Positivismo logico (detto anche neopositivismo, neoempirismo, empirismo logico)

Dizionario di filosofia (2009)

positivismo logico (detto anche neopositivismo, neoempirismo, empirismo logico)


positivismo logico

(detto anche neopositivismo, neoempirismo, empirismo logico) Movimento filosofico sorto, sviluppatosi ed esauritosi tra il terzo e il sesto decennio del sec. 20°. Sua data di nascita formale è il 1928, allorché un gruppo di studiosi di varie discipline – filosofia, fisica, logica, matematica, sociologia, psicologia – si raccolse nel Verein Ernst Mach, poi detto Wiener Kreis (➔ Vienna, Circolo di), con lo scopo di diffondere una «visione scientifica del mondo», visione derivante dall’unificazione dell’intera conoscenza sotto l’egida delle scienze empiriche. Membri di spicco del circolo viennese erano Schlick, Carnap, Feigl, Neurath, Waismann; a essi, in un secondo momento e con gli stessi intenti, si unirono gli esponenti della Gesellschaft für empirische Philosophie (➔ Berlino, Circolo di), tra i quali figuravano Reichenbach, Hempel, Hilbert, W. Köhler. La collaborazione tra i due gruppi (che ben presto si estese a studiosi di altre nazioni europee) portò alla nascita della rivista Erkenntnis e al progetto della International encyclopedia of unified science (➔). Come indica il primo termine del nome, il richiamo del movimento è al positivismo ottocentesco, alla sua tesi del ruolo privilegiato ricoperto dalle scienze sperimentali nel processo di acquisizione di conoscenza, nonché alle sue istanze antimetafisiche. Come indica invece il secondo termine – e alla luce della convinzione della funzione primaria della matematica e della logica nella struttura della scienza – l’attuazione del programma di rifondazione della conoscenza su basi empiriche doveva sfruttare gli strumenti messi a disposizione dai rivoluzionari sviluppi ottenuti nel campo della logica da Frege, Russell, Whitehead e, in seguito, dalla scuola logica polacca.

L’influsso di Wittgenstein e il principio di verificazione

A dispetto della difficoltà di spiegare da un punto di vista empiristico l’universalità e la necessità delle leggi logiche e matematiche, tale connubio tra positivismo e logica era reso possibile dalle tesi esposte da Wittgenstein nel Tractatus logico-philosophicus (➔), una delle opere da cui il Wiener Kreis trasse grande stimolo teorico (sebbene il suo autore rifiutasse recisamente di farne parte). Nel Tractatus Wittgenstein sostiene infatti che le leggi della logica e della matematica sono tautologie, ossia proposizioni prive di contenuto fattuale ma vere in qualsiasi circostanza. Di qui un caposaldo del p. l.: la bipartizione di tutte le proposizioni significanti in analitiche, il cui valore di verità dipende dalla loro forma logica o dal significato dei termini componenti, e sintetiche, il cui valore di verità dipende dall’esperienza. Se le prime acquisiscono un determinato significato per il semplice fatto di fare parte di un certo linguaggio, le seconde, dovendo derivare il proprio significato dall’esperienza, pongono un problema per quanto riguarda la valutazione della loro sensatezza. Anche in questo caso la soluzione veniva offerta dal Tractatus, nel quale Wittgenstein presenta un’immagine della relazione tra il linguaggio e il mondo basata su un isomorfismo, sicché una proposizione ha senso quando la sua forma raffigura un fatto possibile, ed è vera quando questo fatto accade davvero. Sfruttando tale indicazione e combinandola con l’idea che alla base dell’attività dello scienziato vi siano dei procedimenti induttivi, i neopositivisti formularono il criterio empirico di significanza, secondo cui una proposizione ha significato se, e solo se, è verificabile (➔ verificazione, principio di). Il significato di una proposizione, secondo tale criterio, coincide con il metodo della sua verifica empirica (ossia è costituito dall’insieme delle esperienze necessarie per sapere se la proposizione è vera), metodo in mancanza del quale la proposizione è priva di significato cognitivo (essendo l’esperienza la fonte della conoscenza), e pertanto conoscitivamente inservibile. Con ciò la tradizionale avversione positivistica verso tutto ciò che spregiativamente veniva definito «metafisica» trovava un comodo espediente: una teoria metafisica non è falsa, bensì insensata (da un punto di vista cognitivo, perché essa conserva comunque un significato «emotivo»), e quindi scartabile senza doversi preoccupare di mostrarne la falsità.

Principio di confermabilità, fisicalismo e linguaggio

Cornice gnoseologica del p. l. era il fenomenismo (➔): la verifica doveva dunque partire dalle sensazioni, da quelle che Carnap chiamava Erlebnisse, ossia «esperienze vissute immediate». Non occorse molto, tuttavia, per rendersi conto dei problemi che il criterio faceva sorgere. Innanzitutto lo stesso riferimento alle sensazioni – le quali, a parità di esperienza, possono essere diverse per ciascun individuo e risultare quindi reciprocamente inesprimibili – non poteva non minare quel requisito di oggettività che ogni produzione scientifica è tenuta a osservare, pena lo scivolamento nella metafisica. In secondo luogo, il fatto che per le stesse leggi scientifiche non si possa ottenere una verifica completa, riguardando esse un’infinità di esperienze possibili, mise in luce l’eccessiva rigidità del criterio, che finiva per escludere come insensate proprio le fondamenta della costruzione della scienza. Infine, veniva fatto notare come la proposizione con cui il criterio era espresso non fosse né sintetica né analitica, e quindi destinata a non far parte della sfera delle proposizioni ammesse dai neopositivisti come cognitivamente significanti. Iniziò così una sorta di processo di ‘liberalizzazione’ scandito da fasi diverse, che condusse a formulare il criterio non più in termini di «verificabilità», bensì in quelli di «confermabilità»: una proposizione è significante se è in «accordo» con l’esperienza, un accordo che, lungi dal determinare una verifica definitiva, porta a una sua conferma crescente (anche se, in caso di esperienze contrarie, revocabile) ed esprimibile in termini di probabilità. Più precisamente, dato un insieme di proposizioni di base in diretto contatto con l’esperienza e descriventi delle situazioni intersoggettivamente esperibili, una proposizione è significante se essa o le proposizioni deducibili da essa non vengono contraddette da quelle di base, e la conferma derivante da tale accordo aumenta di grado quante più sono le proposizioni di base favorevoli. Veniva così garantita alle leggi scientifiche quella legittimità negata dal criterio originario: esse vengono confermate per via indiretta, ereditando significanza empirica dalle (infinite) proposizioni particolari da esse deducibili, almeno fino a quando queste ultime reggono alla prova dell’esperienza. D’altra parte, circoscrivendo l’attenzione ai sistemi di proposizioni, come quelli che costituiscono le teorie scientifiche, si evitava di cadere nelle trappole della metafisica rimanendo all’interno del linguaggio. Importanza cruciale assumevano dunque le proposizioni di base, attraverso le quali l’intero linguaggio, sino alle proposizioni e ai termini più distanti dall’esperienza (quelli cosiddetti teorici), acquista significato. Esse (i «protocolli», secondo la terminologia di Neurath) comprendevano nomi di enti e di proprietà osservabili e determinazioni spazio-temporali: termini e locuzioni del linguaggio stesso della fisica. Il fenomenismo degli esordi veniva così sostituito dal fisicalismo (➔), il quale, concentrandosi sul linguaggio, mirava a offrire un modo più coerente per raggiungere lo scopo tradizionale dell’unità di tutta la conoscenza. In questo contesto si apriva la cosiddetta fase sintattica, in cui si dichiaravano oggetto di studio i segni linguistici e le regole della loro combinazione e trasformazione: messa da parte la semantica – la quale, legata all’extralinguistico, avrebbe riproposto i problemi di inesprimibilità – tale studio doveva privilegiare la forma; la filosofia non doveva più parlare di enti, bensì di segni, se voleva evitare di sfociare nella metafisica.

La fase semantica e i suoi critici

Tuttavia, negli anni Quaranta – quando ormai da tempo i maggiori esponenti del p. l., per sfuggire al nazismo, erano emigrati negli Stati Uniti, incontrandovi una vitale tradizione pragmatista – Carnap intravide la possibilità di sfruttare alcuni risultati ottenuti dal logico polacco Tarski per introdurre nell’analisi logica della scienza concetti come verità e denotazione, e dette inizio alla «fase semantica». Essa non equivaleva però a una legittimazione dell’extralinguistico (gli oggetti denotati) e perciò della metafisica, non nasceva da un modo determinato di risolvere le annose questioni della natura del mondo e del suo rapporto con il linguaggio: tali questioni venivano lasciate aperte, assumendo anzi un atteggiamento tollerante verso la molteplicità delle soluzioni proposte. Le nozioni semantiche di verità e riferimento erano piuttosto studiate in relazione ai sistemi logici con cui le teorie scientifiche venivano formalizzate, allo scopo di permettere un’analisi più efficace della loro capacità deduttiva. Non tutti seguirono Carnap in tale fase: tra i critici si segnalava Neurath, il quale continuava a considerare pericolosa la relazione semantica e proponeva una teoria della verità come coerenza stando alla quale, senza uscire dal linguaggio, il valore semantico di una proposizione è valutabile sulla base del suo accordo con le altre proposizioni accettate. Ben presto però lo spiccato senso autocritico che aveva sempre accompagnato lo sviluppo del movimento, unito agli attacchi via via più pressanti provenienti dall’esterno, portarono a un progressivo sfaldamento del p. logico. Il criterio empirico di significanza finì col perdere la sua ragion d’essere non appena ci si rese conto, in partic. con Hempel, che persino nella sua forma liberalizzata (quella espressa in termini di confermabilità) non risultava pienamente applicabile alle proposizioni distanti dall’esperienza, quelle cosiddette teoriche, frutto più della libera creatività dello scienziato che di un processo empirico di induzione: ogni tentativo di riduzione dei termini «teorici» a quelli «osservativi» era destinato all’insuccesso. A vanificare anche tale ultima fase di liberalizzazione radicale contribuirono sia le ricerche di storia della scienza, le quali, trovato il loro spunto teorico nell’opera di Kuhn, mettevano in luce come l’effettivo comportamento degli scienziati nei più diversi contesti storico-culturali non rispondesse ai canoni di una scienza induttiva; sia le critiche mosse da Quine a ogni tentativo di definire il significato delle proposizioni nella loro individualità, indipendentemente da tutte le altre proposizioni del linguaggio, nonché alla stessa distinzione analitico/sintetico. D’altra parte acquistavano sempre più seguito gli attacchi al metodo induttivo a opera di Popper, accompagnati anche da una rivalutazione delle teorie metafisiche con il riconoscimento della loro utilità per la formulazione delle teorie scientifiche. Così il p. l. finì per essere assorbito dalla filosofia analitica, che ne ereditava tanto l’interesse per il linguaggio quanto l’attenzione per la scienza. Tuttavia, nonostante il fallimento del suo programma di unificazione della conoscenza, gli sforzi intellettuali profusi per il raggiungimento dello scopo, i rilevanti risultati ottenuti nel campo della filosofia della scienza e della logica, nonché il vivace dibattito suscitato nel mondo filosofico, non possono non far considerare positivo il bilancio della sua vicenda.

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