Pedagogia

Enciclopedia Italiana - VII Appendice (2007)

Pedagogia

Bianca Spadolini

Rispetto alla definizione tradizionale di p., alla fine del 20° sec. è emerso con più chiarezza un settore delle scienze dell'uomo in cui il sistema pedagogico ha un suo specifico campo di intervento. Tale specificità consiste in quella vasta area di osservazioni e di ricerche che ha per oggetto l'operare e il comunicare educativi in relazione alle finalità culturali e sociali delle comunità. Poiché rilevanti sono i fattori considerati non educativi, quali le dinamiche economiche e sociali e i processi storici nei loro esiti non prevedibili, l'analisi del contesto culturale in cui l'azione educativa intende intervenire diviene più ampia e flessibile rispetto a quella tradizionale. L'allargamento dell'analisi come l'auspicato ampliamento degli interventi educativi, da una parte hanno moltiplicato i settori di osservazione e hanno maggiormente specializzato le metodologie e i linguaggi, a favore di una più duttile relazione con l'ambiente; dall'altra, hanno fatto sì che si smarrissero alcune certezze, legate alla possibile unità del sapere pedagogico e a progetti onnicomprensivi, ritenuti ormai irrealizzabili e destinati a divenire rapidamente obsoleti. In questa prospettiva, si potrebbe parlare di più p., rivolte a settori sociali e culturali specifici, piuttosto che di una p. capace di inquadrare sotto ogni prospettiva lo sviluppo individuale, le dinamiche dell'apprendimento, lo scambio simbolico e culturale.

Esemplificative a tale riguardo sono le analisi di W. Brezinka (1978; trad. it. 1980). Le teorie pedagogiche tradizionali si servivano di asserzioni concernenti la funzione sia normativa, sia pratica ed empirica, sia teoretica e scientifica. In genere, questa unione delle tre funzioni nel campo degli studi pedagogici veniva svolta dalla filosofia dell'educazione. Lo sviluppo e l'autonomia delle varie sfere della ricerca espongono l'oggetto dell'educazione a una divisione del lavoro che ha condotto, nel secondo dopoguerra, a una rapida specializzazione degli studi. La proposta di Brezinka è quella di distinguere le ricerche pedagogiche in tre sfere distinte, ognuna delle quali possiede una propria autonomia e un proprio statuto. Le ricerche empiriche si dovrebbero attenere alla verifica dei risultati della pratica educativa, secondo metodi specifici, concernenti l'apprendimento, la memoria, la valutazione e così via. Il campo normativo della p. impone invece di stabilire quali sono i fini generali dell'azione pedagogica e di quale educazione ha bisogno una determinata società. Questo ambito è di pertinenza della filosofia dell'educazione. La scienza dell'educazione, infine, dovrebbe determinare asserti o enunciati che siano di fatto logicamente ineccepibili rispetto a un determinato campo di oggetti relativi all'educazione. In tale ambito di ricerca dovrebbe rientrare anche la ricerca storico-pedagogica.

Il tentativo chiarificatore di Brezinka, notevole nella definizione dei possibili campi teoretici e pratici secondo una prospettiva di stampo kantiano, viene tuttavia smentito nei fatti da una serie di indagini pedagogiche di tipo 'misto', se non nella metodologia certamente nelle risultanze pratiche o ideologiche. Risulta così difficile delimitare le prospettive e i punti di vista. È pertanto complesso distinguere i fini di una ricerca empirica da una più generale prospettiva politica e sociale, e pensare che una visione ideologica o religiosa non intenda incidere sul mutamento dell'effettualità educativa e così via. La maggiore specializzazione della ricerca pedagogica, inoltre, ha ampliato le possibilità di interconnessione con vari settori delle scienze sociali e umane, senza per questo venire a combaciare con nessuna di esse sotto l'aspetto teorico o pratico, ma anche senza riuscire a sviluppare un proprio linguaggio specifico. Alla luce di questo sviluppo, non sempre chiaro e lineare, sarà più utile identificare le persistenze e i mutamenti nella ricerca pedagogica del 21° secolo.

Permane l'importanza della psicologia dello sviluppo (developmental psychology), per la comprensione dei processi evolutivi e per apprestare interventi educativi adeguati. I grandi quadri teorici sull'evoluzione psicologica cognitiva, morale e affettiva (J. Piaget, L.S. Vygotskij, J.S. Bruner, L. Kohlberg, E.H. Erikson) rimangono punti di riferimento indispensabili, come del resto le grandi teorie dell'apprendimento (comportamentismo e associazionismo, cognitivismo, umanismo), con le loro possibili variabili (R.M. Gagné, A. Bandura, J.P. Guilford, D.P. Ausubel). Le ricerche psicologiche sull'intelligenza sembrano ormai superare l'impostazione cognitivista di tipo computazionale, secondo le indicazioni che sono state fornite da uno dei suoi maggiori esponenti, Bruner, e sono approdate a modelli di intelligenza più complessi, come nella teoria di J.P. Das, in quella di R.J. Sternberg o in quella delle intelligenze multiple di H. Gardner. Questi ultimi approcci all'intelligenza presentano in comune almeno due aspetti: riconoscono l'importanza dei processi cognitivi rispetto all'acquisizione delle nozioni; considerano la diversità di abilità e capacità che compongono l'intelligenza.

Negli ultimi anni del 20° sec. grande sviluppo hanno avuto le indagini empiriche sulle differenze intellettive in base alla comunanza o alla diversità genetica e ambientale, sul multilinguismo e il multiculturalismo, sulle pari opportunità, sulla tipizzazione e gli stereotipi sessuali, sulle diverse abilità; sono state incrementate le ricerche sullo sviluppo del linguaggio, sulla memoria a breve e a lungo termine, sull'interesse e sulla metacognizione. Una delle questioni che sorgono di fronte a una mole così rilevante, e spesso contraddittoria, di dati sperimentali, resta quella della loro utilità per l'educatore, in quanto tali dati mancano di una strutturazione soddisfacente e di una sintesi. Per ovviare a ciò, si ricorre talvolta al metodo della metanalisi, ossia all'analisi statistica di un vasto insieme di risultati, allo scopo di integrarne le conclusioni. I risultati sono ancora in via di sviluppo e non sempre hanno favorito, da un punto di vista epistemologico, indicazioni chiare e condivise sulle procedure da seguire. La prospettiva quantitativa ha infatti avuto, nel campo psicopedagogico, varie applicazioni. La più importante è quella che va riportata all'istruzione guidata dalla misurazione. È stato riscontrato che la valutazione è tra i fattori che maggiormente hanno influenza sull'apprendimento, e che in genere è premiata dall'insegnante la memorizzazione di fatti non correlati, a danno di un approccio profondo che prevede la ricerca deliberata e attiva dei principi, dei concetti e delle relazioni sottostanti. Cambiare il sistema valutativo è sembrato uno dei modi più significativi per spostare l'attenzione dello studente dalla nozione al processo. L'insegnante, a sua volta, è spinto a determinare gli obiettivi che vuole raggiungere, siano essi cognitivi o comportamentali (R.F. Mager, B.S. Bloom). Una valutazione che vuole essere obiettiva deve servirsi di adeguati strumenti di misurazione.

I vari studi di tipo quantitativo (p. sperimentale) sono tuttavia confluiti nelle indagini di tipo qualitativo e curricolare e hanno avuto in questo contesto maggiore influenza sulle politiche di revisione e di riforma dei sistemi scolastici, piuttosto che essere concretamente impiegati per chiarire i tratti latenti degli alunni, come l'intelligenza, o l'attitudine alla lettura. L'analisi degli items, per es., ha avuto larga diffusione nel monitorare il rendimento dei programmi d'istruzione. Le prestazioni degli studenti e degli insegnanti sono state oggetto di analisi quantitative, sia per una valutazione di carattere diagnostico o amministrativo sia per il miglioramento della loro formazione. Nel complesso, come nota G. De Landsheere (1986; trad. it. 1988), le riforme seguite alla sperimentazione sono state decise su basi non del tutto solide e non è ancora possibile calcolare in che misura i danni oltrepassino i progressi o viceversa.

Come è stato verificato dall'OECD (Organization for Economic Cooperation and Development, in Italia OCSE, in Francia OCDE), sebbene l'entrata anticipata nel sistema scolastico e il prolungamento del tempo di permanenza nella scuola favoriscano il successo nell'ambito dell'istruzione (e dovrebbero favorirlo anche in campo lavorativo), forti sono state le critiche mosse al sistema educativo e alle teorie in esso dominanti. Di tali critiche si è fatta interprete, più che la p., la sociologia dell'educazione, che ha indagato sotto varie prospettive il rapporto tra la funzione del sistema scolastico e la società. Una volta cadute le critiche di indirizzo neomarxista (L. Althusser, P. Bourdieu), che intendevano la scuola come apparato ideologico di Stato con il compito di riprodurre le condizioni che regolavano il mercato del lavoro e la vita associata, sono emerse critiche più articolate, relative al funzionamento del sistema educativo. Alcuni sociologi (Ch. Jencks, R. Boudon) hanno rilevato che la maggiore scolarizzazione non ha favorito l'acquisizione di posizioni di prestigio, rimaste appannaggio degli strati sociali privilegiati, ma ha semmai consentito l'entrata delle classi meno avvantaggiate ai livelli intermedi della società. Il titolo di studio ha perciò soprattutto permesso di ridistribuire ruoli e mansioni. Il sociologo R. Collins (1979), pur concordando sulla funzionalità della scuola per la mobilità sociale degli strati intermedi, ha riscontrato che più importante dell'istruzione risulta essere l'apprendistato per la formazione sia della manodopera specializzata sia delle professioni liberali. L'istruzione ha dunque primariamente una funzione politica: non favorisce né aumenta la produttività, bensì predispone l'entrata del lavoratore nel mondo della produzione, corredata o meno da garanzie sindacali e sociali.

Un posto a sé stante, in questo quadro, occupa la teoria funzional-sistemica di N. Luhmann (Luhmann, Schorr 1979; trad. it. 1988). Piuttosto che affrontare il rapporto tra scuola e società, egli parte dall'assunto che ogni sistema sociale ha una propria autonomia e definisce da sé quale funzione ricopre nella società. Così, anziché osservare la funzione che la scuola assume nella società, Luhmann rileva i modi in cui il mondo della scuola cerca al proprio interno di comprendere e di risolvere i problemi che gli sono pertinenti: la separazione tra chi opera nella scuola e chi, invece, riflette su di essa (l'establishment), il deficit tecnologico dell'insegnante di fronte all'ambiente che è costituito da tutti gli alunni, l'orientamento verso l'apprendimento fine a sé stesso, la mancanza di rapporti con il mondo della produzione, l'incidere sempre più determinante della contingenza.

I sociologi affrontano ormai la questione dell'educazione in relazione ai processi in atto della globalizzazione e delle tecnologie comunitarie. Come ha notato U. Beck (2000), l'individualizzazione, caratteristica dell'uomo nelle società postmoderne, è il risultato sia del dissolvimento di forme di vita precostituite sia dell'innalzamento di nuove costrizioni più o meno istituzionalizzate; l'individuo è così obbligato a riflettere e a scegliere, spesso in solitudine, tra opzioni rischiose. Le teorie pedagogiche, in questa situazione, non possono continuare a proporre l'apprendimento di nozioni e l'acquisizione di valori statici, stabiliti in altro tempo, ma devono farsi parte attiva di una integrazione proiettiva, in cui gli individui si incontrino su possibili campi prospettici fattuali e istituzionalizzati. In modo non dissimile, Z. Bauman (2001; trad. it. 2002) ha descritto l'ambiente in cui vive l'uomo contemporaneo come complesso e composto da microsituazioni, da episodi in continuo mutamento, impossibili da rappresentare se non mediante figure simboliche, indicative di condizioni esistenziali incerte. Le difficoltà dell'apprendimento strutturato dipendono, più che da altro, dall'offerta frammentata e variegata del mondo postmoderno, in cui il mercato del lavoro è sempre più flessibile, le competenze richieste non più legate a un apprendimento sistematico, le sedi del sapere, infine, dislocate e deregolamentate.

E. Morin (1999; trad. it. 2000) colloca le difficoltà dei sistemi educativi nell'ambito della criticità riconducibile alla molteplicità dei saperi. Ogni sapere ritaglia un proprio campo di ricerca senza lasciare intravedere una possibile sintesi del mondo in cui l'uomo vive. Il sapere che i sistemi educativi diffondono risente di tale molteplicità e dispersione delle conoscenze poiché non riesce a contestualizzare le informazioni, non consente di risalire dalla parte al tutto, non sa cogliere la multidimensionalità delle unità complesse.

I motivi del mutamento sociale, indicati a vario titolo dalla sociologia dell'educazione, hanno indotto la p. ad ampliare il proprio campo di interesse, limitato prevalentemente al sistema scolastico. Sono emersi, per es., problemi relativi alla p. della famiglia: si è percepito che l'imprinting relazionale viene appreso in famiglia, la quale, d'altra parte, è anch'essa soggetta a mutamento riguardo al modello tradizionale di trasmissione dei valori. Ricerche psicosociali, poi, hanno mostrato che si è allungato il tempo di permanenza nell'adolescenza, e ciò ha posto la famiglia di fronte a gravi incertezze educative.

La p., come settore riflessivo del sistema educativo, ha dovuto cominciare a ripensare anche il problema della formazione in relazione al mercato del lavoro. Almeno due delle formule, adattate dal pensiero pedagogico del secondo dopoguerra, sono state riattualizzate e sono divenute portanti per nuove politiche e nuove pratiche educative che rispondessero alle mutate esigenze di competenze e conoscenze richieste. La prima formula, quella della formazione del capitale umano, nasce come un'ipotesi scientifico-economica nell'alveo della tradizione anglosassone neoliberista. Essa afferma che, nel sistema di mercato, il lavoro può essere considerato come uno dei fattori di produzione e, in quanto tale, subire un incremento o una diminuzione a seconda delle necessità del processo produttivo; ma deve anche tenere conto della variante costituita dal capitale umano, ossia dell'apporto che il singolo lavoratore dà al processo produttivo in termini quantitativi e qualitativi. La teoria neoclassica intendeva la variabile del capitale umano soltanto relativamente all'ottimizzazione economica, accantonando la questione della preparazione e della riqualificazione del lavoratore; la teoria del capitale umano, invece, come indicato chiaramente da M. Woodhall (in Teorie di economia dell'istruzione, 1996, pp. 47-55), misura il tasso di ritorno dell'investimento sull'istruzione che va valutato in base al profitto ricavato da chi nel tempo ha investito nell'istruzione. Nel novembre 2003 il Consiglio europeo ha approvato una risoluzione in cui la teoria del capitale umano viene adottata come formula per una politica educativa europea competitiva e fondata sulla conoscenza, arricchendo i contenuti della originaria matrice anglosassone con l'esigenza di coniugare lo sviluppo economico con la coesione sociale, l'investimento con la distribuzione equilibrata della ricchezza, la crescita professionale dell'individuo con la realizzazione della persona. La seconda formula, quella del lifelong learning, cerca di rispondere a una vasta richiesta di formazione, di aggiornamento e di riqualificazione che proviene dalla società civile e dal mondo della produzione. Anche per il lifelong learning le radici possono essere rintracciate nell'ambito della riflessione pedagogica del secondo dopoguerra, quando il movimento della formazione permanente sottolineava la necessità di spostare l'accento dall'educatore a colui che viene educato e di rafforzare l'apprendimento autodiretto. L'apprendere ad apprendere, dunque, una volta svincolato dall'autoriferimento del sistema scolastico, faceva dell'apprendimento uno stile di vita da cui trarre benefici non solo sotto l'aspetto economico ma più in generale per tutta la vita. Nel 1971 l'espressione educazione permanente è stata accolta e approvata ufficialmente dal Consiglio d'Europa, nel 1972 dall'UNESCO (United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization; Rapporto Faure) e dall'OECD. Anche l'Unione Europea, nel corso degli anni Novanta, ha accolto le istanze provenienti dal movimento del lifelong learning al fine di sviluppare e stimolare, a livello dei sistemi locali e delle strutture produttive, progetti integrati diretti a favorire la competitività e l'innovazione. Sebbene la produttività e l'innovazione tecnologica orientino prevalentemente la necessità di prolungare la formazione oltre gli anni dell'obbligo scolastico, sostenendo sia la formazione terziaria universitaria sia l'aggiornamento e il ricollocamento della forza lavoro, notevole risalto viene dato alla possibilità da parte degli attori sociali, individuali e collettivi, di informarsi e istruirsi, di ristrutturare e riorganizzare le conoscenze. Viene da più parti auspicata l'esigenza democratica di favorire l'accesso, l'acquisizione e l'utilizzazione di informazioni e conoscenze per una società aperta e trasparente (learning society).

Nel Rapporto all'UNESCO della Commissione internazionale sull'educazione per il 21° sec., presieduta da J. Delors (Delors et al. 1996; trad. it. 1997), viene fissato un programma internazionale per l'educazione del futuro. L'approccio sintetico del rapporto permette di abbracciare i principi, le prospettive e i problemi principali verso cui dovrebbe orientarsi un'azione educativa democratica e globalmente condivisa. Il primo obiettivo è favorire 'l'imparare a conoscere', ossia permettere a ogni persona di apprendere per sviluppare le proprie capacità comunicative e professionali, nonché il piacere di capire, conoscere e scoprire, in relazione all'ambiente in cui vive. Il secondo obiettivo è imparare a fare, ovvero a implementare le abilità per trasformarle in competenze: questa trasformazione è ancora più necessaria perché si abbandona il lavoro di routine, sempre più svolto dalle macchine, per conoscenze e abilità cognitive sia nel campo produttivo sia nei servizi. Il terzo obiettivo è imparare a vivere insieme: obiettivo complesso e difficile da raggiungere a causa di incomprensioni storiche e ideologiche di varia matrice, che tuttavia possono essere attenuate, se non superate, mediante l'educazione alla conoscenza. Il quarto obiettivo è imparare a essere: tutti gli uomini devono essere in grado di sviluppare un pensiero autonomo e critico e di formarsi un proprio giudizio.

bibliografia

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Capitale umano: la ricchezza dell'Europa, a cura di G. Vittadini, Milano 2004.

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