POPOLAZIONE

Enciclopedia Italiana (1935)

POPOLAZIONE

Arnaldo MOMIGLIANO
Gino LUZZATTO
Roberto ALMAGIA
Luigi GALVANI
Ugo GIUSTI

. Popolazione nel mondo antico. - Salvo che per l'Egitto (per cui v. oltre), non è possibile alcun calcolo sicuro sulla popolazione complessiva di uno stato o di una città dell'antico Oriente: dati parziali, del resto assai scarsi, non si lasciano integrare, essendo ignota la percentuale che essi rappresentano, si tratti di soldati, di contribuenti o di altre categorie.

Nel mondo greco-romano i problemi concernenti la popolazione sono, naturalmente, di due ordini distinti, benché interdipendenti: i problemi intorno alla determinazione quantitativa e qualitativa della popolazione, i problemi intorno alla politica demografica dei Greci e dei Romani.

1. Calcolo della popolazione. - Gravissime difficoltà si oppongono a un calcolo anche lontanamente approssimativo degli abitanti del mondo greco-romano in qualsiasi delle sue fasi storiche. Queste difficoltà sono dovute sia alla cura relativamente scarsa che gli antichi stessi ponevano nel calcolare gli abitanti di una città o di un paese, o i contingenti militari, ecc., sia al numero esiguo a noi pervenuto di queste antiche determinazioni - che sono evidentemente preziosissime pur con i loro difetti -, sia infine alla corruzione che i dati numerici subiscono facilmente nella tradizione manoscritta, per cui, anche nei rari casi in cui abbiamo cifre, siamo spesso tratti a dubitare che queste cifre siano state tramandate con esattezza.

Innanzi tutto è fondamentale la deficienza d'interesse per la statistica propria degli antichi. In Grecia il primo censimento generale della popolazione di una città fu eseguito, almeno a quanto ci consta, in Atene al tempo di Demetrio Falereo (317-07 a. C.); né dopo di lui l'uso dei censimenti (v.) divenne abituale e puriodico in Grecia, perché non abbiamo dati di altri censimenti. Prima di Demetrio, in Atene, come del resto in tutta la Grecia, ci si accontentava di registrare per cura delle fratrie i nati da cittadini di pieno diritto e di compilare un elenco dei cittadini arruolati durante ciascun anno nell'esercito e un altro elenco dei cittadini forniti di diritto di partecipare alle assemblee popolari. Mancava un registro dei morti, e perciò inevitabilmente sia il registro dei partecipanti alle assemblee sia il registro degli arruolati doveva contenere delle grosse inesattezze continuando a calcolare vive persone già morte da poco o anche da molto tempo. Mancava poi una statistica degli schiavi, nonché di quelli tra i meteci che non erano in condizione economica di essere arruolati. E infine, com'è ovvio, i registri militari non davano alcuna idea del numero dei theti, cioè dei nulla-tenenti non obbligati a servizio. E se questo sistema, a noi noto per Atene, doveva essere diffuso in tutta la Grecia, è però da notare che nelle città oligarchiche le statistiche dei cittadini di pieno diritto potevano dare solo l'idea di una ristretta parte della popolazione. È vero che nel periodo ellenistico si cominciano a fare censimenti nei maggiori stati, specialmente nello stato romano, di cui ci resta qualche cifra; ma, salvo che per Atene, sorgono fondati dubbî sui criterî di questi censimenti: cioè se comprendessero i soli maschi contribuenti (cosa che è stata, ad es., sostenuta per l'Egitto), o comprendessero tutti i maschi cittadini di pieno diritto (che è l'ipotesi più generalmente accolta per i censimenti romani del periodo repubblicano) o comprendessero tutti i liberi di pieno diritto, uomini, donne e fanciulli (come di regola s'interpretano i dati dei censimenti romani di età imperiale). Restano sempre esclusi, come si vede, da queste ipotesi, gli schiavi, perché pare realmente che nessuna delle cifre tramandate, salvo quelle del censimento di Atene, possa arrivare a comprendere anche loro. Se poi ci si rivolge al numero dei contingenti militari, come criterio suppletivo per la determinazione della popolazione, tenendo conto che di regola nel mondo greco-romano il numero dei cittadini obbligati al servizio militare rappresentava il quarto dell'intera popolazione maschile e femminile dei liberi, ci si ritrova di fronte a nuove difficoltà: non sempre è chiara la distinzione fra i contingenti teorici (cioè il massimo possibile nel caso di una mobilitazione generale) e i contingenti effettivamente prelevati; c'è una foite tendenza a sopravvalutare il numero dei nemici, che va fino alle ben note esagerazioni di cui si fa eco Erodoto nel dare il numero degli eserciti persiani; spesso le cifre sono date per mera congettura, come pare sia il caso di alcuni dei contingenti greci nella battaglia di Platea, numerati dal medesimo Erodoto, e talvolta ancora la congettura è fondata sul criterio di attribuire un numero stereotipo di soldati a un determinato esercito dovunque esso compare (per es., Eforo attribuisce di regola 300.000 soldati a ogni esercito persiano o cartaginese); più raramente, a scopo politico, vengono sopravvalutate anche le forze militari del proprio paese, come fece l'annalista romano Q. Fabio Pittore, che scriveva per i Greci; e infine non mancano parecchi casi, in specie tra scrittori bizantini (Procopio, Zonara), in cui il numero enorme di soldati vivi o morti diventa un puro espediente drammatico.

Se queste sono le deficienze intrinseche alla documentazione pervenutaci, ci sono poi le difficoltà esteriori sull'attendibilità dei numeri tramandatici. Quando il passo di Ateneo, VI, 272 b, che ci tramanda i dati del censimento di Demetrio in Atene, ci parla di 21.000 cittadini, 10. o00 meteci, e 400.000 schiavi, è evidente che il numero degli schiavi è tramandato con un errore, come sono assolutamente esagerate le cifre di 470.000 riportate dal medesimo Ateneo per Egina e di 460.000 per Corinto. Basti ricordare che Tucidide, VII, 27, considera la fuga di 20.000 schiavi durante la guerra del Peloponneso esiziale per Atene e che Senofonte nel suo libro sulle Entrate (Πόροι) vuole dimostrare la possibilità di impiegare 10.000 nuovi schiavi nelle miniere del Laurio vincendo l'incredulità dei contemporanei su una tale enorme cifra; e basti dire che, essendo il prezzo medio di uno schiavo una mina, il valore complessivo di questi schiavi sarebbe stato di più di 6600 talenti, cioè di circa 1000 talenti più che tutto il capitale dell'Attica, quale fu calcolato nell'estimo del 378-7 a. C. Assurdo è del pari che un'isoletta di pochi chilometri come Egina potesse ospitare tanti schiavi. Ma stabilito l'errore, non c'è però alcun mezzo sicuro per sanare le cifre tramandateci e ricostruire così la verità. Analoghe difficoltà offrono alcune cifre dei censimenti romani (per cui v. più in particolare censimento). È intanto molto probabile che le cifre tramandateci per i primi otto censimenti romani (quello di Servio Tullio e poi quelli degli anni 508, 503, 498, 493, 474, 465, 459 a. C.) siano prive di valore storico, cioè siano state inventate, perché esse presuppongono una densità media di popolazione nell'antico stato romano eccessiva: un tentativo recente di confermare l'autenticità di queste cifre (T. Frank, American Journal of Philology, LI, 1930, p. 313 segg.) non è stato accolto favorevolmente. Dal 393 a. C. in poi le cifre si dimostrano nel complesso autentiche e si sostengono di regola a vicenda per le graduali variazioni che esse registrano, finché dall'86-85 a. C. al 70-69 la cifra improvvisamente quasi raddoppia (da 463.000 a 910.000) per l'introduzione nella cittadinanza romana degl'Italici dopo la guerra sociale. Però alcune di queste variazioni sono troppo grandi per essere spiegate senza uno specifico fatto storico, e poiché questo fatto storico non si trova, resta il dubbio se noi ignoriamo qualche fatto o se la cifra sia corrotta. Uno di questi casi tipici si riferisce al censimento del 209-8 a. C. in cui il numero dei censiti appare in Livio, XXVII, 36, di 137.000, mentre il censimento del 204-3, quello immediatamente successivo, enumera 214.000 cittadini: in questo caso però la corruzione (cioè che si debba pensare in realtà a 237.000 censiti nel 209-8) è assai verosimile.

Infine è da tener conto che la maggior parte dei rilievi statistici eseguiti dagli antichi è andata perduta. Basti qui riferirsi alle condizioni dell'impero romano, che era di gran lunga il meglio organizzato anche in questo. Posto pure che i censimenti eseguiti da Augusto a Vespasiano comprendano tutti i cittadini romani - uomini, donne e fanciulli - come è l'opinione più comune, e non i soli uomini, come ha voluto sostenere da ultimo il Frank (Classical Philology, XIX, 1924, p. 329 segg.) non senza qualche forte argomento, resta evidente che sono esclusi tutti i provinciali, i quali erano oggetto di censimenti speciali per ogni provincia a uso fiscale: di tali censimenti non una sola cifra ci è pervenuta.

Data questa condizione press'a poco disperata del nostro materiale documentario, si comprende che si siano moltiplicate le ipotesi e si siano cercati altri mezzi sussidiarî per determinare la popolazione del mondo greco e romano. L'interesse per questo problema risale in definitiva al Settecento, cioè al periodo di costituzione dell'economia politica e della statistica. In tempi anteriori c'era stata la tendenza a considerare il mondo antico straordinariamente popolato, e ciò in conformità anche all'idea piuttosto idilliaca che ci si faceva delle condizioni economiche e politiche dei Greci e dei Romani, contrapponendole a quelle del mondo moderno; ma tali affermazioni, che facevano risalire ad esempio la popolazione di Roma a 14 milioni di abitanti (Isacco Vossius, Variarum observationum liber, Londra 1585, p. 32) o la popolazione dell'impero romano a 410 milioni (G. B. Riccioli, Geographiae et hydrographae reformatae lib. XII, Venezia 1672, p. 678), non avevano alcuna base di ricerca analitica, come non ne ha l'affermazione del Montesquieu nelle Lettres persanes che la popolazione del mondo moderno è la decima parte di quella del mondo antico. La prima ricerca scientifica sono gli Essays on the populousness of ancient nations di D. Hume (1752), che sono nello stesso tempo una reazione a quella idealizzazione del mondo classico, di cui si parlava. Il problema è posto nei suoi veri termini cercando di vagliare con prudente scetticismo le cifre tramandateci e cercando di determinare quei fattori generali della vita antica (guerre più frequenti, coltivazioni più ristrette e schiavitù, esposizione dei fanciulli, instabilità della proprietà, ecc.) che impedivano il soverchio accrescimento della popolazione. Ma il Hume, in questa critica delle posizioni precedenti e in conformità del resto al suo ingegno, non si sforzò di arrivare a calcoli precisi della popolazione. Tale è stato il compito di H. F. Clinton nei Fasti hellenici (1ª ed., Oxford 1824) e di A.-J. Dureau de la Malle nella sua Économie politique des Romains (Parigi 1840), mentre A.W. Zumpt in una notevole memoria delle Abhandlungen der berliner Akademie, 1840, pp.1-92, si limitava ad affinare il metodo del Hume. In sostanza il Clinton e il Dureau de La Malle cercavano di mettere a contributo, per il calcolo della popolazione antica, oltre che i contingenti militari, anche il consumo medio di frumento per persona calcolato combinando, con i pochi dati antichi, analoghi dati moderni. Questo metodo è stato portato a estrema perfezione da Giulio Beloch nell'opera rimasta finora classica e insuperata Die Bevölkerung der griechisch-römischen Welt (Lipsia 1886), in cui inoltre è data grande importanza al calcolo delle superficie dei singoli stati e delle singole città come ulteriore base per il calcolo della popolazione (si cfr. anche del medesimo per il mondo greco le cifre date in Griechische Geschichte, 2ª ed., Strasburgo-Berlino 1912 segg.). Tale opera, però, benché abbia avuto autorevoli approvazioni, come quella di Edoardo Meyer (per es., nell'articolo Bevölkerung del Handwörterbuch der Staatswissenchaften, 3ª ed.), ha in genere suscitato forti dissensi per il carattere estremamente ipotetico dei suoi computi. In questa critica dei risultati del Beloch, intesa poi allo scopo più generale di negare qualsiasi possibilità di calcolare la popolazione del mondo greco-romano, ha acquistato particolare autorità E. Ciccotti (soprattutto nel saggio, Indirizzi e metodi degli studi di demografia antica, 1909, nel IV volume della Biblioteca di Storia economica di Vilfredo Pareto). Ed è certo che il Beloch, volendo determinare in base alla superficie la popolazione, non conclude nulla di preciso: è per esempio impossibile dall'estensione ben nota di Roma nel periodo imperiale calcolare la sua popolazione, perché la densità dell'agglomeramento nei varî quartieri non è determinabile. Ma là dove il Beloch ha la possibilità di combinare varie serie di dati, come per Atene e anche in minor misura per Roma nel periodo repubblicano, i risultati sono assai più certi.

Qui di seguito diamo alcune tra le cifre tramandate o calcolate della popolazione nel mondo greco-romano, che ci sembrano più sicure o comunque più interessanti. Tra le città greche, quella di più sicura popolazione è Atene, che al principio della guerra del Peloponneso dovette aggirarsi intorno ai 150.000 abitanti, mentre per tutto il sec. IV dovette sempre oscillare intorno a 100.000 abitanti, esclusi gli schiavi, il cui numero è ignoto. La popolazione di Sparta non è sicuramente calcolabile, perché la cifra di 8000 cittadini maschi di pieno diritto al tempo delle guerre persiane data da Erodoto, VIII, 234, è stata contestata, essendosi visto che nel periodo della guerra del Peloponneso gli opliti spartiani in campo sono al più 2000, il che porta a un numero di circa 3000 cittadini di pieno diritto. Per Rodi è noto che nel 304 oppose a Demetrio Poliorcete che l'assediava 6000 soldati cittadini e 1000 meteci, il che porta a una popolazione libera di circa 30.000, da cui è esclusa però un'eventuale porzione rappresentata da contingenti militari chiusi fuori della città. Per Alicarnasso un decreto del sec. III ricorda 4000 cittadini presenti all'assemblea del popolo; Pergamo nel periodo degli Antonini contava 40.000 cittadini, per la quale cifra tramandataci da Galeno (V, p. 49, ed. Kühn) si discute però se comprendesse o no i fanciulli, il che porta a una oscillazione tra 120.000 o 180.000 abitanti circa complessivamente. Apamea in Siria aveva nell'anno 6 d. C. 117.000 abitanti (Dessau, Inscr. Lat. Sel., 1683). Seleucia sul Tigri, secondo Plinio, Nat. Hist., VI, 122, 600.000 abitanti (?). Secondo Ecateo di Abdera (presso Flavio Giuseppe, Contro Apione, I, 22) la popolazione di Gerusalemme al tempo di Antioco I era di 120.000 abitanti; i dati di Giuseppe per il periodo della ribellione giudaica (66-70 d. C.) sono invece tutti indegni di fede. Per l'Egitto, Diodoro, I, 31, asserisce che una volta l'Egitto aveva 7 milioni di abitanti, e che al suo tempo non ne aveva meno di tre milioni. Flavio Giuseppe, Guerra giudaica, II, 16, 4, attribuisce invece la cifra di sette milioni e mezzo alla popolazione del suo tempo. Di qui la ragionevole ipotesi che i tre milioni di Diodoro siano corrotti e vadano mutati in una cifra assai più vicina ai sette milioni. Per Alessandria lo stesso Diodoro, XVII, 52, dà la popolazione di 300.000 liberi; Siracusa al tempo di Timoleone (sec. V) contava 50.000 o 60.000 cittadini (Diod., XVI, 82; Plutarco, Timoleone, 23); Panormo al tempo della prima guerra punica aveva 30.000 abitanti circa (Diod., XXIII, 18). Gli Elvezî domati da Cesare erano 110.000, secondo il censimento da lui stesso ordinato (Guerra gallica, I, 29), e sono anche da confrontare in Cesare (ibid., II, 4; VII, 75-76) le cifre meno sicure che egli dà sulla leva nella Gallia Belgica e sui contingenti dell'esercito federale gallico reclutato in soccorso di Alesia. Quanto ai risultati del censimento romano, la loro valutazione numerica dipende evidentemente dalla interpretazione che se ne dà. Se, come sembra probabile, i 900.000 censiti dopo la guerra sociale rappresentano tutti i cittadini, è verosimile che la popolazione complessiva dell'Italia fosse allora di 6-7 milioni di abitanti. Meno si può ricavare a questo proposito dai dati dei censi, che dal 28 a. C. al 47 d. c. indicano cifre salenti da 4 milioni circa a 6 milioni circa di censiti, perché queste cifre in ogni caso rappresentano agglomerati di cittadini romani sparsi per l'impero, con il nucleo in Italia, che difficilmente per il periodo delle guerre civili si sarà accresciuto di popolazione. Poi ovvio che la popolazione delle famiglie dei cittadini romani sarà appunto identica a quelle cifre nell'ipotesi che i censimenti comprendessero donne e fanciulli e andrà invece un po' meno che quadruplicata nell'altro caso. Basta ciò a dimostrare che non possiamo avere nessuna idea complessiva sicura sull'intera popolazione dell'impero romano in nessun momento della sua storia.

La politica demografica. - Nelle condizioni primitive, dopo un certo limite, l'accrescimento della popolazione significa accrescimento di miseria: donde la pratica, comunissima soprattutto nel mondo greco ancora in età ellenistica, dell'esposizione dei fanciulli e quella ancora accennata per Roma arcaica da un noto passo di Festo (s. v. depontani senes) dell'uccisione dei vecchi. Va pure ricordato che nella esposizione erano maggiormente sacrificate le fanciulle, il che compensava in parte la maggiore uccisione di uomini in guerra e la loro maggiore emigrazione. Non manca già in questo periodo arcaico la teorizzazione del figlio unico, come prova Esiodo. Ma il fenomeno principale a cui dà luogo ogni accenno di sovrapopolazione è l'emigrazione collettiva e permanente, tipica del mondo greco sotto la forma di colonizzazione, nel mondo italico primitivo sotto la forma di "primavera sacra" (ver sacrum). Tutto ciò nonostante che, come è ovvio. il coefficiente di mortalità presso gli antichi dovesse essere necessariamente di regola assai superiore al nostro. Se si può attribuire agli antichi una vigoria fisica media superiore alla nostra e si deve naturalmente ammettere che le guerre non erano così organizzate come le moderne, è d'altra parte da ricordare che la terapia insufficiente, la mortalità infantile certo di gran lunga superiore, la maggiore frequenza delle epidemie e delle guerre e il loro carattere distruttivo (rivolte quindi senza pietà contro donne e fanciulli), infine la possibilità della fame per insufficienza di approvvigionamenti costituivano tanti elementi di mortalità superiore.

Alle forze economiche e anche biologiche dissolventi della natalità o almeno della compattezza del gruppo etnico, gli stati antichi non hanno opposto, fino all'impero romano, che mezzi esteriori di reintegrazione o di accrescimento, cioè, in sostanza, varie forme di assorbimento di popolazione straniera, come in Atene la metecia, in Sparta la lenta introduzione di perieci e di iloti nella cittadinanza di pieno diritto, in altre città forme di simpolitia e di isopolitia. Solo con Augusto si ha una politica consapevole di risveglio delle forze morali della popolazione quale condizione per la lotta contro la denatalità: donde la lotta contro il celibato e i privilegi ai padri di tre figli o di quattro (se libertini), ecc. Con Nerva e Traiano l'organizzazione si perfeziona per mezzo dell'assistenza all'infanzia (istituzioni alimentari); ma al principio del sec. IV la lotta contro la denatalità cessa, forse perché le condizioni estremamente complesse della vita dell'impero non le avevano permesso di essere efficace. Certo le istituzioni alimentarie cessano del tutto con Costantino; e circa cent'anni dopo (410 d. C.) Teodosio e Onorio aboliscono i privilegi dei padri di tre figli. Parallelo a questa decadenza delle istituzioni va lo spopolamento dell'impero romano, che del resto era già evidente in Italia nel sec. I d. C., forse anche per la forte emigrazione nelle provincie. L'accentramento della proprietà, i pesi fiscali sempre maggiori, la schiavitù e la surrogazione della schiavitù col colonato sono tanti elementi che contribuiscono a questa decadenza, ma essa in fondo non è altro che l'espressione di tutto il processo involutivo dell'impero romano - nei suoi aspetti morali e nei suoi aspetti sociali - per cui vedi roma: Storia.

Bibl.: I lavori più importanti (e già citati nel testo) per lo studio della popolazione si trovano quasi tutti comodamente raccolti e tradotti in italiano nel vol. IV della Biblioteca di storia economica di Vilfredo Pareto (Milano 1909). L'Économie politique des Romains del Dureau de La Malle è tradotta nel vol. I, parte seconda, della medesima biblioteca (Milano 1905). Di E. Ciccotti cfr. anche Valore e utilizzazione di dati statistici nel mondo antico con particolare riguardo alla popolazione dell'antica Roma, Roma 1931 e Il problema demografico nel mondo antico, in Metron, IX (1931). Cfr. inoltre le seguenti oepre: P. Röhlmann, Die Überbevölkerung der antiken Grossstädte im Zusammenhange mit der Gesammtentwicklung städtischer Civilisation, Lipsia 1884; E. Cavaignac, Population et capital dans le monde méditerr. antique, Strasburgo 1923; U. Kahrstedt, in Handwörterbuch der Staatswissenschaften, 4ª ed., 1924, II, p. 655 segg.; L. Ziehen, Das spartanische Bevölkerungsproblem, in Hermes, LVIII (1933), p. 218 segg.; A. W. Gomme, The population of Athens in the fifth and fourth centuries b. C., Oxford 1933; L. Homo, Topographie et démographie de la Rome impériale, in Comptes-Rendus de l'Ac. des Inscript., 1933, p. 293 segg.

L'alto Medioevo. - Dopo l'età di Vespasiano non si ha più ricordo di alcun censimento generale per tutto l'impero, ma soltanto di qualche rilevazione parziale, compiuta per lo più a scopo fiscale, per singole provincie o per singole città. S'inizia così per la storia della popolazione dei paesi dell'Occidente un periodo di grande oscurità che si prolunga per più di un millennio. Le cifre, offerteci da qualche scrittore del sec. V e VI (per esempio da Procopio, che parla di 300.000 uomini, oltre alle donne e ai fanciulli, che sarebbero stati uccisi da Goti e Borgognoni nella presa di Milano, e di un esercito di 150.000 Goti, che sarebbe stato riunito per assediare Belisario entro Roma), hanno un carattere indubbiamente fantastico.

Per un periodo un po' più tardo, dal sec. IX in poi; qualche cifra più sicura sulla popolazione di alcuni tratti di singole regioni, è offerta dalle descrizioni (polittici) delle grandi proprietà ecclesiastiche, molte delle quali registrano tutti i nomi dei coltivatori, d'ogni categoria, che risiedono su quelle terre.

Dal più famoso e importante di quei polittici, quello dell'abbazia di Saint-Germain-des-Près, si è tentato appunto di trarre gli elementi per calcolare la popolazione della Francia nel sec. IX. Poiché in quel polittico si elencano (assegnando a ogni colono una famiglia di 4 o 41/2 persone) 13.000 o 14.000 persone; poiché la superficie descritta si valuta a 380 kmq., si conclude che la densità di quella popolazione doveva oscillare fra 34 e 37 per kmq.; e perciò si arriva all'ipotesi che la Francia potesse allora raggiungere i 18 milioni di abitanti, cioè non molto meno di quanti essa ne contava alla fine del sec. XVII. Ma una tale deduzione urta contro tre difficoltà: l'incertezza sul valore che si possa assegnare alle misure di superficie usate nel polittico; l'incertezza sul numero dei membri di ogni famiglia di rustici; e, più grave di tutte, l'impossibilità di considerare la densità di popolazione sulle terre di un grande monastero, situate nella regione parigina e poste in una condizione evidentemente privilegiata in confronto di molte altre, come equivalente alla densità media di tutta la Francia.

Alla stessa categoria dei polittici, ma di un'estensione e di un'importanza senza confronto maggiori, è il famoso Domesday-book, il catasto fatto eseguire nel 1086 da re Guglielmo, all'indomani della conquista, di tutte le proprietà di una grande parte dell'Inghilterra, elencando per ogni terra descritta tutti i gruppi di famiglie, distinte nelle varie categorie sociali, che vivevano sopra di esse. A questo documento non si può certamente assegnare il valore di un censimento; ma in nessun paese la statistica del Medioevo dispone di una fonte che offra dati così ricchi e attendibili sul numero e la distribuzione della popolazione di un territorio vastissimo. Il numero totale della popolazione descritta è di 283.000 famiglie; a cui, aggiungendo quelle di alcune città e contee che non vi sono comprese, si può arrivare a 300.000, e - a seconda che si assegnino in media 4, o 4,5 persone per ogni famiglia - a una popolazione totale di 1.200.000 o 1.350.o00 anime. Ma, oltre che sul numero totale - naturalmente approssimativo - della popolazione, il Domesday-book offre notizie sulla sua distribuzione, elencando un numero grande di villaggi, i quali costituiscono a quell'epoca la forma caratteristica e predominante di agglomeramento della popolazione rurale, e più di un centinaio di borghi, sedi di mercato, che formano il primo nucleo delle future città.

Ma all'infuori di questo documento affatto eccezionale, anche per l'Inghilterra, manca del tutto per il periodo compreso fra il sec. IV e il XII nei paesi d'Occidente ogni fonte diretta, e anche ogni notizia desunta da rivelazioni o da stime, che permetta una determinazione numerica, anche largamente approssimativa, della popolazione di interi stati, di singole regioni o città. Bisogna invece limitarsi a formulare delle ipotesi, relativamente sicure, sul movimento della popolazione, fondandosi sul maggior numero di dati indiziarî che sono offerti dagli scrittori, dalle leggi, dai documenti del tempo: notizie cioè sulla sopravvivenza, sulla scomparsa delle vecchie città o sul sorgere di nuovi centri urbani, sulla frequenza maggiore o minore di casali, villaggi, o case coloniche isolate; sul tipo delle colture e in genere sui mezzi prevalenti per provvedere all'alimentazione; sulla difficoltà maggiore o minore di assicurarsi la mano d'opera per l'agricoltura, sull'estensione dei diritti d'uso su pascoli, foreste, terreni incolti o abbandonati, sugli inizî di lavori di dissodamento, prosciugamento, frazionamento delle terre, e di difesa contro le acque.

Da tutti questi indizî si può concludere in modo indubbio che nei secoli IV e V le regioni costituenti l'impero d'Occidente, e fra esse in modo particolare l'Italia, ebbero a soffrire di una decadenza demografica impressionante. Mentre gli scrittori del tempo piangono sulle antiche famiglie, le quali scompaiono, sui municipî abbandonati, i fori silenziosi, le curie immiserite, numerose altre testimonianze documentano l'abbandono anche maggiore in cui si trovava una gran parte della campagna, la diminuzione dei piccoli proprietarî, la crescente difficoltà di trovare la mano d'opera, nonostante la continua diminuzione delle superficie coltivate.

Le invasioni barbariche e lo stato di guerra che ne seguì quasi ininterrottamente, per più di due secoli, aggravarono paurosamente la situazione, sia per le stragi, le pestilenze, le carestie che ne derivarono, sia per la mancanza quasi generale di sicurezza, che esercitò indubbiamente sulla situazione demografica un'azione non meno deleteria. Perciò la diminuzione della popolazione dové farsi sempre più sensibile nel sec. VI e nel VII, ed è attestata dalla distruzione e dalla totale scomparsa di molte città romane, senza che esse fossero allora sostituite da nuovi centri urbani; dall'estendersi degli acquitrini, delle terre sode, del pascolo brado, della foresta, anche in regioni di pianura che fino al sec. III erano state intensamente popolate.

Non si può certamente generalizzare a tutto l'Occidente il quadro di una così completa desolazione: non mancano anche in Italia delle regioni, che per essere state meno esposte o completamente sottratte alle invasioni, e per i rapporti frequenti che esse poterono mantenere col mondo orientale, hanno certamente conservato una densità assai maggiore di popolazione, che ci è attestata fra l'altro dal maggiore frazionamento delle aziende agrarie, dalla sopravvivenza di colture intensive, dalla maggiore frequenza dei centri abitati, particolarmente nell'Esarcato, nella Pentapoli, lungo la costa pugliese e nei ducati napoletani. Così pure è probabile che brevi isole di maggiore popolamento si siano conservate in quei secoli in alcuni tratti della Provenza, nel Basso Reno e nella Frisia.

Ma queste poche eccezioni non modificano il quadro generale, che è per tutto l'Occidente quello di uno spopolamento impressionante, che non ha forse riscontro, per l'Europa, in alcun altro periodo storico, e che offre la migliore spiegazione della facilità delle conquiste, del costituirsi delle sconfinate proprietà ecclesiastiche e della necessità, da parte di popolazioni isolate, abbandonate e indifese, di affidarsi al patrocinio di un potente vicino.

D'altra parte non è nemmeno ammissibile che lo spopolamento delle antiche provincie dell'impero d'Occidente abbia trovato un compenso nell'eccesso di popolazione dei paesi dell'Europa centrale e settentrionale, rimasti fuori dai suoi confini. Non solo è ormai escluso che da quelle regioni siano partite delle vere migrazioni in massa, che avrebbero riempito i vuoti manifestatisi nella popolazione dell'impero; ma se si volesse prestare ancora fede a questo flusso di milioni di persone, si dovrebbe anche ammettere che nelle regioni da cui erano mossi essi avessero lasciato il vuoto.

Ben diversa da quella dell'Occidente dev'essere stata invece, almeno fino al sec. VII, la situazione demografica dell'impero orientale, di cui non conosciamo i risultati dei censimenti, che tuttavia - secondo ogni probabilità - devono esservi stati compiuti; ma del quale, se non tutte, indubbiamente alcune regioni, come la zone costiere della Macedonia, della Tracia, dell'Asia Minore, della Siria, e molte delle isole, devono avere avuto una popolazione molto densa, tale da permettere, accanto all'esercizio di alcune coltivazioni intensive, quello dell'industria, una notevole attività marinara e commerciale, e il formarsi di alcuni grandi agglomeramenti urbani, fra cui uno grandissimo, Costantinopoli, che è per qualche secolo la città più popolata di tutto il mondo.

Un miglioramento comincia a manifestarsi in alcune fra le più desolate regioni dell'Occidente dopo la fine del sec. VII, in seguito alla cessazione dello stato di guerra, allo stabilirsi di forme più pacifiche di convivenza fra vinti e vincitori, appartenenti ormai a una stessa religione e viventi sotto una legge comune. Un tale miglioramento sembra attestato in Italia dalle leggi di Liutprando e di Astolfo, e poco più tardi, per altre regioni del rinnovato impero d'Occidente, dalle leggi di Carlo Magno, che mostrano un maggiore interessamento per l'agricoltura; e in modo più sicuro dai documenti privati, che sembrano rivelare una iniziale tendenza alla messa a coltura di qualche terreno incolto, all'introduzione di qualche coltivazione nuova, a un maggiore frazionamento delle aziende agrarie.

Ma non è purtroppo possitible, sulla fede di poche decine di documenti che si riferiscono a superficie limitatissime, arrivare a conclusioni sicure di carattere generale; e del resto, quando pure si voglia ammettere che per un secolo o poco più si fosse manifestatata, com'è probabile almeno per qualche regione, questa tendenza a un aumento di popolazione, si deve anche riconoscere che prima della metà del sec. IX essa fu gravemente contrastata da elementi avversi, quali le incursioni, le devastazioni, e le stragi compiute da Arabi, Normanni, Ungari e Bulgari, le frequenti pestilenze che ne derivarono, e la mancanza, dopo la morte di Carlo Magno, di un forte potere statale, che assicurasse la difesa e la tranquillità a tutta la popolazione lavoratrice.

Non è quindi da meravigliarsi se gli inventarî del sec. IX-X, sebbene si riferiscano a quei complessi di terre, che hanno - per quei tempi - una più perfetta organizzazione economica, rivelino ancora un'alta prevalenza della foresta sui terreni seminativi, confermata dalle proporzioni altissime che vi assume l'allevamento dei suini.

Dopo il Mille, e in particolare verso la fine del sec. XI, la situazione comincia a mutarsi profondamente e s'inizia in tutta l'Europa occidentale un movimento ascendente della popolazione, che si protrae, tolte lievi interruzioni, fino alla metà del sec. XIV. Esso trova le sue espressioni più significative da un lato nel movimento migratorio e colonizzatore, che si compie in direzione opposta a quella del sec. V, da occidente verso oriente, e che ha carattere agricolo nei paesi interni a oriente dell'Elba, per opera dapprima di Fiamminghi, Zelandesi, Frisoni, e poi dei Sassoni, che si spingono fino alle regioni del medio Danubio e anche a sud delle Alpi, nell'Alto Adige, nel Trentino e in qualche tratto delle prealpi venete, e carattere commerciale lungo le coste del Baltico e del Mediterraneo orientale (v. colonizzazione); dall'altro nella rapida e magnifica fioritura della vita cittadina, la quale costituisce, dove prima e dove più tardi, il carattere essenziale della storia dell'Occidente fra il sec. XII e il XV.

La statistica demografica dal sec. XIII al XVIII. - Appunto alla fioritura della vita cittadina, al costituirsi di amministrazioni municipali autonome noi siamo debitori dei primi tentativi di rilevazioni ufficiali della popolazione.

Anche in questo periodo sono estremamente rare e imperfette, pur dove esiste uno stato nazionale, le rilevazioni che si estendano alla popolazione dell'intero territorio compreso sotto la sua giurisdizione.

Una rilevazione di questo genere fu compiuta in Inghilterra nel 1377 per la riscossione della poll-tax (testatico), imposta a tutte le persone di età superiore ai 14 anni. Per la Francia possediamo un'enumerazione compilata nel 1328 delle parrocchie e dei fuochi esistenti nei varî baillages e sénéchaussées. Ma le due rilevazioni presentano, oltre all'incertezza del rapporto fra il numero delle persone colpite dall'imposta e la popolazione totale, l'inconveniente di non estendersi a tutte le regioni comprese nel territorio dello stato, e di obbligare quindi a operazioni di arrotondamento delle cifre sempre arbitrarie.

Ma poi per questa francese, come per tutte le altre rilevazioni dei fuochi, su cui principalmente deve appoggiarsi la statistica demografica dei secoli di mezzo e dei primi secoli dell'età moderna, si affacciano dubbî assai gravi: se cioè col termine fuoco s'intende una vera unità familiare, nel quale caso potrebbe con qualche sicurezza accettarsi il rapporto di 1: 4, o di 1 : 4,5, adottato dagli studiosi più autorevoli di tale materia, o se invece s'intende una semplice unità fiscale, nel qual caso cadrebbe l'opportunità di adottare quel rapporto.

Ma anche più grave è il dubbio, suggerito dallo studio più recente e approfondito sulla finanza fiorentina del Trecento, se cioè quegli elenchi corrispondano alla effettiva situazione demografica del momento in cui furono compilati, o se invece essi non costituiscano che uno strumento per distribuire fra le varie circoscrizioni un contributo di cui si sia preventivamente fissata la misura totale, da ripartirsi secondo il sistema del contingente. In tal caso quelle liste avrebbero bensì la loro base in una situazione demografica, ma questa potrebbe anche risalire a epoca molto lontana da quella in cui furono compilate. Finalmente un altro dei dubbî che sorgono circa tutte queste enumerazioni dei soggetti all'imposta, è quello del numero delle famiglie o delle persone che non vi sono comprese, e che probabilmente è assai maggiore di quello che si è generalmente supposto.

Da tutto ciò risulta che, mentre le statistiche fondate sulle notizie date dai cronisti, peccano quasi tutte per eccesso, quelle invece che si fondano esclusivamente sulle rilevazioni fatte a scopo fiscale peccano per difetto.

Assai più numerose, più varie e attendibili che per gli stati nazionali, in cui la finanza conserva fino all'età moderna un carattete prevalentemente patrimoniale, sono le fonti della statistica demografica nelle città autonome dell'Europa occidentale per il sec. XIV e in misura assai maggiore per il sec. XV. Anche in questo caso le rilevazioni, che per lo più sono limitate al solo agglomerato urbano, ma che talvolta si estendono anche alla campagna soggetta, sono fatte per lo più a scopo fiscale o militare. Rientrano nella prima categoria gli elenchi dei fuochi per l'esazione dell'imposta personale, derivata dal fodro imperiale, oppure, dove i sistemi finanziarî sono più progrediti, gli estimi e i catasti o infine l'elenco delle persone a cui si estende la distribuzione coatta del sale; rientrano nella seconda gli elenchi delle persone soggette al servizio militare, oppure - che ai fini statistici dev'essere lo stesso - delle persone sottoposte all'obbligo dell'imposta militare.

Gli elenchi dei fuochi presentano per i comuni molte delle incognite che si sono lamentate per gli stati nazionali; ma sono più facilmente utilizzabili perché è generalmente nota la superficie a cui si riferiscono, e perché la loro maggiore frequenza e la maggiore ricchezza di documenti di carattere amministrativo e finanziario permettono un più sicuro controllo e spesso anche la determinazione dei criterî con cui quegli elenchi venivano formati e delle categorie di persone che ne restavano escluse.

Molto più precisi e completi, ma limitati purtroppo a una parte soltanto della popolazione, sono gli estimi e i catasti; i primi dei quali offrono l'elenco dei contribuenti con l'indicazione, per ciascuno di essi, del patrimonio o del reddito imponibile, più spesso in forma sommaria, ma talvolta con l'indicazione delle singole fonti. Nel catasto invece si fa per ogni contribuente la descrizione delle case e botteghe e spesso anche delle terre ch'esso possiede, indicando talvolta le persone che vi risiedono e i fitti ch'esse pagano. Nel caso specialmente di alcuni comuni minori, in cui la proprietà è estremamente frazionata, sicché figurano assai numerosi nell'elenco anche gli artigiani, questi catasti assumono l'importanza di un censimento, che non si può certamente ritenere completo, ma che non deve essere molto lontano dalla realtà.

Le liste dei cittadini, e talvolta anche degli abitanti delle terre soggette, atti al servizio militare, presentano anch'esse numerose incognite, e in prima linea quella dell'età che variava da comune a comune, e spesso anche da un'epoca all'altra nello stesso comune: per esempio a Venezia nel 1318, si limitava l'obbligo del servizio militare ai maschi dai 16 ai 35 anni; pochi anni dopo, lo si estese dai 14 ai 60. L'altra incognita è quella del numero delle persone che siano esenti per ragioni di salute o di condizione sociale. Quando si supponga, come è probabile e come sembra confermato da alcune disposizioni legislative, che gl'incaricati della rilevazione non dovessero affatto preoccuparsi delle esenzioni, e quando, com'è il caso più frequente, l'obbligo del servizio militare si estenda da 15, 16 o al massimo 18 fino ai 60 anni di età, si può desumere con relative approssimazioni la popolazione totale, calcolando, com'è generalmente ammesso, che il numero degli atti alle armi stia con essa nel rapporto di 3 : 8.

Ma le rilevazioni che hanno maggior valore demografico sono quelle che vengono ordinate per determinare il fabbisogno del grano per il vettovagliamento della popolazione, e che, sebbene per evidenti ragioni siano limitate alla sola città, rappresentano quasi indubbiamente il primo passo verso i futuri censimenti generali.

Appunto per questo scopo di determinare il fabbisogno dell'approvvigionamento cittadino, furono fatte le prime rilevazioni dirette e complete che siano finora conosciute: quella di Friburgo (Svizzera) per l'anno 1444, e quella, molto più importante, di Norimberga per il 1449. Quest'ultima fu scoperta e resa nota nel 1864 da Carlo Hegel, e servì come punto di partenza al Bücher per il suo libro sulla popolazione di Francoforte sul Meno, il quale, sebbene non possa fondarsi su un vero e proprio censimento, ma su fonti diverse che si eompletano fra loro (principalmente liste dei soggetti all'imposta e libri dei giuramenti di cittadinanza), è l'opera più completa che si possieda finora sulla storia della popolazione di una città medievale, considerata non solo nel suo complesso, ma anche nella sua distribuzione per sessi, per età, per professioni, per condizioni sociali.

Deriva pure dalla necessità di determinare il fabbisogno alimentare il censimento di Strasburgo, degli anni 1473-74; mentre invece per fini generali di carattere amministrativo fu fatto quello di Nordlingen del 1459.

A epoca anteriore a questi della Svizzera e della Germania risale il primo dei cinque censimenti di Ypres per gli anni 1412, 1431, 1437, 1491, 1506, di ciascuno dei quali non si è conservato purtroppo il testo completo, ma soltanto i quaderni che riguardano uno o due dei quartieri in cui si divideva la città. Poiché però i quaderni conservati dei varî censimenti non riguardano tutti gli stessi quartieri, essi hanno permesso al Pirenne di determinare con grande approssimazione la popolazione totale almeno per gli anni 1431, 1491 e 1506. La rilevazione, che probabilmente fu ordinata per scopo militare, è indubbiamente completa: per ogni contrada sono elencati i nomi di tutti i capifamiglia, scrivendo accanto a questo il numero delle persone conviventi. Alla fine di ogni quaderno è fatta una ricapitolazione generale, da cui risulta che la sola esclusione è quella del clero regolare. Di molti capifamiglia è indicata anche la professione, in modo che il Pirenne, come già il Bücher per Francoforte e l'Eheberg per Strasburgo, ha potuto trarre dal prezioso documento anche la statistica professionale della città fiamminga.

Rilevazioni analoghe a queste furono fatte certamente per qualcuna delle città francesi; ma esse sono andate perdute o per lo meno non sono state ancora scoperte e pubblicate.

Non molto diversa da quella della Francia è la situazione delle città italiane, dove non mancano le notizie di rilevazioni non solo dei fuochi o degli uomini atti alle armi, ma anche dell'intera popolazione, che si possono far risalire al sec. XIV, ma di cui purtroppo non si conoscono i risultati se non attraverso notizie indirette, e per lo più di fonte privata. Venezia ad esempio, fin dal sec. XIII, aveva nei capisestiere e capicontrada gli organi adatti a compiere, in caso di bisogno, una rilevazione almeno sommaria della popolazione. A essi appunto era affidato il compito di coadiuvare le commissioni straordinarie degli stimatori, nelle rinnovazioni dell'estimo per l'imposizione delle prestanze obbligatorie; di compilare gli elenchi di tutte le case esistenti nelle loro contrade, col numero delle famiglie che le abitavano; di tenere al corrente gli elenchi degli uomini soggetti all'obbligo militare, e dei forestieri residenti o di passaggio. È dunque assai probabile che fin da quel secolo gli organi dello stato avessero la possibilità di conoscere a quanto ammontasse, almeno approssimativamente, la popolazione totale della città. Nel sec. XIV poi si deve ritenere che le "descrizioni" della città fossero diventate una consuetudine, se si può prestar fede all'attestazione, che sembra attendibile, di un cronista, il quale, riferendosi all'anno 1338, scrive: tota civitas patrio more describititr.

Probabilmente l'uso dei censimenti fu appreso a Venezia dall'impero bizantino: in una deliberazione del maggior consiglio del 1312, ordinando ai castellani e rettori di Modone e Corone di procedere all'anagrafe (censimento) del rispettivo territorio, non faciendo oblivionem alicuius personae, si dichiarava che quell'operazione solebat in capite annorum triginta fieri iuxta morem imperii. Dopo la conquista della terraferma, la consuetudine di queste descrizioni generali fu estesa dai vecchi dominî levantini ai nuovi territorî, per i quali, fin dal 1414 si ordina una descriptio de omnibus personis a tribus annis supra, quae reperiuntur stare et habitare in illis, e che dovrà essere rinnovata di tre in tre anni, allo scopo di determinare la misura del sale di cui potrà essere imposto l'acquisto a ogni comune.

Per la Dominante invece è molto dubbio se le descriptiones di cui si parla nei secoli XIV e XV avessero un carattere così generale, ed è molto più probabile che esse abbiano seguitato a esser limitate alla rilevazione degli uomini atti alle armi. Infatti anche nella deliberazione del Consiglio dei Dieci dell'8 giugno 1440, in cui si è voluto vedere la prima legge, che si sia conservata, per disciplinare la preparazione di un censimento generale, vi è bensì il preambolo Cum sit utilissimum, sicut continue de tempore in tempus fecerunt progenitores nostri, facere scribi personas et bucchas habitantes in hac civitate pro omni bono respectu, il quale sembra quanto mai significativo; ma molto probabilmente quel preambolo appartiene alla proposta che fu respinta dalla maggioranza del consiglio, e secondo la quale i due nobili incaricati della rilevazione per ogni parrocchia avrebbero dovuto scrivere "omnes personas habitantes in suis contratis, facta expressa mentione de numero personarum sive bucharum cuiuslibet domus" e di tener nota anche delle persone che fossero in quel momento fuori di Venezia. Respinta la proposta più ampia, fu approvato l'emendamento "quod scribantur tantum homines apti ad arma" dai 14 ai 60 anni.

Ma se è mancata ancora l'attuazione, è tuttavia evidente che il bisogno di un censimento generale era ormai sentito, e che se ne aveva un'idea chiara e completa, per cui si voleva che esso fosse eseguito tutto in un giorno, o almeno in brevissimo tempo, mandando gl'incaricati casa per casa, tenendo nota dei presenti e degli assenti.

Soltanto dopo il Cinquecento il censimento della popolazione cittadina assume a Venezia il carattere di un provvedimento amministrativo periodico, che dovrebbe rinnovarsi di cinque in cinque anni, e che non vien fatto soltanto per scopi militari e fiscali, ma per un interesse più generale, tanto che esso è affidato alla nuova magistratura dei provveditori alla sanità, i quali si valgono per la sua attuazione dell'opera dei parroci; ed esso deve comprendere, secondo le parole di una deliberazione più tarda, ma che si richiama alla pratica precedente, tutte le persone di ogni età, sesso, condizione, tanto secolari, quanto ecclesiastiche e claustrali.

Forse, prima che a Venezia, si erano compiute a Firenze, a scopo fiscale e politico, alcune rilevazioni delle popolazioni del contado recentemente assoggettate, di cui il primo esempio che si sia conservato risale al 1230.

Come risultato di queste rilevazioni, le quali si estendevano soltanto alle persone soggette all'imposta, esistevano già nel dicembre 1241 due libri di focolari del contado, di cui probabilmente uno comprendeva soltanto i nobili, e l'altro il resto della popolazione. Quando poi all'imposta personale gravante in misura uniforme su tutti i capifamiglia si sostituisce l'imposta proporzionale, si procede, prima in città, e poi anche nelle campagne, alla formazione dell'estimo, che sotto il duca di Calabria, sull'esempio degli appretia napoletani, assume il carattere del catasto, e serve, oltreché per la ripartizione dell'imposta diretta, per l'imposizione coatta del sale, per la leva dei soldati o per l'esazione dell'imposta militare, per la distribuzione degli oneri derivanti da lavori pubblici.

Ai primi del Trecento si sono dunque fatti notevoli progressi in tutta la Toscana in fatto di rilevazioni demografiche; ma non si dev'essere ancora arrivati a una descrizione generale di tutta la popolazione: tant'è vero che Giovanni Villani, nel dare la notissima cifra degli abitanti di Firenze nel 1339, dice che la popolazione "fu stimata" a 90.000 oocche fra uomini, femmine e fanciulli, "per l'avviso del pane che bisognava di continuo alla città", dimostrando in tal modo che egli, così perfettamente informato su tutto ciò che riguardava, anche dal lato statistico, la vita della sua città, doveva limitarsi, per la popolazione, al risultato di un calcolo congetturale indiretto. Per trovare un'enumerazione completa delle case e delle persone bisogna attendere fino al 1559 quando essa fu ordinata da Cosimo I per tutto il ducato.

Per Bologna si conserva soltanto la notizia di un documento del 1389, il quale conteneva una descriptio personarum della città, e di un censimento della popolazione del contado, che sarebbe stato compiuto nel 1396. Ma i soli dati che si possiedano sono quelli dei fuochi, offerti dalla famosa relazione del cardinale Anglico per l'anno 1371.

Per Palermo infine, mentre non si conserva traccia di descrizioni compiute a Roma e a Napoli nel Medioevo, è rimasta notizia di una numerazione del 1402, la quale avrebbe compreso oltre al numero delle famiglie e degli uomini atti alle armi, anche la cifra totale della popolazione.

All'inizio dell'età moderna, e specialmente dopo il 1500, col formarsi delle monarchie assolute, nazionali o regionali, le funzioni sempre più ampie che deve assumere lo stato e la necessità che ne deriva di porre le sue finanze su basi ben più solide di quelle su cui si era appoggiato lo stato feudale, determinano uno sviluppo del tutto nuovo della statistica demografica. Per gli uomini di governo diventa una necessità imprescindibile quella di conoscere le forze su cui possono fare assegnamento. In tutte le relazioni degli ambasciatori veneti del sec. XVI le prime notizie che essi offrono immancabilmente sullo stato da cui sono reduci, sono le cifre della popolazione totale, delle entrate ordinarie, e delle forze militari. Per questo anche gli stati che in questo campo erano rimasti più addietro si affrettano a ordinare la rilevazione, per lo più periodica, della situazione demografica di tutto il territorio. Qualcuno di essi, in particolare le città autonome, o quei piccoli stati regionali, specialmente italiani, che derivano la loro origine da uno stato cittadino, arrivavano allora senz'altro, se già non vi erano arrivati prima, al censimento vero e proprio, alla descrizione cioè contemporanea e completa di tutta la popolazione distinta per età, per sesso, per attitudine al servizio militare, e spesso anche per professioni, per condizione sociale, ecc.

Venezia, come si è visto, vi arriva per qualcuno almeno dei dominî d'oltremare fin dal Trecento; per i dominî di terraferma fin dai primi decennî del Quattrocento, e per la città fin dagl'inizî del Cinquecento; il ducato mediceo fin dal 1559. Lo Stato della Chiesa dovrà attendere invece fino al 1656 per avere un censimento generale di tutti i suoi abitanti, esclusi solo i fanciulli sotto i 3 anni. Però in qualcuno degli staterelli compresi nello Stato della Chiesa, ma ancora autonomi, si era iniziata, ancora nel Cinquecento, una forma un po' rudimentale di censimento generale: p. es. nel ducato di Urbino, nel 1511, nel 1548 e nel 1558, si fa obbligo a ogni capo di famiglia, di ogni grado e condizione, che, ricercato o no, debba entro un certo termine (che varia da 3 a 15 giorni) "haver dato in nota alli suoi capiborghi deputati che se vederanno andare intorno a tale officio la quantità di grani e farine se retrovano havere novi e vecchi e delle bocche da doi anni in suso e con giuramento ch'hanno a dire la verità tanto di grani come delle bocche". E di una di queste "assegne" per l'anno 1593 si conoscono anche i risultati, che dànno per tutto il ducato una disponibilità di 167.001 staia di grano, 25.462 staia di altre biade, e 107.420 ab. sopra i due anni.

Ma si tratta soltanto di eccezioni: la regola che vige ancora per i secoli XVI, XVII e per parte del XVIII, sia per i grandi stati nazionali, come Francia, Spagna e Inghilterra, sia per i minori stati regionali, è quella dei censimenti per fuochi o per famiglie. Anche dove avveniva, come per il Napoletano, che accanto al numero delle famiglie o dei fuochi, si registrasse nei singoli luoghi anche il numero degli abitanti, distinti per sesso e per età, le sole cifre che si comunicassero al potere centrale erano quelle dei fuochi, e questi soltanto sono registrati nella ricapitolazione generale per tutto lo stato. Ancora nel 1778 un francese, autore di un'interessantissima opera di demografia, elencando i mezzi per conoscere la popolazione considera il censimento generale come un'eccezione, e non gli assegna grande valore perché non eseguito dappertutto nello stesso momento (Moheau, Recherches et considerations sur la population de la France, 1788, a cura di R. Gonnard, Parigi 1912).

Ma se bisogna giungere al sec. XVIII, e per qualche grande stato alla fine di quello stesso secolo, perché si generalizzi l'uso dei censimenti periodici diretti allo scopo di rilevare il numero, l'età, il sesso, la condizione sociale e spesso la religione di tutti gli abitanti, che sono presenti in un determinato momento nello stato (v. censimento), tuttavia si sono fatti in questi secoli progressi notevolissimi nelle rilevazioni dei fuochi, che sono vigilate con diligenza e severità assai maggiore e permettono quindi di valersene con molto maggiore sicurezza per dedurne il numero totale degli abitanti.

Un grande progresso si compie dopo i primi anni del Cinquecento con l'estendersi alla maggior parte degli stati d'Europa dei registri delle nascite, dei matrimonî e delle morti (a cui si aggiungono in alcuni luoghi gli "stati dei comunicanti o delle anime", che sono dei veri censimenti a scopo religioso), dei quali prima di allora non si erano avuti o non si conoscono che delle apparizioni sporadiche, e che, affidati per lo più alle autorità ecclesiastiche, erano tenuti in generale con grande cura, e offrono, dove esistono dei censimenti, un mezzo prezioso di controllo dei loro risultati, e dove essi non esistono, un mezzo per calcolare la popolazione totale con una operazione aritmetica che non si sottrae certamente a gravissime critiche, ma può condurre almeno a risultati approssimativi. È indubitato infatti che, quando si moltiplica il numero dei nati, dei morti, o dei matrimonî per un determinato fattore, si suppone noto il quoziente di natalità, di mortalità, o di nuzialità, che è invece estremamente variabile. Ma l'errore in cui in tal modo si può cadere è indubbiamente inferiore a quello in cui abitualmente si cade calcolando la popolazione totale dal numero dei fuochi. Ed è precisamente da uno studio accurato e paziente dei registri dello stato civile, di cui si conservano serie ricchissime e complete per più di 3 secoli, che si può sperare di vedere eliminate molte delle incertezze, delle lacune e delle incognite contro cui deve urtare chiunque si occupi della storia della popolazione nei secoli che precedono la metà del Settecento.

Il movimento della popolazione dal sec. XIII al XVIII. - Dati i metodi di rilevazione e data la scarsità e l'incertezza dei risultati che se ne sono conservati, e che in molti casi, per i tempi più remoti, noi conosciamo soltanto attraverso le notizie che ci hanno dato i cronisti, è possibile, per il periodo compreso tra il 1200 e il 1500, seguire - almeno a larghi tratti - la storia della popolazione di molte città e di qualche regione, ma non quella d'interi territorî nazionali; dal 1500 al 1800 è possibile estendere questa storia, con sicurezza crescente, agli stati nazionali dell'Europa occidentale e settentrionale e dopo il 1700, anche all'America Settentrionale; ma son privi di base i tentativi, puramente congetturali, di determinare per quei secoli anche in misura largamente approssimativa, la popolazione totale delle varie parti del mondo.

Per ciò che riguarda le città, i risultati sicuri a cui ha potuto condurre lo studio dei pochi censimenti conservatisi in Germania, nella Svizzera e nelle Fiandre, hanno indotto a respingere come del tutto arbitrarie e assurde tutte le notizie tradizionali o tutti i calcoli, in base ai quali è assegnata ad alcune delle città medievali una popolazione superiore ai 100.00 e talvolta anche ai 200.000 e ai 300.000 ab.

I censimenti generali, fatti per testa, della popolazione cittadina, che finora siano noti, hanno dato i seguenti risultati: Ypres (1431): 10.523; Friburgo (1444): 5200; Norimberga (1449): 20.165. Nördlingen (1459): 5245; Strasburgo (1473-77): 20.722.

Press'a poco negli stessi anni, sulla base degli elenchi dei soggetti all'imposta, controllati spesso con altri dati, si son potute determinare in forma quasi sicura, le popolazioni di altre città tedesche nelle misure seguenti: Francoforte s. M. (1387): 10.000; Lubecca (1400 circa): 22.300; Ulma (1427): 20.000 circa; Dresda (1474): 3190; Augusta (1475): 18.300.

Da questi dati si è voluto derivare un criterio generale, che cioè, per le condizioni stesse dell'economia cittadina e per la difficoltà di provvedere all'approvvigionamento delle derrate di prima necessità, non fossero possibili agglomeramemi urbani che superassero di regola le 10.000 anime, e solo in casi eccezionali le 20.000.

Il ragionamento vale perfettamente per le città dell'interno, specialmente nelle regioni a nord delle Alpi, che si sono andate moltiplicando in brevissimo tempo specialmente nel sec. XIV, e di cui ciascuna doveva contare quasi esclusivamente sulle proprie forze sia per ciò che riguarda la produzione industriale sia per la produzione agricola; ma esso non regge più per quei centri urbani, che si trovino sulle maggiori vie del traffico e siano sede di industrie esportatrici e di un'intensa attività marinara e commerciale. Nell'Inghilterra, ad es., sulla base della rilevazione compiuta nel 1377, per l'applicazione dell'imposta personale, si è potuto stabilire che in quell'epoca, quando forse i vuoti della famosa peste nera non si erano ancora riempiti, non più di dieci città superavano i 10.000 ab., mentre la massima parte delle altre ne contavano meno di 5000. Ma Londra, che accentrava già allora quasi interamente il commercio internazionale dell'Inghilterra, raggiungeva i 35 o i 40.000 abitanti.

Così pure per le Fiandre è vero che la scoperta del censimento di Ypres ha fatto ridurre la sua popolazione, dalle cifre iperboliche che le erano assegnate dalla tradizione, a quella assai più modesta di 10.000 anime; ma è anche vero che i migliori conoscitori della storia di Bruges e di Gand, assegnano a questi, che erano sulla fine del '300 i massimi centri industriali e commerciali della regione, una popolazione di almeno 60.000 anime. E Anversa, meno di un secolo più tardi, arrivava allo stesso livello e forse lo superava. Nella stessa Germania le sole città che, tra la fine del Trecento e i primi del Quattrocento, superino certamente i 20.000 ab., sono il maggior centro tedesco di industrie esportatrici, Norimberga, e i due maggiori centri del commercio marittimo della bassa Germania, Lubecca e soprattutto Colonia, che a quell'epoca avrebbe oscillato tra i 30 e i 40 mila abitanti.

Nella Francia che aveva avuto fino alla metà del Trecento un incremento fortissimo di popolazione, interrotto poi dalla peste e dalle devastazioni della guerra dei Cent'anni, le città devono aver raggiunto al tempo di Filippo il Bello, specialmente nel nord-est e nel sud una popolazione assai rilevante. È probabilmente esagerata la cifra di 240.000 ab. che per quel tempo si assegna a Parigi, fondandosi su calcoli indiretti e di dubbia autenticità; ma non vi ha dubbio che Parigi doveva essere allora la città più popolosa dell'Occidente.

Per le città italiane, il materiale eccezionalmente ricco conservato nei nostri archivî per l'età comunale, e in particolare per il sec. XIV, non è stato ancora sfruttato come sarebbe forse possibile. È vero che moltissimi dei documenti di carattere amministrativo e finanziario sono stati purtroppo distrutti, ma anche dai pochi che si conservano e dalle notizie rimaste in altri atti ufficiali, sarebbe possibile, con uno studio analitico e paziente, arrivare a risultati assai più sicuri sul numero dei fuochi, delle case, del fabbisogno di cereali, sugli uomini atti alle armi e così via. Gli studiosi di demografia storica, tolte poche eccezioni, hanno preferito valersi, per questo periodo, delle notizie abbastanza numerose offerte dagli scrittori del tempo: notizie che in molti casi non sono meno cervellotiche ed esagerate di quelle d'oltr'alpe, ma in altri, per la conoscenza che lo scrittore possedeva della vita economica e sociale della sua città, a cui partecipava attivamente, per i particolari che offre, oltre che sul numero totale, sulla composizione della popolazione, dànno garanzia di un'attendibilità molto maggiore, la quale in qualche caso ha potuto essere confermata dal controllo di alcuni dati ufficiali. Così la cifra tanto discussa di 90.000 ab., data da Giovanni Villani per la popolazione compresa nel 1339 entro la terza cerchia della mura di Firenze, trova una conferma da un lato nel consumo di 940 moggia di grano la settimana, che ci è attestato per il 1280, in un anno cioè in cui la popolazione era certamente inferiore (si è valutata, su quella base, a circa 74.000 ab.), dall'altro nel numero di fumanti, rilevato nel 1351 in 10.878, che porterebbero la popolazione a 45-50.000 ab., all'indomani della peste famosa, la quale, secondo i calcoli più prudenti, avrebbe determinato una perdita di almeno il 40 oÓ.

Così per Venezia, se pur si giudica troppo alta la cifra di 190.000 ab. che le è assegnata per il 1422 dal Sanudo, è tuttavia indubitato, per quel che si può desumere da altre notizie sul numero degli uomini atti alle armi e sul grano immagazzinato per l'approvvigionamento della città, che la sua popolazione non doveva essere inferiore ai 100.000; e questa cifra non può apparire affatto esagerata, quando si pensi che a quell'epoca lo sviluppo edilizio della città era ormai completo, quale si è mantenuto fino ai giorni nostri, salvo l'aggiunta di qualche piccolo interramento; che il commercio della città era nella sua massima fioritura, e vi attirava un numero altissimo di forestieri, moltissimi dei quali si stabilivano nella città e ne acquistavano la cittadinanza; e che i censimenti del sec. XVI assegnano alla città una popolazione oscillante fra un minimo di 100.000 abitanti nel 1509 e un massimo di 195.000 nel 1574, con una media di circa 150.000 che Venezia ha mantenuto quasi immutata fino ai giorni nostri.

Sulla popolazione di Milano, rinunciando a valersi di una notizia di Bonvesin de la Riva per l'anno 1288 (forse accettabile per le 13.000 porte di casa, ma evidentemente fantastica per i 400.000 uomini atti alle armi oltre a 200.000 persone non utili, cioè inabili per il servizio militare), non si conosce che il risultato di una rilevazione dei fuochi, nel 1492, quando essi risultarono in numero di 17.000, ai quali avrebbe dovuto corrispondere una popolazione totale di 70-80.000 ab.

Anche per Genova le cifre altissime di 128.000 ab. per il 1280 e di 132.000 per il 1530, che si era voluto desumere dal numero delle case, devono essere sensibilmente ridotte, se si confrontano coi risultati del primo censimento, il quale, compiuto nel 1597, in un momento cioè in cui la città era ancora assai prospera, le assegnava una popolazione totale di 80.000 persone.

Risulta dunque sicuro che nell'Italia comunale, tra il sec. XIV e il XV, almeno quattro città superavano i 60.000 ab., e che alcune di esse, nei momenti di maggiore prosperità raggiunsero e superarono i 100.000.

Nelle altre regioni, Roma deve avere avuto per tutto il Medioevo una popolazione assai scarsa; ma quando al principio del Cinquecento essa comincia a risorgere e vi si compie il primo censimento, la popolazione vi ha raggiunto gli 85.000 ab. Così pure Napoli, che, dopo la metà del Cinquecento, doveva diventare la più popolata città d'Italia, a notevole distanza da tutte le altre, non avrebbe avuto, ai primi del '300 che 34.000 abitanti al massimo, e si sarebbe poi mantenuta per due secoli tra i 40 e i 50 mila. È probabile però che queste cifre, fondate sul gettito della colletta, siano sensibilmente inferiori al vero, sia perché il numero delle famiglie che si sottraevano all'imposta doveva essere molto superiore alla modesta proporzione di un quinto o di un sesto che a esso si attribuisce, sia perché, accettando quella cifra, non si spiegherebbe il rapidissimo sbalzo, per cui la popolazione di Napoli in poco più di 40 anni, fra il 1505 e il 1547, si sarebbe quasi quintuplicata, salendo a 212.105 ab.

Palermo invece avrebbe seguito il cammino inverso: sehbene siano del tutto incontrollabili le cifre altissime di 350.000 250.000 ab. che le vengono assegnate per il periodo arabo, è certo tuttavia che per quattro secoli, tra il IX e il XIII, essa dev'essere stata la città più popolata d'Italia, sede di colonie fiorenti di Arabi, Greci, Ebrei, e poi di Amalfitani, Pisani, Genovesi e Veneziani. Dopo la caduta degli Svevi cominciò un periodo di rapida decadenza, per cui i risultati delle prime rilevazioni che si conoscano (sempre per fuochi) darebbero per il sec. XV una popolazione di appena 25.000 ab., e per il XVI, di 40 a 50.000.

Assai più scarsi che per le città sono i dati statistici, fino al sec. XVI per la campagna e per l'intero territorio. In Inghilterra la rilevazione del 1377 per l'imposta personale fu estesa a quasi tutto lo stato, ma essa offre un risultato (1.356.201 ab.), che dev'essere molto inferiore alla realtà per il grande numero delle esenzioni e delle evasioni. In Francia invece, sulla base dei ruoli dell'imposta militare, la popolazione totale fu valutata a circa 14 milioni.

Nei dominî di terraferma della repubblica veneta, il censimento del 1548, il primo di cui si conoscano i risultati completi, dà una popolazione totale di 1.379.393 ab. Il ducato di Milano, comprendente allora le due provincie attual di Milano e Pavia e la metà circa della provincia di Cremona, contava, nel 1542, 91.879 fuochi, a cui si possono far corrispondere circa 400.000 anime.

Per il regno di Napoli le rilevazioni dei fuochi tassati dànno i seguenti risultati: 1465, 232.896; 1485, 215.107; 1505, 254.823; 1545, 407.138; 1595, 550.090. Se si potesse ammettere che le rilevazioni fossero state fatte sempre con gli stessi criterî e con la stessa diligenza, la popolazione sarebbe salita in poco più di un secolo da 900.000 anime circa a 2.300.000.

Ma più di queste cifre, di una attendibilità molto discutibile, hanno valore le conclusioni di carattere generale sulle tendenze che si rivelano in questi secoli nel movimento della popolazione in tutta l'Europa occidentale, e per essere più precisi in tutti i paesi d'Europa, esclusa. la Russia, l'Ungheria e la penisola balcanica su cui manca ogni fonte d'informazioni.

Il movimento di rapido aumento della popolazione, che si era iniziato, come si è visto, dopo il Mille, continua, salvo brevi momenti di sosta e anche qualche passo indietro, determinati dalle pestilenze e dalle carestie frequentissime, se non sempre molto gravi, fino alla prima metà del sec. XIV. Iniziatosi nelle campagne, quell'aumento è soprattutto sfruttato dalle città che sorgono numerose in quell'epoca oppure rinascono dalla desolazione dell'alto Medioevo. Favorita dalle autorità cittadine, l'emigrazione dalle campagne in città si fa intensa particolarmente nel sec. XIII ed è la causa principale del fortissimo aumento della popolazione urbana che determina i notissimi ampliamenti delle mura, che si succedono talvolta a distanza di pochi decennî, e che tuttavia non sono sufficienti a contenere tutta la nuova popolazione, una parte della quale trasforma il suburbio in una continuazione vera e propria della città.

Non è affatto probabile che l'attrazione così forte esercitata in quei secoli dalla città abbia determinato uno spopolamento delle campagne, che dev'essere escluso per tutto ciò che sappiamo sul grande numero di piccoli e grossi centri rurali che fioriscono attorno alle città e per il bisogno che la città stessa aveva di non danneggiare la produzione agricola sulla quale essa viveva. Ma è tuttavia probabile, e ci sembra confermato dai pochi dati statistici che si conoscono, che l'aumento sia stato nelle campagne, almeno dopo il 1200, assai minore che nelle città, e che anzi la popolazione vi sia rimasta, in generale, pressoché stazionaria.

Un mutamento improvviso e profondo della situazione è determinato dall'epidemia terribile, che noi conosciamo col nome di peste del 1348, sulla gravità della quale sono state diffuse dai cronisti notizie evidentemente esagerate, perché vi si parla, in alcuni luoghi, della distruzione del 90% della popolazione. Ma queste esagerazioni non distruggono la gravità estrema della moria che si distinse da tutte le altre per la sua durata e la sua enorme estensione, essendosi essa diffusa successivamente, fra il 1347 e il 1351, in tutte le regioni di Europa, e lasciando nell'animo di tutti coloro che ne scrivono - e sono a centinaia - un vero senso di terrore.

La peste, che colpisce le città in misura assai più grave che le campagne, determina l'inizio di un movimento in senso inverso a quello che si era manifestato nei secoli XII e XIII e che tende a ristabilire un maggiore equilibrio fra popolazione urbana e popolazione rurale. La decadenza dei comuni liberi e la formazione delle signorie e dei principati regionali o delle monarchie nazionali, a tendenze unitarie e accentratrici, determina un arresto nello sviluppo, e spesso addirittura un regresso delle città minori, a favore - in parte - della campagna, e in parte maggiore della città dominante, o della capitale in cui risiedono il principe, la sua corte, e il suo governo.

È appunto perciò che nella seconda metà del Quattrocento, ed anche più nel Cinquecento, quando si manifesta una tendenza abbastanza decisa all'aumento generale della popolazione, l'incrementoo raggiunge la misura più alta nelle grandi capitali, mentre le città minori, a eccezione forse di quelle della Germania, che hanno appunto nella prima metà del Cinquecento il periodo della loro massima floridezza, rivelano un aumento lentissimo o quasi nullo.

Per citare qualche esempio soltanto, mentre i fuochi tassati in tutto il regno di Napoli salgono da 422.038 nel 1545 a 500.206 nel 1648, quelli della capitale passano nello stesso tempo da 34.345 a 44.000; mentre la popolazione totale dei dominî veneziani di terra ferma, che era di 1.600.000 abitanti nel 1548, salì a 1.850.000 nel 1620. In lnghilterra, tra la fine del Trecento e la fine del Seicento, mentre la popolazione totale si era poco più che raddoppiata, quella di Londra era aumentata di circa 12 volte.

Ma sino al principio del sec. XVIII l'incremento che di tratto in tratto - e talvolta, come nel Cinquecento, per periodi abbastanza lunghi - si manifestava per l'intero territorio dei varî stati e particolarmente per le grandi città, era poi annullato da avvenimenti improvvisi, quali le guerre, le carestie e in misura massima le pestilenze. Fra le cause del lento incremento della popolazione nei secoli che precedono l'Ottocento si colloca generalmente, anzi in primissima linea, l'altissimo quoziente di mortalità. Ma se i registri dello stato civile ci confermano che quel quoziente era effettivamente molto alto, essi ci dimostrano che il quoziente di natalità era di tanto superiore da lasciare almeno nelle città un'eccedenza media abbastanza sensibile.

Per citare un solo esempio, un benemerito studioso di storia istriana, che ha esaminato pazientemente i libri dei nati e dei morti di Capodistria dal 1632 al 1708, ha constatato che i quozienti medî annuali di natalità, di 5 in 5 anni, vi oscillano da un minimo di 28,4 a un massimo di 56,7, con una media per tutto il periodo del 39 per mille; i quozienti di mortalità variano invece dall'8,3 al 32,6, con una media del 22 per mille. L'aumento medio annuale della popolazione per la sola eccedenza delle nascite sulle morti è dunque di 1,7%; è tale cioè da permettere in circa 40 anni un raddoppiamento della popolazione, qualora non sopravvengano eventi straordinarî. Fra questi eventi i più rovinosi sono appunto le epidemie: nei libri dei morti della stessa Capodistria si sono registrati mese per mese e per ogni contrada tutti i decessi per la famosa peste del 1630-31: in 13 mesi essi raggiunsero la cifra enorme di 1986, uguale esattamente alla metà dell'intera popolazione.

Per la medesima pestilenza, i morti, accuratamente registrati dai provveditori alla sanità, raggiunsero a Venezia tra il luglio 1630 e il novembre 1631 la cifra di 46.490 e in tutte le isole della laguna quella di 93.661. La popolazione della sola città di Venezia, che secondo il censimento del 1624 era risultata di 142.804 ab., è ridotta nel 1633 a 98.244.

Si capisce quindi come, considerata a lunghissimi intervalli, la popolazione dell'Europa occidentale fra il principio del sec. XIV e la fine del sec. XVII abbia potuto essere considerata pressoché stazionaria, e a un livello che si può forse considerare inferiore al quarto di quello attuale. Ma in realtà i movimenti ci sono stati e sensibilissimi: soltanto si è trattato di un lavoro di Sisifo, per cui le stragi di pochi mesi bastavano a distruggere l'opera compiuta in decennî di lento e quasi continuo progresso.

Dalla fine del Seicento invece, per quanto è possibile conoscere dalle rilevazioni che si vanno facendo più frequenti e precise, e si vanno estendendo a un numero assai maggiore di paesi, la situazione comincia a mutare radicalmente. Non si compiono ancora i progressi giganteschi che saranno la caratteristica del sec. XIX e del primo trentennio del sec. XX; ma tuttavia l'incremento è continuo, generale e - specialmente in alcuni paesi - sensibilissimo.

Nell'Inghilterra infatti (senza la Scozia) la popolazione totale si era esattamente raddoppiata nel corso di 100 anni, salendo da meno di 5 milioni alla fine del Seicento (valutazione privata, ma attendibile) a 9.872.980 nel 1800. In Irlanda, e questo spiega il terribile aggravarsi del suo disagio economico, la popolazione in 130 anni si è più che triplicata: da poco più di 1 milione nel 1669 a quasi 4 milioni nel 1801.

L'Olanda, nonostante la straordinaria potenza marittima, commerciale e coloniale, non avrebbe contato nel 1738 che 980.000 ab.: settant'anni più tardi, essa ne contava il doppio.

Enormemente maggiori, se non sorgessero gravi dubbî sull'eccessiva esiguità delle cifre riguardanti la fine del Seicento, sarebbero i progressi compiuti dai territorî compresi nel regno di Prussia: da soli 1.100.000 ab. nel 1688, essi salirono a 2.380.000 nel 1740, a 5.630.000 nel 1786.

Il regno di Francia, che è in quel secolo lo stato più popolato di Europa, comprendendo già, alla morte di Luigi XIV, 18 milioni di ab., non può raggiungere nel corso di quel secolo un incremento pari a quello degli stati che avevano una densità di popolazione tanto inferiore; ma tuttavia la popolazione seguita a crescere con un ritmo accelerato, tanto che, nel censimento del 1786-87, essa vi supera i 23 milioni.

Per l'Italia, data la diversità dei mezzi di rilevazione seguiti nei diversi stati, non è possibile arrivare a determinare delle somme sicuramente esatte. Tuttavia si è potuto calcolare, in forma approssimativa, che mentre nei due secoli precedenti, attraverso notevoli oscillazioni, la popolazione totale si sarebbe mantenuta intorno agli 11 milioni, tra il principio e la fine del sec. XVIII essa sarebbe salita da 11 a 17 milioni.

La popolazione totale di Europa, valutata nel'600 (secondo calcoli in gran parte congetturali) a 95 milioni, e salita a 110 milioni intorno al 1700, raggiunge i 188 milioni nel 1800.

Questo incremento fortissimo, che si manifesta in misura assai maggiore negli ultimi 40 anni del secolo, spiega come s'imponesse a economisti e politici il problema dello squilibrio fra popolazione e produzione, e come potessero farsi strada, appunto alla fine del secolo, le teorie più pessimiste, che per fortuna la realtà ha potuto presto smentire.

Ma anche più significativo dell'aumento della popolazione totale è lo spostamento che si manifesta nella sua distribuzione fra campagna e città. Si ripete cioè nel sec. XVIII - e si accentuerà poi in misura morbosa nel secolo successivo - lo stesso fenomeno che si era manifestato nei secoli XIII e XIV, e che è comune a tutti i periodi di rapido incremento demografico. Quando cioè la popolazione cresce con ritmo accelerato, si manifesta quasi inevitabilmente una progressiva migrazione dalle campagne nelle città.

Il fenomeno dell'urbanesimo assume proporzioni maggiori in Inghilterra, dove, secondo Arthur Young, nel terz'ultimo decennio del Settecento, metà della popolazione sarebbe vissuta nelle città. Può darsi che egli abbia un po' esagerato, ma l'aumento dei centri urbani è incontestabile e sensibilissimo.

Londra seguita a crescere in proporzione più alta dell'intera popolazione del regno, un ottavo della quale è addensato nelle sue case. Gli altri centri maggiori, che fino alla metà del Seicento si erano mantenuti intorno o al disotto dei 10.000 ab., e solo in un caso avevano raggiunto i 30.000, vedono ora triplicarsi e quadruplicarsi, in meno di un secolo, la loro popolazione. Nello stesso tempo, nei distretti industriali, sorgono quasi dal nulla delle città del tutto nuove: tipico è il caso di Manchester, che nel 1717 contava appena 8000 ab. e nel 1773, prima dell'introduzione delle macchine, superava già i 40.000.

In Francia il fenomeno dell'urbanesimo raggiunge proporzioni inferiori: secondo il censimento del 1786-87 non più del 22% della popolazione viveva nelle città. Ma tuttavia esso ha fatto progressi notevoli. Parigi si avvicina già ai 700.000 ab.; Lione ne conta 135.000; Marsiglia 90.000. In tutto vi sono 79 città con più di 10.000 ab.

In Italia il maggior incremento si manifesta a Napoli (436.000 ab. alla fine del '700), a Palermo (200.000), e soprattutto a Torino, che, modesta cittadina di appena 16.000 ab. al tempo di Emanuele Filiberto, si trasforma nel Settecento in una grande città e raggiunge nel 1799 (coi sobborghi) gli 82.000 ab.

All'incremento della popolazione cittadina, oltre alle cause economiche, concorre anche il miglioramento delle condizioni igieniche, che in esse, assai più che nelle campagne, determina una forte diminuzione nella mortalità. Per Londra si è calcolato che la media annuale (esclusi i nati morti) su 1000 ab. sia stata di 70 nel periodo 1629-1643, 52 nel 1728-57, e 29 nel 1800-10; per Francoforte sul Meno, 68 nel 1600-50, 34 nel 1700-1800.

Dell'aumento fortissimo che si manifesta nella popolazione dell'Europa occidentale si può vedere una conseguenza e una conferma sicura nel rapido incremento dell'emigrazione.

Movimenti migratorî di notevole intensità si compiono in questo secolo fra regione e regione di Europa, sia per ragioni politiche e religiose, come quello degli ugonotti francesi, che in numero di circa 300.000 si stabiliscono in Inghilterra, nei Paesi Bassi, in Germania, sia per motivi puramente economici, come quello dei Tedeschi che emigrano in Ungheria (circa 80.000).

Ma di gran lunga più importante è il movimento migratorio per le due Americhe: si è calcolato - ma naturalmente il calcolo non può avere che un valore di larga approssimazione - che alla fine del Seicento non si trovasse in tutto il continente americano più di un milione di bianchi; mentre un secolo più tardi il loro numero si sarebbe elevato a circa 8 milioni, di cui 3 milioni nell'America latina (Spagnoli e Portoghesi), gli altri, per la maggior parte anglosassoni, negli Stati Uniti e nel Canada.

La politica demografica nell'età dei comuni e nelle monarchie assolute. - Il problema demografico, che nell'età imperiale romana era stata una delle preoccupazioni più assillanti degli uomini di governo, dev'essersi imposto con urgenza forse anche maggiore nei secoli dell'alto Medioevo, in cui, se i bisogni erano minori, era tuttavia paurosamente maggiore la deficienza di braccia. Della coscienza che si aveva di questa necessità troviamo una traccia sicura in una disposizione della Legge Salica, per cui all'uccisore di una donna che fosse in condizioni di poter avere figli era comminata una pena di 600 soldi, mentre la pena era ridotta a soli 200 quando la donna uccisa avesse cessato di procreare.

Manifestazioni più numerose e sicure di una politica demografica si cominciano a incontrare soltanto nella legislazione dei comuni, i quali vi sono indotti anzitutto da necessità politiche e militari, per indebolire i grandi signori del contado, sottraendo loro il maggior numero di dipendenti e fedeli, e per aumentare le file delle milizie cittadine in cui i mercenarî non costituivano sino al 1300 che un'eccezione. Perciò la popolazione del contado è attirata entro le mura della città con la promessa della libertà ai servi, con la concessione gratuita del terreno ai possidenti per costruirsi una casa e con esenzioni e agevolazioni fiscali per un certo numero di anni.

Alle ragioni politiche e militari si aggiungono poi quelle economiche: la necessità cioè di assicurare braccia all'industria nascente e di favorire il sorgere di quelle industrie, per cui la città sia ancora tributaria delle città vicine. Per questo s'incoraggia con agevolazioni di ogni genere l'immigrazione di artigiani forestieri, specializzati nel ramo d'industria da far sorgere o da far sviluppare.

Mancano quasi del tutto, come mancheranno nell'età mercantilista, i provvedimenti che sarebbero stati più efficaci per favorire il naturale incremento della popolazione: le misure igieniche cioè che valessero a diminuire la spaventosa mortalità infantile e a impedire il dilagare delle epidemie, contro le quali la sola precauzione era quella dell'isolamento, spesso anche crudele, degli ammalati. Non mancarono invece le disposizioni di carattere tributario, che nella determinazione del patrimonio o del reddito imponibile concedevano ai capi di famiglia delle notevoli riduzioni per ciascuno dei figli che vivessero a loro carico, disposizioni che, sebbene fossero dettate principalmente da un criterio di giustizia tributaria, avevano forse anche una finalità demografica.

Come in tutti gli altri campi della politica economica, finanziaria e sociale, anche in quello della politica demografica le monarchie unitarie e assolute dell'età moderna non fanno che procedere più arditamente e con maggiore vastità di orizzonti sulla via che era stata aperta dai comuni del Duecento e del Trecento. Agli inizî del mercantilismo il problema è riguardato quasi esclusivamente dal punto di vista militare, e qualche scrittore politico, come Bacone, afferma che, per aumentare la forza dello stato, interessa assai più la qualità che la quantità; ed egli, come altri scrittori del suo tempo, non nasconde la sua preoccupazione per un troppo rapido aumento della popolazione, il quale può esporre una parte di essa al pericolo della disoccupazione e della fame. Ma dopo la metà del Seicento, in conseguenza particolarmente dei progressi dell'industria, queste preoccupazioni scompaiono e la necessità di provocare con tutti i mezzi possibili l'aumento della popolazione diventa un dogma per tutti i mercantilisti, sia nella teoria sia nella pratica. Scrittori d'ogni paese ripetono insistentemente l'affermazione che la vera ricchezza di un paese sta negli uomini, che vale più un popolo assai numeroso con pochissimo territorio, piuttosto che un grande e ricco territorio con un numero insufficiente di abitanti.

Il fine economico (benché subordinato sempre a quello della potenza dello stato) prevale ora su quello puramente e direttamente politico-militare: il fine cioè di assicurare all'industria una mano d'opera abbondante e a buon mercato che le permetta di abbassare i costi di produzione e vincere la concorrenza straniera.

I mezzi con cui si tenta di raggiungere questo fine variano da paese a paese; in Inghilterra e in Olanda, dove non hanno trovato terreno favorevole i sistemi del paternalismo statale, si continua a ricorrere ai mezzi che erano stati largamente usati dai governi cittadini, e specialmente si favorisce l'accesso degli industriali, artigiani e operai stranieri e la loro naturalizzazione. In Francia invece, a opera di Colbert, che vuol guidare personalmente tutte le forme di attività della nazione, si va molto più avanti in una politica demografica, che si propone di stimolare i matrimonî e la loro prolificazione. In nessun altro paese le affermazioni degli uomini di stato e dei loro collaboratori sulla necessità dell'aumento della popolazione sono così numerose come in Francia.

Così, ad es., con una legge del 1666, Colbert determinò che tutti i giovani che si sposassero prima dell'età di 20 anni, fossero esenti dall'imposta personale (taille) finché avessero raggiunto i 25 anni; chi si sposava prima del 21° anno d'età otteneva la stessa esenzione fino ai 24 anni. Con la stessa legge i padri di famiglia con 10 figli, nessuno dei quali fosse prete, frate o monaco, godeva dell'esenzione dai tributi in una misura che aumentava se il numero dei figli fosse superiore ai 10. Per le classi sociali esenti dalle imposte erano istituite, alle stesse condizioni, delle rendite annuali da 1000 a 2000 lire (tornesi) per i nobili, e della metà per i borghesi.

Con una legge dell'anno precedente Colbert aveva già tentato di riformare il regime delle successioni, in modo che i genitori non fossero più indotti a chiudere le loro figlie in convento, ma a sposarle.

Un'ordinanza del 1669 per il Canada, oltre a estendere alle colonie gli stessi vantaggi per le famiglie numerose, comminava una pena pecuniaria a quei padri che non dessero moglie ai loro figli di più di 20 anni, e non dessero marito alle figlie di 16.

Il carteggio di Colbert e dei suoi successori coi funzionarî delle colonie documenta i loro sforzi per accrescerne la popolazione con tutti i mezzi possibili. "Non deve avvenire, scriveva Colbert nel 1668 agli intendenti del Canada, che un intendente creda di aver adempiuto al suo dovere, se egli non raggiunge un aumento annuale di almeno 200 famiglie", e li stimola perciò ad adoperarsi perché i maschi si sposino fra i 18 e i 19 anni, e le femmine fra i 14 e i 15. Carichi interi di ragazze sono mandati in colonia per aumentare la frequenza dei matrimonî. I soldati che si rifiutassero di sposarsi con queste ragazze erano puniti.

Allo stesso scopo, un impiegato scrive al medesimo ministro delle Finanze perché combatta la mortalità infantile: è assurdo, dice, che si lascino morire ogni anno tanti bambini, che dovrebbero aumentare la popolazione del paese. Un altro propone un premio di 30 lire per tutti i matrimonî; e aggiunge che sarebbero spesi bene perché questo sussidio "fournit des sujets à bon marché".

La popolazione di europa e delle altre parti del mondo dal 1800 al 1930. - Questi provvedimenti, più che per la loro efficacia pratica e immediata, hanno grande importanza come documentazione della coscienza che si era andata formando della necessità quasi fatale dell'aumento della popolazione come condizione essenziale della potenza e dell'espansione dei grandi stati moderni. Da allora infatti s'inizia quella tendenza all'aumento continuo, che, limitata dapprima ad alcuni stati d'Europa, si fa poi sempre più rapida e generale, estendendosi, in misura maggiore o minore, a tutte le altri parti del mondo.

L'incremento che, dopo il 1800, può essere seguito e controllato con sempre maggiore precisione, per l'estendersi dei censimenti periodici a quasi tutti gli stati d'Europa e dell'America Settentrionale, e dopo il 1850 a un gran numero degli stati extraeuropei, è determinato e reso possibile da un complesso di cause strettamente concatenate fra loro, fra cui in prima linea il miglioramento del tenore di vita e delle condizioni igieniche delle classi più numerose della popolazione, che rende sempre più rare e meno rovinose le epidemie e diminuisee in misura sempre crescente la mortalità, specialmente infantile, l'introduzione delle macchine e l'industrializzazione di zone sempre più vaste, in cui si moltiplica la richiesta di mano d'opera e il numero dei salariati, che non hanno alcuno stimolo a limitare la procreazione; il progresso meraviglioso delle comunicazioni e la messa in valore di terre vastissime nelle colonie, che tolgono ogni preoccupazione per il vettovagliamento di città e regioni sovrapopolate, permettono con l'ampliamento del mercato l'addensarsi in breve spazio di un'intensa produzione specializzata e offrono infine uno sbocco sicuro alla popolazione eccedente.

In 130 anni la popolazione d'Europa è cresciuta, in totale, da 188 milioni, nel 1800, a circa 500 milioni nel 1930, e nei suoi stati principali nella misura di cui alla tabella a pag. seguente (in milioni).

L'incremento, rallentato nel decennio 1910-1920 in causa della guerra, che ha determinato la perdita di almeno 7 milioni di combattenti, e un aumento di mortalità nella popolazione civile, che è stato altissimo nel 1918, ha ripreso con ritmo accelerato nel decennio 1920-930, manifestandosi in misura diversa nei varî stati: massimo nella Gran Bretagna, dove la popolazione si è più che quadruplicata; di proporzione di poco inferiore in Olanda; altissimo, specialmente fra il 1830 e il 1910 in Russia e in Germania, esso è stato assai basso in Francia, dove la popolazione, dal 1860 in poi, si può considerare presso che stazionaria; e minimo in Irlanda, il solo paese d'Europa che dal 1840 in poi abbia avuto una forte diminuzione della popolazione, ridottasi in 70 anni alla metà.

All'aumento fortissimo della popolazione europea si accompagna in misura anche più impressionante il fenomeno dell'emigrazione, che, sebbene non fosse stato sconosciuto ai secoli precedenti, può considerarsi per la sua mole come un fatto tipico dello sviluppo della razza bianca nel sec. XIX e nei primi 13 anni del sec. XX. All'immigrazione dall'Europa (oltreché, in misura assai minore, alla moltiplicazione dei primi immigrati e soprattutto degli schiavi negri liberati dopo la guerra di secessione) è dovuto il fortissimo aumento della popolazione degli Stati Uniti, e quello non meno rapido, sebbene di proporzioni assai minori dell'Australia.

Quando si aggiungano i 9 milioni di abitanti del Canada, i 20 milioni al minimo di Europei viventi nell'America latina e i 20 milioni all'incirca sparsi fra Africa ed Asia, si può calcolare, approssimativamente, che la popolazione europea o di origine europea sia salita in 130 anni da 190 a 670 milioni.

In proporzione leggermente inferiore, ma tuttavia altissima, è cresciuta nello stesso tempo la popolazione totale della terra, di cui tuttavia è assai incerta e discussa la cifra del 1800, quando all'infuori degli Stati Uniti e del Canada, nessuno degli stati extraeuropei aveva ancora un censimento; e non è del tutto sicura nemmeno la cifra più recente, per l'incertezza che regna ancora sulla popolazione della Cina e di alcune regioni dell'Africa centrale. Accettata per il 1800 una cifra oscillante fra i 600 e i 700 milioni, la popolazione della terra si sarebbe triplicata, essendo valutata nel 1930 a 2000 milioni. Dopo l'Australia, che ha visto formarsi dal nulla la sua popolazione di 6 milioni; dopo l'America, che ha più che decuplicato il numero dei suoi abitanti, dopo l'Europa che lo ha quasi triplicato, il quarto posto nel movimento demografico, ma il primo per le cifre assolute, è tenuto dall'Asia che da circa 520 milioni nel 1800, sarebbe salita a 1050 nel 1930, con un aumento molto diverso da regione a regione, e altissimo soprattutto nell'India anteriore, nel Giappone e nella Malesia.

In misura anche maggiore della popolazione totale è cresciuta in questo stesso periodo la popolazione delle grandi città; anzi in nessun altro periodo della storia dell'umanità il fenomeno dell'urbanismo ha assunto le proporzioni grandiose e quasi morbose di quest'ultimo secolo. Mentre nel 1800 non v'era alcuna città che raggiungesse il milione di abitanti, oggi se ne conta una trentina, e due fra esse superano gli 8 milioni. La "Grande Londra" ha oggi una popolazione press'a poco uguale a quella di tutta l'Inghilterra nel 1800; e la popolazione di New York è quasi tre volte tanto dell'intera popolazione degli Stati Uniti all'indomani della proclamazione dell'indipendenza.

Ma l'impressione di un aumento continuo e quasi indefinito, che, interrotto dalla guerra mondiale, ha ripreso subito dopo press'a poco nella stessa proporzione e anzi, in alcune regioni come il Giappone e come - forse - la Russia, con ritmo accelerato, è smentita dall'esame analitico dei censimenti, che rivela da alcuni anni presso i popoli di razza bianca di più antica civiltà - e per alcuni di essi da più di mezzo secolo - una contrazione impressionante nel numero delle nascite, solo in parte compensata dalla progressiva diminuzione della mortalità. Questa constatazione, che si fa in un numero sempre maggiore di paesi europei, ha indotto molti studiosi del fenomeno demografico a gettare un grido di allarme, per cui si parla con insistenza della decadenza della razza bianca, tanto più preoccupante perché nello stesso tempo altre razze, e specialmente Cinesi e Giapponesi sembrano attraversare un periodo di grande espansione demografica.

Bibl.: F. Virgili, Il problema della popolazione, Milano 1924; F. S. Nitti, la popolazione ed il sistema sociale, Torino 1894; P. Mombert, Bevölkerungslehre (in Grundrisse zum Studium der Nationalökonomie, vol. XV), Jena 1929; World population Conference, Ginevra 1927; Atti del congresso internazionale della Popolazione, Roma 1932; C. Gini, La dinamica delle popolazioni (in Trattato italiano d'igiene, XVIII, Demografia), Torino 1930; W. F. Willcox, International migrations, voll. 2, Nuova York 1929-1931; J. Kulischer, Allgemeine Wirtschaftsgeschichte, Monaco 1929; K. T. v. Inama-Sternegg, Die Quellen der historischen Bevölkerungstatistik, in Statistische Monatschrift, XII; G. Beloch, La popolazione dell'Europa nell'antichità, nel Medioevo e nel Rinascimento (trad. it., in Bibl. dell'Economista, s. 5ª, XIX, 1908); E. Levasseur, La population française, voll. 3, Parigi 1889-1892; L. Schöne, Histoire de la population française, Parigi 1893; H. Sée, Peut-on évaluer la population de l'ancienne France?, in Revue d'économie politique, 1924; A. P. Usher, The history of population and settlement in Eurasia, in Geographical Review, 1930; G. Beloch, Die Entwicklung der Grossstädte in Europa,in Atti del Congresso d'igiene e demografia di Budapest, 1897; K. Bücher, Die Bevölkerung von Frankfurt a. M. im XIV. u. XV. Jahrhundert, Lipsia 1886; H. Pirenne, Les denombrements de la population d'Ypres au XVe siècle, in Vierteljahschrift für Sozial- u. Wirtschaftsgeschichte, I, 1903; J. Jastrow, Die Volkszahl deutscher Städte zu Ende des Mittelalters und zu Beginn der Neuzeit, Berlino 1886; G. Beloch, La popolazione d'Italia nei secoli XVI, XVII e XVIII, in Bulletin de l'Institut international de statistique, 1888; G. Salvioli, Sullo stato e la popolazione d'Italia prima e dopo le invasioni barbariche, in Atti R. Acc. di sc. di Palermo, 1899, ripubblicato in Storia economica dell'Italia nell'Alto Medioevo, Napoli 1913; G. Beloch, Die Bevölkerung v. Venedig, in Jahrbücher für Nationalökonomie und Statistik, 1899; A. Contento, Il censimento della popolazione a Venezia, in N. Arch. Veneto, 1900; G. Beloch, La popolazione di Venezia, in Nuovo Archivio Veneto, 1903; B. Cecchetti, Fonti per las toria della statistica negli Archivi veneziani, in Atti del R. Istituto Veneto, 1872; G. Luzzatto, La popolazione del territorio padovano nel 1281, in N. Arch. Veneto, 1902; B. Benussi, Frammento demografico (Capodistria), Capodistria 1921; G. Pardi, Storia della popolazione di Firenze, in Arch. stor. ital., 1916; F. Virgili, La popolazione di Siena dalla seconda metà del sec. XVI alla fine del sec. XVIII, in Studi senesi, 1907; G. Pardi, Storia demografica di Palermo, in N. Riv. stor., III, 1919; G. Luzzatto, Il censimento della popolazione nel ducato di Urbino, in Le Marche, Fano 1902; A. Sapori, Sull'attendibilità di alcune statistiche medievali, in Arch. storico italiano, 1932; A. Doren, Wirtschaftsgeschichte Italiens, I, Jena 1934; G. Mortara, Le popolazioni delle grandi città italiane al principio del sec. XX, in Bibl. dell'economista, s. 5ª, XIX, Torino 1908.

Densità della popolazione.

Si chiama densità della popolazione il rapporto fra la popolazione totale vivente in un dato territorio e l'area di questo, espressa comunemente in chilometri quadrati. È un indice da molto tempo in uso e di grande valore nel campo dell'antropogeografia, perché rappresentativo di un insieme di fatti di ordine naturale ed economico. Infatti, quando non intervengano elementi di perturbazione, la densità della popolazione, in un dato territorio, misura la capacità del territorio stesso a offrire una base di vita ai suoi abitanti, sia con le dirette risorse del suolo (prodotti alimentari, ecc.) - e queste dipendono a lor volta da condizioni morfologiche, idrografiche e soprattutto climatiche - sia con quanto può essere procurato comunque mediante il lavoro produttivo degli abitanti (industrie, ecc.).

La densità della popolazione può essere calcolata in varî modi. Il più semplice è quello, sopraindicato, di dividere la popolazione totale per l'area totale della regione considerata. Ma taluno ha osservato che un'immagine più vicina alla realtà si potrebbe avere sottraendo dal computo le aree permanentemente disabitate, o quelle assolutamente inutilizzate dall'uomo; sennonché tale eliminazione è resa spesso malagevole per la difficoltà di delimitare esattamente quelle aree. Altri ha proposto di eliminare, nel computo della densità, la popolazione agglomerata nei grandi centri urbani, allo scopo di ottenere una rappresentazione della stratificazione della popolazione nel territorio considerato, prescindendo dai pochi punti di eccezionale concentrazione; tale procedimento può essere giustificato dal fatto che le cause che determinano la concentrazione della popolazione in quei nuclei agglomerati, che sono le grandi città, sono in genere diverse da quelle che ne determinano la più o meno fitta distribuzione nel restante territorio.

In ogni caso si comprende facilmente che il dato della densità di popolazione acquista tanto maggior valore quanto più ristretta è l'area a cui esso si riferisce; per territorî molto vasti il dato rappresenta invece una media che può avere poco significato, quando gli scarti da quel valore medio siano altissimi. Ad es., la densità dell'Italia è (censimento 1931) di 132,7 ab. per kmq.; ma, considerando le singole provincie, oscilla già da 725,1 (Milano) a 28,5 (Nuoro); considerando i comuni, si hanno, di contro a valori di parecchie migliaia di abitanti per chilometro quadrato nel caso di comuni costituiti dal solo centro urbano, valori inferiori a 5 per comuni con estese aree montane disabitate.

La distribuzione della densità di popolazion e in un dato territorio può essere rappresentata cartograficamente; anzi soltanto in questo caso lo studio del fenomeno acquista perspicuità e permette un' indagine causale.

Gli elementi di fatto per la costruzione delle carte di densità sono offerte dai censimenti della popolazione o, in mancanza di questi, da altri computi statistici; l'esattezza delle carte dipende in prima linea dall'attendibilità di quelle fonti statistiche. Per le ragioni sopra accennate è poi preferibile costruire le carte, fondandosi sulle più piccole circoscrizioni delle quali si conosca l'area e la popolazione (per l'Italia, i comuni).

Vi sono tuttavia varî modi di rappresentare cartograficamente il fenomeno della densità. 1. Si può rappresentare la distribuzione della popolazione mediante punti, facendo ciascun punto corrispondente p. es. a 500, a 1000, a 5000 ab., ecc., secondo la scala adottata, e distribuendo poi i punti in modo che su un dato territorio (comune, provincia) ne cada un numero corrispondente a quello della popolazione totale del territorio (metodo De Geer); le città sono rappresentate dalla proiezione di sfere di varie dimensioni e di volume proporzionale al numero degli abitanti. Queste sono propriamente carte della distribuzione globale della popolazione, ma mediante il diverso affittimento dei punti dànno anche la visione generale della densità, come appare dallo stralcio di carta dell'Europa qui unito. 2. La densità vera e propria può rappresentarsi, dividendo l'intero territorio considerato nelle più piccole circoscrizioni di area conosciuta e indicando con una scala di colori o di tratteggi la densità in ciascuna di tali aree (carte a musaico). In questo modo sono costruite le carte di densità per le singole regioni italiane della Enciclopedia Italiana; in esse la circoscrizione presa per base è il comune. Una siffatta rappresentazione risulta pienamente attendibile, se le aree delle singole circoscrizioni non sono molto disformi tra loro, il che non avviene, ad es., per i comuni italiani. 3. Infine la densità si può rappresentare mediante curve isometriche, attribuendo la cifra che esprime la densità delle singole circoscrizioni al punto centrale della circoscrizione stessa (per i comuni, al centro capoluogo) e congiungendo poi con curve tutti i punti di uguale densità. Con questo procedimento è costruita la carta della densità per l'intera Italia annessa all'art. Italia della Enciclopedia Italiana e anche quelle dei singoli continenti annesse ai relativi articoli. Per l'Europa, una carta come quella riprodotta a p. 616 del vol. IV, ha già soltanto un valore di larga approssimazione, perché costruita mettendo insieme carte parziali dei varî stati e territorî per i quali i dati statistici non sono né sempre ugualmente esatti né uniformi; ancor più approssimative sono quelle degli altri continenti. E a maggior ragione è da considerarsi con le debite cautele la carta della densità di popolazione per tutto il globo, che qui riproduciamo, costruita in base alle fonti più attendibili. Essa tuttavia risulta di una notevole efficacia dimostrativa, per quanto concerne le cause generali alle quali vanno riportate le variazioni della densità. La carta dimostra anzitutto che vi sono nel globo tre grandi regioni, tutte e tre nel continente antico, estese ciascuna 2-3 milioni di kmq., nelle quali la popolazione si ammassa fino a raggiungere, su vaste aree, una densità di oltre 100 abitanti per kmq. Esse sono: a) la Cina propria col Giappone (tranne la parte settentrionale); b) l'India anteriore (escluse le aree interne del Dekkan e una parte del bacino dell'Indo); c) l'Europa centrooccidentale, comprese l'Italia e l'Inghilterra. Quest' ultima area appare assai più frastagliata. Regioni meno estese, ad alta densità (oltre 100), sono rappresentate dagli Stati Uniti di NE. (fascia lungo l'Atlantico), dall'isola di Giava (con Madura), dall'Egitto (area coltivata), dalla costa lungo l'estuario del Rio de la Plata, ecc.

Un esame accurato delle tre maggiori aree ad alta densità ci dimostra che esse sono in realtà interrotte da zone meno dense di popolazione, come sono, ad es., in Cina le regioni più elevate lontane dalle grandi vallate, in Europa la regione alpina, ecc. Aree a densità compresa fra 50 e 100 ab. per kmq. circondano poi quelle di densità più elevata e appaiono notevolmente estese soprattutto nell'Europa centrale e negli Stati Uniti di NE. Più estese sono le aree a densità mediocre, compresa cioè fra 10 e 50, non solo in Europa e nel bacino mediterraneo, ma in Africa, in Asia, nel Nord-America atlantico, nell'Australia orientale. Possono indicarsi come aree a bassa densità quelle nelle quali il valore oscilla fra 1 e 10; esse abbracciano una superficie notevolmente superiore a quella delle aree a densità mediocre. Ma tutte le aree fin qui menzionate non abbracciano, nel loro insieme, neppure un terzo dell'intera terra emersa; tutto il resto è rappresentato da aree con densità inferiore a 1 ab. per kmq. o disabitate: sono le regioni dei deserti e delle steppe tropicali, quelle delle foreste equatoriali, quelle dei boschi subartici e delle tundre, quelle ghiacciate delle calotte polari.

Un computo areometrico grossolanamente approssimativo dà i seguenti risultati:

Le regioni ad alta densità dell'Asia (Cina, Giappone, India) rappresentano paesi dove condizioni favorevoli di clima (piogge monsoniche, o, comunque, estive, in genere copiose), di suolo (ampie pianure o regioni collinose, con ricchi fiumi), di vegetazione naturale (praterie, savanne), consentirono di buon'ora all'uomo di stanziarsi e di coltivare con successo, anche senza pratiche agricole molto complesse, talune piante alimentari di fondamentale importanza e altre piante utili, onde la possibilità di moltiplicarsi e di affollarsi senza preoccupazioni. Questi sono infatti paesi che ab antiquo hanno una popolazione densa. Considerazioni analoghe spiegano l'addensarsi della popolazione a Giava o in Egitto. Vaste aree in condizioni di suolo e di clima analoghe a quelle dell'India e della Cina s'incontrano anche altrove, p. es., nell'America Settentrionale (Stati Uniti di SE.); la minor densità attuale di queste aree si spiega pensando che la loro messa in valore da parte dell'uomo civile è recente; su tali aree perciò la popolazione si addenserà presumibilmente sempre più in avvenire. L'area europea ad alta densità presenta invece condizioni di suolo e di clima in complesso mediocri; l'addensarsi della popolazione è ivi fenomeno molto recente, dovuto essenzialmente alla concentrazione prodotta dalla grande industria moderna.

Tra i fattori che influiscono sul diverso comportamento della densità di popolazione - accanto a quelli d'indole generale già ricordati - va posta l'altimetria, che ha grande influenza nelle regioni a rilievo accentuato. Come norma generale (che subisce peraltro numerose eccezioni), nei paesi delle zone temperate la densità della popolazione diminuisce col crescere dell'altezza; ma nei paesi equatoriali e tropicali vale invece spesso la norma opposta, poiché le regioni basse sono sfuggite a causa del clima malsano, laddove la salubrità è maggiore in zone elevate (Etiopia, ‛Irān, altipiani andini, Messico, ecc.). In ogni m0d0 nelle regioni montuose si raggiunge, a grandi altezze, una zona disabitata, ma il limite altimetrico dell'abitabilità varia col variar della latitudine: sulle Alpi le località abitate sopra i 2000 m. sono rarissime, mentre nelle Ande centrali, come nel Tibet, se ne hanno ancora a 4500 m. e oltre.

Anche il mare agisce normalmente nel senso di determinare un addensamento della popolazione verso le coste (coste di attrazione), sia per lo sfruttamento delle risorse del mare stesso (pesca, ecc.), sia per il traffico marittimo, sia per condizioni di clima favorevoli; ma sono frequenti, anche nei nostri paesi, i casi di condizioni opposte, onde si hanno coste di repulsione (importuosità; povertà ittica; insalubrità).

L'esame approfondito della distribuzione della densità di popolazione in aree ristrette conduce poi a mettere in luce altre cause che influiscono su tale distribuzione: sia d'ordine fisico, come la natura e qualità litologica del suolo, la distribuzione delle sorgenti e dei corsi d'acqua, sia d'ordine umano, come l'attrazione esercitata dalle grandi vie di comunicazione, da focolari di industrie, da emporî commerciali, da porti, ecc., sulle aree circostanti.

Dottrine e politica della popolazione.

Qualora della popolazione di uno stato o di un territorio si considerino le condizioni sociali, politiche ed economiche, vi è luogo a domandarsi se esse si connettano o meno all'ammontare e al modo di evolversi della popolazione, e, in caso affermativo, se le condizioni stesse siano subordinate a queste caratteristiche demografiche o viceversa, o infine se siano, le une e le altre, in dipendenza reciproca. La molteplicità e complicazione degli elementi che intervengono e l'imperfetta conoscenza delle loro mutue relazioni rendono ardua e forse impossibile una compiuta risposta; ma non per questo sociologi, uomini di stato ed economisti hanno rinunciato al tentativo di dare, ciascuno dal proprio punto di vista, una soluzione a qualche particolare aspetto del secolare problema. Diverse le premesse poste dai varî pensatori, diversi gl'intenti ai quali essi mirarono, diversi gl'indirizzi seguiti, ora materialisti e ora spiritualisti: e quindi diverse e talora contraddittorie le conclusioni raggiunte. Alcuni risultati positivi e sicuri vennero, non di meno, ottenuti. Come dato di fatto, in contrapposto alla concezione piuttosto diffusa dell'illimitato sviluppo di una popolazione, la storia offre numerosi esempî di popoli che da oscure origini salirono per luminoso cammino a un alto livello di civiltà e di espansione e poi declinarono e si spensero, come unità nazionali, per sempre, oppure, dopo un più o meno lungo letargo, ripresero la via ascendente per una nuova fase di prosperità e di grandezzo. Sono i corsi e i ricorsi di G. B. Vico, nei quali è dato osservare che un popolo, giunto al suo apogeo, mostra spesso, come indizio della sua incipiente decadenza, una bassa natalità; e, per converso, è quasi sempre una natalità rigogliosa quella che segna il destarsi di una nazione a una nuova civiltà. Tale constatazione getta qualche luce su alcuni lati del problema della popolazione; ma, come il manifestarsi della natalità in misura più o meno elevata può essere effetto di qualche fattore riposto benché essenziale, così è attraverso un esame più approfondito dei fatti che può attuarsi la ricerca degli elementi determinanti il progresso o la decadenza di un popolo.

Nell'antichità, considerando il problema della popolazione da un punto di vista soprattutto politico, si dovette riguardare la grandezza numerica di un popolo come principale fattore della sua potenza; tanto è vero che consuetudini, leggi, precetti morali e religiosi erano tutti d'accordo nell'esaltare e favorire le nozze feconde e nel deplorare o punire il celibato e la sterilità (Ebrei, Egiziani, Indiani, ecc.). Le leggi agrarie di Cesare, la lex Iulia e la lex Papia Poppea di Augusto, emanate quando incominciarono a palesarsi i segni della decadenza demografica dell'impero romano, sono appunto un riflesso di questa concezione. I primi a pensare che la popolazione non potesse espandersi liberamente ma dovesse in certo modo proporzionarsi, sia quantitativamente, sia nella sua struttura qualitativa, alle condizioni dell'ambiente, furono i Greci del periodo classico (Platone, Aristotele), e le disposizioni legislative di Licurgo e di Solone espressero questa tendenza, là dove esse furono volte, p. es., a stabilire un'età minima per il matrimonio e a prescrivere la soppressione dei fanciulli difettosi. Ma il Cristianesimo, respinta la concezione greca e riconnettendosi alla tradizione ebraica, fece propria l'idea, che è pure romana, di una popolazione che dovesse naturalmente e liberamente espandersi, e, dato un contenuto, non più politico, ma morale e religioso al precetto crescite et multiplicamini, lo propagò con la fede per il mondo. È, dopo ciò, necessario giungere fino al Rinascimento italiano per trovare qualche nuovo apporto al problema demografico. Niccolò Machiavelli è forse il primo fra i politici moderni a dichiararsi fautore del pensiero romano, e quindi a considerare una popolazione copiosa e rapidamente crescente come una forza e un presidio per lo stato. "Quelli che disegnano che una città faccia grande impero si debbono con ogni industria ingegnare di farla piena di abitatori, perché senza questa abbondanza di uomini mai si riuscirà di far grande una città". Anche Giovanni Botero (1543-1617), comparando il pensiero greco e quello latino, non esita a riconoscere la superiorità del secondo sul primo e a ritenere che l'incremento della popolazione sia vantaggioso per lo stato e da favorirsi, perciò, con opportune disposizioni. Ma questo pensatore va oltre la considerazione della questione demografica sotto il solo aspetto politico, e, primo forse fra tutti, v'introduce l'elemento economico e riguarda la popolazione come risultante di due forze antagoniste, la virtus generativa e la virtus nutritiva. Le idee del Botero avranno più tardi largo sviluppo, ma sarà da esse un traviamento il pensare, come fece Malthus, che la popolazione umana soggiaccia in ogni istante a un tragico conflitto tra la sua naturale forza di espansione e la limitatezza dei mezzi di sussistenza: pensava infatti il Botero che tale espansione potesse fino a un certo punto liberamente manifestarsi, poiché, diceva egli, "la grandezza delle città si ferma a quel segno nel quale si può comodamente conservare". Anche fuori d'Italia prevaleva l'idea di un libero sviluppo della popolazione. J. Bodin (1520-1596) pensava non esservi ricchezza e potenza che non derivasse dalla quantità degli uomini. F. Quesnay (1694-1774) esprimeva l'opinione, invece, che la popolazione, pur avendo un limite nella quantità delle sussistenze, tenda a oltrepassarlo, poiché vi sono ovunque uomini nella indigenza. J.-J. Rousseau ammetteva senz'altro che indizio sicuro della prosperità di uno stato fosse il numero degli abitanti. Si avanzava, intanto, un altro gruppo di pensatori italiani, pei quali il problema della popolazione meritava di essere trattato sotto l'aspetto economico, oltre che politico. Sono questi anzitutto Ferdinando Galiani (1728-1787), Antonio Genovesi (1712-1769), Pietro Verri (1728-1797), concordi nel riconoscere che il primo fondo della robustezza di uno stato è la moltitudine della popolazione. Seguono poi: Giambattista Gherardo d'Arco (1739-1791), per il quale l'aumento della popolazione si proporziona a quello dei mezzi di sussistenza, cosicché l'urbanesimo, che tali mezzi assottiglia, è principio di decadenza del corpo politico; Gaetano Filangieri (1752-1788), che raccomanda una legislazione atta a rimuovere gli ostacoli che si oppongono alla fecondità; Cesare Beccaria (1735-1794), il quale ammette che la popolazione aumenterà sino a che possano crescere le sussistenze, cosicché ogni cura dev'essere posta nel perfezionare i mezzi di produzione. Una speciale menzione va fatta per Filippo Briganti (1725-1804) che, prima anche che Malthus esponesse il suo principio, pose in evidenza il fondamentale argomento che servirà poi a confutare la teoria dell'economista inglese. Dice egli, infatti, che "gli uomini si moltiplicano in ragione delle sussistenze", ma soggiunge "e le sussistenze in ragione del lavoro"; cosicché egli stabilisce il concetto di mutua dipendenza tra popolazione e mezzi di vita. Non solo, ma egli accenna anche alle. cause morali che possono favorire la produzione dei beni e quindi lo sviluppo della popolazione, e pone fra esse la proprietà fondiaria. Conviene anche ricordare, fra i non italiani, J. P. Süssmilch (1707-1767) come uno dei pochissimi che affermarono essere l'ammontare e lo sviluppo della popolazione indipendenti dalle condizioni sociali, politiche ed economiche, in quanto che - osservate diverse regolarità o leggi statistiche che si verificano nel movimento della popolazione, come il costante rapporto dei sessi alla nascita, l'intensità della mortalità alle diverse età, ecc. - fu indotto a pensare che "lo sviluppo della popolazione avviene per forza di leggi naturali e provvidenziali, l'azione delle quali è sottratta a ogni umano arbitrio"; e, fra gl'Inglesi, Adamo Smith, il quale ritenne essere l'accrescimento numerico degli abitanti la prova più decisiva della prosperità di un paese e, considerando il problema demografico anche sotto l'aspetto sociale, affermò che, per essere le classi operaie quelle più feconde, fosse da favorirsi un miglioramento delle loro mercedi, perché ciò avrebbe consentito una prolificazione più abbondante. Immediato precursore di Malthus viene da taluni considerato Giammaria Ortes (1713-1790), perché egli intese "che la popolazione in qualunque nazione abbia a contenersi fra certi limiti, né più estesi di quei che convengono per provvedere da sé stessa alla sua sussistenza senza ricorrere ad altri, oltrepassando i quali... non possa dirsi né libera né sicura, né per la sua sussistenza indipendente da altre nazioni". Egli affermò anche che la popolazione progredirebbe per forza propria, raddoppiandosi in trenta anni circa, ma che tale progressione sarà arrestata dalla ragione umana, e in particolare dal celibato volontario, quando la popolazione avrà raggiunto un optimum commisurato ai mezzi di sussistenza. Fino a questo punto non sarà dunque da porsi, come già aveva pensato il Botero molto prima di lui, nessun limite all'accrescimento della popolazione e nessun disagio si manifesterà in seno a questa, contrariamente a quella che sarà poi l'opinione di Malthus, che cioè le condizioni della popolazione divengano, in progresso di tempo, sempre più difficili e misere.

La più celebre teoria della popolazione a fondo economico è quella appunto di Malthus, della quale, rimandando il lettore all'apposito articolo (v. malthus), basterà qui dire che dalle due proposizioni nelle quali si compendia il principio di popolazione, e cioè che la popolazione tende per la forza genetica ad accrescersi in progressione geometrica, mentre le sussistenze tendono a crescere in progressione aritmetica, verrebbe a prodursi per l'umanità un perenne e irrimediabile disequilibrio. Astrazione, quella del Malthus, tragicamente pessimista, alla quale egli giungeva dimenticando tutti quelli che possono essere fattori naturali e sociali di riequilibrazione (epidemie, cataclismi, guerre, ecc.), dimenticando pure che i mezzi di sussistenza sono in ragione dei progressi conseguiti nella tecnica produttiva e ammettendo implicitamente, nella prima proposizione, una costanza di fecondità nella popolazione, la quale è tutt'altro che provata. Le manchevolezze della teoria di Malthus, la quale ebbe sul principio una grande fortuna, non tardarono, tuttavia, a essere messe in vista da molti studiosi, fra i quali vanno ricordati H. C. Carey, che asserì essere il potere di conservare la vita e quello di procrearla fra loro antagonisti, e quindi atti a mantenere sempre la popolazione in una condizione di equilibrio; Herbert Spencer, che precisò lo stesso concetto; e, fra gli Italiani, Luigi Amoroso, che può essere idealmente collegato al Briganti, già citato, e che dalla premessa di una mutua dipendenza fra popolazione e sussistenze - in quanto l'incremento delle seconde determina e condiziona quello della popolazione e l'incremento di questa stimola l'attività produttiva ed è quindi causa dell'incremento delle sussistenze - pervenne, per via diversa da P. F. Verhulst (v. sotto), alla logistica, come curva descrittiva dell'evoluzione di una popolazione. D'altra parte, palesatasi erronea, in particolare, la prima proposizione di Malthus, anche per quanto risulta dalla constatazione odierna di una declinante natalità, e tenuto presente il fatto di popolazioni che mostrarono fasi alternative di sviluppo e di decadenza, Corrado Gini fu indotto a stabilire una teoria ciclica della popolazione a fondo prevalentemente biologico. Secondo tale autore la flessione delle nascite può essere dovuta a un affievolimento della capacità riproduttiva, cioè a cause biologiche interne, le quali potrebbero anche assumere un'apparenza di volontarietà, nel senso che i cosiddetti fattori volontarî di limitazione delle nascite sarebbero, almeno in parte, il riflesso della diminuita potenza genetica. Così come avviene per il soma individuale, anche il plasma germinativo sarebbe suscettibile di invecchiamento, e perderebbe gradatamente la capacità di moltiplicare un dato gruppo demografico; i singoli filoni famigliari attraverserebbero fasi di rigoglio, di stasi e di regresso, e a ciò sarebbero legati l'evoluzione e il declino delle popolazioni di cui fanno parte; mentre il sorgere di nuove nazioni e la loro eventuale reviviscenza trarrebbero origine da felici incontri di plasmi diversi. Non, dunque, secondo questa teoria, fatale e inevitabile declino dei popoli, ma possibilità di rinascita nell'atmosfera di nuove civiltà. Alla concezione malthusiana e ricardiana di un continuo immiserimento dell'umanità condannata a sempre più aspre fatiche, per raccogliere i frutti di una terra sempre più avara, il pensiero moderno, riallacciandosi alla tradizione romana e cristiana, tende a sostituire una visione ottimistica del fenomeno di propagazione degli uomini. A questa visione s'informa la politica demografica, instaurata da Benito Mussolini e da lui sintetizzata nella formula "il numero è forza"; e i provvedimenti in tal senso emanati o hanno lo scopo di creare nuovi istituti atti a favorire lo sviluppo della popolazione e ad accelerarne il miglioramento (protezione della maternità e dell'infanzia, agevolazioni accordate alle famiglie numerose, ecc.); oppure tendono a porre un freno al malcostume e a tutti quei fenomeni che hanno conseguenze dannose per lo sviluppo demografico (repressione dei reati contro la maternità e l'infanzia, imposta sui celibi, lotta contro l'urbanesimo, ecc.). Una vera emulazione si manifesta oggi fra molti paesi europei nell'attuare gli stessi principî.

Bibl.: Del problema della popolazione si sono occupati, come è ovvio, quasi tutti gli scrittori di economia e di politica. Ricordiamo in paticolar modo tra gl'Italiani del sec. XVI e XVIII: G. Botero, Della ragione di stato, Venezia 1589, ed. a cura di C. Morandi, Bologna 1930; id., Delle cause della grandezza delle città, Roma 1598, ed. critica a cura di M. De Bernardi, Torino 1931; G. d'Arco, dell'armonia politico-economica della città e del suo territorio, Mantova 1771, ristamp. in Collezione di scrittori italiani di economia politica, a cura di P. Custodi, Milano 1803 segg.; F. Briganti, Esame economico del sistema civile, 1780; rist. ivi; G. Ortes, Riflessioni sulla popolazione, Venezia 1790; rist. ivi. Tra gli stranieri dei secoli XVIII e XIX; J. P. Süssmilch, Die göttliche Ordnung in den Veränderungen des menschlichen Geschlechts aus der Geburt, dem Tode und der Fortppflanzung desselben erwiesen, 1742; 4ª ed., Halle 1798; Th. R. Malthus, An essay on the principle of population or a view of its past and present effects on human happiness, Londra 1803 (6ª ed., 1826; trad. it. nella Bibl. dell'ec., s. 2ª, XI-XII); H. C. Carey, Past, present and future, Filadelfia 1848; e tra le opere recenti: C. Gini, I fattori demografici dell'evoluzione delle nazioni, Torino 1912; id., Nascita, evoluzione e morte delle nazioni, Roma 1930; L. Amoroso, Sulla dottrina della popolazione, in Annuario del R. Istituto sup. di sc. econ. e comm. di Napoli, Napoli 1932; Istituto Centrale di Statistica del Regno d'Italia, L'azione promossa dal Governo Nazionale a favore dell'incremento demografico e contro l'urbanesimo, in Annali di statistica, s. 6ª, XXXII (1934).

Statistica della popolazione.

Di una certa popolazione, intesa come insieme d'individui che abitano un determinato territorio o che hanno comune qualche caratteristica intrinseca, come il sesso, lo stato civile, la lingua parlata, la religione, la razza, ecc., si può, anzitutto, considerare lo stato, cioè l'insieme delle modalità con le quali essa si presenta in un dato istante. La rilevazione statistica di queste modalità ha la sua espressione tipica nel censimento (v.) e comprende principalmente: l'enumerazione degl'individui che compongono la popolazione (distinti, se questa occupa un determinato territorio, in presenti con dimora abituale oppure con dimora occasionale, e in assenti temperaneamente), loro distribuzione per sesso, per età (classi annuali o poliennali), per stato civile (celibi e nubili, coniugati, vedovi, separati legalmente, divorziati), per nazionalità, per religione, per lingua parlata, per professione e condizione, ecc. Una suggestiva immagine della distribuzione di una popolazione per sesso, età e stato civile è costituita dalla cosiddetta piramide delle età, quale è data nella fig.1, che si riferisce alla popolazione del regno d'Italia presente al VII censimento (21 aprile 1931). Le parti a sinistra e a destra della striscia verticale mediana riguardano rispettivamente i maschi (M) e le femmine (F); l'area di ogni rettangolo orizzontale dell'istogramma (v. diagramma) letta sull'asse delle ascisse a partire da O, rappresenta l'ammontare della popolazione (M o F) avente in anni compiuti l'età indicata su quella mediana; infine le zone di ciascun rettangolo, bianca, tratteggiata e nera, denotano rispettivamente i numeri dei celibi, dei coniugati e dei vedovi che si trovano nella corrispondente età (i separati legalmente e i divorziati sono compresi fra i coniugati). La figura mette in evidenza le principali caratteristiche strutturali della popolazione italiana presente al detto censimento. Per es., la superficie a sinistra della striscia mediana (M) è alquanto minore di quella a destra (F) perché sul totale di 41.176.671 presenti si contarono 20.133.455 M e 21 .043.216 F, cioè 957 M‰ F. Così pure i rientramenti che si notanoo in corrispondenza alle età da 11 a 16 anni sono effetto della scarsità delle nascite negli anni della guerra mondiale e nei primi mesi del dopoguerra. Le zone nere, più lunghe a destra che a sinistra, denunciano un maggior numero di vedove che di vedovi sia nel complesso sia in ciascuna età, il che dipende tanto dalla più elevata mortalità (v. morte: Statistica della mortalità) alla quale sono esposti i mariti, soprattutto perché più anziani delle mogli, quanto dalla maggiore facilità che hanno i vedovi rispetto alle vedove di passare a nuove nozze. Per la distribuzione della popolazione italiana presente al VI censimento, v. Diagramma.

Le varie circostanze inerenti allo stato di una popolazione possono avere considerevoli riflessi di natura sociale, economica e politica. Popolazione grande e ben guidata significa facilità di potenziamento delle risorse naturali del paese, possibilità di espansione nelle altre terre e nelle colonie, diffusione della propria cultura e del proprio prestigio nel mondo. Conoscersi numericamente significa per un popolo avere nozione della propria importanza, anche comparativamente agli altri popoli. Ed è pure ai fini della scienza, per tacere di quelli dell'amministrazione e del governo, che giova conoscere l'ammontare di una popolazione e delle sue parti, perché molti fenomeni che in essa si svolgono, possono soltanto misurarsi con riferimento a tale ammontare.

La distribuzione per sesso della popolazione presente a un censimento varia da età a età, e nel complesso della popolazione si manifesta con una proporzione dei sessi assai più variabile da paese a paese e da tempo a tempo di quella che si osserva nella nascite, per le quali essa è, nell'ambito di numerose osservazioni, di circa 105 o 106 nati vivi maschi per ogni 100 nati vivi femmine (v. nascita: Statistica della natalità. Per i rapporti dei sessi (M‰ F) nelle popolazioni presenti censite nei paesi e alle date indicate, vedi tabella più sotto.

La modificazione del rapporto dei sessi che nei varî censimenti si osserva rispetto a quello che, con grande costanza, si verifica per i nati vivi, dipende dalla diversa intensità con la quale, nelle stesse età, la mortalità colpisce i due sessi (v. morte: Statistica della mortalità), e anche dal fatto che l'emigrazione maschile è più numerosa di quella femminile (e tende quindi a modificare il rapporto dei sessi a vantaggio dei maschi nei paesi d'immigrazione e, viceversa, a vantaggio delle femmine in quelli di emigrazione). Una pratica parità dei due sessi nella popolazione, e particolarmente fra gli adulti, favorisce la nuzialità, mentre una notevole sproporzione la contrasta e conduce a una bassa natalità e a un affievolimento della morale sessuale. Anche la conoscenza della distribuzione per età è essenziale sotto varî aspetti, e, senza ricordare le molteplici disposizioni legislative che hanno riferimento all'età, basterà notare che l'efficienza riproduttiva ed economica di una popolazione si collega strettamente alla sua composizione per età. Di due popolazioni numericamente uguali è da ritenersi più giovane nel suo insieme, e quindi promettente un maggiore rigoglio in un imminente avvenire, quella appunto nella quale le classi infantili e giovanili costituiscono, rispetto al totale, una più alta percentuale. Così pure valutazioni delle classi di leva, e, più in generale, degli uomini atti a portare le armi, dei giovani che popolano o che prossimamente popoleranno le scuole, delle classi economicamente attive (generalmente fra 15 e 65 anni), di quelle riproduttive (15-50 anni per le femmine, 18-65 anni per i maschi), ecc., potranno farsi soltanto attraverso l'enumerazione della popolazione per età. Fra le altre circostanze inerenti allo stato di una popolazione, si noterà solo l'importante distinzione per stato civile, che oltre ad avere un contenuto giuridico e morale, si riflette nel fenomeno della natalità e nella sua distinzione in natalità legittima e illegittima, e trova quindi connessione con la politica demografica a favore della nuzialità e della natalità e contro il celibato, oggi seguita da varî paesi, anche, a imitazione di quella adottata in Italia a opera del governo nazionale fascista.

Lo stato della popolazione, paragonabile a una fotografia istantanea, costituisce, nel fatto, una realtà rapidamente superata, in quanto le nascite, le morti, le immigrazioni e le emigrazioni ne modificano continuamente l'ammontare e la struttura per sesso, età, stato civile, ecc. Una popolazione va soggetta a un movimento interno o naturale (nascite e morti) e a uno esterno o sociale (immigrazioni ed emigrazioni). Questi varî fattori, che nell'insieme (considerata anche la nuzialità, perché modifica la distribuzione per stato civile) costituiscono il movimento della popolazione, vengono, dagli uffici statistici dei varî paesi, rilevati e pubblicati periodicamente (movimento naturale della popolazione, movimenti migratorî, statistica delle cause di morte, ecc.), mentre i risultati dei censimenti appaiono in pubblicazioni occasionali.

Teoria formale della popolazione. - Quando si consideri una popolazione nel suo continuo divenire (dinamica della popolazione, in contrapposto a ciò che essa è in un istante, statica della popolazione), quasi per ottenerne una visione cinematografica, bisogna aver presente che ogni suo individuo entra in un certo momento a farne parte, perché vi nasce o immigra, e ne esce in altro momento successivo perché muore o emigra.

Per figurarsi approssimativamente il fenomeno nel suo complesso, si potranno idealmente seguire le generazioni di nati nei successivi anni di calendario (in altri intervalli successivi della durata di un anno); di tali generazioni ciascuna avrà una propria evoluzione, acquistando via via gl'individui che (nati altrove nello stesso intervallo di tempo) v'immigrano, e perdendo, fino a completa estinzione, quelli che emigrano o muoiono. Per es., nella fig. 1 ciascuno strato orizzontale rappresenta una schiera di viventi corrispondente alle nascite che ebbero luogo fra il 21 aprile di un certo anno e il 20 aprile dell'anno successivo. Sarà poi facile immaginare che ognuna delle generazioni considerate sia, in un proprio diagramma a piramide analogo a quello della figura stessa, rappresentata da quel certo strato che corrisponde alla sua età. Andando a ritroso dalle generazioni più giovani verso quelle più vecchie, si potrà pensare, corrispondentemente, una serie di altrettante piramidi, in ciascuna delle quali i successivi strati dal basso all'alto saranno generalmente decrescenti, a meno che qualcuno di essi non subisca, per effetto d'immigrazioni, un aumento superiore alle perdite derivanti dalle morti e dalle emigrazioni. La figurazione si completa pensando che in un certo istante un solo strato sarà presente in ciascuna piramide (mentre gli altri esisteranno nel passato o nell'avvenire), e che di anno in anno ciascuno degli strati presenti si eleverà nella propria piramide di un grado, mentre una nuova piramide sorgerà in corrispondenza a una nuova generazione di nati.

Quando si voglia, con più esatta immagine, avere la possibilità, almeno astratta, di seguire ogni individuo della popolazione, dall'istante del suo ingresso a quello della sua uscita da questa, è opportuno ricorrere allo schema proposto dal Lexis, come perfezionamento a quelli ideati da Knapp e da Becker (fig. 2). Sull'asse delle ascisse Ot di un sistema cartesiano ortogonale si rappresentino i tempi, e su quello Ox delle ordinate le età: unità comune sui due assi sia la durata di un anno; O rappresenti su Ot l'inizio di un conveniente anno di calendario e su Ox l'età zero. A ogni individuo della popolazione considerata corrisponderà un punto di nascita n (data della sua nascita), una linea di vita, cioè un segmento nm parallelo a Ox di lunghezza uguale alla durata della sua vita, e un punto di morte m. La generazione dei nati in un certo anno di calendario risulterà raffigurata da un fascio di linee di vita comprese fra le parallele a Ox condotte per i punti che su Ot sono immagini degl'istanti estremi di quell'anno. Si pensi che la linea di vita corrispondente a un individuo della data collettività sia descritta da un punto mobile (punto di vita) che indichi in ogni sua posizione l'età dell'individuo stesso; oltre a ciò si conducano per i punti di Ox che sono immagini delle età intere 1, 2, 3,..., a, a +1,..., le parallele a Ot; avverrà allora che quel punto mobile incontrerà tali rette negl'istanti precisi in cui l'individuo compie rispettivamente le età di1, 2, 3,..., anni, mentre in corrispondenza a un'età compresa fra a e a + 1 anni quel punto mobile cadrà fra due consecutive di tali parallele. Se il punto T sull'asse delle ascisse rappresenta una certa data, OT denota il tempo decorso dall'origine dei tempi a quella data; perciò, essendo V il punto di vita che alla data T corrisponde a un individuo avente il punto di nascita in n, si avrà, qualunque sia la data di nascita, On + nV = OT; cosicché nell'istante T tutti i punti di vita corrispondenti agl'individui di una qualsiasi collettività di viventi giaceranno sulla retta TV, di equazione t + x = OT, cioè sulla retta passante per T e inclinata negativamente di 45 gradi su Ot, e giaceranno anzi, più precisamente, sulla parte di questa retta che nella fig. 2 risulta superiore all'asse Ot. Tale semiretta potrà dirsi isocrona corrispondente alla data T. Per gl'immigrati e per gli emigrati si avranno rispettivamente punti di ingresso e punti di egresso; per un immigrato temporaneo la linea di presenza sarà contenuta fra il punto d'ingresso e quello di egresso. Le parallele a Ot condotte in corrispondenza alle età esatte di a e a + i anni contengono i punti di morte dei deceduti, quelli d'ingresso degli immigrati e quelli di egresso degli emigrati in età fra a e a + 1 anni. Le parallele a Ox condotte per i punti di Ot corrispondenti agli estremi di un anno di calendario (p. es., 1931) contengono i punti di nascita, di morte, d'ingresso, di egresso dei nati in quell'anno. Infine le isocrone corrispondenti agli estremi di un anno di calendario (p. es., 1931) racchiudono insieme con Ot una regione del piano (mezza striscia) la quale contiene i punti di nascita, di morte, d'ingresso, di egresso che hanno luogo a una data compresa nello stesso anno di calendario. È, dopo ciò, facile interpretare a quale generazione di nati, a quale data, a quale età debbano riferirsi gli eventi (nascite, morti, immigrazioni, emigrazioni) rappresentati da punti contenuti nei quadrati, rettangoli, parallelogrammi che sono compresi fra rette analoghe a quelle sopra considerate: il che serve a dare un'esatta immagine del movimento della popolazione considerata, e, in particolare, a facilitare la costruzione delle relative tavole di mortalità.

Si consideri, ora, una popolazione non soggetta a movimenti migratorî (popolazione chiusa), e si supponga, per astrazione, che per effetto delle nascite e delle morti essa varî con continuità. Condotto per O l'asse Oz perpendicolare al piano tOx, si rappresenti parallelamente a esso, fissata una certa unità di misura, la densità dei sopravviventi alle varie età, in corrispondenza alle diverse date; le estremità delle ordinate costituiranno allora una superficie (fig. 3) che denota il mutarsi per numero e per età della popolazione attraverso il tempo. Una sezione dello stereogramma (v. diagramma) come BTA, formata sull'isocrona TA, darà immagine della popolazione presente alla data T e della sua distribuzione per età.

Tanto le piramidi delle età quanto lo schema del Lexis servono a rappresentare formalmente la struttura di una popolazione e i fattori naturali e sociali del suo movimento. Ma la rappresentazione analitica, se pure sia possibile, della sua evoluzione, richiede necessariamente l'impiego dello strumento matematico, impiego che può essere fatto o con intento puramente descrittivo, riguardando l'ammontare di una popolazione come funzione del tempo e cercando l'espressione matematica di questa funzione; oppure col fine d'interpretare l'azione e valutare gli effetti che i diversi fattori immediati del movimento della popolazione (fecondità, natalità, mortalità, migratività) spiegano su questa, per modificarne ammontare e struttura.

La sistematica applicazione della matematica nel secondo senso indicato tende a dare una teoria matematica della popolazione; nell'altro senso si riduce sostanzialmente alla ricerca di opportune funzioni interpolatrici. Saranno poi i risultati di questi due ordini d'indagini che potranno dare un fondamento più o meno plausibile ai calcoli che talora conviene eseguire per conoscere approssimativamente l'ammontare o anche l'ammontare e la struttura di una popolazione in un prossimo avvenire.

Formule descrittive dell'evoluzione di una popolazione, considerata come funzione del tempo.

a) Se i valori della popolazione negl'istanti t0 e ti sono No e N1, ammettendo che essa si evolva linearmente con quella stessa rata di crescenza rispetto a NN che si è verificata da t0 a t1 (ipotesi verosimile soltanto se l'intervallo di tempo è piuttosto breve), l'ammontare N (t) della popolazione nell'istante t sarà

b) Nelle stesse ipotesi iniziali, ammettendo che la popolazione si evolva con legge esponenziale, cioè come un capitale impiegato a interesse composto continuo, con la stessa rata di crescenza che si è avuta fra t0 e t1, si determinerà anzitutto il parametro α in modo che sia

(e base dei log. neperiani), e dopo ciò si avrà senz'altro:

c) Osservazioni fatte sulle popolazioni di diversi paesi hanno mostrato che si ottiene spesso una buona interpolazione in intervalli di tempo talora ampî, mediante la curva logistica di equazione (a 3 parametri C, A, h; fig. 4):

oppure di equazione (a 4 parametri K, C, A, h):

da impiegarsi secondo che si conoscano rispettivamente i valori della popolazione considerata per 3 o per 4 valori del tempo. Se risulta A 〈 0 la logistica non è limitata superiormente e quindi non si presta a descrivere l'andamento di una popolazione. Se invece risulta A > 0, la curva nel caso (3) sale dal livello iniziale o (asintoto inferiore, per t → ∞) al livello C > 0 (asintoto superiore per t → ∞), mentre nel caso (3′) sale analogamente dal livello inferiore K al livello superiore K + C. C. Gini e B. De Finetti, utilizzando l'ammontare della popolazione italiana negli anni 1800, 1841, 1882, 1923 ottennero per la (3′) (origine dei tempi 1800, unità di tempo anni 41):

e si valsero di tale logistica per una valutazione del futuro sviluppo della popolazione stessa. M. Picone adattò invece una logistica del tipo (3) ai valori della popolazione italiana osservati alla fine dei varî decennî dal 1771 al 1931, in modo che risultasse minimo lo scarto quadratico medio fra i valori osservati e quelli interpolati.

d) Per l'interpolazione dei valori assunti da una popolazione in diversi tempi possono talvolta impiegarsi altri tipi di curve. Per es., venne mostrato che lo sviluppo della popolazione dell'Inghilterra e del Galles può essere fra il 1821 e il 1911 rappresentato con pari approssimazione da una logistica del tipo (3), da un arco di parabola di second'ordine e da un arco di sinusoide, cioè da tre curve le quali, esternamente all'intervallo di tempo considerato, hanno andamento del tutto discorde. Ciò induce a osservare, incidentalmente, con quanta cautela debba impiegarsi una formula che interpoli, sia pure con ottima aderenza, la serie dei valori osservati di una popolazione, per trarne conclusioni e previsioni circa il futuro sviluppo della popolazione stessa.

Teoria matematica della popolazione. - Per il calcolo del futuro sviluppo di una popolazione, assai più delle formule sopra esposte potrebbero avere una certa probabilità di cogliere nel vero formule, per così dire, interpretative dei fatti che determinano l'evoluzione di una popolazione. Ma anche a prescindere da un eventuale impiego di siffatte formule per lo scopo accennato, il loro interesse scientifico è notevole, in quanto esse consentono di precisare i legami che intercedono fra ammontare e struttura di una popolazione da una parte e fattori elementari del suo movimento dall'altra, e quindi di passare da una vaga conoscenza qualitativa del fenomeno di evoluzione della popolazione a una sua conoscenza quantitativa.

Se si tolgono alcune interpretazioni matematiche saltuarie e sporadiche di certi fenomeni che si manifestano nella popolazione (formula di Gompertz e Makeham come interpretazione di una legge sulla mortalità, applicazione del calcolo delle probabilità all'interpretazione delle leggi di Mendel sull'eredità e allo studio della stabilità di alcuni rapporti statistici), si può dire che soltanto in questi ultimi venti o trent'anni è stata iniziata la sistematica applicazione della matematica ai problemi della popolazione (popolazione umana o, più in generale, aggregato di esseri viventi). È ben vero che il tener conto di tutti gli elementi dai quali più o meno immediatamente dipende il movimento della popolazione, può trascendere le possibilità del calcolo; ma opportune ipotesi semplificative, a somiglianza di quanto viene praticato nelle applicazioni della matematica alle altre scienze, condurranno a impostazioni più o meno adeguate e quindi a soluzioni più o meno approssimate del problema. Una di tali semplificazioni consiste nel considerare una popolazione come chiusa, cioè, come si è già detto, atta a mutare per solo effetto delle nascite e delle morti (mentre si direbbe aperta se andasse anche soggetta a movimenti migratorî).

a) Ammettendo semplicemente che l'accrescimento dN di una popolazione sia in ogni tempuscolo dt proporzionale all'ammontare di essa, cioè che sia per un certo h costante positivo

si avrà log N = ht + cost., dalla quale si dedurrà senz'altro la (2), che può dunque considerarsi non soltanto descrittiva, ma anche interpretativa dello sviluppo della popolazione, quando si possano riguardare come conglobati in un valore h costante tutti i fattori che lo determinano. Ora, una tale assunzione per la quale, dunque, variando t in progressione aritmetica, N varierebbe in progressione geometrica, se pure accettabile in larga approssimazione per un breve intervallo di tempo, non lo è certamente in modo assoluto, poiché allora, al crescere indefinito di t, N finirebbe col superare qualunque valore prefissato, il che è assurdo. Parrebbe, se mai, più plausibile assumere la (2) come espressione della legge secondo cui, per h conveniente, una popolazione tenderebbe a crescere in forza dell'istinto genetico, se non incontrasse ostacoli esterni (limitazioni di spazio e di sussistenze, lotta per la vita); ed essa corrisponderebbe allora alla prima proposizione di Malthus.

b) Il matematico belga P. F. Verhulst, ammettendo che l'accrescimento della popolazione risulti da due diverse azioni, una espansiva e tendente a farla crescere proporzionalmente al suo ammontare, l'altra limitativa e manifestantesi come una resistenza proporzionale al quadrato della popolazione stessa, cioè assumendo come equazione differenziale del movimento della popolazione

con la condizione h > kN se l'accrescimento della popolazione deve essere positivo al crescere di N, pervenne a un'equazione in termini finiti della forma (3), cioè a una logistica a tre parametri, nella quale è da intendersi A ù= Ch. (C costante d'integrazione) e C = h/k. Anche tale curva può dunque, secondo il procedimento inventivo seguito dal Verhulst, riguardarsi come interpretativa di un particolare modo di evolversi di una popolazione, mentre R. Pearl, che, insieme col Reed, molto più tardi la ripropose e generalizzò, la considerò, come sopra s'è visto, nulla più che interpolatrice dei valori assunti dalla popolazione.

c) Un altro modo d'interpretare la (3) è dovuto a L. Amoroso il quale, in base ai due legami di reciproca dipendenza fra popolazione e sussistenza già segnalati (v. sopra: Dottrine e politica della popolazione), dedusse come equazione differenziale del movimento della popolazione

dove a e α e β hanno il significato di limite inferiore e superiore della popolazione; e di qui ritornò all'equazione di una logistica.

La concezione del fenomeno di evoluzione di una popolazione può poi essere integrata con l'ammettere che questa descriva, nelle successive fasi della civiltà, archi di diverse logistiche, corrispondenti a diversi sistemi di parametri.

d) Quando si voglia investigare più intimamente il meccanismo dello sviluppo di una popolazione e avere una base più sicura nelle indagini demografiche prospettive, è necessario tener conto delle differenziazioni di età, e meglio ancora di sesso e di età, che hanno luogo in seno alla popolazione stessa. Calcoli di tale forma possono essere fatti nel discontinuo, o anche, specialmente per fini teorici e per semplificare talora i procedimenti, nel continuo. Così A. Lotka, detto N(t) l'ammontare di una popolazione chiusa al tempo t, B (t) il numero istantaneo delle nascite riferito all'anno, e supposta nota la tavola di sopravvivenza alla quale la popolazione stessa si conforma, cosicché sia p(a) la probabilità al momento della nascita che un individuo qualunque raggiunga l'età a, osservò che il numero dei viventi N(t) sarà la somma di tutti quelli che, essendo nati in un istante t a, hanno sopravvissuto all'età a, cosicché nel continuo

Ammettendo note le funzioni B (t a) e p (a), la (7) consentirà di esprimere per ogni istante t il valore N(t), mentre

rappresenteranno i numeri di viventi in età da 0 a 1, da 1 a 2 anni, ecc. Viceversa, ed è questo il lato più interessante del problema, note la funzione del tempo N(t) e quella dell'età p(a), il Lotka considerò la questione di determinare, mediante l'equazione integrale (7), la funzione incognita B(t) e pervenne a risolverla in diversi casi particolari.

e) Infine si può porre, con V. Volterra, il problema dello sviluppo simultaneo di due (o più) specie biologiche, viventi in uno stesso ambiente, delle quali una costituisca il nutrimento dell'altra. Una popolazione di uomini potrebbe, nello stato di barbarie, assimilarsi alla specie divorante, in quanto essi si nutrono di vegetali e animali che incontrano o trovano intorno a sé (mentre in uno stato più progredito essi utilizzano i prodotti dell'agricoltura e quelli dell'allevamento degli animali domestici, e curano quindi che le specie da utilizzare per l'alimentazione non periscano). Se N1 e N2 sono i numeri d'individui delle due specie divorata e divorante in un certo istante t, ε1 − ε2 rispettivi coefficienti di accrescimento e di esaurimento naturale (dei quali ε > 0 e − 32 〈 0 perché si ammette che la N2 decrescerebbe senza la presenza di N1), il Volterra pone le equazioni fondamentali

nelle quali γ1 e γ2 sono supposti due coefficienti costanti positivi, per significare che il coefficiente di accrescimento della prima specie diminuirà in proporzione all'ammontare della seconda e quello di esaurimento della seconda crescerà algebricamente in proporzione all'ammontare della prima. Integrando le (9) si possono esprimere N1 e N2 in funzione di t, come pure N2 in funzione di N1 e reciprocamente, e ricavare così le leggi che governano le fluttuazioni dell'ammontare dell'una e dell'altra specie. È da notarsi che le ricerche: del Volterra e quelle in qualche modo analoghe del Lotka e di J. Delevsky conducono, contrariamente a quanto pensava il Malthus, a una condizione di equilibrio della popolazione, realizzabile o come tendenza asintotica verso un limite finito (per es., logistica) o come tendenza della popolazione stessa a oscillare tra due limiti costanti o variabili (per es., cicli periodici di Volterra e di Delevsky).

Bibl.: Oltre alle opere di R. Malthus, C. Gini e L. Amoroso, citate nella bibl. di Dottrine e politica della popolazione, v.: P. F. Verhulst, Recherches mathématiques sur la loi d'accroissement de la population, Bruxelles 1844; id., Deuxième mémoire sur la loi d'accroiss., de la pop., ivi 1846; J. Gumbel, Statitische Eigenschaften einer linear wachsenden Bevölkerung, in Metron, 1924; R. Pearl, Studies in Human Biology, Baltimora 1924; G. U. Yule, The Growth of Population and the factors which control it, in Journal of the Royal Statistical Society, 1925; A. Lotka, Elements of Physical Biology, Baltimora 1925; id., Application de l'analyse au phénomème démographique, in Journal de la Société statistique de Paris, 1933; V. Volterra, Variazioni e fluttuazioni del numero d'individui in specie animali conviventi, in Mem. R. Acc. dei Lincei, 1926; J. Delevsky, Une formulation mathématique de la loi de la population, in Metron, 1928; V. Travaglini, Gli schemi teorici del movimento della popolazione, Perugia 1929; C. Gini, e B. De Finetti, Calcoli sullo sviluppo futuro della popolazione italiana, in Annali di statistica, s. 6ª, X (1931); F. Savorgnan, Corso di demografia, Pisa 1931; S. Fogelson, Théorie mathématique de la population, in Revue trimestrielle de statistique de la République Polonaise, 1932; E. Corbino, La crisi morale e la natalità, in L'ingegnere, 1933; M. Boldrini, Biometria e antropometria, in Trattato elementare di statistica, diretto da C. Gini, III, Milano 1934.

Registri della popolazione.

Si dà questo nome a un sistema di scritture nelle quali si annotano nominativamente, come singoli e come facenti parte di una determinata famiglia, tutti gl'individui formanti la popolazione stabile di un comune e si segnano individualmente tutte le variazioni che, per matrimonî, nascite, morti, immigrazioni, emigrazioni, avvengono entro la popolazione medesima. A queste scritture e al complesso delle norme per il loro funzionamento si dà pure il nome di anagrafe (v.).

I primi esempî di registri della popolazione, nel senso che si dà oggi a questa istituzione, si hanno verso la fine del sec. XVIII per iniziativa del governo della repubblica francese (legge 19-22 luglio 1791) e sono così contemporanei dei primi censimenti demografici. E, come nei riguardi delle indagini statistiche su ogni aspetto della vita sociale, così, anche per i registri anagrafici, le prescrizioni del governo imperiale, succeduto a quello repubblicano, ebbero in Italia esecuzione pronta e diligente. Ma, prima ancora che, con la restaurazione, anche questa parte di attività amministrativa venisse a modificarsi o a interrompersi, il registro di popolazione, nelle forme in cui era iniziato, veniva a mancare praticamente allo scopo cui era destinato. Concepita proprio nella forma di registro, e cioè come una lista dove, una di seguito all'altra, erano segnate coi nomi dei loro membri le famiglie censite la prima volta mediante una rilevazione anagrafica, quest'anagrafe, per quanto iniziata con encomiabile esattezza, doveva, subito dopo le prime annotazioni, diventare un garbuglio inestricabile di correzioni e di aggiunte. E si noti che i registri suddetti, di cui restano, superstiti in qualche vecchio archivio comunale, interessanti esemplari, avevano accanto alla parte personale anche notazioni statistiche per il sesso, lo stato civile, le condizioni economiche, ecc., sommate a piè di pagina. Soltanto un sistema di fascicoli e di schede mobili poteva portare a pratica soluzione l'impianto di un registro di popolazione, tendendo possibili modificazioni e sostituzioni, ma naturalmente mettendo anche da parte ogni pretesa di ottenere direttamente dal registro notizie statistiche per il complesso della popolazione.

Attualmente la Francia non possiede registri di popolazione per quanto la legge citata sia sempre in vigore e siano stati più volte espressi, in specie dal consiglio municipale di Parigi, voti per il ripristinoo di quel servizio pubblico.

In Olanda e nel Belgio l'iniziativa francese fu ripresa già nei primi decennî del sec. XIX, prendendo come punto di partenza il risultato dei censimenti; nel Belgio in particolar modo fu preso per base il censimento condotto, verso la metà del secolo, secondo i piani del Quételet. I registri di popolazione ebbero pure notevole sviluppo negli stati nordici, Svezia, Norvegia, Finlandia, mentre in altri stati l'istituzione loro fu parziale e facoltativa. La Germania ha nel suo Meldewesen un'istituzione analoga ai registri: peraltro con più spiccato carattere di polizia e più particolarmente destinata a segnalare i cambiamenti successivi di alloggio.

In Italia il r. decr. 31 dicembre 1864, n. 2105, li istituì in tutti i comuni del regno, affidandone la formazione e la conservazione ai sindaci, assistiti dalla giunta comunale e dalla giunta di statistica e la vigilanza ai prefetti e rispettivamente ai sottoprefetti, i quali dovevano compiere ispezioni sulla regolare tenuta dei registri, riferendone al Ministero di agricoltura, industria e commercio.

Ma soltanto la legge 20 giugno 1871, n. 297, che ordinava il secondo censimento generale della popolazione, venne a rendere obbligatoria per tutti i comuni la tenuta dei registri, sulla quale diedero poi norme il r. decr. 28 gennaio 1872, n. 666, e il regolamento approvato con r. decr. 4 aprile 1873, n. 1363; si stabiliva in questo che il registro si distinguesse in due parti e cioè per la popolazione stabile e per la popolazione mutabile, minacciandosi i comuni, in caso d'inadempienza, dell'invio di un commissario che avrebbe provveduto d'ufficio. Seguirono varie ispezioni generali, due per parte dei prefetti nel 1874 e nel 1875 su istruzioni del Ministero di agricoltura, industria e commercio, due nel 1876 e nel 1877 per parte dei pretori in occasione della verifica dei registri dello stato civile.

Dopo il 1877 non si fecero più ispezioni generali, ma la legge ordinativa del terzo e del quarto censimento prescrisse d'istituire dove mancasse o di ordinare e aggiornare il registro di popolazione in base alle risultanze dei censimenti suddetti. Infine il r. decr. 21 settembre 1901, n. 445, dettò nuove norme per la formazione e tenuta del registro di popolazione, modificando sostanzialmente le precedenti disposizioni, specialmente con la limitazione della registrazione alla sola popolazione stabile e col far passare in seconda linea gli scopi statistici del registro, di fronte a quelli di natura giuridica e amministrativa.

Il regolamento del 1901, che è rimasto in vigore fino alla pubblicazione di quello attuale, rese possibile un discreto sviluppo del servizio in molti comuni, ma la sua applicazione fu ben lungi dall'essere generale e completa.

Secondo le disposizioni del r. decr. 2 dicembre 1929, n. 2132, il registro della popolazione stabile che deve essere tenuto in ogni comune, consta di due parti distinte e cioè: a) di fogli di famiglia; b) di schede individuali. Per ogni famiglia, intendendosi per tale, non solo la riunione abituale di più persone legate fra loro da vincoli di sangue ma anche ogni persona che occupa un'abitazione a sé e gl'individui ospitati a tempo indeterminato in istituti o stabilimenti di qualsiasi natura, deve essere formato un foglio intestato al capo della famiglia o della convivenza. I fogli di famiglia, sui quali devono essere indicate tutte le variazioni che questa subisce per il fatto di nascite, morte, matrimonî, immigrazioni, emigrazioni, sono disposti o secondo una numerazione progressiva, unica per tutto il comune, o, come in generale avviene per i comuni maggiori, secondo l'indice alfabetico della denominazione delle strade e località del comune. In questo secondo caso, i fogli sono raccolti in cartelle di casa. Le schede individuali, che devono essere disposte in rigoroso ordine alfabetico dei cognomi, contengono cognome, nome, paternità, maternità delle persone, data e luogo di nascita, stato civile, professione e condizione, nonché l'indicazione delle abitazioni successivamente occupate.

Con particolari disposizioni è regolata la posizione, nei riguardi del registro, dei domestici, dei bambini a balia, degli studenti, dei militari, dei ricoverati. Oltre al prevalente scopo amministrativo e di ordine pubblico, il registro ha pure sussidiariamente un carattere statistico, messo in evidenza in modo particolare dal regolamento in vigore, il quale dispone che, mediante apposito registro, si riassumano periodicamente i movimenti avvenuti nella popolazione per nascite e morti, per immigrazioni ed emigrazioni e che annualmente si dia notizia di tali movimenti all'Istituto centrale di statistica al quale è affidata, insieme con il Ministero dell'interno che la esercita per mezzo dei prefetti, l'alta vigilanza sull'istituzione e la regolare tenuta dei registri.

Recentemente furono proposti, per i registri, tipi di schedarî intesi sia ad impedire il rapido deteriorarsi delle schede, sia a permettere una rapida consultazione delle schede stesse, sia soprattutto a rendere possibile l'introduzione di altre notizie oltre quelle richieste dalla legge e un'eventuale elaborazione delle notizie stesse a mezzo di segnalazioni svariate; da questo il nome di segnaletici dato a questi schedarî.

Tali adattamenti pratici meritano d'interessere l'attenzione degli specialisti, quando con essi si mira a rendere più rapido il disbrigo delle pratiche giornaliere e il pubblico servizio, mentre è da sconsigliarsi una sovrabbondanza di notizie e di segni introdotti in vista di future eventuali osserivazioni statistiche.

Bibl.: Q. Mirti della Valle, s. v., in Digesto italiano, XX, parte 1ª; E. Raseri, Popolazione, in V. E. Orlando, Trattato completo di diritto amministrativo; Th. Piron, Des registres de population en Belgique, Gand 1922; U. Giusti, Il nuovo ordinamento anagrafico, Empoli 1930; A. Avallone, I servizî demografici nelle città, Roma 1930.

© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata