PASTORIZIA

Enciclopedia Italiana (1935)

PASTORIZIA

Elio MIGLIORINI
Renato BIASUTTI
Aristide CALDERlNl
Gino LUZZATTO

. Forma di sfruttamento del suolo, comune nelle zone povere di pioggia dove prevale una vegetazione steppica, e in quelle dove per il prevalere di basse temperature esiste soltanto la tundra. Quest'ultima è frequente nelle regioni più settentrionali dell'emisfero boreale, mentre le steppe e i terreni stepposi talora con depositi salini, aridi durante alcuni mesi dell'anno, si estendono dalla Mauretania fino in Manciuria e nell'emisfero australe coprono gran parte della Patagonia e vaste zone dell'Africa meridionale e dell'Australia. L'uomo ha potuto utilizzare queste regioni solo dopo che ebbe reso domestici gli animali (specie capra e pecora) ed ebbe appreso a servirsi del cavallo come bestia da soma e del cane come animale da guardia. Latte, carne, lana, pelli sono i prodotti più importanti. Di rado ormai la pastorizia sussiste come forma d'economia indipendente ed esclusiva (presso gli Ottentotti, gli Herero, i Masai, in parte i Fulbe, i popoli allevatori di renne, i Tungusi della Siberia), più spesso viene esercitata da genti che d'inverno fanno capo a sedi fisse, dove esistono campi e dove restano le persone meno valide. Una forma di transizione tra la pastorizia e le colture agrarie è anche quella delle popolazioni alpine dove viene esercitata su vasta scala la transumanza e delle zone montuose subtropicali, nel qual caso si hanno per lo più, ma non in modo esclusivo, sempre le stesse sedi estive. Spostamento in latitudine invece che in altezza è quello dei Chirghisi, che si muovono, d'estate, verso nord. La pastorizia è collegata a terre ingrate, in preda spesso al vento e alla siccità. Le abitazioni usate dai pastori sono assai semplici, facilmente trasportabili (tende).

Le terre migliori vengono a poco a poco trasformate in campi (come è avvenuto nella Russia meridionale, e in alcune zone della Siberia, nella pianura ungherese, in parte nelle pampas argentine e nelle praterie (prairies plains) americane. Dove si hanno precipitazioni abbondanti, dove è possibile l'irrigazione ed è abbondante la mano d'opera, vi è invece la tendenza a trasformare i campi in prati artificiali, per esercitare l'allevamento del bestiame in modo razionale; in questo caso però non si può parlare di pastorizia, in quanto gli animali domestici vengono tenuti nelle stalle, i prati vengono falciati e non esiste nomadismo.

V. anche bestiame; domesticazione; nomadismo.

Etnologia. - La pastorizia si può considerare come una terza fase nelle successive funzioni economiche assunte dagli animali nei riguardi dell'uomo: dopo cioè la semplice domesticazione, prima condizione necessaria, e anche in relazione all'allevamento, col quale l'uomo si è curato, non solo di tenere presso di sé e utilizzare in un modo qualunque le specie animali, ammansite o addomesticate, ma anche di assicurare loro le condizioni migliori di esistenza e di riproduzione, di sviluppare certi determinati caratteri utili, ecc. L'etnologia moderna ha espresso, se anche in forme diverse, la convinzione che queste due fasi di utilizzazione della fauna si siano sviluppate in seno ad antiche comunità agricole senza provocare in queste ultime alcuna differenziazione interna di lavoro o di cultura, contribuendo anzi a determinare i caratteri fondamentali dell'agricoltura superiore (aratro, ingrassi animali, animali da trasporto). La differenziazione invece si è imposta quando, nell'allevamento in grande di alcune specie domestiche originarie di ambienti erbacei e di abitudini migranti (bovini, ovini, equini, cammelli, ecc.), si sono dovuti mantenere e accompagnare gli spostamenti stagionali del bestiame verso i pascoli freschi. Da tale necessità sono derivate sia le diverse forme di nomadismo pastorale, sia i diversi casi di separazione dell'economia pastorale negli ambienti adatti (steppe, praterie, pascoli montani), sia, infine, i diversi gradi di specializzazione del lavoro pastorale in una parte della famiglia o della tribù o in particolari gruppi etnici. La pastorizia dev'essere perciò un elemento relativamente tardivo nella storia della civiltà: e, difatti, la troviamo localizzata nella porzione culturalmente più sviluppata della terra, cioè nel mondo antico, dove, s'intende, le condizioni geografiche ne consentivano l'esistenza. Nell'Oceania e nell'America, pur con varî animali d'allevamento, una vera pastorizia non è sorta. La prima patria di questa, è da collocarsi con grandissima probabilità, nell'Asia Anteriore.

Negli scritti etnologici più recenti, per contro, si trovano spesso affermate l'antichità e l'originalità di una "cultura pastorale" (v. culturali, cicli). Ma la cultura dei popoli praticanti, in larga misura o esclusivamente, la pastorizia appare dovunque prima di contenuto proprio e derivata dalle culture agricole prossimiori, salvo le forme particolari di esistenza imposte dal nomadismo (per es., le tende), o facilitate da esso (organizzazione militare della tribù), o correlative alle materie prime disponibili (lavorazione delle pelli e dei cuoi). Un elemento caratteristico attribuito a questa pretesa cultura pastorale primitiva è la grande famiglia patriarcale, che è effettivamente tipica di alcuni gruppi pastorali molto evoluti, Semiti, Turchi. Nell'Africa, invece, e anche nell'Asia orientale interna, molti gruppi pastorali possiedono uno statuto matriarcale della famiglia o forme residuali di esso, probabilmente perché derivano da antiche culture agricole con tradizioni matriarcali: tradizioni precocemente scomparse in quelle, che sopravvivono però nelle tribù pastorali più isolate e più tenacemente conservatrici (Tuareg). Nelle estreme porzioni marginali del suo territorio di diffusione, cioè nell'Africa sud-occidentale (Ottentotti) e nella Siberia artica e subartica, la pastorizia è totalmente disgiunta dall'agricoltura e associata a forme culturali inferiori; ma nemmeno queste le appartengono in proprio. Tra i pastori iperborei di renne si possono osservare anche forme imperfette di economia pastorale, assai rare altrove: per es., in molti gruppi non è utilizzato il cane per la custodia o la guida degli armenti, in alcuni altri non è praticata la mungitura (Samoiedi, Jenisseiani, Paleoasiatici) o addirittura viene data nell'estate la libertà alle mandrie, che occorre poi recuperare, non senza difficoltà, nell'autunno e ciò obbliga talvolta il pastore a divenire il cacciatore delle proprie bestie (Prokofiew). Sono però eccezioni, che non mostrano una pastorizia allo stato nascente (G. Schmidt), bensì in forme di adozione parziale o, forse, semplicemente in forme ridotte o di adattamento al particolare ambiente. La renna è del resto usata in tutti quei gruppi etnici anche come animale da tiro e nei gruppi "neosiberiani" (Tungusi, Jakuti, Soioti, ecc.) anche come animale da latte, da basto e da sella. Ma se la cultura pastorale è relativamente recente, e comunque derivata anzi che primaria, è stata grandissima la sua importanza nella storia dell'acculturamento di vaste regioni, nella diffusione di talune particolari correnti culturali, nei rapporti politici ed economici con le società agricole e nella creazione di forme particolari di simbiosi con queste, che nemmeno lo sviluppo moderno dell'allevamento razionale ha ancora del tutto eliminate.

Antichità classica. - I poemi omerici ci dànno una viva immagine del grande posto che la pastorizia tenne in Grecia nelle età più remote; il bestiame infatti appare essere stato allora una delle principali risorse economiche di tutti e segnatamente dei più ricchi e dei più potenti, per modo che non solo di pastorizia e delle opere ad essa inerenti si occupavano di continuo direttamente o indirettamente gli eroi, sovrani e principi reali, e ne costituivano la base economica principale delle loro risorse, ma il bestiame appariva l'unità di misura più corrente per computare la ricchezza e per valutare merci di ogni specie. Presso lo stesso palazzo reale si trovano spesso le stalle; e grandi mandre e greggi gli eroi tengono anche sulle montagne sotto la custodia di servi fedeli e lontano dal mare, donde potrebbero venire a rapirle incursioni di pirati. Il bestiame bovino, le pecore, le capre, i maiali, affidati a pastori talora particolarmente addetti a ciascuna di queste specie animali e designati con nomi adeguati a codesta loro specialità (βουκόλοι, αἰπόλοι, συϕορβοί, ecc.), sono i più comunemente allevati, mentre l'allevamento del cavallo è generalmente riservato ai più ricchi e ai potenti soprattutto in regioni adatte, quali l'Argolide, l'Elide e la Tessaglia. Il bestiame bovino è apprezzato soprattutto perché fornisce i capi per la maggiore quantità di sacrifici e per i più solenni e anche perché procura i più validi e numerosi animali da tiro; per il latte e per le carni sono assai apprezzate le pecore e le capre; il cavallo serve invece esclusivamente per la guerra e per i viaggi dei re e degli eroi. I pastori sono occupati nelle più varie operazioni inerenti al bestiame e ai suoi prodotti, quali ad esempio la lana, il cacio, oltre il compito importantissimo della difesa del gregge dai pirati e dai ladri.

Nelle Opere e giorni di Esiodo la pastorizia ha una minima parte nei confronti dell'agricoltura; tuttavia, ancora al tempo della guerra del Peloponneso, risulta che l'invasione nemica cagionò gravissime perdite di greggi ad Atene. Si può anche rilevare che durante i secoli V e IV a. C., la pastorizia ellenica s'industria di praticare meglio gl'incroci per il miglioramento delle razze, attingendo all'Asia Minore, e anche stabilisce accordi tra città e città per la trasmigrazione delle greggi in stagione opportuna e nei territorî meglio forniti di pascoli adatti a ciascuna specie di animali. Notevole è del resto, a dimostrare la minima importanza dell'allevamento degli animali nell'economia urbana della Grecia del sec. V-IV, che la maggiore e più importante opera di economia a noi rimasta della Grecia, l'Economico di Senolonte, non ne fa menzione altro che in forma secondaria.

Immagine tarda, sia pure trasformata dall'arte, della vita pastorale greca è soprattutto nella poesia dei bucolici greci di età ellenistica, Teocrito, Bione e Mosco; nei loro carmi infatti è l'eco della vita pastorale dell'Arcadia, di Cos, della Sicilia ed è il riflesso dei costumi e delle opere dei pastori del sec. III, relegati sui monti lontano dalle città, ormai trasformate dal progresso civile e assai diverse dalla rude semplicità primitiva. È questa dei bucolici un'immagine necessariamente idealizzata, dalla quale assai difficilmente si potrà ricavare la visione della vita pratica e reale.

Più agevolmente ci riesce di farlo attraverso i documenti dell'età tolemaica, di poco posteriori, che illustrano la pastorizia nell'Egitto ellenistico; essa è continuatrice della pastorizia dell'Egitto faraonico, dove sono segnalate greggi talora molto grandi, di parecchie migliaia di capi. Lo stato tolemaico è già anzi esso stesso un grande proprietario di mandre di bestiame; notevole soprattutto la preferenza data alle mandre bovine, che nell'Egitto tolemaico è completata da quelle degli ovini; maiali, cavalli, cammelli e asini sono pure allevati con frequenza.

Dell'origine pastorale degli abitatori antichissimi d'Italia è rimasta l'eco nelle leggende e nei culti più antichi della penisola; tali i culti e il rituale di Fauno e dei Luperci e delle feste Lupercalia, il culto di Silvano come dio dei boschi e tutore delle greggi, che pascolano nei boschi; tale il dio e la dea Pale nella protezione dei pastori e la festa Palilia dell'aprile, espressamente indicata come festa pastorale; tale la parte della leggenda di Roma, che racconta dei pastori primitivi dei colli laziali e del pastore Faustolo, che avrebbe accolto Romolo e Remo nella sua capanna.

Più tardi nel De re rustica di Catone, si tiene in considerazione anche l'allevamento del bestiame, buoi e pecore, i primi soprattutto in vista dell'uso agricolo, le altre per la vendita delle carni, per la lana e per il latte, al pastore mercenario, Catone dedica un capitolo d'interessanti rilievi.

I trattati più completi di pastorizia che possediamo sono quelli di Varrone e di Columella; notevole specialmente il primo, sia perché è il più antico, sia perché riflette la condizione della pastorizia nelle grandi tenute del sec. I a. C.; in parte tali trattati furono attinti dai grandi trattati greci e cartaginesi della materia e in parte dall'esperienza personale dell'autore. Dal trattato di Varrone si ricavano notizie di ogni genere e le tradizioni intorno alla pastorizia più accreditate e anzitutto l'affermazione che gli uomini sono successivamente passati per tre stadî di civiltà: quello della vita primitiva, in cui essi vissero di ciò che la terra offre spontaneamente, quindi lo stadio pastorale e infine quello agricolo, essendo esso subordinato al secondo. Tutto il II libro di Varrone è dedicato alla grande pastorizia, mentre il III si occupa dell'allevamento del bestiame domestico nell'interno della casa rustica e in misura minore del bestiame tenuto nei grandi allevamenti. Varrone ha l'esperienza e la scienza e anche l'ammirazione per i grandi allevamenti di bestiame all'aperto, nei quali, egli dice, alia ratio ac scientia coloni, alia pastoris (II, intr.); ne ha l'esperienza anche perché dichiara di avere posseduto mandre di pecore nell'Apulia e di cavalli in quel di Rieti e di avere a lungo discorso intorno a tale argomento con gli allevatori dell'Epiro, quando al tempo della guerra dei pirati era al comando di un reparto della flotta fra Delo e la Sicilia. Sulla pastoricia res, come egli la chiama, disserta lungamente, trattando dell'origine e dell'eccellenza di questa scienza, sostenendo che le pecore per la loro mitezza furono le prime ad essere addomesticate dall'uomo esponendo poi parte a parte costumi, trattamenti e sfruttamento del bestiame minore, pecore, capre e porci, e del maggiore, buoi, asini e cavalli e intrattenendosi poi sui muli, sui cani e quindi sui pastori nelle loro opere e nella loro organizzazione; uomini rudi questi, ma ben disciplinati e forti, che sono fatti per combattere anche contro i ladri; i Galli sono tra le popolazioni più adatte a questa funzione.

Columella dedica il VI e il VII libro della sua opera principale alla pastorizia o meglio all'allevamento del bestiame, buoi, cavalli, asini, pecore, capre e porci e non manca di porre in rilievo il disprezzo che in generale ha presso il contadino il pastore, ma ingiustamente.

Non sarà da dimenticare, come nobile eco di vita pastorale, quella che troviamo, più che nelle Bucoliche di Virgilio, nel III libro delle Georgiche, dove il poeta s'indugia a consigliare il lettore circa l'allevamento dei bovini, dei cavalli e delle pecore, sia sugli alti pascoli, sia nelle pianure. Anzi lo scrittore, consapevole dei costumi di molte genti e di molti paesi, s'intrattiene anche intorno a particolari descrizioni di usi della pastorizia regionale, come quando descrive i pastori africani o gli sciti o come quando ricorda l'epizoozia del bestiame nei paesi delle Alpi Orientali e del Timavo. Sotto il punto di vista economico e sociale la pastorizia negli ultimi secoli della repubblica e durante l'impero presenta interessanti contrasti e fenomeni assai significativi; così, mentre dapprima era evidente uno squilibrio fra terre a pascolo e terre coltivate, più tardi con l'estendersi della sfera d'influenza e del possesso di Roma fuori dei suoi primitivi confini, tale squilibrio si venne attenuando e fu possibile, ad esempio, di alternare i pascoli estivi e gl'invernali fra i monti Volsci e i colli Sabini, fra l'Apulia e il Sannio, anzi si costituì anche un'organizzazione completa d'impresarî che trovar0n0 più conveniente adibire a pascolo per greggi numerose terreni che prima erano di piccoli proprietarî e producevano grano.

D'altro canto il contrapposto tra vita di città e vita di campagna, soprattutto dal sec. II d. C., in poi, va sempre più acquistando le caratteristiche del contrasto tra vita di pastori e vita di coltivatori; intere regioni in Sicilia, in Corsica, in Sardegna, e anche nel Sannio, nell'Apulia, nell'Umbria, nell'Illirico, nella Tracia, nell'Asia Minore e nella Siria erano abbandonate al pascolo e abitate da pastori che ignoravano la vita cittadina o ne erano fatalmente esclusi; alcuni imperatori, per esempio Adriano, cercarono di trasformare taluni di questi pascoli in terre a coltura e tale opera di trasformazione o almeno codesto tentativo siamo in grado di esaminare qua e là nelle terre dell'impero e soprattutto in Egitto, dove al solito i papiri ci consentono lo studio di elementi assai minuti intorno alla vita pastorale fino all'avvento degli Arabi.

Alla conoscenza della pastorizia regionale giovano qua e là anche gli autori e le iscrizioni, sicché siamo in grado di segnalare, per esempio regioni rinomate per qualità speciali di buoi (Gallia, Liguria, Epiro, Tracia e anche la Campania, l'Umbria e l'Etruria), per i cavalli (Tessaglia, Apulia), per le pecore (Apulia, regione di Rieti, Taranto, Altino, Parma, Modena, Cordoba), per le capre (Gallia, Milo, territorio Salentino, il Casinate), per i maiali (Insubria, Spagna, Arcadia), per gli asini (Rieti e Arcadia).

Medioevo ed età moderna. - La decadenza demografica ed economica, che s'inizia col sec. III d. C. in gran parte dell'impero romano, determina il ritorno dell'Europa occidentale e meridionale - tolte poche eccezioni - a una situazione estremamente favorevole al predominio dell'economia pastorale. Regioni di pianura o di collina, meritamente famose per la loro fertilità e per la loro coltivazione intensiva, sono abbandonate dai loro antichi lavoratori e invase dalla foresta, dalla macchia e dalle acque palustri, oppure ridiventano terre sode in cui crescono, quando l'umidità sia sufficiente, le sole erbe spontanee. Le invasioni germaniche concorrono allo stesso risultato, sia per il terrore che esse incutono nelle inermi popolazioni rurali dei paesi invasi, sia per le consuetudini e il tenore di vita a cui gl'invasori erano abituati nei loro paesi d'origine, dove la caccia e l'allevamento erano l'attività preferita di una gran parte della popolazione.

Dell'importanza decisiva che la pastorizia assume in tutte le regioni dell'antico Impero d'occidente tra il sec. IV e l'XI, ci sono rimaste due prove dirette e sicure nel grandissimo numero di animali, specialmente suini e ovini, che si trovano registrati nelle descrizioni delle grandi proprietà regie ed ecclesiastiche e che costituiscono in molti casi la fonte principale di entrata del signore, e nella parte importantissima che i diritti d'uso sui boschi e sui pascoli assumono nell'economia dei villaggi e spesso anche delle stesse città.

Ma la pastorizia, allora predominante anche in quelle regioni di Europa che erano state sedi di un'intensa attività agricola, non si deve intendere nel senso più ristretto e assoluto della parola, nel senso cioè di un'attività nettamente separata dall'agricoltura e quasi contrapposta a questa. Presso gli stessi Germani questo stadio di un'economia fondata esclusivamente sulla caccia e sulla pastorizia, in cui l'agricoltura non rappresentasse che un'attività sussidiaria, temporanea e occasionale, quale è possibile presso popoli nomadi, non è forse mai esistito, e in ogni caso era stato già superato nell'età di Tacito, quando essi avevano ormai sedi stabili, e nella loro economia di villaggio conciliavano l'attività agricola con l'allevamento. Né molto diversa dev'essere stata, sotto questo aspetto, l'economia delle grandi proprietà dell'alto Medioevo, sia dentro sia fuori dei vecchi confini dell'impero. Le numerose descrizioni che si sono conservate, per l'età carolingia e per i secoli immediatamente successivi, mentre parlano frequentemente di animali e di pascoli, mentre offrono qua e là qualche notizia di servi adibiti alla custodia delle greggi, non hanno alcun accenno di rendite che il signore ritraesse affittando i suoi pascoli a pastori vaganti.

Certamente, se il nomadismo, che forse non è mai stato - se non in taluni casi particolari - una caratteristica essenziale dell'economia pastorale, è già scomparso, nell'età carolingia, nell'Europa occidentale, perdura invece in misura considerevole quello che fu detto il seminomadismo o - più esattamente - il pascolo transumante, per cui forti gruppi di pastori, generalmente sprovvisti di terre, migrano periodicamente dalla montagna al piano, o dal nord al sud, o da regioni che si sono completamente inaridite in altre che risentono ancora il beneficio delle piogge, per ritornare poi al luogo di partenza, dov'essi hanno il loro domicilio abituale. Ma, di regola, la transumanza perdura nel Medioevo in quelle stesse regioni dove essa era praticata nell'antichità, e dove seguiteremo - più o meno - a incontrarla fino ai giorni nostri, mantenendosi pressoché inalterate le condizioni naturali, di clima e di terreno, che l'hanno determinata.

Dove invece mancavano quelle necessità, la pastorizia raggiunse bensì, nel primo Medioevo, un'importanza altissima, superiore in molti casi a quella dell'agricoltura; ma essa appare sempre legata a questa, sia nell'economia di villaggio sia in quella delle grandi proprietà, e spesso anche in territorî che circondano i centri urbani. È anzi probabile che le due attività fossero esercitate dalle stesse persone, che dovevano dividere il loro tempo, in proporzioni variabili da luogo a luogo, fra il lavoro dei campi e la custodia delle greggi.

Nelle grandi proprietà la parte maggiore delle terre dominiche è costituita da boschi e da pascoli, sui quali il signore fa allevare, dai proprî servi, il suo patrimonio ricchissimo di ovini e di suini, e in misura minore di cavalli e di buoi; mentre i coltivatori liberi o dipendenti, che vivono per lo più riuniti in villaggi o in casali, alternano la coltivazione del loro orticello e delle strisce di terra seminativa, con l'allevamento esercitato sulle terre lasciate incolte e indivise. Così pure attorno alle città, almeno in quelle regioni dove queste hanno conservato più a lungo un carattere rurale, si estende, nella parte più lontana dalle mura, tutta una zona di terre comuni, riservata al pascolo delle greggi di proprietà della popolazione urbana.

Dopo il sec. XI l'aumento quasi generale della popolazione, la moltiplicazione dei mercati e dei centri urbani, l'affermarsi trionfante di un'economia di scambio almeno fra città e campagna determinano una richiesta rapidamente crescente dei prodotti agricoli e incoraggiano i lavori di bonifica dei terreni palustri e la trasformazione progressiva dei boschi e dei pascoli di pianura in terre coltivate. Il processo, che si manifesta rapidissimo nelle vicinanze delle maggiori città, si compie altrove con lentezza assai maggiore, ma il risultato finale è, quasi dovunque, press'a poco lo stesso: limitazione del pascolo alle sole terre che non sono giudicate adatte all'agricoltura; frazionamento di una grande parte delle terre comuni; trionfo della proprietà privata, specialmente in quelle regioni dove è stato più completo lo sviluppo della vita cittadina. L'allevamento soffre le conseguenze di questa trasformazione in misura molto diversa: ne sono colpiti principalmente l'allevamento suino, danneggiato dalla distruzione dei boschi di pianura, e l'allevamento ovino, confinato a poco a poco nelle terre più povere per aridità o per altitudine e principalmente sugli altipiani o sui pascoli montani delle tre penisole meridionali e della Sardegna, o nelle steppe della Russia meridionale.

Fanno eccezione le pianure dell'Inghilterra e dell'Irlanda, nelle quali come negli altipiani iberici e in qualcuna delle regioni appenniniche, si manifesta nel XV e nel XVI sec., nel periodo appunto in cui è più intenso lo sviluppo della vita cittadina, un forte incremento dell'allevamento ovino, e la pastorizia guadagna nuovo terreno sull'agricoltura. Il fenomeno si presenta nelle Isole Britanniche con caratteri profondamente diversi da quelli delle penisole mediterranee: dopo la seconda metà del sec. XIV i grandi proprietarî inglesi, approfittando della rarefazione prodotta dalla peste nella mano d'opera rurale e dello stato d'incertezza determinato dalle rivolte dei villani, tentano, e in parte riescono, a rompere i rapporti consuetudinarî che legavano questi alla terra, e sulle terre, di cui in tal modo ottengono la libera disponibilità, sostituiscono l'allevamento all'agricoltura. Nello stesso tempo con la chiusura arbitraria delle terre aperte, essi aumentano la superficie dei loro pascoli, sottraendola al lavoro o all'uso degli abitanti del villaggio. Ma l'allevamento, che in tal modo si estende e si moltiplica nelle pianure inglesi, è sempre esercitato dal proprietario sulle proprie terre e per mezzo di proprî dipendenti.

Carattere molto diverso assume invece l'incremento della pastorizia nei paesi del mezzogiorno in cui quell'attività era sempre stata staccata e in un certo senso contrapposta all'agricoltura. Nel regno di Castiglia, dove essa costituisce, per tutta la vasta zona degli altipiani, la fonte principale di ricchezza, e dov'essa seguita fino al sec. XVI a guadagnare terreno, la pastorizia contribuisce a rendere sempre più grame le condizioni, già molto difficili, dell'agricoltura. In generale non sono i grandi proprietarî di terre che esercitano in larga misura l'allevamento sulle loro proprietà. La pastorizia è esercitata in forma transumante, con migrazioni periodiche dall'altipiano centrale alle regioni meridionali della Mancha e dell'Estremadura. Per il sostentamento delle greggi ovine nel loro cammino lentissimo, larghe strisce di terra lungo la via che esse percorrevano dovevano essere lasciate incolte e l'alta posizione sociale e politica dei grandi proprietarî di greggi, moltiplicando i privilegi e gli abusi dei pastori, rendevano assai spesso insostenibile la situazione dei piccoli coltivatori.

I maggiori infatti fra i proprietarî di greggi erano associati nella Hermandad de la Mesta. Pascoli immensi erano loro riservati nelle regioni alte del nord e del centro dove le greggi passavano l'estate, o in quelle più basse del sud dove esse svernavano. La compagnia costituiva un potente corpo amministrativo, inteso non solo a difendere, ma ad estendere i suoi privilegi, in danno naturalmente dell'agricoltura e della popolazione agricola. I pascoli infatti non sono costituiti soltanto da demanî regi e comunali, ma anche da terre private, sottoposte al vincolo del pascolo per il corrispettivo di un canone fisso, che non poteva essere elevato, e infine dagli stessi campi arativi che, dopo il raccolto, dovevano essere lasciati aperti perché le greggi vi potessero pascolare liberamente. Aiutata da questi favori, la pastorizia spagnola attraversa tra il sec. XV e il XVI un periodo di prosperità straordinaria: la sola Compagnia della Mesta, che nel 1477, possedeva 2.694.032 pecore, avrebbe raggiunto, nel 1557, i 7 milioni.

Sull'esempio della Castiglia il regime della pastorizia ovina viene organizzato da Alfonso d'Aragona nel versante orientale del regno di Napoli, disciplinando la pratica antichissima della transumanza dai pascoli estivi dell'Abruzzo ai pascoli invernali delle Puglie, riservando esclusivamente al pascolo, sotto il vincolo demaniale, la maggior parte del Tavoliere, e tutelando i diritti dei pastori contro le pretese dei proprietarî delle terre, che avevano determinato frequenti e gravi conflitti. Con l'organizzazione della dogana della mena delle pecore, re Alfonso, mentre assicurava alla corona un'entrata cospicua, diede un impulso fortissimo all'allevamento ovino e alla produzione della lana.

Ma nonostante questa ripresa dell'allevamento e dell'economia pastorale in alcune regioni dell'Europa, il trionfo dell'agricoltura si fa dopo il Cinquecento sempre più esteso e decisivo. Nella stessa Inghilterra, dove grande proprietà e pastorizia sembravano due termini indissolubili, la forte richiesta e gli alti prezzi dei cereali finiscono per mettere in prima linea, dopo l'età elisabettiana, gl'interessi della coltura. Non si abbandona per questo l'allevamento, ma si cerca di conciliare, per quanto è possibile, il suo mantenimento con lo sviluppo della produzione granaria.

Dalla necessità di questa conciliazione deriva appunto quella che fu detta la rivoluzione agraria, l'introduzione cioè delle piante da foraggio nel sistema delle rotazioni triennali o quadriennali. Di questa trasformazione, che si compie dapprima in poche regioni e con grande lentezza, e che dopo la metà del Settecento si va facendo più rapida e si estende a gran parte dell'Europa, inducendo a uno sfruttamento sempre più intenso e completo di tutte le terre adatte alla coltura, alla soppressione quasi totale degli ultimi residui delle terre comuni e dell'antichissima consuetudine di lasciare al pascolo le terre seminative nell'anno di riposo o anche nei mesi che seguono la mietitura, di questa trasformazione soffre particolarmente l'allevamento ovino, il quale, quando si faccia eccezione per alcune praterie dei Paesi Bassi, e per qualche regione della Francia, dell'Inghilterra e dell'Irlanda, dov'esso si mantiene in forma industrializzata e razionale, è sempre più confinato nelle terre più povere per aridità o per altitudine. Il danno invece è risentito in misura assai minore dall'allevamento bovino che anzi, a trasformazione compiuta, finisce per trarre grande vantaggio dalla coltura intensiva delle piante da foraggio, che rende possibile il mantenimento, in tutte le stagioni, di un numero assai maggiore di animali da stalla. Ma in questi casi, che nel sec. XIX si fanno sempre più frequenti, è molto dubbio se si possa più parlare di pastorizia, come di un'attività distinta dall'agricoltura: ché anzi l'allevamento razionale dei bovini è dovunque considerato come un elemento prezioso della coltura intensiva e del progresso agrario.

La vera e propria pastorizia e in particolare l'allevamento delle pecore non scompaiono affatto dall'Europa e conservano l'antica importanza in Spagna, in Abruzzo, nel Lazio, in Sardegna, nella Penisola Balcanica e nella Russia meridionale; ma la produzione che se ne ritrae è di gran lunga inferiore ai bisogni di una popolazione che in 150 anni si è più che quadruplicata. Il posto che quei paesi occupavano nel rifornimento delle industrie europee è assunto ora dalle grandi pianure dell'emisfero australe; in particolare dall'Australia e Nuova Zelanda e dai paesi del Plata: da regioni cioè nelle quali su enormi estensioni di pascolo naturale non vive che una popolazione scarsissima, ed è possibile quindi che piccoli gruppi di pastori conducano greggi di migliaia di capi attraverso praterie sconfinate, facendo soste che durano fino all'esaurimento del pascolo e delle scarse acque potabili. Si riproducono quindi, nei continenti nuovi, condizioni che possiamo considerare simili a quelle caratteristiche di una gran parte d'Europa alla caduta dell'Impero romano d'occidente.

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