Presidente della Repubblica

Libro dell'anno del Diritto 2015

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Presidente della Repubblica

Giulio Maria Salerno

Nel corso dell’esperienza repubblicana il Capo dello Stato, immaginato dal costituente come una sorta di “re (elettivo e temporaneo) che non governa”, ha assunto un ruolo non facilmente ricostruibile in modo univoco. Con gli ultimi Presidenti le possibilità di intervento del Capo dello Stato si sono accentuate, sino a far parlare, nel caso di Napolitano, di presidenzialismo di fatto. Se molteplici sono le ragioni dell’espansione del ruolo presidenziale, non può dirsi che la forma di governo parlamentare sia stata sovvertita. Diversamente, si tratta di un’evoluzione consentita dall’elasticità della Costituzione e determinata certo dalle capacità proprie del Presidente, ma soprattutto dalla crisi, se non dalla delegittimazione, degli altri attori del quadro politico istituzionale.

La stessa rielezione del Presidente, avvenuta per la prima volta nel 2013 in un momento di particolare difficoltà del sistema, è ulteriore testimonianza di questo processo.

La ricognizione

Nel corso dei lavori preparatori della Costituzione il Presidente della Commissione dei settantacinque, Meuccio Ruini, così descriveva la figura del Presidente della Repubblica: «Egli rappresenta e impersona l’unità e la continuità nazionale, la forza permanente dello Stato, al di sopra delle fuggevoli maggioranze. È il grande consigliere, il magistrato di persuasione e di influenza, il coordinatore di attività, il Capo spirituale, più ancora che temporale, della Repubblica. Ma perché possa adempiere queste essenziali funzioni deve avere consistenza e solidità di posizione nel sistema costituzionale». Insomma, un “arbitro supremo” cui spetta il compito di «regolatore ed equilibratore fra tutti i poteri ed organi dello Stato». È in questa prospettiva, allora, che va letto l’art. 87 Cost., là dove si prescrive che il Presidente «è il Capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale» ed è titolare di poteri rilevanti che lo pongono al centro di una fitta rete di rapporti con gli altri organi costituzionali.

Egli è Capo dello Stato proprio in quanto rappresenta l’unità nazionale e rappresentare questa unità non è un compito puramente simbolico, né una funzione come le altre. Costituisce l’essenza stessa del ruolo del Capo dello Stato1, si estrinseca nell’esercizio delle altre specifiche funzioni a lui attribuite, ma nello stesso non coincide con i singoli poteri ad esso spettanti2. Compito fondamentale del Capo dello Stato, infatti, è quello di garantire l’unità e la continuità dello stato (rectius della Repubblica): rappresentare l’unità nazionale, insomma, è la bussola che deve guidare l’uso di tutti i suoi poteri.

La qualificazione più corrente del ruolo del Presidente, che è stata ripresa anche nel messaggio rivolto alla Camere riunite dal Presidente Napolitano in occasione del suo primo insediamento nel 2006, è quella di “garanzia”. Nell’aprile del 2013, pronunciando il discorso per il suo secondo insediamento, lo stesso Napolitano ha aggiunto di voler fungere «tutt’al più, per usare un’espressione di scuola, da fattore di coagulazione» tra le forze politiche in competizione.

Ma, come è stato notato3, per dare un senso più preciso alla funzione di garanzia presidenziale è necessario evidenziare le finalità sottese ai suoi numerosi poteri, e cioè assicurare il buon funzionamento del complessivo sistema costituzionale in base ai valori e ai principi della Costituzione. Il che coincide nella sostanza alla predetta definizione di “grande regolatore del gioco costituzionale”. Il Presidente è quindi al centro di una rete di rapporti politici e la sua è un’opera di intermediazione politica. Come si è detto4, egli non può “essere parte”, ma può “prendere parte” alle vicende politiche. Questa sua partecipazione però si caratterizza per il fatto di essere finalizzata non a favorire qualcuna delle parti che lottano nell’arena politica, ma a tutelare l’ordinato svolgersi della contesa secondo le procedure ed in vista del raggiungimento delle finalità stabilite dalla Costituzione ed in consonanza con i valori in essa incorporati.

Il cosiddetto potere neutro impersonato dal Presidente della Repubblica è tale non perché le sue decisioni non abbiano valenza politica, ma perché queste non esprimono un indirizzo politico di parte e sono rivolte alla tutela dell’unità, della permanenza e dell’efficiente funzionamento dell’ordinamento costituzionale. Si può quindi parlare non tanto di una generica funzione di garanzia del Presidente, quanto, più esattamente, di garanzia politica.

Il Presidente per le funzioni di cui è titolare è al centro della politica nazionale e agisce egli stesso alla maniera di un soggetto politico, ma è tuttavia posto in una posizione, quella di rappresentante dell’unità nazionale, che lo colloca al di sopra delle parti politiche e sociali.

A quanto detto si aggiunga che, non solo la Costituzione non ha chiarito quali atti presidenziali sono suoi propri e quali invece il frutto della volontà di altri organi costituzionali che egli rappresenta all’esterno, e per questo motivo, si è anche detto che la figura del Presidente è strutturalmente ambigua5, ma anche il fatto che il Presidente può esercitare in concreto la sua influenza mediante le cd. esternazioni.

La manifestazione pubblica delle sue opinioni, cioè, avviene in modo multiforme e nelle occasioni più disparate, da discorsi ufficiali a comunicati stampa, a interviste e dichiarazioni radiotelevisive.

La prassi costituzionale ha così mostrato che lo spettro dell’azione del Presidente può essere molto ampio in funzione di un elemento che condiziona in fatto lo sviluppo del ruolo del Capo dello Stato nel regime parlamentare: le condizioni del sistema politico. Si è parlato di ruolo “a fisarmonica” del Presidente della Repubblica italiana e si è notato che tutti i Presidenti hanno forgiato i propri poteri e il proprio ruolo in relazione alle domande e alle esigenze che il sistema politico-istituzionale poneva loro nei particolari periodi storici in cui hanno operato6.

Quanto detto può essere dimostrato da una sia pure sommaria ricognizione di come i diversi “uomini del Quirinale” hanno interpretato il loro ruolo.

La presidenza di Einaudi rimane quella maggiormente legata alla figura del Capo dello Stato che esercita le sue funzioni in maniera notarile o comunque molto discreta e lontana dai clamori della cronaca politica. Erano gli anni della maggioranza centrista degasperiana, coesa e compatta. Gronchi esercitò il suo mandato con significative interferenze nell’indirizzo politico, sia interno che internazionale, giungendo a nominare un esecutivo, quello Tambroni, che rispondeva più a lui che ai partiti. Erano anni di instabilità politica che sfociarono poi nella formazione dei governi di centro-sinistra. La continuità di questa formula politica e la saldezza del sistema partitico nel suo complesso ricondussero i successivi presidenti Segni, Saragat e Leone ad una minore esposizione politica. Solo con la presidenza Pertini il Quirinale torna al centro della scena in concomitanza con le svolte che portarono prima alla formazione dei governi di unità nazionale e poi alla formula del pentapartito. Pertini segnò un profondo cambiamento nello stile presidenziale espandendo le esternazioni e attuando un dialogo diretto con l’opinione pubblica.

Se si guarda complessivamente all’esperienza della cd. prima Repubblica, quella cioè dominata da quel forte e strutturato sistema partitico che aveva dato luogo al patto costituzionale, proprio la centralità della volontà espressa dai partiti impediva ogni protagonismo politico dei Presidenti. Non a caso si è parlato di quel periodo come di una fase storica caratterizzata da partiti forti e istituzioni deboli. L’indirizzo politico era saldamente concentrato nel raccordo parlamento-governo ed era solo l’accentuata instabilità ministeriale a chiamare in causa l’azione dei Presidenti che dovevano trovare un punto di mediazione nell’ambito però di formule politiche determinate dai partiti. Gli scioglimenti delle Camere di quel periodo sono in sostanza tutti autoscioglimenti concordati dai partiti la cui volontà era registrata dal Capo dello Stato. Anche la tormentata presidenza Cossiga rientra in questo schema ricostruttivo per quanto riguarda i suoi primi anni che coincisero con la maggioranza di pentapartito. Fu solo nella parte finale della sua presidenza che Cossiga, di fronte a epocali mutamenti di carattere internazionale, sostenne con un messaggio alle Camere la necessità di profonde riforme istituzionali, ricevendo l’ostilità dei partiti e ponendosi in una posizione di scontro con essi.

Il ruolo del Presidente assume connotazioni nuove con la transizione alla cd. seconda Repubblica, e dunque con le presidenze di Scalfaro, Ciampi e Napolitano.

Nel passaggio che ha portato alla democrazia maggioritaria e che si è realizzato in un momento di profonda crisi politica, con il crollo del precedente sistema dei partiti, il Presidente Scalfaro ha assunto un ruolo attivo e di protagonista, prima con la nomina del governo Ciampi, vero e proprio “governo del Presidente”; poi con la decisione di sciogliere le Camere per applicare le nuove leggi elettorali maggioritarie approvate nel 1993; quindi con la decisione opposta di non sciogliere nel dicembre 1994, al momento della crisi del primo governo Berlusconi e della dissoluzione della coalizione che aveva prevalso alle elezioni, nonostante le pressioni di chi riteneva lo scioglimento delle Camere consequenziale alla caduta del governo in un sistema maggioritario; infine con la formazione del governo Dini, anch’esso sostanzialmente di emanazione presidenziale.

Il successivo affermarsi dello schema maggioritario bipolare basato su coalizioni formate prima delle elezioni e su governi di investitura popolare con la vocazione a durare per l’intera legislatura e con una esplicita indicazione del premier, avrebbe dovuto comprimere l’interventismo presidenziale e spoliticizzarlo7. Ma solo in parte ciò si è verificato.

Dopo le elezioni del 1996, 2001, 2006 e 2008 la formazione del governo e l’individuazione del Presidente del consiglio sono risultate obbligate per il Capo dello Stato. La XIII e XIV legislatura giunsero al loro compimento naturale, senza il trauma dello scioglimento e nella XIV legislatura la carica di Presidente del consiglio fu ricoperta da Berlusconi alla guida di due governi fondati sulla maggioranza uscita dalle urne. Ma gli effetti riduttivi del ruolo presidenziale si sono fermati qui. Le caratteristiche del bipolarismo conflittuale italiano, rissoso ed instabile soprattutto a partire dalla XV legislatura, hanno al contrario esaltato il ruolo del Presidente e lo hanno portato ad un interventismo inimmaginabile nella prima Repubblica. Questo effetto è stato causato, in primo luogo, dalla mancanza di una cultura dell’alternanza realmente condivisa, di una legittimazione reciproca dei due poli. Essi si sono affrontati in maniera pregiudizialmente avversa, con toni gladiatori nelle aule parlamentari e nel dibattito politico fuori di esse. Non vi è stato alcun tentativo di comprendere le ragioni dell’altra parte o di respingerle in un dibattito pacato.

In definitiva, i presidenti in carica nell’ultimo ventennio si sono trovati ad operare in situazioni di conflitto politico più accentuate ed aspre rispetto al periodo della prima Repubblica durante la quale le più profonde divisioni ideologiche erano però controbilanciate da un comune riconoscimento dei partiti maggiori nei valori della Costituzione e nell’accordo su convenzioni attuative dei meccanismi istituzionali in essa previsti. La conseguenza è stata una più marcata azione di garanzia politica, e dunque di interventismo, da parte del Capo dello Stato al fine di mantenere nei binari costituzionali l’equilibrio tra maggioranza governativa e opposizione.

La focalizzazione

Nel corso della prima presidenza di Giorgio Napolitano tutti i problemi del regime politico della seconda Repubblica sono stati acuiti. E l’inizio della seconda presidenza, in coincidenza con l’avvio della XVII legislatura, si avvia nel medesimo senso. Le presidenze Napolitano sembrano coincidere con il periodo storico nel quale il bipolarismo italiano, quale lo abbiamo conosciuto a partire dal 1994, è entrato in una crisi profonda che appare per certi versi irreversibile o comunque destinata a mutarne in profondità le caratteristiche. La crisi della seconda Repubblica dopo vari sussulti è stata suggellata dalla formazione, nel novembre 2011, del governo Monti che ha testimoniato l’incapacità del sistema partitico di affrontare i problemi del paese e si è affidato ad un governo composto da tecnici e sorretto da una maggioranza atipica; a questa esperienza si collega, seppure stavolta con la ritrovata composizione politica dell’esecutivo, il successivo governo Letta sostenuto da una rinnovata maggioranza di larghe intese, che pure non era stata considerata nel dibattito svoltosi in occasione della consultazione elettorale che lo ha preceduto.

Tutto ciò spiega l’interventismo presidenziale di Napolitano che, sia nel corso del suo primo settennato, così come nel primo scorcio del secondo, si è dovuto far carico di fronteggiare situazioni ed eventi per molti versi dai caratteri eccezionali.

Ed ancor di più le condizioni del tutto peculiari di instabilità e debolezza del quadro politico-partitico sono emerse non solo nella fase che ha condotto alla crisi irreversibile del governo Monti nel dicembre del 2012 e al conseguente scioglimento anticipato delle Camere decretato il 22 dicembre, ma anche nella complessa gestione presidenziale della fase successiva alle elezioni svoltesi il 24 e 25 febbraio del 2013, e che poi ha condotto all’inedita e per molti aspetti inaspettata rielezione dello stesso Napolitano alla carica di Capo dello Stato, così innovandosi una prassi da sempre rispettata nell’esperienza Repubblicana, e che dunque non può ormai dirsi costitutiva di una consuetudine ovvero di una convenzione costituzionale.

Infatti, alla difficoltà di costituire il nuovo governo a seguito dell’incerto risultato elettorale della primavera del 2013 ‒ in breve, se il PD per un leggero scarto di voti ha conquistato la Camera mediante il premio di maggioranza, ciò non è avvenuto al Senato, ove il PD, Forza Italia e ilM5S hanno riscosso consensi piuttosto ravvicinati ‒ si sovrapponeva l’imminente scadenza del mandato dello stesso Capo dello Stato, sì da far assumere alla vicenda toni che qualcuno ha avvicinato ad una vera e propria crisi di sistema. All’insuccesso del tentativo del segretario del PD, Bersani, cui il Capo dello Stato aveva inizialmente conferito l’incarico di formare il governo,ma che si era arenato innanzi all’ostilità del M5S di formare un esecutivo alternativo alle forze di centro-destra, è seguita l’irrituale richiesta del Presidente a «due gruppi ristretti di personalità tra loro diverse per collocazione e per competenze di formulare ‒ su essenziali temi di carattere istituzionale e di carattere economico-sociale ed europeo ‒ precise proposte programmatiche che possano divenire in varie forme oggetto di condivisione da parte delle forze politiche» (così nella dichiarazione del 30 marzo 2013). In questo senso il Presidente affermava di voler «concorrere almeno a creare condizioni più favorevoli allo scopo di sbloccare una situazione politica irrigidita tra posizioni inconciliabili», in quanto «ciò potrà costituire comunque materiale utile».

Un’operazione di raffreddamento della contesa tra gli opposti schieramenti in attesa dell’elezione del nuovo Capo dello Stato cui lasciare il compito di riavviare la soluzione del difficile puzzle relativo all’individuazione di una maggioranza parlamentare capace di dare vita a un nuovo esecutivo.

Così, alla scadenza del mandato presidenziale, si è avviato il procedimento elettorale che, dopo aver visto bocciati i due candidati del PD (Marini e Prodi), si è risolto con l’inedito appello proveniente da una larghissima parte dello schieramento partitico (M5S escluso) a Giorgio Napolitano di accettare la rielezione, opportunità che pure il Presidente aveva ripetutamente negato nel corso del suo primo mandato.

Nel sesto scrutinio, avvenuto il 20 aprile 2013, con 738 voti su 997 votanti, per la prima volta nella storia Repubblicana il Presidente della repubblica appena cessato dall’incarico è stato rieletto alla medesima carica. Nel discorso di insediamento Napolitano, oltre a svolgere una serrata critica nei confronti delle omissioni e incapacità dimostrate dalle forze politiche soprattutto sul piano delle riforme, lanciava due messaggi di importanza cruciale per le istituzioni. Innanzitutto, avvertiva: «Semi troverò di nuovo dinanzi a sordità come quelle contro cui ho cozzato nel passato, non esiterò a trarne le conseguenze dinanzi al paese». E quindi specificava: «Mi accingo al mio secondo mandato, senza illusioni e tanto meno pretese di amplificazione “salvifica” delle mie funzioni; eserciterò piuttosto con accresciuto senso del limite, oltre che con immutata imparzialità, quelle che la Costituzione mi attribuisce.

E lo farò fino a quando la situazione del paese e delle istituzioni me lo suggerirà e comunque le forze me lo consentiranno». In queste parole sembra potersi leggere la consapevolezza di intraprendere un nuovo mandato non destinato a concludersi alla scadenza naturale del settennato,ma subordinato a precise condizioni esterne e personali che ne potrebbero determinare la cessazione anticipata.

In ogni caso, la centralità del ruolo assunto dal Presidente si è subito riproposta sia, come già detto, nella nomina del governo Letta ‒ che in qualche misura ricalcava la composizione “trasversale” dei due gruppi di lavori costituti al termine del primo settennato ‒ sia, a qualche mese di distanza cioè nel febbraio 2014, nella rapida gestione della convulsa crisi dello stesso governo Letta, cui è repentinamente seguita la nomina del governo Renzi. In entrambi i casi, gli esecutivi si sono costituiti, per così dire, sotto la tutela del Presidente, così come l’azione di entrambi i governi si è per lo più sviluppata in sintonia con quest’ultimo.

I profili problematici

Nel corso del suo primo mandato, così come nel periodo iniziale della seconda presidenza a partire dall’aprile 2013, non vi è dubbio che Napolitano abbia manifestato un accentuato interventismo nello svolgimento delle sue funzioni e competenze.

La stessa rielezione è stata considerata come espressione del consolidamento di una sorta di “presidenzialismo di fatto” che ormai caratterizzerebbe la nostra forma di governo. Tra l’altro, il Presidente ha in due casi rifiutato con nettezza l’emanazione di atti normativi del governo e ha puntigliosamente rivendicato nei fatti l’esercizio di un penetrante controllo prima dell’emanazione di decreti o dell’autorizzazione alla presentazione di disegni di legge, ottenendo in varie occasioni modifiche ed integrazioni.

Ha influito in maniera decisiva sul corso della crisi di governo dell’autunno 2011, svolgendo un’azione maieutica per la nascita dell’esecutivo Monti, così come, dopo le elezioni del 2013 e l’insuccesso del tentativo di Bersani, ha condotto alla rapida ricomposizione della crisi e all’innesco della maggioranza delle larghe intese che ha dato vita al governo Letta. E parimenti ha seguito con una certa discrezione la caduta di Letta, procedendo senza indugio al repentino avvento del governo Renzi, rivolgendogli le medesime raccomandazioni circa alcuni essenziali obiettivi di politica interna ed internazionale. Ha rivendicato con insistenza la titolarità del potere di scioglimento. Nei momenti di più acuta crisi politica, insomma, egli ha costituito lo snodo attorno al quale le intricate vicende politiche si sono dipanate. È stato il regista che ha influito sui comportamenti delle forze politiche e sull’attività di parlamento e governo.

Si può dire che in tutto questo vi sia stata una forzatura presidenzialista, e che questa risulti confermata dalla rielezione dello stesso Napolitano alla carica? Innanzi tutto, sul piano formale, non si sono registrati strappi di particolare entità. Il governo ha sempre controfirmato gli atti del Presidente, assumendosene la responsabilità ai sensi dell’art. 89 Cost. Che ciò in determinate occasioni possa essere avvenuto malvolentieri o in maniera riluttante in fin dei conti non rileva sul piano giuridico e può essere considerato l’indice di un diverso assestamento dell’equilibrio tra i due poteri nella determinazione del contenuto degli atti presidenziali. Per altro verso, allorché il Presidente ha bloccato iniziative del Governo questo si è adattato senza eccessive resistenze.

Anche riguardo alle “incursioni” presidenziali nel corso di procedimenti legislativi o in riferimento ai loro esiti non si sono registrate prese di posizioni ufficiali in senso contrario dei presidenti delle Camere o di altri organi parlamentari, che portassero le questioni sul piano della definizione giuridica del rapporto tra Capo dello Stato e Camere.

Non pare quindi che si possano lamentare rotture o deroghe espresse della Costituzione. Il fatto è che la Costituzione non solo ha dotato il Capo dello Stato di molti poteri, ma non ne ha procedimentalizzato in modo stringente l’esercizio, così consentendo una forte dose di flessibilità nell’interpretazione dei vincoli e delle modalità di svolgimento in concreto. Essa ci dice solo che un certo atto deve essere emanato dal Presidente e controfirmato da un membro del Governo. La partecipazione dei due organi alla determinazione del contenuto dell’atto non è stata in passato e non è in assoluto il frutto della volontà del Costituente, ma il risultato della sempre diversa combinazione dei rapporti di forza che si instaurano di volta in volta tra Presidente e Governo nell’attività di reciproca collaborazione al momento dell’esercizio delle funzioni presidenziali.

In sostanza, le previsioni costituzionali sono, come si usa dire, a maglie larghe, sono elastiche e offrono la possibilità di essere declinate in diversi modi.

Le varie teorie dei costituzionalisti sulla differente natura dei diversi atti presidenziali (propriamente presidenziali, governativi o atti complessi a partecipazione paritaria) hanno risentito del contesto politico e partitico nel quale venivano elaborate e hanno tenuto in ombra un elemento decisivo, e cioè l’elemento teleologico. L’azione del Presidente, che si esprima in atti formali o in quella che si usa definire moral suasion, deve essere finalizzata alla tutela dell’unità, della permanenza e dell’efficienza dell’ordinamento costituzionale. In definitiva, il Presidente ha ritenuto di poter meglio influire sul corso degli eventi con una costante azione fatta di puntualizzazioni, ammonimenti, inviti ad agire, che facevano emergere la responsabilità delle forze politiche di fronte all’opinione pubblica e le sottoponevano al giudizio di questa.

L’insegnamento tradizionale che si trova nei manuali di diritto costituzionale è che l’indirizzo politico deve essere determinato dal raccordo Parlamento-Governo e solo teorie nettamente minoritarie individuano nel Presidente della Repubblica uno dei suoi protagonisti attivi8. Di una deriva presidenzialista della presidenza Napolitano si potrebbe quindi parlare se in qualche modo il Capo dello Stato si fosse sostituito agli organi dell’indirizzo politico e, debordando dalle sue competenze, avesse imposto un proprio indirizzo politico. Innanzitutto va operata una precisazione necessaria per far uscire i discorsi su un presidenzialismo di fatto o strisciante dalla genericità giornalistica. Il Presidente della Repubblica ha sì molti poteri che interferiscono con l’esercizio delle funzioni attive degli altri organi costituzionali, ma tali poteri si estrinsecano principalmente in attività di controllo, di sollecitazione ad agire, di intermediazione politica e i suoi atti devono essere sempre controfirmati dal Governo. Insomma, dal punto di vista della struttura giuridica dei suoi poteri appare difficile per il Capo dello Stato imporre un proprio indirizzo politico, dare direttive che trovino pronta attuazione, quantomeno se non ha il consenso di Governo e Parlamento e delle forze politiche maggioritarie. Egli può svolgere un ruolo essenzialmente negativo, di freno. Egli può condizionare i titolari dell’indirizzo politico, ma appare problematica una sua sostituzione ad essi o un suo incondizionato imporsi (salvo l’ipotesi che si analizzerà più avanti). Coglie questo aspetto la formula di “contropotere di influenza”9, che costituisce un aggiornamento della famosa definizione di Ruini all’assemblea costituente. Ma ciò non può indurre a sostenere, come pure si è fatto, che il Capo dello Stato sia divenuto titolare di un proprio indirizzo politico.

Se guardiamo all’esperienza di Napolitano riteniamo che egli non si sia fatto portatore di un indirizzo politico alternativo a quello delle forze di maggioranza, diverse nelle legislature del settennato,ma che lo abbia sicuramente condizionato mediante atti e comportamenti ispirati a quelle “prestazioni di unità” che sono l’essenza costituzionale della sua funzione. In particolare, per esprimere un giudizio complessivo è necessario tenere presente il contesto politico. Il contesto nel quale il Presidente Napolitano ha agito e tanto più quello che ne ha determinato nel 2013 la rielezione, è stato quello di una profonda divisione tra le forze politiche, di Governi deboli con maggioranze instabili, di un mutamento epocale del modo di essere dei partiti che hanno perso la loro presa sulla società civile. Il tutto aggravato da una sempre crescente crisi economica internazionale che ha pesantemente condizionato le vicende interne all’Italia. Anche per chi legittimamente si è posto dei dubbi sui confini dell’azione del Presidente è doveroso chiedersi se l’anomalia di questi anni sia stato l’attivismo presidenziale o, invece, il decotto e rissoso sistema dei partiti ai quali il regime parlamentare affida in prima battuta il suo regolare e ordinato funzionamento.

D’altra parte, a fronte degli interventi presidenziali che avrebbero anche potuto apparire un’invasione del campo della politica, i partiti non hanno mai reagito in maniera compatta rivendicando in blocco il loro primato su quel terreno. Si sono talora limitati a lasciar cadere nel vuoto i ripetuti richiami del Capo dello Stato oppure qualcuno di essi ha sollevato polemiche su specifiche questioni di stretto interesse di parte. Una critica più continua e serrata è venuta solo da partiti alle estreme dello schieramento politico. Nei manuali di diritto costituzionale, oltre a dirsi che l’indirizzo politico è determinato dal raccordo Parlamento-Governo, si dice anche che nelle situazioni di crisi può intervenire il Capo dello Stato quale “motore di riserva”. Ecco, il Presidente Napolitano è stato un motore di riserva molto potente, ma anche perché il motore principale è stato spesso molto giù di giri. Istituzioni e partiti si sono coperti di discredito di fronte all’opinione pubblica, oltre che per l’incapacità di realizzare politiche adeguate alle contingenze storiche, anche per i numerosi scandali connessi, in particolare quelli connessi all’utilizzazione del denaro pubblico. Hanno così contribuito ad alimentare il sentimento dell’antipolitica, che è sempre esistito,ma che tra la fine della XVI legislatura e l’inizio della XVII è parso dilagare e poter seriamente condizionare il futuro del paese con l’affermarsi di formazioni organizzate come il Movimento Cinque Stelle. Nell’esprimersi criticamente sul complesso di questi fenomeni Napolitano ha assolto ad un altro compito, che è proprio della funzione presidenziale e che è stato evidenziato in anni precedenti, quello “di raccordo tra la società e gli apparati”10, quello di «intervenire continuamente per precisare, correggere, ammonire, nell’intento di preservare e, se occorre, restaurare il circuito di fiducia tra le istituzioni e i cittadini, senza del quale la stessa democrazia rappresentativa verrebbe svuotata di ogni contenuto sostanziale»11.

Se si guarda alla presidenza di Napolitano, complessivamente intesa, l’opera di garanzia politica, che abbiamo detto propria del Capo dello Stato, è stata dispiegata con un costante richiamo alla tutela di principi costituzionali oppure facendo leva sulla riconosciuta autorevolezza e sulla diffusa legittimazione che ha sempre più acquisito come rappresentante dell’unità nazionale. Egli ha agito, secondo la classica formula del potere neutro, come pouvoir modérateur, cercando di attenuare le divisioni e le contrapposizioni più laceranti, e come pouvoir intermédiaire, adoperandosi per riattivare il funzionamento dei meccanismi istituzionali nei momenti di blocco al fine di evitare che la crisi politica potesse degenerare in crisi istituzionale o di sistema, come si è rischiato nel novembre 2011 e nell’aprile del 2013.

Andando oltre la configurazione del ruolo del Capo dello Stato come potere di riserva, è stato detto che attribuendogli una serie estesa di significativi poteri il costituente fece una scelta fondamentale a favore di un sistema parlamentare “a tutela presidenziale”12. Si potrebbe specificare che quello italiano è un sistema parlamentare a tutela presidenziale eventuale e variabile. Le presidenze di Napolitano sono quelle nel quale la tutela del Presidente ha avuto modo di svilupparsi con maggiore ampiezza, continuità e incisività rispetto alle esperienze precedenti.

Anche se altri presidenti hanno condizionato l’evoluzione del nostro sistema politico-istituzionale – è sufficiente pensare a Scalfaro nel biennio 1992-1994 – in nessun altro periodo come nella “duplice” presidenza Napolitano si è avuta la sensazione che lo snodo centrale del sistema fosse stabilmente collocato al Quirinale. Questo oggettivo rafforzamento della figura del Capo dello Stato pone un interrogativo finale che in questa sede si può soltanto formulare: ove va collocato il limite dell’elasticità della nostra Costituzione oltre il quale l’azione presidenziale potrebbe mutare i caratteri del regime parlamentare in essa previsto?

1 In questo senso, Ruggeri, A., Notazioni introduttive, in Ruggeri, A., a cura di, Evoluzione del sistema politico istituzionale e ruolo del Presidente della Repubblica, Torino, 2011, 21.

2 Così Rescigno, G.U., Il Presidente della Repubblica e le crisi del sistema, in Baldassarre, A.-Scaccia, G., a cura di, Il Presidente della Repubblica nell’evoluzione della forma di governo, Atti del Convegno di Roma del 26 novembre 2010, Roma, 2011, 86.

3 Così Baldassarre, A., Il Presidente della Repubblica nell’evoluzione della forma di governo, in Baldassarre, A.-Scaccia, G., a cura di, Il Presidente della Repubblica, cit., 26.

4 Luciani,M., Governo (forme di), in Enc. dir., Annali. III, Milano, 2010, 569.

5 Barbera, A.-Fusaro, C., Corso di diritto costituzionale, Bologna, 2012, 376.

6 Baldassarre, A.-Mezzanotte, C., Gli uomini del Quirinale. Da De Nicola a Pertini, Roma-Bari, 1985, 287.

7 In tal senso Cheli, E., Il Presidente della Repubblica come organo di garanzia costituzionale, in Studi in onore di Leopoldo Elia, I, Milano, 1999, 312.

8 Chessa, O., Il Presidente della Repubblica parlamentare. Un’interpretazione della forma di governo italiana, Napoli, 2010, 219 ss.

9 Barbera, A.-Fusaro, C., Corso, cit., 377.

10 Così Cheli, E., Il Presidente, cit., 307.

11 In questo senso Silvestri, G., Il Presidente della Repubblica, in Labriola, S., a cura di, Valori e principi del regime Repubblicano, III, Roma-Bari, 2006, 455.

12 Così Baldassarre, A., Il Presidente, cit., 28.

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