Pragmatismo

Enciclopedia del Novecento (1980)

Pragmatismo

Antonio Santucci

di Antonio Santucci

Pragmatismo

sommario: 1. Introduzione. La problematica ‛peirciana'. 2. Il pragmatismo di James. 3. Dewey e la teoria dell'indagine. 4. La filosofia europea di fronte alla problematica pragmatista. 5 Il behaviorismo sociale e la semiotica. 6. La prospettiva pragmatista: sviluppi e obiezioni. □ Bibliografia.

1. Introduzione. La problematica ‛peirciana'

In un saggio sulla più ‛americana' delle filosofie, A. O. Lovejoy distingueva ben tredici pragmatismi. Tante erano le dottrine che affrontavano, con lo stesso nome, il problema del significato e della verità giungendo a conclusioni diverse (v. Lovejoy, 1963, pp. 1-20). L'avvertimento cadeva opportuno, dopo che William James aveva indicato il principio del pragmatismo nella dottrina esposta da Ch. S. Peirce in How to make our ideas clear. Che c'era infatti di comune tra l'intento metodologico dello scritto peirciano del 1878 e le divagazioni metafisiche di uno Schiller? (V. cap. 4). Lo stesso Peirce non avrebbe tardato a prendere le distanze da un pensiero ormai lontano dai progetti dei giovani che, nei primi anni settanta, erano soliti riunirsi nello studio suo e di James. Del circolo chiamato, ‟un po' per ironia e un po' per sfida", Metaphysical Club, avevano fatto parte O. Wendell Holmes Jr., N. St. John Green, J. Fiske, Fr. Ellingwood Abbott e, maestro di ognuno, Ch. Wright: tutti uomini di scienza e abituati a un modo di pensare decisamente ‛britannico'. Ma questo non aveva impedito a Peirce di occuparsi di filosofia prima e di cogliere nei testi di Berkeley e di Kant, al di là degli ‟slegati ragionamenti e dei casuali pregiudizi", qualche utile accenno alla pratica scientifica. Se ci atteniamo a essa, non c'è ‟idea di qualcosa che non sia l'idea dei suoi effetti sensibili, e quando immaginiamo di averne un'altra, ci inganniamo e confondiamo una pura sensazione che accompagna il pensiero con una parte del pensiero stesso" (Ch. S Peirce, How to make our ideas clear, in Collected papers a cura di Ch. Hartshorne e P. Weiss, Cambridge, Mass., 1931-1935, 5.402). Per questo è sciocco che cattolici e protestanti si credano in disaccordo sugli elementi del sacramento, se poi convengono sulle loro conseguenze sensibili, qui e nell'al di là.

In What pragmatism is, apparso sul ‟Monist" del 1905, la formula veniva allargata e precisata nel senso che ‟un concetto, ossia il significato razionale di una parola o di altra espressione, consiste esclusivamente nelle sue possibili conseguenze per la condotta; di conseguenza, poiché niente che non risulti dall'esperimento produce qualche riflesso diretto sulla condotta, se si riesce a determinare accuratamente tutti i fenomeni sperimentali che l'affermazione o la negazione di un concetto possono implicare, s'otterrà una definizione completa del concetto stesso" (Collected papers, 5.412). Se non sapessimo che cosa uno si dispone a fare quando la pronuncia, non ci renderemmo conto di ciò che intende con una parola: il suo significato sta insomma in una serie di esperienze che tendono a fissarsi in certe azioni, aspettative, adattamenti, ecc. Così, se cerchiamo una definizione del litio, la troveremo nelle operazioni previste per ottenerne un campione; ed è dunque la regola o l'insieme di regole che le dirigono a rendere significanti e comunicabili le asserzioni sull'elemento in questione.

Perché il termine pragmatismo? Alcuni avrebbero preferito al suo posto quello di praticismo o praticalismo. Ma per uno non ignaro di Kant, le due parole apparivano lontane come i due poli: l'una portava in una regione dove nessuno sperimentalista sentirebbe di avere un terreno solido sotto i piedi, l'altra designava un rapporto con un fine umano (ibid.). Un tale fine non si lega però a un'esperienza particolare: questa deve essere attiva e generale. Se il significato di una proposizione è esso stesso una proposizione, quale fra le mille forme in cui si può tradurre una proposizione sarà infatti assunta come il suo vero significato? Poiché l'unica condotta soggetta a controllo è la condotta futura, essa si situerà ovviamente nel futuro: ma la forma della proposizione che lo esprime, se davvero è applicabile alla condotta umana in ogni circostanza, consisterà nella ‟decrizione generale di tutti i fenomeni sperimentali che l'asserzione della proposizione virtualmente predice" (ibid., 5.427).

Tanto bastava a tener lontano il pragmatista dalle varie specie di fenomenismo. Egli è convinto che i processi della ricerca, se non vengono interrotti o deviati, forniranno una unica soluzione dei problemi a cui si applicano. L'attività del pensiero non porta dove capita o dove si vuole, ma verso una meta prestabilita; così, ‟l'opinione destinata a essere condivisa alla fine da tutti coloro che indagano è ciò che intendiamo con la parola ‛verità', e l'oggetto rappresentato da questa opinione è il reale" (How to make our ideas clear, in Collected papers, 5.407). Come una condotta controllata dalla ragione produce degli abiti di comportamento, la cui natura non dipende da alcun accidente e sembra ‛destinata', allo stesso modo il pensiero logico individua certe opinioni nonostante la ‛perversità' di intere generazioni. Poiché tali opinioni sono per la maggior parte generali, alcuni oggetti generali sono reali in un senso più radicale di quello che credevano gli stessi scolastici (What pragmatism is, in Collected papers, 5.430). Talora sono anche fisicamente efficienti, come nel caso dell'aria soffocante che ci spinge ad aprire le finestre: dove non c'è dubbio che, se il nostro pensiero è un evento individuale, ciò che ci ha indotto alla decisione è il fatto generale che l'aria soffocante è nociva. La generalità si conferma così un ingrediente necessario della realtà, perché un'esistenza puramente individuale e priva di regolarità sarebbe il caos, ossia il niente.

A questo punto, le differenze con James e soprattutto con Schiller, che s'era imbattuto nel termine ‛pragmatismo' e l'aveva trovato congeniale al suo pensiero, apparivano nette. Venendo di moda anche nelle gazzette letterarie, Peirce preferiva abbandonare la sua creatura ormai troppo cresciuta e annunciava la nascita del ‛pragmaticismo', abbastanza brutto per non invogliare i rapitori di bambini (ibid., 5.414). Quest'ultimo respingeva l'obiezione di far consistere nell'azione il fine della vita e indicava il summum bonum nel processo evolutivo per cui l'esistente accoglie quei generali che si sono detti ‛destinati'. Ancora in una voce per il Baldwin dictionary Peirce avrebbe ammesso di non trovare la massima stoica, che fa dell'agire lo scopo dell'uomo, così accettabile come gli era parsa a trent'anni. Se però si dice che l'azione vuole un fine, allora lo spirito della massima dovrebbe indirizzarci verso le idee generali. Queste si rivelano nei ragionamenti che subentrano all'inferenza acritica del giudizio percettivo e delle credenze che il senso comune considera originarie. Una condotta deliberata suppone infatti che si possa andar oltre la ‛coscienza immediata' e le reazioni individuali. Se non ci fosse una connessione delle idee, una struttura progrediente che viene a coincidere con la stessa generalità, lo sviluppo di una concreta ragionevolezza resterebbe una finzione.

Di ciò si occupava la ‛metafisica purificata', i cui problemi non competono a una disciplina particolare anche se stanno in qualche relazione con le questioni di fatto. Ogni ‟frammento della storia oggettiva dell'universo" può essere pensato secondo le forme del Primo (Firstness), che è il concetto di essere o esistere indipendente, del Secondo (Secondness), che è il concetto di esistere in rapporto a qualche altra cosa, e del Terzo (Thirdness), che è il concetto di mediazione nella quale il Primo e il Secondo entrano in rapporto tra di loro (The architecture of theories, in Collected papers, 6.32). Peirce desumeva queste categorie da un ‟accuratissimo sistema di logica formale" e intendeva applicarle alla realtà. In modo non diverso egli ne aveva presentato una prima lista in uno scritto del 1867 collegandola alle ricerche condotte sulla sillogistica aristotelica e all'interpretazione fornitane da Kant, per cui tutti i sillogismi sono riconducibili a Barbara (primo modo della prima figura) e non comportano alcun principio logico che non vi sia già compreso. Le sostituzioni, per mezzo delle quali le figure indirette del sillogismo si riportano a quelle dirette di Barbara, mettono invece in luce tre classi di argomentazione: l'inferenza necessaria, ipotetica e induttiva. Ed è dai loro principi che si deve allora risalire ai concetti, la cui funzione è quella di ridurre il molteplice delle impressioni sensibili a unità (On a new list of categories, in Collected papers, 1.545).

L'ipotesi, o abduzione, è ‟l'inferenza di un caso da una regola e da un risultato"; rappresenta il momento inventivo o progettuale di una conoscenza che deve intendersi propriamente come attività semantica. Tale era già apparsa a Peirce negli articoli del 1868 sul ‟Journal of speculative philosophy", in cui aveva proceduto alla critica dell'intuizionismo dominante nella tradizione cartesiana ed empiristica. Non c'è una conoscenza ‟prima" o ‟intuitiva", perché ciò produrrebbe un dualismo insuperabile tra la mente che conosce e la cosa conosciuta; ogni conoscenza ne ammette una antecedente e quindi va concepita come una relazione interpretativa fra ‟segni". ‟Ogni pensiero è segno", ‟non possiamo pensare senza segni", e una semiotica o scienza dei segni è sempre di tipo cognitivo. ‟Un segno, o rappresentante - precisava Peirce - è un Primo la cui relazione con un Secondo (il suo oggetto) è una relazione triadica genuina, tale da poter determinare un Terzo (il suo interpretante) ad assumere la stessa relazione triadica con l'oggetto che esso stesso ha" (Collected papers, 2.274). La natura triadica del segno consente di classificarlo, considerarlo in se stesso o rispetto all'oggetto e all'interpretante. Questo diviene a sua volta un segno per un altro possibile interpretante: si determina così una ‟fuga" degli interpretanti, una semiosi illimitata, nella quale si conferma il carattere ipotetico e indefinitamente aperto del pensiero (Collected papers, 1.339).

Ma se un segno è interpretato da un secondo segno e questo da un altro ancora, e così via, non viene meno la stessa possibilità di un significato? Peirce lo escludeva perché le alternative sono sempre condizionate e si riducono quando uno dei segni risulti più efficace di altri: come accade appunto nel caso della scienza, che ha il suo modello nel laboratorio e produce abiti generali di azione. Né gli scritti cosmologici, composti nel ritiro di Milford, mancavano di rilevarlo, suggerendo l'idea di un caos originario da cui emerge una tendenza alla regolarità e alla legge senza che per questo ne venga annullato ogni elemento casuale. Essi erano influenzati dalla teoria darwiniana della selezione, della quale si riconosceva il carattere statistico, e da quella cinetica dei gas. Ma più generalmente, come ha notato W. B. Gallie, ne derivava un attacco alla concezione newtoniana di un'assoluta uniformità della natura (v. Gallie, 1952, cap. IX). La dottrina del caso (o tichismo) consentiva infatti un interpretazione delle leggi fisiche in accordo con i teoremi della probabilità e poteva spiegare, se collegata col principio di continuità (o sinechismo), ciò che c'è di nuovo e spontaneo nei fenomeni (v. Cohen, 1949).

Negli Issues of pragmaticism del 1905, la questione investiva i nominalisti, gli scienziati e i filosofi moderni che ammettono un solo modo d'essere, ‟l'essere del fatto individuale, che si cerca un posto nell'universo e reagisce brutalmente a tutte le altre cose". Qui si fronteggiavano due modi di intendere le proprietà e le leggi di natura. Mentre l'empirista classico le ritiene delle finzioni, il realista pensa che il carattere della durezza non rappresenti un'invenzione, come il termine che la designa, ma si ritrovi nelle cose ‛dure' e sia unico in tutte, alla maniera di un abito o di una disposizione. Non per questo la durezza di un diamante va cercata in un occulto stato di cose: essa consiste invece nella ‟verità di una proposizione generale condizionale", di una proposizione che implica certe conseguenze possibili. A che altro, infatti, accenna la chimica se non al ‛comportamento' dei diversi possibili generi di sostanze materiali? E in che consiste questo comportamento se non nel fatto che, esponendosi la sostanza di un certo genere a un'azione di un certo tipo, ne dovrebbero seguire certi effetti sensibili in accordo con le esperienze già compiute? Ecco perché dobbiamo accogliere una dottrina che ammetta una necessità e una possibilità reali (Collected papers, 5.457). Se il significato di un'ipotesi si configura soggettivamente quando riflette le nostre capacità o disposizioni ad agire, esso prende un rilievo oggettivo dalle leggi e principi attivi che regolano i rapporti tra i fatti assunti nella stessa ipotesi e gli altri fatti osservabili che, se è fondata, la convalidano in qualche misura. I fenomeni sperimentali riguardano quel che ‟sicuramente accadrà a chiunque, nel vivente futuro, realizzi certe condizioni" e il pragmatista ne considererà i tipi generali, ossia le leggi naturali. Il nominalista s'arresterà invece alle aspettative condizionali che si connettono a un ipotesi particolare e non riscirà a spiegarci come mai un ordine e un ambito d'azione più uniforme subentrino al disordine originario.

Il Peirce maturo non dubitava che si procedesse verso un ‟mondo assolutamente perfetto, razionale e simmetrico". Gli avessero detto che il suo era uno schellinghismo interpretato alla luce della fisica moderna, ne sarebbe stato lieto. Non c'erano infatti due idee tanto ostili tra loro come la ‟grande e unica legge dell'evoluzione" e l'individualismo discendente dalla filosofia occamista. La prima esprime, nella versione darwiniana e lamarckiana, una tendenza alla legge. Ma se questa s'impone, com'è giusto che avvenga, occorre che la scienza e la metafisica si riconcilino. Una scienza che ignora le categorie difetta di sistematicità, ma la metafisica non ha senso se non percorre la strada segnata dalla ricerca sperimentale. Queste alternative non erano nuove, si trovano già nei primi scritti di Peirce quando avvertiva che ‟la logica si radica in un principio sociale" (The doctrine of chances, in Collected papers, 2.654). Non altrimenti le varie dottrine si misuravano con esse e tentavano di dare una risposta: il realismo critico col suo concetto di verità, l'idealismo oggettivo che gli era parso ‟l'unica concezione intelligente dell'universo", l'amore evolutivo o agapismo che faceva da sfondo a un'etica della solidarietà.

Un'esigenza sistematica portava Peirce a rivedere continuamente le proprie posizioni e a progettare una costruzione capace di accogliere le scienze future (v. Murphey, 1961, p. 406). Ma non mancavano le ambiguità e i contrasti, come a proposito del sinechismo, tra un criterio regolativo che ci spinge a cercare la generalità nell'accadere degli eventi e la dottrina metafisica. In altri termini: come si potevano conciliare le categorie, se concepite assolute e non modificabili, con il fallibilismo richiesto dallo scienziato? Queste domande bastano a mostrare la complessità di un pensiero che era venuto conseguendo importanti risultati nell'ambito della logica matematica con la ‛teoria delle relazioni' e della semiotica. Pochi dovevano accorgersene in America e in Europa e anche quei pochi si limitavano a vedere le differenze con James. Queste c'erano, naturalmente, ma le obiezioni di Peirce colpivano l'amico solo di sfuggita e si concentravano sui suoi cattivi divulgatori, sui mali di un sapere degradato a tecnica. Per fortuna un diluvio si sarebbe presto abbattuto sulla società guastata dal mito del successo, dalla ‛filosofia dell'avidità', e l'avrebbe ripulita da cima a fondo (Evolutionary love, in Collected papers, 6.292).

2. Il pragmatismo di James

L'estrazione dei pragmatisti è complessa e smentisce chi ne ha fatto i campioni del materialismo yankee. Essi non hanno pesanti tradizioni alle spalle, frequentano i laboratori e le corti di giustizia, collaborano a periodici di varia destinazione, tengono conferenze pubbliche e fanno uso di metafore tratte dal mondo del lavoro. Senti in loro certi echi del messaggio religioso di J. Edwards, dell'ideale frankliniano della benevolenza e del trascendentalismo di Emerson. Stanno di casa ad Harvard che, a parere di Darwin, era in grado di rifornire tutte le università britanniche; ma non temono, come James e Peirce, di passare l'oceano e di visitare i luoghi più avanzati della cultura europea.

L'incontro con una tale cultura non mancava, sul versante dell'empirismo classico, di tratti polemici. D'accordo sul rifiuto dei principi innati, non si doveva restringere l'esperienza alla coscienza, com'era accaduto con le idee semplici di Locke e le impressioni di Hume. Le dottrine dell'evoluzione avevano indicato nel pensiero un comportamento biologico, a proposito del quale ci si poteva domandare se, accolta la tesi delle variazioni delle specie, il mutamento previsto da Darwin non diventasse incontrollabile. Una soluzione era quella suggerita da A. Moore, che il pensiero deliberativo sia esso stesso una variazione positiva. S'imponeva allora una conseguenza che J. Dewey avrebbe esposto nel modo più preciso: i fatti sono ‟risultati di nostre operazioni e di osservazioni compiute per mezzo degli organi sensoriali e di strumenti tecnici" (Logic: the theory of inquiry, New York 1938, p. 113). C'è un mondo che non è da sempre quello che è, un mondo che si trasforma e che, includendo l'uomo, coincide con l'esperienza. Se Peirce aveva rilevato la sua tendenza alla legge e all'ordine, James ne accentuava la novità e i caratteri individuali. Per questo occorre, scriveva a Stumpf, uno sperimentalismo lontano dalle ipotesi metafisiche e dalle formule algebriche. Le idee e le sensazioni separate, allineate come le tessere nel gioco del domino, sono un espediente metodologico; i processi percettivi entrano invece in un complicato atteggiamento di risposta all'ambiente esterno. Se ora ci volgiamo alla mente con il minimo possibile di presupposti, essa ci si mostrerà come una corrente continua che ammette stati transitori e sostanziali, soggetta a brusche interruzioni, con un centro focale su cui si fissa l'attenzione e un alone periferico di impressioni. La sola unità che si coglie è quella del pensiero transeunte che s'appropria degli atti passati, li collega e li riferisce al suo presente. Non resta traccia dell'anima o di un io sostanziale: il soggetto tende ad assottigliarsi e a dileguare, per far posto a un organismo che agisce in una situazione determinata.

Proprio nell'analisi dell'attività selettiva, che caratterizza la vita psichica sin dalle sue forme elementari, si scoprono le origini del pragmatismo jamesiano. I bisogni della vita ci spingono a trascendere l'immediatezza del sentire e a elaborare concetti a cui non corrispondono contenuti direttamente percepibili. La realtà delle idee s'esaurisce nella loro funzione e si dicono vere quanto più ci conducono nelle ‛vicinanze dell'oggetto, ce ne consentono il controllo. Il rapporto dell'individuo con la realtà circostante ne viene modificato e si può allora capire se l'idea ha ‛lavorato' soddisfacentemente oppure no (The meaning of truth: a se quel to ‛pragmatism', New York 1909, p. 195). Come aveva mostrato la psicologia dell'atto riflesso, la conoscenza tende a risolversi in una specie di satisfactory adaptation alle richieste dell'ambiente e il suo problema riguarda lo scopo che ci siamo proposti con questa o quella credenza. Ogni credenza, avvertiva James, va così considerata nella sua funzione e qualità inconfondibile. Per questo egli s'opponeva, nelle Varieties of religious experience del 1902, alle obiezioni dei medici positivisti che abbassavano la vita religiosa a fenomeno patologico e rinunciavano a un atteggiamento descrittivo. ‟Trovo assurdo - scriveva al Leuba - che, se esiste il sentimento di una realtà invisibile condiviso da un gran numero di uomini nei loro migliori momenti, a cui altri uomini rispondono nei momenti ‛profondi', un sentimento capace di valere come una ragione vitale e di rafforzarci, trovo assurdo che la sua bontà ai fini della vita non abbia un significato obiettivo" (v. Perry, 1936, vol. Il, p. 350). Qui s'urtavano, tuttavia, due diverse tendenze. La prima era quella di un empirismo aperto alle varie forme dell'esperienza umana, da esplorare e saggiare in tutte le loro possibilità, anche in quelle eccezionali rivelate da Myers nelle sue indagini sulla coscienza subliminale; l'altra indicava nello stato mistico l'accesso privilegiato a un essere superiore, a un Dio che sostiene e dirige i nostri atti. In ogni caso, la prospettiva restava umanistica. Solo un Dio personale e finito potrebbe infatti esserci alleato nella costruzione di un mondo meno imperfetto dell'attuale, un mondo ben diverso dall'universo ‛senza crescita e senza novità' concepito dai trascendentalisti. Ma per questo, insisteva James, bisogna sanare il conflitto esistente tra la scienza della natura e la dottrina del destino individuale. Ci sono infatti situazioni in cui la nostra azione può venire paralizzata dallo scrupolo scientifico e deve subentrarle una decisione rischiosa, tale che ‟il pensiero diventa letteralmente padrone del fatto".

Mettendo insieme il vero e l'utile, James s'attirava molti sospetti con l'opera sua più famosa del 1907. Per quali aspetti, s'era chiesto il chimico C. W. W. Ostwald, il mondo sarebbe diverso se una o l'altra alternativa fosse vera? La domanda lo poneva tra i ‛precorritori' del nuovo metodo, come lo erano stati, seppure in forma frammentaria, Aristotele e Locke, Berkeley e Hume. Ma solo ora, annunciava James, il pragmatismo è diventato consapevole di una missione universale e si volge a ‟un destino da conquistatore". Esso rifugge dall'astrazione, dalle soluzioni verbali, dalle ragioni a priori e dai principi immutabili, dai sistemi chiusi e dai falsi assoluti; si volge alla certezza e all'adeguatezza, ai fatti, all'azione e alla forza; e tutto questo significa far prevalere un atteggiamento empiristico, la libertà e la possibilità contro il dogma, l'artificio e la pretesa a una verità definitiva (Pragmatism. A new name for some old ways of thinking, New York 1907, p. 51). Dio o Ragione, Assoluto o Energia sono parole che designano il principio dell'universo e danno ad alcuni l'impressione di possederlo: ma lì s'arresta la ricerca metafisica. Applichiamo invece il metodo pragmatico e ci accorgeremo che esse non chiudono la questione, che se ne deve accertare il valore in contanti (cashvalue) mettendole alla prova nel flusso dell'esperienza. Le teorie sono strumenti e non risposte a enigmi. Lo stesso sviluppo della scienza mostra come le varie concezioni non imitino la realtà e siano invece utili da un certo punto di vista, il loro linguaggio costituendo una specie di stenografia dove si trascrivono le nostre informazioni sulla natura. Chr. Sigwart ed E. Mach, J.-H. Poincarè e P. M. Duhem erano d'accordo su questo e con la regola pragmatista, quando ci dice che le ‟idee diventano vere nella misura in cui ci aiutano a ottenere una relazione soddisfacente con le altre parti dell'esperienza". Le idee vere sono quelle che riusciamo ad assimilare, convalidare e confermare: la verità di un'idea non è dunque una sua proprietà, ma un evento, un processo, o, più precisamente, la sua verificazione.

Sul problema si sarebbe accesa la polemica con i ‛nuovi realisti'. Questi escludevano che le cose pensate subiscano qualche trasformazione da parte del pensiero; James replicava che la conoscenza non si esaurisce in un processo di scoperta e che occorre precisare la natura dell'agreement in cui consiste la verità. Le nostre idee ‛concordano' con la realtà quando ci conducono, attraverso le azioni e le altre idee messe in moto, nei suoi dintorni (neighbourhood) e sono in grado di controllarla intellettualmente e praticamente: come è vera ogni idea che avvia un tale processo di verificazione, così è utile la sua funzione quando si realizza nell'esperienza. Ma che cosa distingueva allora la teoria pragmatista della verità dalla più nota dottrina della volontà di credere? Ci sono dei casi in cui, non disponendo di prove empiriche e formali, dobbiamo decidere in base alle nostre esigenze emotive. Se ora si generalizza il criterio della satisfactoriness, non si vede come un'idea cessi di essere vera quando, pur mancando una dimostrazione o un test sperimentale, essa ci appaghi in qualche modo. Premuto da ogni parte da obiezioni che lo mettevano in caricatura, egli si difendeva nelle lettere agli amici e con i saggi raccolti in The meaning of truth del 1909: ‟La verità - ripeteva a Kallen - consiste nella verificazione attuale o possibile, e le credenze, comunque siano ottenute, vanno verificate prima di passare per vere. La questione se ci possa essere un diritto a credere in qualcosa prima della verificazione non riguarda la verità, ma la regola delle credenze" (v. Perry, 1936, vol. Il, p. 249). E con Perry era anche più esplicito: ‟Quando dico che, a parità di condizione, la considerazione che sembra moralmente più soddisfacente sarà tenuta dagli uomini come più vera di quella che lo sarà di meno, mi citano come dicessi che ogni cosa moralmente soddisfacente può essere giudicata vera, non importa quanto insoddisfacente essa sia dal punto di vista della coerenza logica con ciò che sappiamo o crediamo vero in rapporto ai fatti fisici e naturali" (ibid., p. 648).

Le scienze ricorrono a prove che garantiscono un sapere obiettivo, ma si connettono ai bisogni dell'uomo che se ne riserva il controllo e la direzione. Il pragmatismo vuole evitare un loro eventuale conflitto e ciò lo distingue dalle altre filosofie. Se nella prefazione di Pragmatism James ne aveva sostenuto l'indipendenza dalla dottrina più tecnica dell'empirismo radicale, l'opera già segnalata del 1909 accennava a un loro rapporto. Il nuovo empirista prescrive che le questioni filosofiche si definiscano in termini di esperienza; egli assume che ‟le relazioni che connettono le esperienze debbano essere anch'esse sperimentali, così che ogni tipo di relazione sperimentata si consideri reale allo stesso modo di qualunque altra cosa nel sistema"; fa infine seguire una conclusione generalizzata per cui ‟l'universo direttamente appreso non ha bisogno di alcun supporto connettivo transempirico, possedendo una sua struttura concatenata e continua" (The meaning of truth, pp. 12-13). Le differenze con l'empirismo classico non potevano essere più chiare e convenienti al pragmatista, che fa consistere il significato di un'asserzione in una qualche conseguenza della nostra esperienza futura e richiede che essa sia particolare piuttosto che attiva. Le idee ci portano da una parte all'altra dell'esperienza e sono vere quando ci riescono: la domanda se corrispondano o no agli ‛oggetti' è dunque non sensical (v. Ayer, 1968, p. 225). Ma perchè i dualismi e le entità inverificabili siano eliminati, occorre che tale esperienza sia pura. Conoscente e conosciuto non si oppongono e si dicono tali solo per il rapporto in cui vengono a trovarsi: la cognizione percettiva rappresenterà allora la forma di relazione più semplice alla quale si riduce, in ogni caso, la conoscenza concettuale. Ma come va intesa più propriamente questa esperienza? Essa è qualcosa di originario e indifferenziato, ‟il flusso immediato di vita che fornisce il materiale alle nostre successive riflessioni con le sue categorie", un flusso che tende a riempirsi di elementi in rilievo, identificabili e fissabili, così da essere attraversato da aggettivi e nomi, preposizioni e congiunzioni. Le differenze non riflettono alcuna sua duplicità, non sono ontologiche ma contestuali. Questa penna, ad esempio, è in prima istanza un semplice che (that); se essa contiene inchiostro, segna la carta e obbedisce alla mano che la guida, è una penna fisica, mentre, quando viene e va con il movimento dei miei occhi e muta con la mia immaginazione, è un percetto della mia mente (How two minds can know one thing together, in Essays in radical empiricism, New York 1912, pp. 123-124).

I saggi sull'empirismo radicale ponevano una quantità di problemi, a metà strada tra la psicologia e la metafisica. Diversamente da Russell, James negava in Does consciousness exist ? che ci sia una qualche materia generale di cui sarebbe composta l'esperienza: esistono, invece, tante materie quante sono le ‛nature' delle cose sperimentate, e ‟ogni particella dell'esperienza pura è costituita dal ‛che' di ciò che appare dello spazio, dell'intensità, della piattezza, del color bruno, della pesantezza e di altro ancora". Ma al Congresso internazionale di psicologia del 1905, egli tornava sulle esperienze pure che entrano in rapporti che sono i più diversi e sono parti essi stessi del continuo esperienziale: esse rappresentano gli elementi ultimi della realtà e si compongono di una medesima stuff la stoffa dell'esperienza in generale, la cui filosofia non è che una Identitätsphllosophie più frammentata (W. James, La notion de conscience, in Essays in radical empiricism, New York 1912, p. 233). Ora queste ‟entità neutre" non andavano molto d'accordo con un pragmatismo orientato naturalisticamente. Una distinzione tra soggettivo e oggettivo, notava Dewey, dovrebbe sorgere quando lo richiede la migliore direzione del comportamento e occorre sapere se un dato suono o colore sia il segno di un oggetto nell'ambiente o di un processo dell'organismo; gli ultimi scritti di James sembravano invece suggerire che tali entità siano un genere di sostanza di cui partecipano il soggetto e l'oggetto (v. Dewey, 1946, p. 405). Se peraltro si ammette la loro dualità funzionale, come si spiega l'azione del soggetto? La soluzione pragmatista, sospesa tra l'esperienza neutra e la prospettiva biologica che insiste sull'interazione tra gli organismi e l'ambiente, si caricava così di molte ambiguità.

James stesso ammetteva d'andare a tentoni. Nelle conferenze di A pluralistic universe, le entità neutre erano respinte come una sorta di astrazione o idea limite e al loro posto subentravano le pulsazioni (pulses) o gocce d'esperienza. Nella pulsazione vitale presente in ciascuno di noi ‟c'è un po' di passato, un po' di futuro, un po' di coscienza del nostro corpo e delle persone altrui": si tratta di un evento singolare, individuato nello spazio e nel tempo, eppure continuo con quelli che l'hanno preceduto (A pluralistic universe, New York 1909, p. 286). Questo flusso sensibile ripeteva i tratti della corrente di coscienza e si prestava a una ipotesi metafisica in alternativa al monismo di Bradley e di Royce. Se una cosa può congiungersi a un'altra senza che abbia con essa alcun rapporto immediato, allora la molteplicità delle relazioni che ogni parte ha con le altre, effettive o possibili che siano, non esclude l'idea di un universo aperto e in continuo sviluppo. Su un tale universo, sul modo d'intenderlo e viverlo, premevano le suggestioni di Fechner e di Bergson e n'era acuito un dissidio mai composto nel pensiero jamesiano. Da una parte stava il pragmatista che s'oppone alle teorie rappresentative della conoscenza e insiste sul ruolo attivo dei concetti: come fiori staccati dal loro stelo, essi vengono isolati dalla corrente dell'esperienza, si organizzano in un sistema e sono utili ai nostri progetti. Dall'altra lo psicologo ‛scivolato' nella metafisica scopriva le antinomie in cui cadono questi sistemi quando vogliono piegare la realtà alla coerenza formale: essi funzionano là dove la natura presenta dei caratteri matematici, ma la realtà ‟contiene tutti questi sistemi ideali e molte altre cose ancora". Più forte sembrava allora, nei Some problems of philosophy, la nostalgia di un mondo immune dalle distinzioni intellettuali.

3. Dewey e la teoria dell'indagine

Potremmo ridurre il pragmatismo a un metodo o a una dottrina del significato. Ma in questo caso non ne faremmo la storia che, in Peirce come in James, supera di continuo questi limiti. Non a caso Dewey sarebbe tornato sugli usi controversi del termine ‛pragmatico', riservandolo alla ‟funzione dei risultati come verifiche della validità delle proposizioni, purché gli stessi risultati siano operativamente stabiliti e siano capaci di risolvere il problema specifico che ha provocato quelle operazioni" (J. Dewey, Logic: the theory of inquiry, New York 1938, p. 4). Comte e soprattutto lo Hegel appreso da G. S. Morris alla Johns Hopkins erano stati tra i suoi maestri; poi la lezione darwiniana gli aveva mostrato come una ricerca sul pensiero non potesse astrarre dalle sue condizioni biologiche e come i suoi processi fossero descrivibili in termini di comportamento. Se i Principles of psychology di James restavano la migliore introduzione alla teoria pragmatista della conoscenza, occorreva opporsi più decisamente alla logica epistemologica, che ignora il contesto dell'indagine e trascura gli scopi e i valori che vi sono implicati. Lo confermavano gli esperimenti pedagogici all'Università del Michigan e poi di Chicago, il lavoro seminariale che confluiva negli Studies in logical theory, e l'opera sua forse più caratteristica, Democracy and education del 1916. Con essi il pragmatismo abbandonava il terreno delle dispute e s'avviava a diventare un mito americano, dove s'esprimevano, nel passaggio da una struttura rurale a una industriale, le esigenze di un ceto professionale ricco di iniziative e orientato pluralisticamente.

Il concetto e il metodo dell'esperienza si erano modificati con lo sviluppo di una psicologia fondata sulla biologia. La vita mentale non nasce da sensazioni che sarebbero ricevute separatamente e passivamente, e s'unirebbero, tramite le leggi della memoria e dell'associazione, in un mosaico di immagini e di percezioni. Dove c'è vita, c'è comportamento e attività, e perché possa continuare, l'attività deve adattarsi all'ambiente, come nel caso del mollusco che sceglie alcune sostanze per nutrirsi e formare la conchiglia che lo protegge. L'organismo non se ne sta inoperoso, ad aspettare, come il signor Micawber, che gli capiti qualcosa, e il suo rapporto con l'ambiente diventa per il filosofo la categoria fondamentale. La conoscenza non basta a se stessa, i sensi sono gli stimoli per l'azione e la disputa tra razionalisti ed empiristi sul merito della sensazione appartiene ormai al passato. L'esperienza si identifica con un processo autoregolativo che coinvolge la scienza e la ‛ragione'. Così lo stesso tentativo kantiano di ordinare l'esperienza per mezzo dei concetti intellettivi ne limita alla fine la ‟varietà vivente" e inclina al dogmatismo. Ugualmente si deve rifiutare l'esito scettico dell'empirismo che ‟scopriva associazioni accidentali consolidate in abitudini, sotto l'influsso di interessi egoistici o di classe". Altrimenti resteremmo presi nell'alternativa tra una rigida sintesi e un'analisi disgregatrice, a cui il senso comune non saprebbe opporre se non la fede o l'intuizione o un qualche compromesso, e perpetueremmo la deficienza teorica che è stata l'ostacolo ai movimenti liberali nei secoli scorsi (Reconstruction in philosophy, New York 1920, cap. IV).

Le conferenze deweyane di Experience and nature contestavano i filosofi che avevano assimilato l'esperienza ai prodotti più elaborati intellettualmente. Essa si distingue dalla coscienza, che è ciò che appare qualitativamente e localmente in un dato momento, e non è nemmeno la corrente dei sentimenti e delle idee che scorre alla sua superficie. Piuttosto l'esperienza è storia, se per storia s'intendono gli eventi e i giudizi che ne davano gli uomini: un fatto, come diceva James, ‟a doppia faccia". Non ci fossero ‟il sole, le stelle, le montagne, i fiumi, le foreste e le miniere, il terreno, la pioggia e il vento", non ci sarebbe la storia; ma neppure la storia esisterebbe se mancassero le nostre valutazioni e i nostri interessi. Per il filosofo l'esperienza è soprattutto un metodo e può includere i sogni, la pazzia, la morte, la magia e la superstizione come la scienza; essa gli si impone come memento di qualcosa che non è nè soggetto nè oggetto, nè materia nè spirito, e neppure l'una più che l'altra cosa. Così ‟il posto della natura nell'uomo non è meno significante del posto dell'uomo nella natura. L'uomo nella natura è l'uomo sottomesso alla natura; la natura nell'uomo, riconosciuta e usata, è intelligenza e arte" (Experience and nature, Chicago-London 1925, p. 28).

L'esperienza non si risolve in un dato o in un insieme di dati originari, ma designa il campo di una possibile ricerca. Non si spiegherebbe altrimenti come nasca e operi il pensiero, che è tale solo quando è ‛situato' e premuto da bisogni oggettivi. Lo sa bene il pragmatista, che non lo distingue dall'uso delle materie e delle energie naturali, come il fuoco e gli utensili, che formano e riordinano altre materie; egli non cade nella fallacia che converte questa funzione, questa iniziativa sperimentale connessa a un preciso contesto, in una realtà eterna quale l'idea platonica o il logo hegeliano (ibid., p. 68). Le idee sono dunque dei piani d'azione e il ragionamento s'incarica di chiarirne il senso, facendo uso di simboli che possono appartenere al linguaggio comune e a quello tecnico delle scienze. Se per l'empirismo tradizionale il mondo è già fatto e il pensiero ha il solo compito di riassumere i casi particolari, ora lo strumentalismo gliene oppone uno diverso, dove il futuro non è una pura parola, dove le teorie e le nozioni hanno un effetto sulle azioni e la ragione ha necessariamente una funzione costruttiva (Philosophy and civilization, New York 1931, pp. 24-25). La verità si rivela nel numero crescente di asserzioni giustificate e ci introduce alla saggezza, che è l'applicazione di quel che conosciamo alla condotta intelligente delle faccende della vita umana.

L'adattamento vitale prefigura il modello generale della ricerca e introduce una continuità tra le varie procedure scientifiche. Ciò ripropone il concetto di fine naturale, liberato dai pregiudizi ereditati dal pensiero classico per cui la verità consiste in una visione dell'essere donde sono esclusi gli oggetti d'amore o di valutazione. Esso non ha che fare con gli scopi dell'uomo ed esclude ogni gerarchia in vista di una sua forma finale. Le cose empiriche sono soltanto ciò che sono sempre state: termini di processi naturali. Così la fisica non pone un regno diverso e reale di sostanze antitetiche, ma aggiunge al possesso casuale dei fini la capacità di regolare la data, il luogo e il modo della loro emergenza (Experience and nature, Chicago-London 1925, p. 143). Non avessimo scoperto un ordine matematico, ne dovremmo trovare un altro perché i nostri progetti riescano. Gli eventi sono unici e instabili, ma le leggi ne guidano il corso e non rappresentano i loro ‟rivali metafisici". Qui viene meno il dualismo tra scienze pure e applicate; le prime sono astratte di necessità, ma l'emozione che ci procura la loro purezza è di specie piuttosto abbietta e c'induce a trascurare che ogni conoscenza è sempre riferita a una situazione; proprio gli oggetti matematici, semmai, restano misteriosi se non li reinseriamo nei fatti da cui li abbiamo tolti (ibid., pp. 161-165).

Peirce aveva visto nella logica deweyana una ‟storia naturale del pensiero". Ma si tratta di una storia che non ignora il passato e generalizza una serie di prescrizioni per il nostro comportamento. Gli uomini pensano male se non badano alle tecniche già utilizzate o s'ostinano in un metodo che si mostra inadeguato a certi scopi. Questi si chiariscono in rapporto ai bisogni di una situazione che solo impropriamente si attribuisce all'io. Quando si dice ‟io penso, credo o desidero", invece di dire ‟si pensa, si crede, si desidera", si afferma una responsabilità o si avanza una pretesa, non si indica nell'io l'autore o l'origine del pensiero e nemmeno la sua sede esclusiva: ci si limita ad asserire che l'io, come organizzazione accentrata di energie, si identifica con una credenza che ha un'origine esterna e ne accetta le conseguenze (ibid., p. 233). L'iniziativa del singolo non va quindi negata, ma si misura con una prospettiva che è complessa e deve restare aperta al controllo perché i valori s'inseriscano nell'esperienza in modo più sicuro e ampiamente condiviso (The quest for certainty, New York 1929, p. 44). Questo schema o modello della ‟frontiera", come lo chiamava Wright Mills, esige però che l'universo scientifico si riconcili con quello dell'etica. Se la ricerca consiste nella ‟trasformazione controllata e diretta di una situazione indeterminata in una situazione determinata nelle sue differenze e relazioni, tale da convertire gli elementi originari in un tutto unificato", anche i giudizi di valore vi sono coinvolti e sottostanno alle sue regole. Non vale distinguere tra le tecniche escogitate per il dominio della natura e quelle che dirigono i comportamenti: l'intelligenza è, nel suo uso normale, un termine pratico e il filosofo non ha di mira che la ricostruzione razionale della nostra vita.

Già in uno dei primi scritti, Moral theory and practice, il ‛dovrebbe' veniva a coincidere con l'‛è' dell'azione. Non c'era un mezzo ‛subalterno' a un fine ‛liberale ed escatologico' se si lasciavano cadere i dualismi tradizionali di teoria e prassi e si guardava il lavoro dei vari gruppi professionali in un'economia in espansione. Ma se la loro ascesa forniva un modello generalizzabile per l'educazione e la prassi politica, com'era poi possibile, in una situazione problematica caratterizzata biologicamente, accertare lo stato di questi gruppi e i loro eventuali conflitti con le altre forze sociali? Le obiezioni non muovevano solo da parte marxista. Se il valore vien fatto dipendere dall'uso di un metodo, non ne segue che ogni visione ideale si giustifica tutte le volte che ‛riesce'? E l'intelligenza scientifica non finirà coll'eliminare i fini assimilandoli ai mezzi e garantendone la continuità? A Dewey queste obiezioni sembravano moralistiche. L'efficienza non va scambiata con il sopruso e una ‟tecnica delle applicazioni e delle procedure in grado di distinguere negli eventi quel che c'è di vero e di falso, per mezzo di determinati trattamenti in situazioni determinate" si oppone a ogni forma di spreco intellettuale o di violenza. Una comunità è democratica quando si riconosce in un progetto a cui tutti possono collaborare senza pregiudizio o diminuzione della loro personalità: altrimenti prevarranno i regimi totalitari, gli apparati della burocrazia e le polizie.

Non mancano, nel riformismo deweyano, la nostalgia di un mondo contadino insidiato dagli aggregati urbani e il timore di una vita impersonale. È nel rapporto dell'uomo con l'uomo, quando i bisogni o gli interessi li avvicinano in una certa situazione, che un'etica scientifica individua le condizioni della valutazione. Che esse debbano cercarsi fuori di una tale esperienza, notava Dewey, è ‟una delle più strane credenze accolte dall'uomo" e non ne va immune la teoria emotiva dei valori che trascura il contesto esistenziale delle valutazioni, si tratti dei comportamenti in cui gli uomini esprimono le proprie preferenze o degli enunciati valutativi. Perché queste non dovrebbero avere un significato quando, muovendo dai desideri di certi oggetti o stati di cose, sono associabili a date operazioni? Queste si possono descrivere e mostrano come, in vista di certi fini, abbiamo adottato certi mezzi. Ora non ci sono fini che non ammettano a loro volta delle conseguenze, che non appaiano essi stessi strumentali, e così avviene che le cose, toccate in qualche modo dagli interessi umani, costituiscono un ‛continuo mezzo-fine'. Ci si può ancora chiedere: se la scelta dei fini ammette un regresso all'infinito, com'è che si danno delle valutazioni? Dewey eliminava la difficoltà riferendosi alle esigenze che nascono dalle situazioni di conflitto, in quanto ‟il valore dei diversi fini prospettati verrà allora stimato o misurato sulla loro capacità di guidare l'azione verso il bene", ossia a soddisfare determinati bisogni (Theory of valutation, in International encyclopaedia of unified science, Chicago 1939, vol. Il, n. 4, p. 46). Così, pur mancando un criterio che stabilisca il merito delle soluzioni proposte nei casi concreti, le esperienze passate provano come le scelte si siano sempre volte a ricomporre l'equilibrio biologico e sociale che s'è spezzato e come un tale equilibrio rappresenti il valore finale delle nostre azioni. Se dunque i valori definibili in termini di esigenze si riferiscono a comportamenti, gli enunciati valutativi che li esprimono dovrebbero soddisfare almeno in parte i criteri di significanza e di verificazione richiesti per quelli delle scienze empiriche. Ma, ammesso tutto questo, essi non finiranno col designare semplicemente degli atteggiamenti individuali? Sia poi l'equilibrio bio-sociale il fine delle azioni umane o il mezzo efficace per conseguirlo, non ne conseguirà che si può determinare soltanto la desiderabilità del secondo quando il primo sembra adeguato, mentre non è verificabile l'enunciato che riguarda il fine? Che l'etica si giovi del metodo scientifico per stabilire i rapporti tra i mezzi e i fini, forse questo, notava Reichenbach, è tutto quello che il pragmatista vuol dire: se egli invece pensa di dedurre o provare il fine a cui devono volgersi gli uomini, allora la sua è una pretesa ingiustificata.

Peirce aveva accennato allo sviluppo indefinito della ricerca, Dewey si fermava sulle situazioni problematiche che ne sono all'origine. Ma il ‟modo uniforme di operazione e di mutamento" che caratterizza l'indagine, la sua continuità organica, sembrano talora garantire la ricomposizione degli equilibri perduti e la certezza del valore. La sua etica potrebbe allora intendersi come una versione ‛democratica' del principio romantico dell'autorealizzazione (v. Brodbeck, 1952, p. 51). Sicuramente restava di esso qualche traccia nelle lezioni sulla religione tenute nel 1934 alla Yale University. L'idea del divino v'era indicata come quella di possibilità che si uniscono e si realizzano in una proiezione immaginativa. Essa non s'incarna nella realtà e tuttavia non è priva di radici come le utopie, esprime una scelta e un'aspirazione. Una religione senza rapporti con la natura è ‟pallida e scarna", diventa addirittura presuntuosa quando eleva l'umanità a oggetto di culto e si trascurano le energie che vi sono impegnate in vista di un bene ultimo. Dewey insisteva su questa relazione attiva tra l'ideale e il reale, le attribuiva il valore di una creazione sperimentale e continua: ‟L'artista, l'uomo di scienza, il buon cittadino dipendono da ciò che gli altri hanno compiuto prima di loro e vanno tuttora compiendo. Il senso dei nuovi valori, che diventano fini da realizzare, nasce dapprima in forma oscura e incerta. Quanto più i valori sono perseguiti nell'azione, tanto più guadagnano in determinatezza e coerenza. L'interazione tra il fine e le condizioni delle cose migliora e mette alla prova l'ideale; ma, nello stesso tempo, anche quelle condizioni sono modificate. Gli ideali si trasformano a misura che si applicano nella realtà esistente. Il processo continua e procede con la vita dell'umanità. Quando tutti riconosceranno che i fattori vitali di tale processo naturale sono il sentimento, il pensiero e l'azione, lo stesso ne sarà accelerato e purificato con l'eliminazione di quell'elemento irrilevante che culmina nella nozione del sovranaturale" (J. Dewey, A common faith, New Haven 1934, pp. 49-50). Nella natura e nella società ci sono forze che generano e sostengono tali ideali. Così, se ancora si può pronunciare il nome di Dio, esso va riservato a questa ‟relazione attiva fra l'ideale e il reale".

4. La filosofia europea di fronte alla problematica pragmatista

Pure con le loro ambiguità, ci sono nei pragmatisti alcuni elementi comuni. Ph. P. Wiener e Morris li hanno indicati nel darwinismo, nel metodo sperimentale e nella democrazia. Non li ritroviamo nei filosofi europei che, a torto o a ragione, venivano avvicinati alle nuove idee d'oltreoceano. È il caso di F. C. S. Schiller che faceva della logica una questione psicologica e affidava all'esperienza il compito di discriminare le credenze più vantaggiose. Il suo progetto metafisico aveva per bersaglio polemico l'Assoluto di Bradley e si fondava su una conoscenza fatta su misura dell'uomo e dei suoi bisogni: c'è un Valore che è più originario del Fatto e stabilisce la priorità dell'azione (F. C. S. Schiller, Humanism, London 1903, p. 10). La volontà non interviene soltanto, come aveva avvisato James, nei casi in cui viene a mancare una qualche prova empirica e formale: essa condiziona tutta la vita intellettuale e la lotta che l'uomo combatte con Dio contro il male che resiste nell'universo. Così il moderno Protagora cercava di scuotere, con la sua idea di una redenzione cosmica, le istituzioni della compassata società vittoriana: una visione metafisica che aveva poco o nulla da spartire con i progetti scientifici del Metaphysical Club.

Anche i circoli bergsoniani ne restavano lontani. Il lavoro dello scienziato appariva un'invenzione meccanica, che fabbrica e utilizza oggetti artificiali, che ripete i tratti della materia come l'esteriorità reciproca delle parti, l'immobilità e la discontinuità. La scienza non tocca le radici del pensiero e della vita: non è e non sarà mai capace, avvertiva E. Le Roy, di comprendere le cose in ciò che le fa essere diverse l'una dall'altra (Une nouvelle philosophie: Bergson, Paris 1912, p. 120). Essa spezzetta il reale in rapporti misurabili e paga la sua obiettività con la parzialità, con una percezione indiretta e diminuita. Duhem e Mach, tra gli altri, avevano già cercato di chiarire la struttura delle teorie scientifiche; s'erano posti il problema della loro funzione, descrittiva o esplicativa o pragmatica ai fini della previsione, se abbiano un'origine empirica o siano di natura convenzionale. Che in tali ‟reti sospese nello spazio", come le avrebbe chiamate Hempel, lo scienziato sia attivo e abbia la sua parte, Le Roy ammetteva senz'altro. Ma con questo la scienza non fa che assecondare un disegno utile ai nostri scopi e tenerci lontani dalla nostra spiritualità.

Lo stesso atteggiamento era ravvisabile, agli inizi del secolo, nella querelle modernista. Perché mai la Chiesa dovrebbe ricorrere a delle prove, ‛dedurre' Dio, scimmiottare la scienza? Perché i dogmi ci si dovrebbero imporre come verità eterne? Una verità si giudica dai servizi che rende e dall'influenza che esercita sull'intero campo del sapere, non è una ‛cosa' ma una ‛vita', è meno un termine che una crescita. Anche il dogma, come avevano visto A. Loisy e L. Laberthonnière nella loro opera esegetica, va tolto all'immutabilità e fissità conoscitiva cui l'aveva costretto la tradizione scolastica. Così, nell'articolo Qu'est-ce qu'un dogme?, apparso su ‟La quinzaine" del Fonsegrive nell'aprile del 1905, Le Roy esponeva in tutta la loro forza gli argomenti è ne facevano repugnante la stessa idea. Il difetto delle prove addotte a sostegno, la scarsa intelligibilità risalente alle sue varie origini, l'estraneità allo sviluppo del sapere positivo privano il dogma di ogni consistenza teoretica. Quale ne era allora il significato più autentico? Ne esiste uno negativo e indiretto che contribuisce a eliminare certi errori, come nel caso della proposizione ‟Dio è personale", dove s'esclude che esso sia una legge morale o una categoria formale. Ma il dogma ha soprattutto un senso pratico ed enuncia una prescrizione, sicché la stessa proposizione sta a indicare che dobbiamo comportarci con Dio come con una persona umana; non diversamente, il dogma della presenza reale ci impegna, davanti all'ostia consacrata, in un atteggiamento identico a quello che avremmo verso il Cristo fattosi visibile e presente (É. Le Roy, Dogme et critique, Paris 1907, p. 27). A questo punto, ogni oscurità dilegua e tutto diventa chiarissimo: il cristianesimo ci si rivela una soteriologia che non astrae dalla vita e dalla storia, una regola della nostra azione morale e religiosa.

Solo la domanda e il dubbio, diversi per ognuno di noi, ci spingono verso le regioni dello spirito. Ma soltanto l'intuizione o, come diceva il Le Roy ormai pacificato delle ultime lezioni al Collège de France, la pensée-action v'aveva accesso. Non si trattava di una ‛facoltà' perché questo pensiero ‟è anzitutto vita, invenzione, produttività. È il pensiero che dona, efficace e fecondo, non quello puramente discorsivo o inteso come una semplice contemplazione di una realtà già data. Lo spirito non è luminoso soltanto per la riflessione analitica e retrospettiva, non lo è per la capacità di spezzettare e astrarre, generalizzare e mettere in relazione. L'atto creatore può essere attinto, non dal di fuori e a posteriori, ma nel suo stesso divenire e dal di dentro" (È. Le Roy, Essai d'une philosophie première, Paris 1956, vol. I, p. 217). Questo pensiero non ripete i tratti formali del cogito cartesiano, è bensì lo spirito che tende a congiungersi con la persona divina. Nè il suo dinamismo si limita all'uomo, ma s'estende alla stessa natura donde egli emerge e dove tutto è slancio e movimento, nonostante le stasi e gli arresti improvvisi.

Se una tendenza emerge agli inizi del secolo dalle varie proteste filosofiche, essa è nella direzione del ‛concreto'. Vers le concret: Jean Wahl ne ha esplorato le ragioni, ma bisognerà insistere sui suoi significati controversi. Un fraintendimento, forse il più grave, riguardava il carattere strumentale del pensiero. Ne derivava una svalutazione delle scienze rintracciabile nella critica del marxismo intrapresa da Sorel o più decisamente incline alle avventure irrazionali come il mito nietzscheano del superuomo. Altre volte accadeva che l'attacco alle metafisiche ottocentesche unisse sul momento pensatori diversissimi, come G. Papini e G. Vailati, direttore e collaboratore del ‟Leonardo" fiorentino. Il primo, citato e lodato da James per la sua immagine della verità-corridoio, auspicava un ritorno al Medioevo e già vedeva tornare, dalle ombre lontane, i maghi e gli occultisti, i mistici e i santi; il secondo veniva dalla scuola di Peano e seguiva da vicino le discussioni sui fondamenti della matematica e dell'epistemologia. Di mezzo c'era la regola pragmatista che l'uno piegava a una volontà di credere disinibita ed ‛eroica', e l'altro intendeva al modo di Peirce, nel senso che sempre, a proposito di un enunciato o di un problema, occorre indicare le esperienze alle quali ci si riferisce, se si vuole che essi abbiano, prima ancora che si tratti della loro verità, un significato. Utilitario il pragmatismo? Esso lo era certamente, ma solo perché scartava un certo numero di questioni inutili ‟non per altre ragioni che perché esse non sono che delle questioni apparenti, o, più precisamente, non sono delle questioni affatto" (Le origini e l'idea fondamentale del pragmatismo, in Scritti, Firenze-Leipzig 1911, p. 921). Non avvedendosi di ciò, i positivisti erano incorsi in un agnosticismo dogmatico. Ora non se ne poteva uscire che affidando al filosofo un compito prevalentemente analitico. Non si trattava infatti di organizzare le categorie in un sistema, come il Croce, ma di occuparsi dei modi in cui funzionano in questa o in quella ricerca e di correggerle se del caso: un lavoro da artigiano, modesto all'apparenza e invece difficilissimo.

5. Il behaviorismo sociale e la semiotica

Ma le avanguardie europee inseguivano novità più clamorose. La figura dell'analista mancava di fascino, soprattutto nei paesi privi di una tradizione empiristica e con una cultura di tipo aristocratico. Tanto meno erano accolte, se non per derivarne delle ambigue supremazie, le dottrine dell'evoluzione. Il laboratorio pragmatista, dove si fabbricano comportamenti e le credenze si mutano in abiti d'azione, sarebbe così rimasto un'istituzione americana. È qui che incontriamo O. H. Mead, già famoso negli anni novanta, a sentire Dewey. Di fatto i critici l'avrebbero ignorato, Ralph Barton Perry compreso, e la cosa non stupisce se si pensa alla sua riluttanza a esporre in un libro le proprie idee. Con lui l'evoluzione diventava un'idea generale, un'idea guida della filosofia e delle scienze costrette a familiarizzarsi con un certo processo e a vedere come ne derivassero le forme delle cose. Non tanto contava che fosse giusta l'ipotesi lamarckiana o darwiniana, ma che il processo, assumendo ora questa e ora quella forma, si potesse distinguere per la struttura di tali forme e che queste s'intendessero come il luogo di una funzione. Non diversamente il pragmatismo aveva trattato della mente e dell'intelligenza in una prospettiva naturalistica e dinamica, quella dei rapporti tra l'organismo e l'ambiente, dove cadevano tutti i dualismi tradizionali (O. H. Mead, Movements of thought in the nineteenth century, a cura di M. H. Moore, Chicago 1936, p. 165).

Con Mead la psicologia postdarwiniana abbandonava i suoi presupposti individualistici e considerava il comportamento in termini sociali. Le filosofie idealistiche di Hegel e Royce erano state d'accordo sul primato della società, ora bisognava provarlo in un contesto sperimentale. Anche il gesto dei singoli, come aveva appreso da Wundt, non si limita a esprimere un' emozione e rappresenta piuttosto la risposta di un individuo a un altro, il primo momento di un atto sociale. Allo stesso modo si spiegano l'emergere graduale del self e le operazioni che condizionano l'attività simbolica. Ma che si deve dire, anzitutto, di questo Sé? Esso si distingue dall'organismo che esiste e agisce intelligentemente senza che nell'esperienza sia coinvolto un Sé. La sua caratteristica consisterà piuttosto nell'essere oggetto a se stesso, così come viene indicato dalla parola che lo designa, trattandosi di un riflessivo che sta insieme per il soggetto e l'oggetto (O. H. Mead, Self, mind and society, Chicago 1934, p. 136). Come procede ora una spiegazione comportamentistica della coscienza, come accade che un individuo diventi il proprio oggetto ? La coscienza o esperienza non può essere collocata nel cervello, a meno di accettare una concezione spaziale della mente e il solipsismo fisiologico di Russell. Essa è funzionale, si situa in un mondo oggettivo che sta in rapporto con l'intero atto dell'organismo di cui il sistema nervoso costituisce una sezione specializzata. Più precisamente, si dovrà parlare di un organismo e di un ambiente che si determinano l'un l'altro e sono mutualmente dipendenti. Così l'individuo non riesce ad avere altra esperienza di se stesso che ‟assumendo gli atteggiamenti tenuti nei suoi confronti da quanti vivono con lui in un medesimo ambiente sociale o contesto di comportamento" (ibid., p. I 38). Il Sé richiede insomma una comunicazione di simboli, è una struttura sociale che può mantenersi o entrare in crisi.

Mead andava ben oltre il behaviorismo di Watson, che riduceva il linguaggio ai movimenti delle corde vocali. Se ci riferiamo a una conversation of gestures, troviamo infatti che i simboli divengono significanti quando l'individuo evoca in se stesso la risposta che il suo gesto produce negli altri e si giova di una tale risposta per il controllo della propria condotta. Egli può anche separare il senso di quel che dice agli altri dal discorso reale o prepararlo prima di pronunciarlo, rifletterci sopra e scriverlo in un libro; ma ‟tutto questo è ancora una parte del rapporto sociale per cui ci si rivolge ad altri rivolgendosi nel contempo al proprio Sé e si dirige il discorso per mezzo della risposta al proprio gesto" (ibid., p. 142). Il Sé dei singoli riflette infatti la struttura dei comportamenti del gruppo sociale a cui appartiene ed è tale solo in rapporto ai Sè degli altri gruppi.

La comunità che fornisce all'individuo la sua unità in quanto Sè è l'‛altro generalizzato', come è il caso di una squadra di calcio quando si inserisce nell'esperienza dei suoi membri. Se il Me è l'insieme organizzato degli atteggiamenti altrui che lo stesso individuo assume, l'Io ne rappresenta la risposta e si tratta di una risposta non anticipabile. Siamo consapevoli della situazione, ma il modo preciso in cui agiremo ci è noto solo dopo avere agito. Esiste una necessità morale, non una necessità meccanica. L'Io e il Me sono separati nel processo, ma si compenetrano in quanto parti di una totalità; il Sé è fondamentalmente un evento sociale che si sviluppa in rapporto a questi due momenti distinguibili tra loro. D'accordo con gli altri pragmatisti, Mead non considerava l'individuo come un burattino guidato dal mondo circostante. Così la risposta dell'Io implica un adattamento che non coinvolge soltanto il Sé, ma anche le condizioni sociali che lo producono. Essa riflette un tipo di evoluzione in cui l'individuo influenza l'ambiente e ne viene influenzato: c'è un effetto dell'ambiente sul protoplasma vivente e c'è una reazione dell'organismo a certi tipi di stimolo che esso organizza ai propri fini. Quando ciò procede soddisfacentemente in un'esperienza allargata, la società dispone di una nuova tecnica di controllo e regola la condotta dei singoli sulle conseguenze che la loro azione produce sugli altri. L'ordine non limita la nostra libertà e provoca possibilità ignote alla società primitiva.

L'esperienza è costituita da eventi che non sono proprietà degli organismi più che non lo siano delle cose, anche se queste sono sempre relative ai primi. Il problema consiste allora nel metterne d'accordo i caratteri rilevati dalle matematiche, la struttura e l'universalità, con quelli del processo e dell'ambiente emersi dalla biologia dopo Darwin. Il pragmatista non è di necessità un nominalista, egli non crede che un simbolo significativo sia arbitrario e per questo lo connette a un abito. È nell'atteggiamento (precisava Morris) che risiede l'idea o il concetto come universale. I concetti denotano qualunque oggetto abbia le caratteristiche adatte a servire da stimolo per la continuazione dell'atto. Ugualmente un universo di discorso è sempre un sistema di significati comuni, o, detto altrimenti, ‟gli universali sono costituiti da modi alternativi di comportamento in un numero indefinito di diverse condizioni o situazioni particolari, modi che sono più o meno identici per un numero non determinato di individui normali" (ibid., p. 90).

Il tratto più nuovo del pragmatismo sembrava a Mead la franca accettazione dell'esperienza. Questa si sottrae alle imposizioni delle filosofie assolutistiche ed esige un metodo da adottare e da difendere, quello intersoggettivo della scienza, dal quale ci attendiamo che i valori siano resi più stabili (G. H. Mead, A pragmatic theory of truth, in Studies in the nature of truth, Berkeley 1929, p. 88). In un'opera pubblicata nel 1932, The philosophy of the present, dove comparivano le sue conferenze per la Fondazione Carus, Mead ne traeva più d'uno spunto per una originale concezione del tempo e dell'evoluzione emergente. Il reale si situa sempre in un presente determinato e discontinuo con ciò che è stato; ma nondimeno, una volta affiorato, esso cerca di ricostruire il passato nei termini della propria esperienza. ‟Ogni nuovo presente si pone al centro di una prospettiva temporale che ‛delimita' e, se si vuole, sceglie quel che ha reso possibile la sua stessa singolarità" (The philosophy of the present, a cura di A. E. Murphy, Chicago 1932, p. 23). Questa relatività s'estende anche agli oggetti fisici in quanto le proprietà che li identificano, l'energia e lo spazio-tempo, sono esse stesse soggette al mutamento. Come è allora possibile ovviare alla mancanza di uno schema assoluto di riferimento? Occorrerà vedere nella teoria della relatività il caso più ampio della ‟assunzione del ruolo altrui" e collegarla alla fase del processo in cui l'uomo consegue l'oggettività sociale. Da esso emerge la mente e soprattutto la mente matematica che riesce a cogliere, nella pluralità dei sistemi relazionali, le invarianze strutturali.

Ma se si estende l'assunzione dei ruoli alle cose, obiettava Morris, non si corre il rischio di andare oltre gli osservatori e di fare del behaviorismo sociale una nuova specie di realismo filosofico? E ‛l'altro generalizzato' non diventa un equivalente del concetto di Dio e dell'Assoluto? Come nel caso dell'idealismo oggettivo di Peirce o del continuo mezzi-fini di Dewey, ci si trova dinanzi a un'estrapolazione metafisica. Ma una certa dose di coraggio speculativo, avrebbe replicato James, è pur sempre preferibile allo ‟spettro dell'aridità". Ora Mead non aveva dubbi su una socialità progrediente e sulla possibilità di conseguire una conoscenza della massima generalità. Niente esiste di più universale della scienza, niente che abbatta con altrettanta forza le barriere che separano gli uomini e i gruppi, che s'opponga più decisamente al ‟patriottismo e provincialismo". Così come è vero che un individuo diventa una persona quando partecipa a una comunità razionale e assume un punto di vista impersonale.

Si fosse limitato a fornire una regola, il pragmatismo non sarebbe parso così stimolante ai positivisti che avevano abbandonato le cattedre tedesche dopo la vittoria del nazismo. Esso suggeriva una visione più dinamica del sapere che coinvolgeva i rapporti tra le scienze formali ed empiriche. I concetti a priori o leggi non ci dicono niente sul mondo naturale, ma sono principi che adottiamo per la sua interpretazione: esistono delle logiche e delle geometrie in un numero tale che anche la ‟necessità logica", notava C. I. Lewis in Mind and the world order, diventa una questione di scelta. Un sistema categoriale prende il posto di un altro, ugualmente valido, quando lo impongono i nostri scopi e non c'è bisogno allora di una teoria dell'esperienza che spieghi la conformità del pensiero alla realtà. Ma Ch. Morris non si fermava a questo ‛pragmatismo concettuale' e indicava nella psicologia comportamentistica, subentrata con Dewey e Mead al sensismo machiano, il maggiore contributo alla nuova enciclopedia scientifica. Questa rendeva possibile una teoria dei segni in grado di cogliere il fatto scientifico nelle sue implicazioni e di non arrestarsi a esso, come il solo o il più importante della comunicazione. Ne veniva coinvolto tutto l'uomo, se la misura dei suoi segni è la stessa della sua libertà e la semantica è un fenomeno di crisi, un segno che non va tutto bene nei nostri segni (Ch. Morris, The open self, New York 1948, pp. 52-53).

Libera da presupposti metafisici, la logica non formula proposizioni sul mondo non linguistico e cessa così di essere una rivale dell'empirismo. I linguaggi sono creati e usati da viventi e le loro regole rappresentano degli abiti che si stabiliscono spontaneamente o per convenzione. La semiosi è un processo in cui qualcosa funziona da segno e si compone di un veicolo segnico (S), di un designatum (D), di un interpretante (I) e di un interprete: è un rendersi-mediatamente-conto-di-qualcosa che può intendersi in senso comportamentistico se accorgersi di D per la presenza di S vuol dire rispondere a D in virtù di una risposta a S (Ch. Morris, Foundations of the theory of signs, in International encyclopedia of unified science, Chicago 1938, vol. I, n. 2, È 2). La semiotica, facendone il proprio oggetto, è una scienza e insieme è una lingua in cui si parla della lingua delle scienze, uno strumento indispensabile per la ‛debabelizzazione' del sapere. La relazione dei segni con gli oggetti a cui si riferiscono ne costituisce la dimensione semantica, quella con gli interpreti si dice pragmatica, e sintattica è quella formale tra i segni medesimi: una relazione, quest'ultima, che non cade immediatamente nelle definizioni di ‛segno', in quanto l'usocorrente consente l'applicazione del termine anche a cose che non sono membri di un sistema di segni. Ora, pur ammettendo una semiotica analitica e convenzionale nel senso suggerito da Carnap, il pragmatista s'applicherà soprattutto allo studio empirico del comportamento segnico degli individui viventi.

È possibile una definizione behavioristica di segno? Se qualcosa, A, guida il comportamento verso un fine in un modo simile (non necessariamente identico) a quello in cui qualche altra cosa, B, guiderebbe il comportamento verso quel fine nel caso che B fosse osservabile, allora A è un segno. Non tanto interessa sapere che cosa sia propriamente un segno, quanto eliminare gli equivoci mentalistici e accedere a una situazione osservabile con una terminologia adeguata. Ma di quali mezzi disponiamo per distinguere ogni comportamento segnico? Dovremmo essere in grado di accertare tutte le condizioni per cui ogni cosa considerata può far da segno per ogni organismo considerato. Le difficoltà apparivano a molti le medesime incontrate dalla fondazione biologica della semiotica con le sue analogie sin troppo marcate tra l'attività simbolica degli individui e il processo dei riflessi condizionati. S'attenuavano invece le riserve sullo scientismo programmatico delle Foundations, dopo che Signs, language and behavior aveva indicato nel discorso filosofico uno dei possibili discorsi e lo sottometteva all'indagine semiotica, ossia a una scienza neutrale. Il linguaggio è un ‟fenomeno segnico di natura sociale", insisteva Morris, si sottrae alle censure neopositivistiche e va considerato nella sua complessità. Bisognerà allora distinguere i segni in base ai significata, che implicano un interpretante e dunque una disposizione a rispondere in certi modi a certi stimoli. Ci sono gli identificatori, i designatori, gli apprezzatori, i prescrittori e i formatori, cinque tipi che possono ridursi a quattro perché il primo è sempre presente nel comportamento segnico: dopo di che, incrociando le maniere di significare con gli usi dei segni, informativo e valutativo, incitativo e sistematico, ne viene fuori una tabella dei vari tipi di discorso che, se non è esauriente, ci consente di ridurre le ambiguità della comunicazione.

Così, quando ci volgiamo alla filosofia, troviamo che è dominata dall'uso sistematico dei segni nel senso più ampio. Il suo discorso contiene asserzioni, apprezzamenti e prescrizioni, attinge il proprio materiale dalle scienze, dall'arte e dalla religione e cerca di mettere ordine nelle credenze sulla natura del mondo e degli uomini generalizzando i cosiddetti ascrittori formativi (Ch. Morris, Signs, language and behavior, New York 1946, pp. 233-238). La filosofia non è unica perché riflette le esperienze dei singoli e dietro le stesse ci sono diverse società e culture. Ma questa pluralità configura un relativismo che può condurre, come aveva sostenuto Mead, a una maggiore oggettività. Alcuni filosofi l'escludono e altri l'accettano, nè la semiotica può imporre una soluzione. La scelta si pone tra le varie idee, ne promuove alcune al rango di ideali e ne fa dei segni prescrittivi. Il problema, adombrato dalle sette alternative vitali dei Paths of life del 1942 e poi sviluppato in The open self, era il medesimo del valore e conduceva alla proposta di un'assiologia empirica. Si dice che la scienza dà soltanto fatti e non ha a che fare con i valori, il che si spiega se pensiamo che la vita eccede sempre la conoscenza. Ma non se ne deve trarre una separazione troppo rigida tra scienze naturali e scienze socio-umanistiche. Tanto varrebbe confondere l'arte, la moralità, il gioco, il lavoro e la guerra, che sono attività allo stesso modo del lavoro del fisico o del meccanico, con le scienze di tali attività, ossia con l'estetica, l'etica, ecc. (Ch. Morris, Scientific empiricism, in International encyclopedia of unified science, Chicago 1938, vol. I, n. 1, p. 73). Ugualmente è possibile un'assiologia scientifica, uno studio del comportamento preferenziale nei suoi condizionamenti ambientali e nei suoi diversi gradi di stabilità. Un tale comportamento non va scambiato con quello semplicemente ‟riduttore dei bisogni" (need-reducing behavior). Occorre invece che l'interprete si disponga a una preferenza verso il valutatum, verso la cosa significata dall'apprezzatore: dopo di che, il controllo dell'apprezzatore consisterà nell'accertare se questo valutatum possieda realmente le proprietà che gli sono state attribuite, se orienti l'interprete a un comportamento preferenziale nei riguardi di un dato oggetto (Ch. Morris, Signs, language and behavior, pp. 79-83).

Perché il comportamento osservato si denomini ‟preferenziale" occorre dunque che ci sia stata una scelta, che l'organismo possa rappresentarsi un comportamento diverso da quello praticato. Ma donde nasce l'elemento preferenziale? Non vale restringere l'analisi al comportamento segnico, escluderne gli esseri inanimati e adottare come criterio il deweyano means-ends continuum. Mezzi e fini sono proprietà simmetriche di cui sono investite almeno due cose, per cui niente è di per sè mezzo o fine ed è osservabile come tale. Ancora non si scorge la differenza, per fare l'esempio di F. Rossi-Landi, tra il comportamento della scimmia che sale su uno sgabello per raggiungere un cespo di banane e quello del pezzo di legno che segue la corrente per arrivare al mare. Che il legno debba seguire la corrente e che la scimmia possa rifiutare le banane, questo non ci dice abbastanza sulla scelta della seconda. Come si può, in ogni caso, dal rapporto tra certi valori che si sono assunti come fini e certi mezzi che dovrebbero realizzarli, riuscire a determinare gli stessi fini? Come lo si può sulla base del comportamento esterno degli individui? Si prende per osservabile quello che osservabile non sembra pur costituendo la caratteristica del valore, il suo dover essere (v. Rossi-Landi, 1953, pp. 219-232).

Se ne rendeva conto anche Morris quando ammetteva che le preferenze non sono senz'altro i valori. Non per questo, egli aggiungeva, il problema assiologico prescinde dallo studio delle prime (Ch. Morris, The science of man and unified science, in Contribution to the analysis and synthesis of knowledge, Proceedings of the American Academy of arts and sciences, Boston 1951, pp. 41-42). Non sembra esserci altra strada per chi, ‟pensando in modo empirico e naturalistico", trova nella semiotica un alleato per lo sviluppo di una filosofia dove credenze, apprezzamenti e prescrizioni siano formate in accordo con la conoscenza scientifica e con il suo avallo. Essa è l'organo di un vero pragmatismo, aiutando gli individui a utilizzare le risorse offerte dai segni e a difendersi dalle suggestioni della propaganda. Una teoria dei segni, se non interviene essa stessa nei conflitti che dividono gli individui e le classi, può infatti segnalare i pericoli presenti nei sistemi di informazione della società industriale. Il controllo esercitato sugli uomini attraverso i loro processi segnici è inevitabile e la scelta, a questo punto, si pone tra una sua gestione autoritaria o democratica. Ora i pragmatisti erano sempre stati chiari al riguardo: a cominciare da Peirce che aveva indicato nella scienza lo strumento più efficace per sottrarre le credenze all'autorità e all'arbitrio.

6. La prospettiva pragmatista: sviluppi e obiezioni

Controverso sin dall'origine, il fenomeno pragmatista non si lascia identificare facilmente nei suoi sviluppi. Li ritroviamo nelle ‛avventure' metafisiche di Peirce e James, nelle strutture e negli ideali pedagogici della scuola statunitense, nella psicologia transazionale di Dewey e Bentley e nella semiotica morrisiana. Ma essi sono ben presenti anche negli scritti di C. I. Lewis sul carattere ‛variabile' dei concetti o principi a priori con cui ordiniamo l'esperienza, sulle condizioni che ne determinano l'applicazione e l'eventuale rettifica. Ci si addentra con ciò in una disputa epistemologica non ancora esaurita, che ha coinvolto variamente i pragmatisti. Sono note le obiezioni alla loro fiducia nei poteri dell'uomo, alla loro negazione dei ‛fatti immutabili', l'una e l'altra legate ai miti della rivoluzione industriale. Il mondo di Dewey è popolato esclusivamente da uomini e il cosmo astronomico viene ignorato quasi del tutto: la sua appare una filosofia della potenza anche se non si volge all'individuo, ma alla comunità, e ci fa smarrirre il senso del limite che deriva dall'intendere la ‛verità' come qualcosa che non dipende da noi (v. Russell, 1945, cap. XXX).

Sulla ‛verità' doveva intervenire anche K. R. Popper in una conferenza del 1960 che appare in Conjectures and refutations. La teoria pragmatista o strumentale che la confonde con l'utile rientra in quelle soggettive (o epistemiche), che concepiscono la conoscenza come stato mentale o un particolare tipo di credenza. Poiché questa deve essere fondata o giustificata, essa indica il criterio che la distingue dalle altre in certe operazioni di controllo o nella qualità stessa delle nostre convinzioni. Diverso è l'atteggiamento che consegue alla teoria della verità oggettiva, quando la si sottrae alla soluzione di Wittgenstein che fa della proposizione una proiezione o immagine del fatto che descrive e si rifiuta la one-one correspondence escogitata da Schlick tra le nostre designazioni e gli oggetti designati. Essa va cercata nella riformulazione della nozione aristotelica di verità proposta da Tarski, per cui un'asserzione è vera se designa uno stato di cose (state of affairs) esistente e la corrispondenza così asserita richiede un metalinguaggio ‛semantico' dove si possa parlare di due cose, gli asserti e i fatti ai quali si riferiscono (v. Popper, 1963, pp. 223-224). Una tale nozione non si applica solo ai linguaggi formalizzati e reintroduce, nella forma di un'idea regolativa, il concetto di un progresso scientifico fondato sull'approssimazione alla verità. Così le teorie sono controllate quando tentiamo di confutarle, quando le cimentiamo su quei casi in cui ci si aspetta che, se non sono vere, falliscano; facciamone invece delle regole di calcolo, al modo degli strumentalisti, e non s'andrà oltre l'assunto che teorie diverse hanno diversi campi d'applicazione. L'idea di progresso viene qui meno e non è più sostenibile che la teoria di Newton sia stata falsificata da esperimenti cruciali: dovremmo invece dire, come Heisenberg, che ‟la meccanica classica è ‛giusta' dovunque i suoi concetti possano essere applicati".

Nelle obiezioni di Popper i pragmatisti non sono toccati uno per uno. Sono coinvolti in una tendenza che li mette assieme all'operazionismo di Bridgman, dove pure non manca la loro influenza. Quando, infatti, esso intende corrispondere a ogni termine scientifico, e in particolare a quelli della fisica, l'operazione o la serie di operazioni che ne determinino univocamente il significato e ne escludano gli usi ambigui, un confronto con Peirce s'impone naturalmente. Ci sono le operazioni compiute in laboratorio con strumenti fisici e ci sono quelle ‛carta-e-matita' della fisica teorica. Alcune si possono eseguire con tale sicurezza da non richiedere un esame come accade, al livello mentale, per l'operazione che aggiunge un'unità a un numero intero, o, al livello fisico, per l'operazione che osserva la coincidenza dell'estremità di un regolo graduato con un punto dell'oggetto misurato. Ma anche l'operazionismo ha i suoi casi difficili. Che cosa intendo quando dico che adesso sto facendo la stessa cosa che facevo ieri? Ogni analisi sembra qui porsi in termini di altri avvenimenti e se s'insiste nell'approccio operazionale, precisava Bridgman, è perché un tale metodo per trattare il mondo esterno sembra possedere una stabilità maggiore del mondo stesso. Se poi i significati vanno cercati in attività che hanno una durata, ne emerge un'altra implicazione pragmatica. Che ne è infatti del significato durante l'esecuzione dell'operazione, in quale momento dovrebbe apparire? Pare evidente che esso non sia qualcosa che c'è e non c'è, ma che i significati si generino nel tempo e ‟divengano" (v. Bridgman, 1950, pp. 257-258).

Non c'è dubbio che il pragmatismo di Dewey e di Morris abbia prodotto un effetto positivo. Pensiamo alla scomparsa graduale del fisicalismo, all'allargamento dell'analisi linguistica e al rapporto più sciolto tra il discorso scientifico e l'esperienza. Poiché nessuna proposizione universale come una legge fisica o biologica è mai verificabile, Carnap accedeva al criterio meno restrittivo della confermabilità e delineava le procedure con cui i concetti teorici possono ridursi a concetti osservativi. Alle definizioni esplicite subentravano quelle condizionali od operative, che sono le forme più semplici di proposizioni di riduzione. Queste non definiscono del tutto il termine introdotto, poniamo il termine ‛carica elettrica', ma ne determinano il significato solo parzialmente e condizionalmente, in rapporto alla sua applicazione a oggetti che soddisfino certe situazioni sperimentali. Testability and meaning insisteva così sul ruolo dei costrutti teorici e delle componenti ipotetiche nelle scienze empiriche, in modo da evitare gli estremi del riduzionismo sperimentale ancora presente in Bridgman. Più radicalmente, i Foundations of logic and mathematics del 1939 avrebbero assimilato il corpo di una disciplina come la fisica a un calcolo che non è direttamente interpretato, ma costituisce un ‟sistema fluttuante" e cioè una rete di concetti teorici primitivi connessi tra loro dagli assiomi; sulla base di tali concetti si definiscono però altre nozioni teoriche, alcune delle quali possono risultare associate a proprietà osservabili ed essere interpretabili per mezzo di regole semantiche che le colleghino con termini osservativi; ed è dunque l'intero sistema che diventa ‛testabile', che cade o si mantiene per la sua capacità di applicazione e previsione (v. Carnap, 1963, pp. 77-78).

Quando Ramsey notava che domandarsi se esistono gli elettroni equivale a chiedersi se la fisica quantistica è vera, egli andava d'accordo con i pragmatisti. Le teorie sono strumenti linguistici per organizzare i fenomeni osservabili in qualche struttura che servirà alla previsione; i termini teorici e i postulati che li contengono vengono adottati perché utili. Ma c'è chi non distingue tra un osservabile come la mela e un non osservabile come il neutrone e sostiene che le entità non osservabili lo diventano a misura che s'apprestano strumenti sempre più potenti d'osservazione. Mach parlava della molecola come di un'immagine senza valore e ora persino gli atomi di un reticolo cristallino possono essere fotografati se li si bombarda con particelle elementari. Il dissidio tra lo strumentalista e il realista pare, a questo punto, davvero insanabile. Non sarà per caso, suggeriva Carnap, un contrasto di natura linguistica? Dire che una teoria è un mezzo attendibile, ossia che le previsioni di eventi osservabili saranno confermate, è essenzialmente lo stesso che dire che quella teoria è vera e che le entità non osservabili a cui si riferisce esistono (v. Carnap, 1966, cap. XXVI).

Le variabili vincolate, notava Quine in From a logical point of view, non servono tanto a sapere quel che c'è, ma ciò che una data asserzione nostra o di altri dice che ci sia; e questo resta un problema linguistico. D'altra parte, c'è almeno una buona ragione perché una controversia ontologica si traduca in una disputa semantica sull'uso dei termini e consiste nel fatto che, sul nuovo piano, essa non scade subito in una petizione di principio e si trovano delle convergenze nonostante il disaccordo di fondo. Il nostro consenso a un'ontologia è il medesimo che prestiamo a una dottrina scientifica, in entrambi i casi si assume lo schema concettuale più semplice in cui si possono ordinare gli sparsi frammenti dell'esperienza. Questa semplicità diviene ambigua appena ci troviamo a scegliere tra un modello fenomenistico che li assume come eventi soggettivi di natura sensibile o intellettuale e un modello fisicalistico che li associa ai singoli oggetti. Le ontologie degli enti fisici e matematici appaiono dei miti al fenomenista, ma si tratta di miti relativi, in questo caso, al punto di vista epistemologico, che è uno dei tanti possibili e non corrisponde che a uno tra i nostri scopi e interessi. Così il problema della scelta resta aperto e il consiglio è di fare come il marinaio, immaginato da Neurath, che deve ricostruire la propria nave in mare aperto; egli può mutare a poco a poco, pezzo per pezzo, lo schema concettuale che ha ereditato senza pretendere di farne lo specchio della realtà; i concetti sono linguaggio e lo scopo dei concetti, come quello del linguaggio, è di comunicare e di prevedere con successo (v. Quine, 19612, p. 79).

Il pragmatismo non sarebbe dunque che un empirismo rinnovato, libero da due dogmi della tradizione. Uno è quello del riduzionismo, quando sostiene che ogni singola proposizione può essere confermata, mentre la lezione carnapiana ci suggerisce che le nostre proposizioni sul mondo esterno si sottopongono all'esperienza come un insieme solidale. Il secondo, affermando che nella verità di un enunciato sono presenti una componente linguistica e una fattuale, mantiene una differenza essenziale tra l'analitico e il sintetico. I due dogmi hanno una radice comune in quanto non tengono conto che, se la scienza dipende a un tempo dalla logica e dall'esperienza, non ne segue che lo stesso valga per ogni sua proposizione singolarmente presa. L'idea della definizione d'uso di un simbolo è ancora una rete a maglie troppo strette, avvertiva Quine, e l'unità di misura della significanza empirica va cercata nella scienza tutta intera (ibid., p. 42). Questa si potrebbe allora paragonare a un tessuto grigio, nero per i fatti e bianco per le convenzioni linguistiche che vi sono intrecciate, ma dove non ci sono né fili del tutto bianchi né fili del tutto neri. Quel che conta per un pragmatista radicale è che sia disponibile per ogni progetto razionale e resti aperta al controllo.

Questi rilievi di Quine sono caratteristici di una teoria dell'esperienza che abbandona i suoi presupposti gnoseologici e si porta sui metodi in uso nelle varie discipline, ne misura e ne confronta i risultati. Era diversa l'esigenza dei pragmatisti nel loro incontro con i neopositivisti europei? Se la scienza consiste in un atteggiamento che fa uso dell'intelligenza per risolvere i problemi umani, essa s'estende alla ricerca storica e alla sociologia, al mondo dell'etica e della politica. Per questo Dewey sarebbe diventato un'istituzione americana, la ‛faccia' più importante del progressivism che agli inizi del secolo aveva messo da parte gli orgogli di scuola e impegnato gli studiosi in un programma comune. C'è una struttura dell'indagine, egli avvertiva, che resta identica al di là delle sue differenze di contenuto e dei suoi risultati. Questo non significa, precisavano i collaboratori deweyani a Theory and practice in historical study del 1946, che gli storici debbano senz'altro mutuare il linguaggio e il metodo dalla fisica o dalla biologia: occorrerà verificare se esistano dei rapporti o delle analogie e assumere l'unità del metodo come un problema piuttosto che come un dato. Ma si tratta, a questo punto, di un problema che può portare a imporre o riproporre un modello valido per tutta la ricerca o ad abbandonarlo in vista di una sua maggiore libertà. Ora non ci sono dubbi che il pragmatista abbia preso più spesso la seconda strada, la stessa dei suoi maestri quando avevano attaccato i vari assolutismi. Semmai egli appare oggi meno fiducioso in una certa ‛utopia' democratica, più ideologicamente diviso davanti alle alternative della società contemporanea. Come notava Morris, ricordando James, ‟lo sviluppo della scienza non rende meno necessario che la vita sia guidata da dottrine non puramente scientifiche". Anche la scienza, se si rivolge al mondo degli uomini, è un valore che deriva da una scelta in un contesto che muta.

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