di vista e per la migliore determinazione del problema, eloquente. Ma non può cadere dubbio sul punto che una concezione come questa suppone una forte volontà liberatrice; e, in questo senso, non aveva torto Thomas Mann quando, avendo forse in mente il finale del Faust goethiano, paragonava Freud al filantropico bonificatore di gigantesche paludi, al fondatore della libera città degli uomini felici. Ma, a parte gli elementi strutturalmente insuperabili che, come si è visto, nel suo pensiero contrastano la realizzazione di quell'ideale, e lo condannano a una vita dimidiata e incerta, ‛utopia' significa anche qualcosa come la volontà di uscir fuori dalla specifica determinatezza della storia; e, in quanto tale, implica, su ciò che è storico, un giudizio ispirato a fondamentale pessimismo. In effetti, agli inizi della civiltà, Freud non pone un atto generico di repressione o di controllo dei più violenti e pericolosi istinti distruttivi; pone invece, com'è noto, il sanguinoso delitto che gli uomini dell'orda primitiva fecero del padre-re, che aveva loro dato la vita. E come in quel delitto originario (che sempre Freud considerò un atto simbolico di fondazione e, insieme, un ‛evento' storico) si esprimeva la fondamentale ambivalenza del figlio nei confronti del padre, così, da un lato, la storia conseguente a quell'atto veniva a configurarsi come storia del rimorso, del senso di colpa, dell'espiazione attraverso il divieto, mentre da un altro l'inibizione dell'istinto a ripetere il gesto omicida nei confronti di chi aspirasse a riprendere per sé il ruolo onnipotente del re-padre si identificava nel divieto rivolto a quell'aspirazione stessa che, in quanto tale, è iscritta nell'animo di ciascuno, ed è una sua nota ineliminabile.

Certo, delitto originario e civiltà, uccisione del padre-signore e repressione della colpa; tutto questo costituisce il patrimonio deteriore della storia, il suo aspetto inevitabilmente repressivo e violento. Ma il suo aspetto positivo, le conquiste dell'arte e della scienza, la filosofia, la stessa religione, questo aspetto ha pur sempre la sua radice in quel terreno infido, e non può esserne distaccato in un sogno ‛idealistico' di perfezione assoluta. Si è più volte notato, e l'osservazione è giusta, che sempre più acutamente, con il passare degli anni, Freud venne ‛identificando' se stesso nella figura di Mosè, nel legislatore che aveva trasmesso al popolo eletto le leggi che, davanti ai suoi occhi, il Signore aveva incise, con il fuoco, sulla dura pietra. E anche in queste pagine si è parlato del segreto anelito alla liberazione totale, che anima la sua dottrina. Ma, per un verso, la storia si era pur svolta, come storia della civiltà, a partire da quegli eventi insieme strutturali e storici; sì che, per un altro, mai il legislatore ‛analitico' avrebbe potuto andar oltre quell'instabile compromesso fra ‛repressione', e ‛sublimazione' che è, per Freud, l'unico possibile medium delle pulsioni fondamentali dell'anima. La natura condiziona la civiltà, la limita, ne determina il destino che, fra repressione e sublimazione, è necessariamente ambiguo e contraddittorio (si pensi, per fare un esempio, alla veloce, ma significativa, osservazione critica che, in Das Unbehagen in der Kultur, Freud mosse al marxismo); e l'uomo freudiano appare perciò segnato non dalla perfettibilità illimitata, della quale avevano parlato e sognato gli illuministi, non dalla capacità, che Hegel gli assegnava, di riattingere nel fondamento l'assoluto e la libertà, bensì piuttosto da una sorta di insuperabile peccato d'origine, Solo in parte, infatti, riscattabile nella forma di una modesta, intermittente e saltuaria ‛felicità'.

6. Problematicità della posizione crociana

Si può sostenere (e, per la verità, l'abbiamo già sostenuto) che, maturata nel primo decennio del XX secolo e poi venuta al confronto delle grandi tragedie del nostro tempo, la filosofia di Benedetto Croce costituisca una delle poche affermazioni esplicite del ‛progresso' che si siano avute nel corso di un ‛evo storico' che, nella sua essenza, sembra essersi consacrato alla sua negazione. Nell'accingerci a trattarne con la dovuta brevità, due vie si presentano. La prima, in apparenza la più facile, consiste nel passare in rassegna le sue dichiarazioni esplicite; e potrebbe sinteticamente concretarsi nell'analisi del saggio che, negli ultimi anni della sua vita, nel 1947, il filosofo dedicò a Il progresso come stato d'animo e il progresso come concetto filosofico. Ma, per comprendere fino in fondo l'intreccio teoretico da cui le ‛dichiarazioni esplicite' provengono, percorrere l'altra via è inevitabile. E quest'ultima passa attraverso il ‛sistema', implica i suoi concetti fondamentali. Le due vie non costituiscono, di conseguenza, altrettante alternative reali. Non consentono una scelta. Poiché la seconda è, in sostanza, il fondamento della prima, è quella, non questa, che conviene percorrere. E allora si consideri in breve che se, per un verso, la storia appare a Croce come la realizzazione stessa del valore e della libertà, tale realizzazione non si svolge, come accadeva in Hegel, su un piano necessariamente scandito in tempi determinabili a priori.

La libertà è, infatti, bensì valore che si realizza, ogni volta raggiungendo una più complessa e profonda determinazione della sua essenza: è valore, tuttavia, che si realizza nell'infinità non seriale degli atti che costituiscono la vita dello spirito, e ogni atto è ‛progresso', perché il ‛disvalore' che esso, il valore, reca in sé (essendone insidiato), è stato vinto e ricomposto nella prospettiva assiologica che gli è propria. Di qui, come si vede, il duplice volto che la concezione cr0ciana del progresso assume. Questo volto è, almeno per certi aspetti, ancora hegeliano, perché progresso e ‛assoluto' vengono fatti coincidere nella specificità degli atti. Ma è poi, per un altro aspetto, decisamente antihegeliano, perché progresso e ‛assoluto' coincidono fuori della ‛serialità' intrinseca a ogni ‛filosofia della storia'. Ebbene, non è singolare che uno dei più conseguenti teorici della ‛positività' del reale storico che il XX secolo abbia prodotto affermasse bensì, con convinzione profonda, la realtà-positività del progresso, ma nell'atto stesso in cui, fin dalle fondamenta, dissolveva la sua premessa ottocentesca: la ‛filosofia della storia'?

Per questa via, da destino onto-teleologico, inesorabilmente scandito nei gradi del suo sviluppo necessario, il progresso diventava qualcosa come l'ideale etico dell'umanità, il Sollen, che dev'essere realizzato perché la malattia mortale dell'inerte non essere, da cui sempre l'essere è minacciato, venga superata e vinta. Troppo attentamente, tuttavia, Croce aveva meditato il pensiero di Hegel, perché la dicotomia dell'essere e del non essere potesse riprodursi, nel suo pensiero, come permanente tensione fra il valore e la sua realizzazione, come puro ‛dover essere', solo in parte traducibile nella realtà. La realizzazione del Sollen appartiene, infatti, al ritmo necessario del valore, sempre affermantesi nell'eterna sua lotta contro il disvalore; sì che, da questo punto di vista, non solo in ‛positivo' costituisce a se stesso la garanzia trascendentale della sua propria vittoria ma, come in quella lotta il valore che realizza se stesso è tanto ‛potenza del fare' quanto ‛predicato' dei giudizi mediante i quali il reale storico viene appreso e qualificato, così s'intende come di questi non possa mai cogliersi, a rigore, se non l'atto emergente del valore e della libertà.

Chi, tuttavia, cerchi di guardare più a fondo nei tormentosi problemi dai quali questa filosofia fu travagliata negli anni, non tarda a comprendere che la sua intima tensione non è costituita, come tante volte s'è detto, dal contrasto fra una concezione volta a rappresentare la storia nei termini dell'assoluto hegeliano e un'altra concezione, umanistica e liberale, volta a mettere l'accento sulla specifica libertà e responsabilità dei soggetti concreti. La tensione intrinseca a questa filosofia si ritrova piuttosto nel contrasto per il quale la storia viene, per così dire, pensata due volte: una volta secondo l'intreccio delle categorie distinte, che costituiscono le ‛potenze del fare', e un'altra secondo la logica di un'ulteriore sua conversione ontologica nelle categorie costitutive dell' ‛accadimento', che è formato dagli atti concreti dello spirito, ed è pur sempre superiore a essi. Si determinava, in questo punto assai delicato del pensiero di Croce, un violento contrasto non già fra la razionalità del soggetto assoluto e quella intrinseca ai soggetti individuali e concreti; bensì, piuttosto, fra la razionalità dello spirito, connesso nel sistema delle sue relazioni interne, e la storia, colta quasi nella sua dimensione di razionalità-necessità sopraspirituale. Un contrasto complesso e problematico, che si determinò presto nella struttura della ‛filosofia dello spirito' e del quale, pur senza mai affrontarlo in forma esplicita e diretta, Croce ebbe coscienza e in tutti i modi cercò di venire a capo. Un contrasto, tuttavia, che, come la ‛talpa' alla quale Amleto aveva paragonato lo ‛spirito' del padre, a tal punto seguitava ad agire nelle profondità del suo pensiero da costringere, alla fine, il filosofo ormai vecchio ad atteggiare la realtà nelle forme di una cruda dialettica fra la vitalità ‛positivo-negativa' e i superiori valori dello spirito, l'arte, la filosofia, la moralità, ridotti, in un'impressionante pagina del 1946, al fiore che, nato sulle dure rocce, un nembo avverso può spezzare e disperdere nel turbine del nulla.

7. Toynbee: le ‛sfide' senza ‛risposte'

I primi tre volumi della gigantesca opera che Arnold J. Toynbee dedicò a A study of history uscirono nel 1934, il quarto e il quinto nel 1939, gli altri, dal sesto al decimo, diversi anni dopo la conclusione della seconda guerra mondiale, nel 1954, quando la fama dell'autore aveva ormai raggiunto il suo grado più alto, se, addirittura, non è giusto dire che stesse quasi declinando. Come Spengler, dunque - al quale, a ragione o a torto, inevitabilmente il suo nome è stato tante volte avvicinato - aveva concepito la prima parte di Der Untergang des Abendlandes negli anni precedenti lo scoppio del primo conflitto mondiale, così anche l'opera del Toynbee fu pensata, e in parte scritta, qualche tempo prima che la seconda guerra mondiale rendesse di particolare attualità il suo contenuto, e di essa facesse un caso letterario alquanto clamoroso. In realtà, l'acuta meditazione delle conseguenze della prima guerra mondiale, la crisi ormai cronica degli equilibri politici, la decadenza, in tanta parte d'Europa, delle istituzioni liberali, l'affermazione dei fascismi a Occidente, del comunismo sovietico a Oriente: tutto questo doveva indurre un uomo come Toynbee, che della storia non aveva un'esperienza soltanto libresca e, nell'ambito dell'Impero britannico molto aveva viaggiato, osservato e studiato, a chiedersi innanzi tutto quali prospettive potessero riconoscersi alla potenza del suo paese, che pure non era soltanto uno Stato nazionale, era una comunità imperiale che, come s'è detto, egli non si era limitato a osservare da una qualsiasi finestra di Piccadilly Circus. Pur avendo esordito come studioso di storia antica (la guerra del 1914 lo sorprese mentre leggeva Tucidide ai suoi studenti del Balliol College, a Oxford), non aveva mai condiviso le ossessioni degli storici professionali per lo ‛specifico' e il ‛determinato' (nemmeno per lo specifico e il determinato nazionali); e sollecitato dall'esperienza della grande crisi europea, incalzato dal problema della finis Europae e dello stesso Impero britannico, il suo sguardo si fece poco alla volta così acuto, lungo e largo che alla sua voluntas videndi un continente non bastò più, e Toynbee diventò uno storico-filosofo della civiltà.

Il paragone con la profezia antiprogressista di Spengler, la cui eco non si era ancora spenta in Europa quando Toynbee si accinse a scrivere i primi volumi del suo grande libro (e basti pensare alla testimonianza che, al riguardo, può rinvenirsi nel celebre In de schaduwen van morgen, che è del 1935, di Johan Huizinga), non poteva naturalmente non impensierire e comunque preoccupare uno studioso come lui che, non solo prospettava le questioni della storia in un quadro altrettanto ampio di riferimenti e di paragoni; non solo faceva consistere il suo metodo, oltre che nel ‛paragone', a cui le civiltà non potevano sottrarsi, con le forze che le ‛sfidavano' e alle quali esse dovevano ‛rispondere', nel confronto fra le civiltà stesse, fra le loro storie e i loro individuali destini, ma, per queste stesse ragioni, non poteva non aver sempre dinanzi a sé, come il massimo dei problemi, le varie forme della decadenza.

Assai più civile e temperato di Spengler, anche se filosofo egli stesso alquanto mediocre, e non altrettanto disposto a simpatizzare con le varie ‛immobilità' bizantine che la storia potesse recare nel mistero del suo grembo, Toynbee ebbe cura di non drammatizzare l'indubbio naturalismo e il non meno indubbio determinismo dal quale il suo schema della ‛sfida' (challenge) e della ‛risposta' (answer) fu, fin dalla prima parte del primo volume della sua opera maggiore, caratterizzato. Fedele alla tradizione dell'empirismo inglese, sempre, infatti, egli si rifiutò di precostituire alla storia, quasi si trattasse di un destino a priori, le uniformità che viceversa, pretendeva di ricavare dai suoi andamenti concreti, specificamente osservati. E in una delle lectures che, più tardi andarono a costituire il volume che intitolò Civilisation on trial, non senza qualche goffaggine concettuale (invano contrastata dall'eleganza della sua mondanità oxoniense), cercò di pensare insieme e di presentare come ‛compossibili' tanto la ripetizione della storia, conseguente, come diceva, ‟al ritmo generale dell'universo", quanto la possibilità di prosecuzione e di sviluppo, affidata, con molta buona volontà, al lavoro creativo degli individui. ‟In questa luce - scriveva - l'elemento reiterante della storia si rivela come uno strumento per la libertà della creazione, e non come l'indizio che Dio e gli uomini sono gli schiavi del fato".

In effetti, se la volontà di non apparire succube dello schema spengleriano, e soprattutto dell'equivoco universo di valori che ne derivava, si esprime ben chiara nelle pagine dello storico-filosofo inglese, sarebbe difficile tuttavia, capire che cosa egli intendesse per ‛ritmo dell'universo', e quale intrinseca fenomenologia del creare umano gli si fosse formata nella testa. Ma è certo tuttavia che se, quando fosse bene ispirata (non si sa, per altro, da chi e da che cosa), la creatività umana poteva assumere sopra di sé il compito di ritardare il disgregarsi di una civiltà, l'osservazione empirica della storia offriva, per contro, il desolante spettacolo di ‛sfide' rimaste senza ‛risposta', e perciò di civiltà che, giunte al paragone, non avevano saputo né resistere né trasmettere alle forze nuove ed emergenti l'intatto patrimonio dei loro valori più alti. In tal modo, proprio quello che l'antispengleriano Toynbee voleva fosse considerata come semplice osservazione del puramente accaduto diventava la condizione necessaria e sufficiente di un concetto deterministico dell'accadere. Il verdetto delle cose non confortava le possibilità dello spirito creatore o, più modestamente, della creatività umana; e l'a posteriori toynbiano finiva così per configurare un'inclinazione empirica del tutto simile alla ‛necessità', una ‛tendenza' talmente inesorabile e ‛verificata' da non aver molto da invidiare alla più bronzea delle leggi. Si è detto che gli ultimi volumi di A study of history, e anche le altre opere pubblicate nel dopoguerra, abbiano accentuato l'inclinazione di Toynbee verso la religione, inducendolo a cercare motivi di sicurezza, di salvezza o almeno di speranza nei grandi movimenti della spiritualità umana che, come, ad esempio, il cristianesimo, accompagnano i giganteschi crolli delle civiltà. Ed è vero.

Ma come sarebbe errato pretendere che questo esito non fosse se non implicito nella prospettiva che Toynbee cominciò a render nota già alla metà degli anni trenta, così sarebbe assurdo non vedere che, mantenendo la considerazione delle religioni sul piano della storia che le aveva generate, anche quella speranza doveva pur sempre risentire della pessimistica visione dell'accadere umano, che alla fine aveva imposto la sua necessità. E questa è la ragione per la quale, malgrado la ricchezza dei suoi temi interni e il suo persistente empirismo, anche la ‛filosofia' che Toynbee elaborò della storia può essere considerata come un documento significativo dell'‛antiprogressismo', di cui è così ricco il pensiero di questo secolo.

8. L'antistoricismo odierno. Considerazioni conclusive

A pochi anni dalla morte del suo autore, il maggior problema che questo ‛studio della storia' impone agli studiosi non è quello del suo significato intrinseco che, dopo tutto, sembra essere abbastanza chiaro, ma quello bensì delle ragioni per le quali di Arnold Toynbee oggi quasi non si parla più. E, com'è chiaro, a risolvere questo problema, non varrebbe invocare la volubilità delle mode, i ritmi spietati e stordenti con cui la moderna società di massa, e l'industria culturale, condannano all'oblio quello stesso che per anni aveva costituito uno dei suoi nutrimenti fondamentali. Se, in luogo di queste vuote generalità, si volesse cercare di indicare una ragione seria e razionalmente afferrabile, a spiegazione del fatto dovrebbe forse invocarsi l'impressionante ondata antistoricistica che, preparatasi già prima dello scoppio del secondo conflitto mondiale, è ora così poderosa e travolgente che niente più sembra resisterle: non solo lo storicismo, ma, quel che importa di più, la storia stessa. E potrebbe anche aggiungersi questa ulteriore considerazione, che in realtà sembra essere la più importante: che, come nei primi decenni del secolo l'attacco concentrico sferrato contro l'idea di progresso si era pur sempre mantenuto sul terreno privilegiato della storia, oggi non è già una specifica teoria del divenire positivo delle cose a essere sotto accusa, ma il divenire stesso, la storia, dunque, nel suo inevitabile carattere di svolgimento, o, meglio ancora, la storia come propriamente si è svolta dal momento in cui di storia si può e a rigore si deve parlare.

Se non fosse così, se a questa ‛fonte' più profonda dell'antistoricismo contemporaneo non sapessimo dirigere lo sguardo, nemmeno allora potremmo spiegare uno dei dati più notevoli di questi ultimi tempi: e cioè il ritorno di Nietzsche, un ritorno imponente e impetuoso, che in realtà riguarda non soltanto coloro che esplicitamente lo propongono, ma talvolta, in forma indiretta, gli stessi marxisti che, anche quando non fossero stati disposti a condividere fino in fondo l'estremismo interpretativo di Lukács, fino a qualche anno fa avrebbero considerato addirittura ingiurioso che qualcuno sottolineasse la possibilità di un loro incontro con il teorico-profeta del Wille zur Macht. Non è questa la sede in cui un fenomeno così singolare, e ricco di conseguenze, possa essere indagato nelle sue ragioni e diagnosticato, appunto, nelle sue conseguenze. Ma non ci vuole molto acume, basta un minimo di riflessione, per comprendere che questo incontro non si sarebbe mai verificato se il terreno non fosse stato a lungo preparato dall'antistoricismo di cui si è parlato e che, presente da decenni nella coscienza dell'Europa, solo da qualche anno ha preso a svolgersi nella sua potenza distruttiva. Deriva dall'operante presenza di quel motivo, il quale a sua volta trova continuo alimento nella crisi delle grandi certezze, non solo borghesi, ma altresì proletarie e socialiste, nella paurosa ondata di sfiducia che i paesi dell'Est europeo hanno versata su chi, in Occidente, guardava a essi come a un modello, nei velocissimi spostamenti di potenza verificatisi in un mondo che sempre di più sembra aver perso la capacità di decifrarsi e di interpretarsi, deriva dunque dall'operante presenza di quel motivo se, in questo grande deserto nichilistico, che ha inaridito ogni fiore del suo precedente sapere, Marx e Nietzsche, nel pensiero dei quali, fin dall'inizio degli anni quaranta, Karl Löwith aveva indicato i due esiti opposti della grande crisi cristiano-borghese seguita al tramonto della filosofia hegeliana, si siano riavvicinati, scambiandosi concetti e motivi. E di questo tema antistoricistico (che ha oggi tante e così significative espressioni in campi diversi: basti pensare, per fare un solo esempio, a Cl. Lévi-Strauss e alla sua negazione ‛strutturalistica' della storia) non si saprebbe indicare altra autentica paternità all'infuori di quella heideggeriana.

Per quanta influenza, a partire, grosso modo, dalla metà degli anni trenta (quando, per citare qualche esempio, Croce pubblicava nella ‟Critica" i capitoli de La storia come pensiero e come azione, Meinecke si accingeva a stampare Die Entstehung des Historismus e Toynbee i primi volumi di A study of history), il pensiero dell'autore di Also sprach Zarathustra possa aver esercitato sull'autore di Sein und Zeit, è un fatto tuttavia che il Nietzsche che oggi torna nella cultura europea non solo non è pensabile senza Martin Heidegger, ma, in modo specifico, senza la sua interpretazione della metafisica come nichilismo e la sua concezione della storia come del rivelarsi e del subito obliarsi dell'Essere. Non era ancora mai avvenuto, nella millenaria storia dell'Occidente, che l'‛evoluzione' delle cose fosse indicata come progressiva ‛involuzione' dell'essenza e quindi come destino di annientamento; che l'intero lavoro umano fosse prospettato come l'alienante produzione di tecniche volte non alla rivelazione, ma all'utilizzazione-distruzione dell'essere, e che, annunziatasi nelle ‛parole' di Anassimandro, di Parmenide, di Eraclito, in qualche verso di Sofocle e di Eschilo, già con Platone e, soprattutto, con Aristotele, dichiarata incapace di comprendere il rapido balenare della sua verità, la ‛filosofia' fosse inclusa nelle prospettive dell'oblio e del nichilismo. C'est la faute à Heidegger, dunque? Ma, in realtà, qui non è questione di colpe, e questo non è, in ogni caso, un tribunale autorizzato a pronunziare arroganti condanne moralistiche. Per quanto profondo possa essere il dissenso che le sue tesi suscitano, Heidegger è pur sempre un grande pensatore, degno di studio critico e severo. E sebbene nella loro arbitrarietà, e nella provocazione antistoricistica che le sottende, le sue letture dei σοϕοί arcaici possano a volte riuscire inadeguate e persino generiche, e quelle dei moderni non abbastanza radicali, egli ha posto problemi che debbono essere non già respinti con gesti di inutile sdegno, ma affrontati e studiati fino in fondo. Il problema dell'essere è anche problema del divenire, e della storia; e al fondo della storia seguita pur sempre a intravedersi, di necessità, l'antica quaestio del progresso.

(V. anche filosofia, ideologia, marxismo, nichilismo, storia, storicismo).

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