Partiti politici

Enciclopedia del Novecento (1980)

Partiti politici

Maurice Duverger

di Maurice Duverger

Partiti politici

sommario: Introduzione. 2. Differenti tipi di partito. a) I partiti di quadri. b) I partiti di massa. 3. Le funzioni dei partiti. a) I partiti e il potere politico. b) La funzione rappresentativa. 4. Bipartitismo e pluripartitismo. a) Il pluripartitismo. b) Il bipartitismo. 5. Il partito unico. a) I partiti unici comunisti. b) I partiti unici fascisti. c) I partiti unici dei paesi in via di sviluppo. 6. Conclusione. □ Bibliografia.

1. Introduzione

I partiti politici sono raggruppamenti organizzati in vista della conquista e dell'esercizio del potere politico. Sono nati in Europa e negli Stati Uniti, nel XIX secolo, insieme alle procedure elettorali e parlamentari, e si sono sviluppati parallelamente a esse. Si sono in seguito diffusi, con un certo ritardo, in America Latina, dove il loro funzionamento è stato spesso falsato da interventi dell'esercito, che si riscontrano talvolta, ma più di rado, anche in Europa.

Nei vecchi regimi aristocratici e monarchici il gioco politico si svolgeva in circoli assai ristretti e opponeva dei clan raccolti intorno a qualche signore o personalità influente. Lo stabilirsi di regimi parlamentari e la comparsa dei partiti non hanno, inizialmente, affatto modificato questa situazione. Ai clan costituiti intorno a principi, duchi, conti o marchesi si sono aggiunti quelli costituiti intorno a banchieri, commercianti, industriali, uomini d'affari. Più esattamente: i clan della seconda categoria, emersi già nelle vecchie monarchie europee, si sono sviluppati a danno dei clan della prima categoria. Così, a regimi che poggiavano sui nobili sono succeduti regimi poggianti sui notabili. A questa prima tappa corrispondono i ‛partiti di quadri', così come funzionavano nel XIX secolo. In seguito, essi si sono più o meno trasformati. Soprattutto si sono sviluppati, accanto a essi, i ‛partiti di massa', aperti a un gran numero di cittadini che possono quindi partecipare attivamente alla vita politica. Così, per gradi, al parlamentarismo dei notabili subentra un parlamentarismo delle organizzazioni. Ciò corrisponde a un'evoluzione verso la democrazia, malgrado la struttura delle organizzazioni generi anche delle tendenze oligarchiche (v. sotto, cap. 3).

D'altra parte, il sistema dei partiti si è esteso nel XX secolo al mondo intero. In Africa si sono costituiti grandi partiti, che combinano talvolta un inquadramento di tipo moderno con uno sottostante - su base etnica o tribale - di tipo tradizionale: l'oligarchia dirigente, ad esempio, è formata appunto dai capi tradizionali. In certe regioni dell'Asia si è talvolta sviluppato un amalgama dello stesso genere, in cui l'appartenenza al partito coincide approssimativamente con l'appartenenza al gruppo religioso o alle confraternite rituali. Spesso i partiti del Terzo Mondo sono per metà politici e per metà militari: possono tanto partecipare alle elezioni e ai parlamenti quanto animare guerriglie e rivoluzioni. Alcuni decenni or sono, certi partiti socialisti e i partiti comunisti hanno avuto in Europa questa stessa caratteristica.

I partiti comunisti europei hanno del resto mostrato un'eguale attitudine a funzionare sia nell'ambito di democrazie pluralistiche (per es. in Italia, Francia e Finlandia) che in sistemi a partito unico di regimi dittatoriali. Ciò corrisponde a un'ulteriore estensione dell'ambito dei partiti. Nati, all'inizio, nel quadro della democrazia liberale, nel XX secolo essi sono stati utilizzati dalle dittature, nella forma di partito unico, quando esse a loro volta hanno utilizzato procedure elettorali e parlamentari stravolgendone il significato. I partiti tendono così a divenire un'istituzione che funziona in regimi diversissimi. Essi costituiscono una delle forme dello sviluppo generale delle organizzazioni che inquadrano grandi masse di uomini, sviluppo che è in corso da mezzo secolo.

2. Differenti tipi di partito

La distinzione fondamentale resta quella fra partiti di quadri e partiti di massa. Essa corrisponde tanto a due tipi di partiti quanto a due categorie di regimi democratici: quelli precedenti il 1914 si fondavano essenzialmente sui notabili, mentre quelli contemporanei si fondano su grandi organizzazioni. Tuttavia, attualmente, partiti di quadri e partiti di massa coesistono in numerosi paesi, in particolare in Europa occidentale, dove i partiti socialisti e comunisti si sono affiancati ai preesistenti partiti conservatori e liberali. D'altra parte, molti partiti si trovano a mezza strada tra la categoria dei partiti di quadri e quella dei partiti di massa.

a) I partiti di quadri

I partiti di quadri si sono sviluppati in Europa e in America nel XIX secolo. Se si fa eccezione per gli Stati Uniti d'America (e nemmeno per tutti), per la Francia dopo il 1848, e per l'Impero tedesco successivamente al 1871, nell'Ottocento il suffragio risulta limitato dal censo o dalla proprietà. Anche quando il diritto di voto ha una larga estensione, l'influenza politica appartiene essenzialmente a una parte assai ristretta della popolazione. Le masse popolari ne sono escluse, rimanendo spettatrici piuttosto che protagoniste della vita politica. Tuttavia, nell'ultimo decennio del secolo, si fa sentire il bisogno di allargare il gioco politico. Da ciò nascono i primi partiti di massa, di cui ci occuperemo più avanti. Ma ciò comporta anche la trasformazione di alcuni partiti di quadri (particolarmente negli Stati Uniti con lo sviluppo delle ‛primarie') o la comparsa di forme nuove di partiti, a mezza strada tra i partiti di quadri e quelli di massa (Partito Laburista in Gran Bretagna).

1. Il modello europeo. - I partiti europei del XIX secolo esprimono un conflitto fondamentale tra due classi (o gruppi di classi): da un lato l'aristocrazia, dall'altro la borghesia. La prima, formata da proprietari fondiari, s'appoggia sulle campagne, dove vivono contadini generalmente analfabeti, inquadrati da un clero tradizionalista. La seconda, costituita da industriali, commercianti, grossisti, banchieri e finanzieri, liberi professionisti, si appoggia sulla folla degli impiegati e degli operai delle città, tra i quali - inizialmente con lentezza - si svilupperà più tardi il socialismo. Ciascuno di questi due gruppi si esprime attraverso un'ideologia che corrisponde ai propri interessi, pur travalicandone talvolta i confini.

L'ideologia liberale è stata forgiata per prima, a partire dalla rivoluzione inglese del XVII secolo (Locke), e poi dai filosofi francesi del XVIII secolo. Richiedendo l'eguaglianza giuridica, ma accettando la diseguaglianza delle fortune, essa corrisponde agli interessi della borghesia che vuole distruggere i privilegi dell'aristocrazia e le regolamentazioni corporative. Essa esprime però, nell'idea egualitaria, e soprattutto nella sua rivendicazione della libertà, aspirazioni comuni a tutti gli uomini. L'ideologia conservatrice non giunge a definire temi così generali: sembra più egoisticamente legata agli interessi dell'aristocrazia. Tuttavia, mantiene a lungo un impatto popolare considerevole, presentandosi come l'espressione della volontà divina. E dunque fortemente legata alla religione. Nei paesi cattolici, in cui la religione poggia su un clero gerarchizzato e autoritario, i partiti conservatori sono spesso dei partiti clericali (Francia, Italia, Belgio, ecc.).

Partiti conservatori da una parte, partiti liberali dall'altra: queste sono le due forme principali dei partiti europei nel XIX secolo. Ogni categoria comporta talvolta delle divisioni interne tra moderati ed estremisti (ad esempio, ‛legittimisti' e ‛orleanisti' tra i conservatori francesi; oppure ‛giacobini' e ‛liberali' propriamente detti). Raramente si trova una terza categoria distinta dalle due precedenti: il caso più notevole è quello dei partiti agrari scandinavi, sorta di partiti liberali rurali. Essi corrispondono a una classe media rurale che poggia su una lunga tradizione: nelle assemblee dei vecchi regimi monarchici si trovavano in Svezia non tre stati - clero, nobiltà, borghesia - ma quattro: i contadini liberi avevano una rappresentanza separata.

Questi partiti si sviluppano attraverso una lotta violenta, molto più profonda di quella degli attuali partiti europei. Conservatori e liberali si sono gettati a vicenda in prigione, combattuti con le armi alla mano, si sono perfino massacrati, nella Rivoluzione francese del 1789, nella reazione del 1815, nelle rivoluzioni del 1830 e 1848, nella Comune del 1871 e infine nelle lotte quotidiane che non cessavano mai neppure tra l'una e l'altra di queste crisi eccezionali. La guerriglia rurale non ha uno spazio rilevante in questa lotta, nella quale spiccano invece le rivolte urbane e le cospirazioni. Alcuni partiti dell'Ottocento europeo sono, perciò, più o meno legati a movimenti clandestini, dei quali il più famoso, ma non l'unico, è la Carboneria italiana: la loro struttura e la loro composizione sociale assomiglia un po' a quella dei tupamaros uruguaiani.

Una tale situazione è però eccezionale. I partiti europei di quadri sono essenzialmente, nell'Ottocento, strumenti di azione elettorale e parlamentare. Una volta al potere, i loro dirigenti utilizzano il braccio secolare dell'esercito o della polizia, ma il partito in quanto tale non è generalmente adatto all'azione violenta. I comitati di base assicurano, sostanzialmente, il sostegno morale e il finanziamento materiale dei candidati alle elezioni e il collegamento permanente tra l'eletto e gli elettori. L'organizzazione nazionale si sforza di coordinare le iniziative nelle assemblee degli eletti del partito. In generale i comitati locali mantengono un'ampia autonomia, e lo stesso dicasi dei singoli deputati. La disciplina di voto stabilita nei partiti britannici che sono i più antichi, poiché il Parlamento di Londra funziona da più lunga data - non è affatto imitata sul continente.

2. Il modello americano. - In origine i partiti americani ottocenteschi non differiscono granché dai partiti europei di quadri, salvo che lo scontro fra di loro è meno violento e meno ideologico. Nell'America settentrionale la lotta fra aristocrazia e borghesia, fra conservatori e liberali, si è svolta nella forma di guerra di Indipendenza: la Gran Bretagna incarnava il potere monarchico e nobiliare, gli insorti la borghesia e il liberalismo. Certo, l'identificazione è sommaria, poiché si trovano nel Sud alcuni aristocratici, e soprattutto uno spirito aristocratico fondato sulla grande proprietà fondiaria schiavista e paternalista. In questo senso la guerra di Secessione potrebbe essere considerata come una seconda versione della lotta fra conservatori e liberali. Malgrado tutto gli Stati Uniti sono, fin dalla loro nascita, una civiltà essenzialmente borghese, senza privilegi nobiliari e senza nobili, fondata su un senso profondo dell'eguaglianza - che aveva stupito Tocqueville - e della libertà individuale. Federalisti e antifederalisti, repubblicani e democratici si collocano tutti nella famiglia liberale: hanno la stessa ideologia di fondo, lo stesso sistema di valori fondamentali. Differiscono solo per certi obiettivi pratici, relativamente secondari. Questa situazione spiega il conformismo americano. La civiltà degli Stati Uniti si è sviluppata a partire da un'unica ideologia fondamentale, mentre la civiltà europea si è sviluppata nel conflitto tra due ideologie fondamentalmente opposte.

Riguardo alla struttura, i partiti americani sono poco diversi, inizialmente, da quelli europei; sono anch'essi formati da comitati di notabili locali, i cui legami reciproci sono però, a causa della struttura federale, ancora più deboli che in Europa. A livello di ogni Stato il coordinamento dei comitati locali conserva ancora una sua efficacia che vien meno a livello nazionale. Una struttura più originale si svilupperà dopo la guerra di Secessione, sia nel Sud, con lo sfruttamento del voto dei Negri, sia sulla costa orientale, con l'organizzazione del voto degli immigrati. L'estrema decentralizzazione americana fa sì che un partito possa stabilire una semidittatura locale in una città o in una contea, dato che può, con le elezioni, conquistarvi tutti i posti chiave: non soltanto il municipio e il potere politico, ma la polizia, le finanze, la giustizia, ecc. Compaiono così, a partire dalla struttura tradizionale dei partiti di quadri, gli ‛apparati'.

Invece che da notabili, il comitato di partito è formato talora da avventurieri o da gangsters che nel potere cercano solo un'occasione di profitti materiali. Essi sono fortemente dominati dall'autorità di un boss. Agli ordini del comitato, la circoscrizione elettorale è attentamente suddivisa, ogni settore è sorvegliato da un agente del partito, il ‛capitano', che ha il compito di controllare il voto degli elettori. A questi vengono resi dei servizi materiali e distribuito qualche privilegio, contrattando la promessa dei loro voti. Possono così costituirsi dei blocchi di voti in grado di garantire la maggioranza. Detenendo allora la direzione dell'amministrazione, della polizia, della giustizia, delle finanze, ecc., si assicura l'impunità all'apparato e ai suoi clienti e si hanno i mezzi per sviluppare senza rischi la corruzione, i traffici illegali, la prostituzione, il gioco. Nel periodo successivo alla prima guerra mondiale, il proibizionismo diede nuovo impulso agli apparati.

Questa degenerazione del meccanismo dei partiti non aveva però solo aspetti negativi. L'emigrante europeo che sbarcava negli Stati Uniti sperduto, isolato, in un mondo immenso e diverso, trovava un appoggio nell'organizzazione politica. Essa lo aiutava a trovare lavoro e alloggio in cambio del suo fermo appoggio elettorale. In un regime capitalista puro, in cui non esistevano servizi sociali, gli apparati e i boss li hanno in qualche modo sostituiti, accollandosi funzioni indispensabili alla vita collettiva. Il costo morale e materiale del sistema restava evidentemente elevatissimo. D'altronde la componente socioassistenziale non è sempre presente: è difficilmente riscontrabile nei carpet-baggers della ricostruzione del Sud e manca del tutto nel gangsterismo del periodo proibizionista.

Alla fine del XIX secolo gli eccessi degli apparati e dei boss e l'eccessiva angustia dei partiti hanno dato impulso al movimento delle ‛primarie'. Si trattava di togliere ai notabili dei comitati il diritto di designare i candidati alle elezioni, facendo eleggere questi direttamente dall'insieme dei cittadini in un prescrutinio organizzato ufficialmente come lo scrutinio vero e proprio. Fra il 1900 e il 1920 la maggior parte degli Stati adotterà progressivamente questo sistema, sebbene in forme diverse. Nelle primarie ‛chiuse' l'elettore si iscrive in anticipo come democratico o repubblicano e designa i candidati del partito che ha scelto. Nelle primarie ‛aperte' decide di votare per i candidati dell'uno e dell'altro partito al momento del prescrutinio, e in modo anonimo. Nelle primarie senza schieramento l'elettore può designare il candidato di un partito per un incarico (ad es. senatore) e il candidato del partito opposto per un altro incarico (ad es. rappresentante, sceriffo, ecc.).

Le primarie senza schieramento tendevano a distruggere i partiti; le altre miravano, piuttosto, a democratizzarli, aprendoli ai cittadini nella speranza di controbilanciare così l'influenza dei comitati. In pratica, questo risultato non è stato conseguito che in scarsissima misura, e i comitati suddetti conservano l'ultima parola sulla selezione dei candidati alle primarie, cioè dei candidati alla candidatura. Nelle primarie chiuse l'iscrizione degli elettori somiglia un po' all'iscrizione ai partiti di massa (che in quella stessa epoca cominciano a svilupparsi in Europa): ma senza quote e, soprattutto, senza influenza sulla scelta dei dirigenti e sul loro indirizzo.

3. Il modello laburista. - Nella sua prima forma (1900), il Partito Laburista britannico costituisce un modello nuovo di partito di quadri, anello di congiunzione con i partiti di massa. Esso è formato dalla federazione di sindacati, di società mutue, di cooperative, di club di intellettuali. Alla base ogni organizzazione aderente invia i suoi rappresentanti al comitato laburista di circoscrizione. Lo stesso meccanismo funziona al vertice, per il Congresso nazionale e l'Esecutivo del partito.

In una tale organizzazione non esiste l'adesione individuale; il partito laburista raggruppa unicamente i rappresentanti di organizzazioni che gestiscono i fondi da queste versati, designano in comune i candidati del partito alle elezioni e controllano l'attività degli eletti. Siamo di fronte a un partito di tipo nuovo, che poggia non su singoli notabili, riuniti a causa della loro personalità, ma su ‛notabili organici', se così si può dire, cioè su rappresentanti di organizzazioni. Alcuni partiti democratico-cristiani - per esempio il Partito Cristiano Sociale belga tra le due guerre e il Partito Popolare austriaco - hanno una struttura analoga: essi sono una federazione di sindacati, di organizzazioni agricole, di movimenti delle classi medie, di associazioni padronali, e così via. Dopo il 1918 il Partito Laburista britannico ha istituito anche le iscrizioni dirette, sul modello dei partiti socialisti continentali: i rappresentanti degli iscritti individuali si aggiungono a quelli delle organizzazioni per formare i comitati del partito, il cui carattere intermedio tra i partiti di quadri e quelli di massa risulta così ulteriormente accentuato.

b) I partiti di massa

I partiti di quadri raggruppavano solo qualche migliaio di persone, notabili per situazioni personali o rappresentanti di organizzazioni. I partiti di massa riuniscono centinaia di migliaia di iscritti, a volte milioni. Le dimensioni stesse dell'organizzazione comportano una trasformazione della sua struttura: da gruppi spesso informali, con limiti imprecisi e criteri di adesione scarsamente definiti, si passa a comunità fortemente strutturate. Il numero degli iscritti non è tuttavia il criterio per la definizione dei partiti di massa, malgrado il loro nome. Essenziale è che essi facciano appello alle masse, anche se queste non sempre rispondono, vale a dire che cerchino di raggruppare non solo persone influenti, conosciute e rappresentative, ma tutti i cittadini che accettano di entrare nel partito. Un partito di massa che non riunisca che pochi aderenti è però tale solo potenzialmente; esso conserverà ciononostante caratteri diversi da quelli di un partito di quadri.

1. Il modello socialista. - E stato il movimento socialista dell'Europa continentale a ‛inventare' verso la fine dell'Ottocento il partito di massa, e questo per tre ragioni principali. In primo luogo, si voleva formare ideologicamente e inquadrare gli operai e i salariati, che l'industrializzazione rendeva sempre più numerosi e ai quali l'estensione del diritto di voto conferiva una grande importanza politica. S'intendeva così sostituire i partiti di notabili, corrispondenti a una classe politica ristretta, con grandi organizzazioni popolari che permettessero al massimo numero di cittadini di partecipare alla scelta dei candidati alle elezioni e dei dirigenti politici e quindi di esercitare su di loro un controllo permanente. E c'era infine il proposito di raccogliere i fondi necessari alla propaganda e alle campagne elettorali mobilitando in modo regolare le risorse di strati poveri ma assai numerosi.

Si domanda dunque a tutti coloro che simpatizzano per la dottrina e gli obiettivi di un partito di aderire esplicitamente alla sua organizzazione. Ogni iscritto paga una quota regolare, generalmente frazionata attraverso l'acquisto di una tessera annuale e di bollini mensili. I membri del partito, così definiti, si raggruppano in sezioni locali che si riuniscono una o più volte al mese: queste riunioni sono una sorta di scuola serale che permette di dare una formazione politica. Se gli iscritti sono numerosi, il partito perviene a costituire in questo modo una possente organizzazione, che gestisce fondi considerevoli e diffonde le sue idee in una parte notevole della popolazione. Nel 1913 il Partito Socialista tedesco supera il milione di iscritti.

Una simile organizzazione avrà necessariamente una forte struttura interna. Occorre una registrazione precisa degli iscritti, ci vogliono tesorieri per riscuotere le quote, segretari per convocare e animare le riunioni, un apparato gerarchico per coordinare l'azione di migliaia di sezioni locali. L'abitudine all'azione collettiva e alla disciplina di gruppo, più sviluppata fra gli operai, attraverso l'azione sindacale e gli scioperi, che tra la borghesia e l'aristocrazia, favorisce un siffatto sviluppo dell'organizzazione del partito e la sua centralizzazione. Il termine ‛sezione', utilizzato da certi partiti socialisti, esprime appunto questa situazione, che è diversa dalla decentralizzazione, in genere molto spinta, dei partiti di quadri.

Per forza di cose una struttura tanto vasta tende a dare una grande influenza ai responsabili ai diversi livelli, e a costituire così una sorta di cerchia interna che esercita grandi poteri: più avanti studieremo questa tendenza oligarchica (v. sotto, cap. 3, È b, 2). I partiti socialisti si sono sforzati di arginarla, elaborando procedure democratiche di scelta e di controllo dei dirigenti. A tutti i livelli i responsabili sono eletti dai membri del partito. Ogni gruppo di base designa delegati ai congressi regionali o nazionali e ciascuno dispone di un numero di mandati proporzionale al numero dei membri del gruppo. I congressi, attraverso votazioni ‛per mandati', designano i candidati del partito e i suoi organi direttivi e, per mezzo di ‛mozioni', fissano la linea di condotta che gli organi eletti dovranno applicare. Talvolta sono previsti referendum che permettano di conoscere l'opinione di tutti gli iscritti sulle questioni fondamentali. Questo tipo di organizzazione è stato combinato da alcuni partiti socialisti con il modello laburista. Così il Partito Laburista inglese dopo la prima guerra mondiale ha reclutato direttamente degli iscritti i cui rappresentanti si sono aggiunti a quelli dei sindacati, delle società mutue, delle cooperative, ecc., per formare i comitati di partito. In Scandinavia e in Belgio il partito è rimasto in teoria più indipendente dalle altre organizzazioni popolari, ma in pratica ha sviluppato con esse numerosi legami. D'altronde la maggior parte dei partiti di massa hanno creato delle organizzazioni parallele e collegate - di giovani, di donne, ecc. - che permettono loro di allargare la propria influenza.

Questo modello di partito di massa è stato imitato da numerosi partiti non socialisti. Alcuni dei vecchi partiti europei di quadri, conservatori o liberali, hanno cercato di trasformarsi seguendo questo schema, che è stato poi spesso ricalcato ancor più direttamente nell'organizzazione dei partiti democratico-cristiani. Nell'uno e nell'altro caso il successo è stato per lo più solo parziale. Le classi medie e la borghesia delle società industriali capitalistiche accettano meno degli operai organizzazioni rigide e disciplinate, la cui necessità appare loro meno evidente, sia che si tratti dell'educazione politica, sia delle elezioni.

Per ragioni inverse, l'imitazione del modello socialista ha sortito miglior successo nei paesi in via di sviluppo, anche se, data la permanenza di una struttura fortemente inegualitaria e dato che lo Stato e l'economia sono nelle mani di una ristretta oligarchia che domina su masse poco evolute, in realtà il sistema dei partiti di quadri - come già nell'Europa dell'Ottocento - corrisponde meglio alla situazione: la mobilitazione delle masse rimane cioè illusoria, giacché, in luogo di un'effettiva partecipazione, esse non svolgono nella vita del partito che un ruolo di comparse.

2. Il modello comunista. - I primi partiti comunisti hanno inizialmente adottato l'organizzazione dei partiti socialisti, dai quali erano derivati per scissione. A partire dal 1924, per decisione dell'Internazionale (Komintern), si sono tutti adeguati al modello sovietico, diventando partiti di massa basati sull'adesione del maggior numero possibile di cittadini, anche se la selezione era, ed è ancora talvolta, più severa (necessità di una presentazione e di un periodo di candidatura). Questi partiti hanno però sviluppato un nuovo sistema di inquadramento degli iscritti. Innanzitutto hanno sostituito ai gruppi di base territoriali, stabiliti cioè in relazione al domicilio (comitati dei partiti di quadri, sezioni socialiste), gruppi di base secondo il luogo di lavoro. La ‛cellula di fabbrica' è il primo elemento originale dei partiti comunisti. Essa riunisce tutti gli iscritti che dipendono da una stessa ditta o da uno stesso stabilimento o magazzino o, più in generale, da una stessa istituzione professionale (scuola, università, facoltà). L'inquadramento dei membri del partito è, in questo modo, più stretto, poiché la solidarietà del lavoro è in generale, nelle città e nelle società industriali, più forte di quella del domicilio.

Permangono, beninteso, anche le cellule territoriali, per raggruppare i lavoratori singoli e utilizzare le solidarietà di quartiere. Ma esse costituiscono, in qualche modo, una sopravvivenza. La priorità è data alle cellule di fabbrica, cui, se possibile, ci si deve iscrivere di preferenza. Il sistema si è rivelato assai efficace e altri partiti lo hanno imitato, generalmente senza successo. Un tale sistema spinge ogni cellula a occuparsi di problemi corporativi e professionali piuttosto che di problemi politici. D'altro canto questi gruppi di base, generalmente più piccoli e dunque più numerosi delle sezioni socialiste, tendono a ripiegarsi ciascuno su se stesso. Per resistere a questa pressione centrifuga è necessaria una struttura molto forte e una grandissima autorità degli organi direttivi.

Proprio questo è il secondo tratto originale dei partiti comunisti. Tutti i partiti di massa tendono a essere centralizzati. I partiti comunisti lo sono più degli altri e, in particolare, più dei partiti socialisti. Tuttavia questo centralismo è definito ‛democratico', perché la discussione è per principio libera e dev'essere sviluppata a tutti i livelli, prima che venga presa una decisione: dopo, tutti hanno il dovere di applicarla. Le tendenze e le frazioni, che hanno talvolta lacerato e paralizzato i partiti socialisti, sono proibite nei partiti comunisti, che riescono generalmente a conservare la loro unità. Secondo le circostanze e i paesi la regola è applicata con maggiore o minore elasticità (il Partito Comunista italiano è, in Occidente, il più elastico mentre il Partito Comunista francese è stato monolitico sotto Stalin e un po' meno in seguito).

L'altro tratto originale dei partiti comunisti è il ruolo importante che vi gioca l'ideologia. Naturalmente tutti i partiti hanno una dottrina o, quanto meno, una piattaforma. I partiti socialisti europei erano molto dottrinari prima del 1914 e tra le due guerre, prima di divenire più empirici, se non più opportunisti. Nei partiti comunisti l'ideologia occupa un posto molto più importante. La prima preoccupazione del partito è di dare ai suoi iscritti una formazione marxista, attraverso la sua stampa, i suoi opuscoli, i suoi seminari e le sue scuole. Nei giornali, nei discorsi e in tutti i testi del partito i problemi non sono presentati in modo isolato, ma in rapporto alla dottrina, che essi servono a illustrare. Il marxismo non riguarda solo la vita politica, ma costituisce una concezione generale del mondo, una filosofia. L'importanza dell'ideologia nei partiti comunisti conduce alcuni a parlare, a questo proposito, di ‛religioni secolari' e a compararli alle Chiese centralizzate, come la Chiesa romana. Ma si dimentica in questo modo che la dottrina comunista è essenzialmente materialistica e razionalistica: essa è basata infatti - o pretende di esserlo - sull'osservazione, sull'esperienza, sul ragionamento, non sulla fede.

3. Il modello fascista. - Nell'Europa occidentale, si è affermato tra le due guerre in due ondate successive - l'una negli anni venti e l'altra negli anni trenta - un nuovo modello di partito di massa: quello fascista. Sebbene i partiti fascisti si sforzino anch'essi, come quelli socialisti e comunisti, di ottenere l'adesione del maggior numero possibile di persone, essi non pretendono però di essere espressione delle masse popolari. La loro dottrina è autoritaria ed elitaria. Essi pensano che la società debba essere diretta dai più adatti, cioè i più capaci, che sono un piccolo numero. I dirigenti del partito costituiscono appunto questa élite, raggruppata sotto l'autorità assoluta del capo supremo; la folla dei militanti è fatta per obbedire e la struttura del partito ha lo scopo di assicurare l'obbedienza.

Tale struttura somiglia a quella degli eserciti, anch'essi organizzati per assicurare l'obbedienza rigorosa di grandi masse di uomini a un piccolo numero. Uniformi, gradi, comandi, saluti, sfilate, disciplina senza discussioni: ritroviamo nei partiti fascisti gli elementi che hanno fatto la forza dei soldati di Federico II, modello di tutti gli eserciti. La somiglianza poggia su un altro elemento: la dottrina fascista insegna che il potere dev'essere preso da minoranze organizzate che utilizzano la forza. Il partito è dunque una milizia, addestrata alla lotta fisica, all'uso delle armi e ai combattimenti nelle strade, che devono assicurargli la vittoria sulle folle amorfe.

La gerarchia è dunque di tipo militare, generalmente ricalcata direttamente su quella dell'esercito: consiste in una piramide la cui base è formata da gruppi assai piccoli che, uniti gli uni agli altri formano gruppi sempre più ampi. Così nei reparti d'assalto nazionalsocialisti (SA) si distinguevano: la squadra (Schar) composta da 4 a 12 uomini; il plotone (Trupp) comprendente da 3 a 6 squadre; la compagnia (Sturm) comprendente 4 plotoni; il battaglione (Sturmbann) comprendente due compagnie; il reggimento (Standarte) comprendente da 3 a 5 battaglioni; la brigata (Untergruppe) comprendente 3 reggimenti; infine la divisione (Gruppe) comprendente da 4 a 7 brigate. Secondo le necessità si poteva dunque disporre di truppe più o meno numerose da lanciare nello scontro.

Rimane, rispetto all'esercito, una differenza importante. L'esercito costituisce, in generale, un meccanismo di inquadramento essenzialmente materiale, malgrado l'importanza data al morale delle truppe. Le organizzazioni fasciste poggiano anche sullo sviluppo di un'adesione fanatica a dottrine semplicistiche e irrazionali, che fanno appello a passi oni elementari e violente: nazionalismo, razzismo, anticomunismo. I membri delle milizie sono soldati, ma della specie dei monaci-soldati o dei crociati. Non va comunque dimenticato che intorno alle milizie, nucleo essenziale del partito, si ammettono anche - analogamente a quanto avviene nei partiti socialisti e comunisti - iscritti ‛civili', che non hanno però alcuna importanza e non giocano alcun ruolo.

Partiti molto grossi, costituiti secondo questo modello, si sono sviluppati in Italia e in Germania tra le due guerre e sono riusciti a prendere il potere. Negli altri paesi dell'Europa occidentale le organizzazioni fasciste hanno avuto un'estensione minore, ma si sono viste sorgere pressappoco dappertutto nello stesso momento. Le nazioni meno sviluppate dell'Europa orientale e dell'America Latina sono state ugualmente toccate dal contagio. La vittoria degli Alleati nel 1945 e il crollo di Mussolini e di Hitler, come anche la rivelazione degli orrori nazisti, hanno fermato la spinta fascista e provocato il suo regresso. La costituzione di partiti-milizie, armati e fanatizzati, rimane tuttavia uno strumento sempre efficace a disposizione delle classi dominanti per lottare contro i movimenti rivoluzionari. In questo senso, ‟è ancora fecondo il ventre che generò l'immonda bestia" (B. Brecht).

3. Le funzioni dei partiti

Che siano conservatori o rivoluzionari, che riuniscano notabili o inquadrino masse, che funzionino in una democrazia pluralistica o in una dittatura monolitica, i partiti assolvono nell'insieme alla stessa funzione: la partecipazione all'esercizio del potere politico. Nei regimi liberali ciò comporta anche una funzione di opposizione, che è anch'essa un aspetto del potere, come hanno ben capito gli Inglesi che fanno del leader dell'opposizione un personaggio ufficiale; partecipazione e opposizione si alternano generalmente in una competizione permanente di cui le elezioni sono le manifestazioni decisive. Queste funzioni dei partiti di fronte al potere sono inseparabili dal loro carattere rappresentativo: essi sono o si presume siano espressione di certe categorie della popolazione, di cui sono i mediatori rispetto al potere politico.

a) I partiti e il potere politico

Conquista, partecipazione, opposizione: queste sono le tre funzioni essenziali dei partiti rispetto al potere politico. Esse li distinguono dai gruppi di pressione che tentano non di entrare in questa dialettica del potere, ma di agire sul potere dall'esterno, di ‛fare pressione' su di esso dal di fuori.

1. La lotta per il potere. - Si possono distinguere a questo riguardo i partiti rivoluzionari, che cercano di conquistare il potere con la violenza (complotti, guerriglia, ecc.), e i partiti legalitari, che agiscono essenzialmente nel quadro elettorale. La distinzione non è sempre facile perché gli stessi partiti utilizzano talvolta tutti e due i metodi, sia simultaneamente, sia successivamente, secondo le circostanze. Negli anni venti i partiti comunisti giocavano la partita elettorale pur sviluppando un'azione sotterranea di natura rivoluzionaria. Oggi, nell'Europa occidentale utilizzano esclusivamente metodi legali, ma sono obbligati, al contrario, a utilizzare l'azione rivoluzionaria nei paesi dove è loro impedito il fare altrimenti. Nel XIX secolo i liberali agivano allo stesso modo, impiegando talvolta tecniche di complotto (Italia, Austria, Germania, Russia, Polonia), talvolta la battaglia elettorale (Gran Bretagna, Francia, ecc.).

I metodi rivoluzionari sono di natura assai varia. I complotti clandestini, con i quali gruppi di minoranza, energici e armati, si impadroniscono dei centri nevralgici del potere, presuppongono governi monarchici o dittatoriali in cui le masse popolari non giochino che un debole ruolo. Gli attentati terroristici a carattere spettacolare possono servire a mobilitare i cittadini e a mostrare l'impotenza del potere. All'inizio del XX secolo i sindacalisti di sinistra caldeggiavano lo sci opero generale rivoluzionario: l'arresto totale di ogni attività, paralizzando completamente la società, avrebbe messo il governo in ginocchio. La guerriglia rurale è stata molto utilizzata nei paesi prevalentemente agricoli: essa ha dato la vittoria ai comunisti cinesi, i quali hanno cercato poi di generalizzare questa loro esperienza. La guerriglia urbana è servita di base ai rivoluzionari europei del XIX secolo, ed è praticata anche oggi nella forma del terrorismo.

I partiti rivoluzionari sono poco numerosi rispetto a quelli legalitari. La scheda elettorale è l'arma normale dei partiti nella lotta per la conquista del potere; d'altro canto è sul terreno elettorale che nasce originariamente il partito politico. In questo campo i partiti esercitano una triplice funzione: organizzano la propaganda, selezionano i candidati, partecipano al finanziamento della campagna. La prima funzione è la più evidente. Il partito dà innanzitutto al candidato la sua etichetta, che serve da biglietto da visita per gli elettori. Questi ultimi possono così meglio distinguere i candidati, dato che le promesse e le dichiarazioni, per lo più, si somigliano tutte e non significano granché: sapere che il tale è comunista, il tal altro è socialista, quello è fascista e quell'altro liberale è molto più istruttivo. Il partito fornisce inoltre al candidato i militanti che attaccano i manifesti, distribuiscono i volantini, organizzano le riunioni, vanno di porta in porta, e così via. Tuttavia, il ruolo dei partiti in questo campo si va indebolendo nelle nazioni industrializzate, dove i candidati fanno sempre di più ricorso ad agenzie di pubblicità.

La selezione dei candidati resta invece una funzione essenziale dei partiti, che la traducono in pratica in tre forme principali. Nei partiti di quadri, i candidati sono designati dai comitati di notabili che costituiscono il partito: è quello che gli americani chiamano il sistema del caucus. In generale il comitato locale svolge, a questo proposito, il ruolo principale. Tuttavia, in alcuni partiti (Partito Conservatore britannico, Unione dei Democratici per la Repubblica in Francia, ecc.) la designazione è accentrata da un caucus nazionale. Nei partiti di massa la designazione è fatta dagli iscritti, in congressi regionali o nazionali, seguendo il metodo all'apparenza democratico del voto per mandato (v. sopra, cap. 2, È b, 1): in realtà i comitati direttivi svolgono un ruolo essenziale, dato che, in genere, gli iscritti ratificano le loro scelte. Negli Stati Uniti, infine, il meccanismo delle primarie ha stabilito un terzo sistema di selezione dei candidati: la designazione da parte degli elettori del partito secondo diverse modalità (v. sopra, cap. 2, È a, 2). I vari metodi non differiscono molto quanto ai risultati. I dirigenti dei partiti giocano sempre il ruolo essenziale nella designazione dei candidati, il che introduce in certa misura, nel gioco democratico, un meccanismo oligarchico di cooptazione. I congressi dei partiti di massa e le primarie americane apportano solo qualche limitazione al potere dei comitati direttivi.

Infine, i partiti hanno un ruolo importante nel finanziamento delle elezioni. I partiti di quadri hanno sempre nei loro comitati qualche notabile influente presso gli uomini d'affari, incaricato di raccogliere i loro contributi, che costituiscono il grosso del finanziamento delle elezioni e, in generale, delle attività del partito. Nei partiti di massa, anziché ricavare in questo modo grosse somme da pochi singoli, si raccolgono somme piccole, regolarmente versate (ogni anno o ogni mese) da un gran numero di persone: abbiamo già visto che questo sistema è una delle basi fondamentali dei partiti di massa.

Qualche volta la legge interviene nel finanziamento delle elezioni e dei partiti. Vi sono anzitutto norme che limitano le spese elettorali e prevedono il controllo delle risorse dei partiti: in generale sono inoperanti, perché è facile aggirarle. Esistono poi norme che stabiliscono una partecipazione dello Stato alle spese elettorali attraverso l'erogazione di fondi pubblici. Inizialmente limitata alle spese elettorali e basata sull'eguaglianza dei candidati (Francia), questa partecipazione tende attualmente a divenire un finanziamento del partito stesso e a essere calcolata proporzionalmente ai suffragi ottenuti nell'ultima elezione legislativa (Scandinavia e Italia). Una simile evoluzione è conforme alla logica della democrazia liberale.

2. La partecipazione al potere. - Ci occuperemo in questo paragrafo solo delle funzioni dei partiti nei regimi pluralistici: il ruolo del partito unico nelle dittature è analizzato più avanti (v. sotto, cap. 5). Tali funzioni consistono essenzialmente nell'inquadrare l'azione parlamentare, ed eventualmente di governo, dei candidati eletti. Sotto questo aspetto, è fondamentale la distinzione fra partiti elastici e partiti rigidi. Nei primi l'azione del partito sui suoi eletti è molto debole: assicura il loro coordinamento attraverso riunioni periodiche in cui essi confrontano i rispettivi punti di vista e definisce le linee generali; si tratta però di linee fluide e sono poche le decisioni comuni prese in queste riunioni. Ciascun parlamentare conserva una grande libertà d'azione: negli interventi ai dibattiti, nella partecipazione al governo e soprattutto nell'esercizio del voto. Nelle assemblee contano dunque gli individui piuttosto che i partiti. Questo è il caso dei partiti statunitensi, della maggior parte dei partiti liberali e conservatori europei, dei partiti di quadri in generale.

I partiti rigidi sono assai differenti. Le decisioni fondamentali della vita parlamentare - partecipazione al governo, votazioni importanti e, in particolare, voto di fiducia o di censura - vengono prese dagli organi di partito e sono vincolanti per gli eletti sotto pena di gravi sanzioni (generalmente l'espulsione definitiva). La conseguenza è un capovolgimento nella natura delle assemblee, nelle quali non contano più gli individui, ma i gruppi disciplinati. Un tale sistema si è inizialmente affermato in Gran Bretagna, in cui i partiti conservatore e liberale del XIX secolo erano già rigidi, fatto eccezionale per dei partiti di quadri. Si è in seguito sviluppato con la crescita dei partiti socialisti che hanno tutti adottato una struttura rigida. Gli altri partiti di massa (comunisti, fascisti, ecc.) hanno seguito la stessa strada, e così pure i partiti democratico-cristiani e alcuni partiti conservatori e liberali.

Attualmente, la maggior parte delle democrazie dell'Furopa occidentale poggia su partiti rigidi. Un regime politico fondato su organizzazioni è qui subentrato a un regime fondato su notabili. Ciò ha reso i governi più stabili e più efficaci. Se il primo ministro inglese è sicuro di non essere rovesciato dal Parlamento, se riesce sempre a far votare i suoi progetti di legge dai deputati, non è solo per il fatto che un unico partito detiene la maggioranza, ma ancor più perché si tratta di un partito rigido, in cui cioè tutti i deputati votano secondo le consegne ricevute dai propri organismi direttivi, e in cui tali consegne dipendono largamente dal leader, che è appunto il primo ministro. Nel quadro del sistema americano del partito elastico, un governo parlamentare a Washington rischierebbe d'essere debole e instabile quanto quelli della Terza o della Quarta Repubblica Francese. Nel caso di maggioranze di coalizione, la rigidità dei partiti assicura la stabilità delle alleanze, come si può vedere in Scandinavia, nei Paesi Bassi, nella Repubblica Federale Tedesca.

Il carattere rigido dei partiti provoca talvolta un conflitto tra parlamentari e dirigenti interni . Nel Partito Conservatore e nel Partito Liberale britannici del XIX secolo il conflitto non esisteva poiché i parlamentari erano al tempo stesso i dirigenti interni: essi designavano il leader e prendevano le decisioni concernenti le votazioni e la partecipazione al governo. Nel Partito Laburista e nei partiti di massa il conflitto si sviluppa poiché esistono dirigenti interni distinti dai parlamentari: rappresentanti delle organizzazioni che costituiscono il partito nel primo caso, eletti dagli iscritti nel secondo. Di norma i comitati direttivi sono formati da una maggioranza di dirigenti interni: i parlamentari vi si trovano in minoranza. L'esercizio del voto e la partecipazione al governo sono così determinati dall'esterno, almeno parzialmente.

Il conflitto è tanto più grave in quanto riflette le differenze fra due comunità di base: quella degli elettori, che designano i parlamentari, e quella dei militanti, che designano i dirigenti interni. I primi sono naturalmente meno attaccati al partito, meno sensibili alla sua ideologia, più moderati e meno politicizzati di quanto lo siano i secondi. Così i conflitti tra parlamentari e dirigenti interni sono stati vivi in alcuni partiti socialisti europei tra il 1918 e il 1939, quando era sensibile lo scarto tra l'elettorato, già largamente integrato nel sistema capitalista, e gli iscritti, più fedeli all'ideale collettivista. Dopo il 1945 c'è stato un riavvicinamento tra iscritti ed elettorato, e i conflitti si sono smussati (salvo che in circostanze speciali: particolarmente il voto sulla Comunità Europea di Difesa da parte del Partito Socialista francese). In ogni modo si osserverà che il conflitto non opponeva la totalità dei parlamentari alla totalità dei dirigenti interni, ma nasceva dalla diversità degli orientamenti maggioritari in ciascuna delle categorie. D'altronde, nei partiti molto disciplinati e centralizzati - quali i partiti comunisti - simile conflitto non è mai esistito, non essendo contestata da parte dei deputati l'autorità dei dirigenti interni.

3. La funzione di opposizione. - Nelle democrazie pluraliste l'opposizione e la partecipazione al potere non sono radicalmente separate. Uno degli organi del potere, il parlamento, è anche il luogo privilegiato per l'esercizio dell'opposizione. La distinzione fra partiti elastici e partiti rigidi, che abbiamo appena ricordato, vale non solo per i partiti al governo, ma anche per quelli all'opposizione. I voti di censura o di sfiducia, i voti di rigetto dei progetti di legge o del bilancio, le interrogazioni ai ministri e al governo: in generale, tutta l'opposizione in seno al parlamento si svolge in modo diverso a seconda che sia esercitata da un partito elastico o rigido.

Sotto certi aspetti la differenza è addirittura maggiore all'opposizione che al governo. L'esercizio del potere, infatti, stabilisce una solidarietà fra quanti vi sono associati: costituisce per essi un cemento di unità. In un sistema di partiti elastici l'indisciplina è quindi più grave all'opposizione che al governo. Solo dei partiti rigidi possono costituire una forza d'opposizione sufficientemente solida per controbilanciare il potere. Al tempo stesso, la disciplina permette di dare all'opposizione il carattere di un'‛alternativa' alla maggioranza: lo sbocco del sistema è il ‛gabinetto ombra' inglese, che abitua gli elettori all'idea che è pronta una équipe di ricambio. Ciò tuttavia presuppone che l'opposizione sia formata da un solo partito o da una coalizione abbastanza ristretta: se è divisa fra un partito di estrema destra e un partito di estrema sinistra risulta paralizzata. Ma perfino in questo caso la disciplina dei partiti rigidi le conferisce minore debolezza.

I partiti sono, d'altro canto, gli organi che mantengono il contatto fra l'opposizione e l'opinione pubblica. Svolgono questo ruolo anche al governo, ma in tal caso esso è meno necessario, perché l'apparato dello Stato già consente il contatto. Dato che l'opposizione non dispone invece di nessuno strumento del genere, la funzione dei partiti è in questo caso essenziale; e rappresenta anzi una necessità in una democrazia pluralistica, dove i partiti d'opposizione, dando espressione alle proteste contro le decisioni del governo, svolgono un ruolo in certo modo affine a quello dei tribuni della plebe nella Repubblica romana. Ciò giustifica il fatto che i partiti di opposizione abbiano un ruolo quasi istituzionale, come in Gran Bretagna, e siano addirittura sovvenzionati dallo Stato - come tutti gli altri partiti - in alcuni paesi europei.

b) La funzione rappresentativa

I partiti non sono solo organizzazioni di natura tecnica per designare candidati, finanziare elezioni e inquadrare parlamentari. Sono anche raggruppamenti di uomini, sono collettività, comunità.

1. La comunità partitica. - A questo proposito si pongono problemi diversi: quello della comunità costituita dal partito stesso e quello della o delle categorie sociali di cui esso è espressione. L'uno e l'altro sono problemi assai complessi. I classici partiti di quadri raggruppano alcune migliaia di persone tramite una piramide di comitati locali e regionali riuniti in una federazione alquanto elastica. L'adesione ai comitati non riveste carattere formale e spesso è abbastanza difficile distinguere gli autentici membri del partito dalla clientela che gravita loro intorno. Ad ogni modo la comunità partitica è qui formata da professionisti della politica o comunque da persone molto interessate, che vi consacrano una parte notevole della loro attività. All'interno dei comitati, si formano naturalmente cricche intorno a questa o quella personalità; anche la ripartizione dell'autorità nell'insieme del partito avviene soprattutto secondo i clan costituiti intorno ai vari dirigenti nazionali, piuttosto che in modo formale organizzato.

Nei partiti di massa la comunità partitica è meglio delimitata e più rigorosamente organizzata. Uno specifico meccanismo permette di determinare chi è membro del partito e chi non lo è. Firmare una scheda di iscrizione significa entrare nella comunità. Per restarvi è necessario in seguito pagare regolarmente una quota. I confini del partito sono dunque, in teoria, esattamente definiti. In pratica le cose sono meno semplici. Molti iscritti non vanno quasi mai alle riunioni e hanno con il partito legami molto deboli: nei partiti socialisti, di solito, ciò avviene nella misura dei due terzi o dei tre quarti dei membri. Inversamente, certe persone formalmente non aderenti al partito, ne seguono tuttavia assai dappresso la vita, in particolare attraverso le organizzazioni annesse (movimenti giovanili, associazioni femminili, sindacati, club diversi, ecc.).

Comunque sia, quando un partito di massa ha successo rappresenta un'importante comunità: 800.000 membri per il Partito Socialdemocratico tedesco, 800.000 per il Partito Socialista svedese (cioè un decimo della popolazione), un milione di membri per il Partito Comunista italiano, 400.000 per il Partito Comunista francese, ecc. Per le loro dimensioni, tali collettività sono costrette - a differenza dei partiti di quadri - a darsi una struttura formale precisa e complessa, con gruppi di direzione ai vari livelli e responsabili incaricati delle diverse funzioni. All'interno della massa degli iscritti si costituisce così una cerchia ristretta di persone più direttamente associate alla vita del partito, cerchia che, nell'insieme, somiglia alla collettività di notabili che forma il partito di quadri.

Tutti i partiti includono, inoltre, una collettività più larga, quella dei loro elettori. In generale, nei paesi di solida democrazia, la maggioranza dell'elettorato resta stabile per un lungo periodo e i cambiamenti di orientamento riguardano solo una piccola minoranza. Perciò i partiti di quadri conoscono due gruppi concentrici: quello degli attivisti e quello degli elettori. Al contrario nei partiti di massa una terza cerchia si interpone fra le due precedenti: quella degli iscritti.

Sul terreno elettorale, s'incontra il problema delle categorie sociali di cui i partiti sono - o si ritiene siano - espressione. Per i marxisti la soluzione è relativamente semplice: i partiti sono gli strumenti politici delle classi sociali, che per il loro tramite agiscono nella vita politica. Non si tratta di una rappresentanza soggettiva, legata al fatto che gli elettori di una classe votano per un partito, quelli di un'altra classe per un altro partito e così via. Si tratta di una rappresentanza ‛oggettiva', legata al fatto che il partito esprime e difende gli interessi di una classe determinata: beninteso, nella misura in cui i membri di tale classe ne sono coscienti, appoggiano effettivamente il partito con i loro suffragi e la loro adesione. Ma anche se non ne sono coscienti e non appoggiano il partito, non per questo esso cessa di essere espressione della classe di cui difende gli interessi.

Questa teoria solleva numerose difficoltà, in particolare circa la definizione delle classi sociali e il criterio per determinare i loro interessi oggettivi. Non si deve tuttavia dimenticare che nell'Europa dell'Ottocento, in cui il marxismo è nato, i partiti si sono sviluppati essenzialmente dalle classi sociali: i conservatori esprimevano l'aristocrazia, i liberali la borghesia e i socialisti il ‛proletariato', anche se la determinazione di queste tre classi non era rigorosa, nè era del resto assoluta la loro corrispondenza con i partiti. D'altro canto, partiti che sembrano poggiare su categorie sociali diverse dalle classi si rivelano spesso, in realtà, basati proprio su di esse: per esempio, molti partiti religiosi o nazionalisti mascherano appunto la difesa di interessi di classe. Tuttavia certi partiti sono effettivamente espressione di gruppi differenti dalle classi: per esempio minoranze etniche o religiose, sette, e così via. D'altra parte, nelle società industriali le classi assumono una struttura molto complessa e fortemente diversificata: la corrispondenza tra esse e i partiti tende probabilmente ad attenuarsi.

Può inoltre accadere che il richiamo stesso esercitato da un partito divenga il fondamento di una comunità particolare. La visione idealista dei liberali del XIX secolo, secondo cui i partiti sono gruppi basati sulle dottrine cui si aderisce perché sono considerate giuste, è assai distante dalla realtà. Un'ideologia esprime in generale gli interessi e gli obiettivi di una categoria sociale, che le preesisteva e la utilizza nella propria rivalità con altre categorie sociali. Tuttavia, rimane vero che una parte degli iscritti e dei militanti di un partito lo ha scelto proprio sulla base di un atteggiamento ‛idealistico': il liberalismo e il socialismo, in particolare, hanno in questo modo esteso la loro influenza molto al di là delle classi di cui esprimono gli interessi. Infine, non è da dimenticare che l'adesione a un partito risulta talvolta da una tradizione familiare o locale, senza altri fondamenti: alcuni americani sono repubblicani o democratici di padre in figlio. Ciò appare come una degenerazione del sistema.

2. La tendenza oligarchica. - I partiti politici moderni costituiscono una delle forme dello sviluppo generale - in atto da circa un secolo e mezzo - delle organizzazioni che inquadrano grandi masse umane. Altre forme sono costituite dai sindacati operai, dagli eserciti, dalle chiese, dalle grandi aziende, dalle grandi amministrazioni ecc. Tutte le organizzazioni hanno come effetto la sottomissione - diretta o indiretta - di tutti gli uomini che inquadrano all'autorità di un gruppo dirigente: tendono così a porre una maggioranza sotto il controllo di una minoranza, secondo la ‛legge ferrea dell'oligarchia' formulata oltre mezzo secolo fa (1911) da R. Michels proprio a proposito dei partiti politici. Sennonché questi ultimi - e altre organizzazioni come i sindacati operai, alcuni movimenti contadini, ecc. - hanno anche lo scopo di permettere ai propri membri di esercitare realmente le loro prerogative di cittadini. I partiti politici e le altre organizzazioni dello stesso tipo poggiano dunque su una contraddizione di fondo: da un lato, sono necessari all'esercizio della democrazia, dall'altro, tendono a distruggerla o almeno a indebolirla.

Non vi è democrazia senza partiti politici. Perché i cittadini possano scegliere con cognizione di causa il loro deputato o il loro presidente è necessario che conoscano le tendenze e gli orientamenti dei diversi candidati. I programmi e le promesse di ciascuno non sono a questo proposito sufficienti: per ottenere il massimo dei suffragi tutti cercano di evitare gli argomenti scottanti, le scelte chiare, le questioni controverse; tendono tutti a parlare lo stesso linguaggio, cioè a camuffare il proprio pensiero. È solo il fatto che l'uno sia socialista, l'altro conservatore o liberale, l'altro comunista, che permette all'elettore di vederci un po' chiaro. In parlamento la disciplina di partito limita la possibilità degli eletti di mutare opinioni e politica, e garantisce una (relativa) continuità alla scelta fatta dagli elettori. Più in generale, i partiti permettono il dialogo politico, sintetizzando le differenti posizioni in gioco, delle quali ciascuno di essi è un incarnazione più o meno compiuta. Perfino il partito unico assicura un certo contatto tra il popolo e il potere, contatto inesistente nelle dittature senza partito.

Ma i partiti, come ogni altra organizzazione che inquadri degli uomini, tendono a manipolare i propri membri, a piegarli alle direttive definite dalla cerchia interna dei dirigenti, che tende anch'essa a sfuggire al controllo degli iscritti e a perpetuarsi attraverso il metodo della cooptazione. Nei partiti di quadri gli elettori sono manipolati da comitati in cui il potere è esercitato da un certo numero di personaggi, secondo il meccanismo dei clan che abbiamo descritto. Nei partiti di massa i dirigenti sono in teoria designati dai loro iscritti, ma di fatto vengono rielette sempre le stesse persone, che tengono solidamente in mano l'apparato e dispongono così di tutti i mezzi di manipolazione con cui perpetuare la propria posizione. Nè si tratta del resto di una manipolazione materiale - scrutini truccati ecc. - ma di una manipolazione morale: i dirigenti hanno i mezzi per conservare la fiducia degli iscritti.

Le democrazie pluralistiche poggiano dunque, più o meno, sulla competizione di oligarchie rivali. Nelle dittature l'apparato del partito rafforza l'autorità del capo e nel contempo lo mette in contatto con le masse. Tuttavia la tendenza oligarchica non può mai dispiegarsi liberamente. Perfino in un partito unico non è possibile ignorare totalmente l'opinione della base, e ancor meno è possibile nei partiti competitivi dei regimi liberali. La ‛legge ferrea dell'oligarchia' non funziona da sola, ma deve integrarsi sempre con la necessità di tener conto delle masse inquadrate nell'organizzazione. L'esperienza mostra che, se la manipolazione può essere spinta assai avanti quando l'inquadramento è monopolistico, essa resta più limitata in un sistema di inquadramento concorrenziale.

Ma, soprattutto, l'oligarchia che tende a costituirsi all'interno dei partiti è meno oligarchica, se possiamo dire così, delle oligarchie politiche precedenti, fondate sulla nascita o sul censo. La formazione dei partiti, e soprattutto dei partiti di massa, ha permesso l'emergere di élites politiche di più diretta derivazione popolare, attraverso procedure meno lontane dalla democrazia di quelle delle aristocrazie ereditarie. Ad ogni modo, nessuna democrazia moderna può funzionare senza partiti. Lo svilupparsi, al loro interno, di tendenze oligarchiche rivela semplicemente i limiti pratici di ogni regime democratico. Bisogna però prendere coscienza del fatto che questi limiti tendono a divenire più angusti a causa dell'evoluzione delle società moderne verso tecnostrutture che rafforzano la ‛legge ferrea dell'oligarchia'.

4. Bipartitismo e pluripartitismo

Bipartitismo e pluripartitismo sono le due varianti del sistema pluralistico che caratterizza le democrazie liberali. Il sistema pluralistico si oppone al partito unico, che costituisce la forma moderna delle dittature e che sarà studiato nel capitolo seguente. La distinzione fra bipartitismo e pluripartitismo non è sempre così chiara come si potrebbe credere. Esistono sempre, in un sistema bipartitico, piccoli partiti oltre ai due maggiori. Non se ne tiene però conto se non impediscono all'uno o all'altro dei due partiti maggiori di raccogliere da solo la maggioranza assoluta dei seggi parlamentari. Questo è, ad esempio, il caso della Gran Bretagna. Ma si trovano anche situazioni intermedie: l'Austria e la Repubblica Federale Tedesca sono, ad esempio, attualmente vicine al bipartitismo senza poter essere completamente inserite in questa categoria. Vedremo d'altronde che la definizione di bipartitismo non è una faccenda meramente numerica; intervengono infatti anche altri elementi tra cui, in particolare, la disciplina interna.

a) Il pluripartitismo

Nei paesi anglosassoni vi è la tendenza a considerare il bipartitismo come normale e il pluripartitismo come eccezionale. Sembra vero piuttosto il contrario. Il bipartitismo, che funziona soprattutto in Gran Bretagna, negli Stati Uniti e in Nuova Zelanda (per limitarsi alle nazioni industriali), è molto più raro del pluripartitismo, che si estende a quasi tutta l'Europa occidentale, al Canada, all'Australia, al Giappone, a Israele, all'India, ecc.

1. Le basi sociali del pluripartitismo. - Il pluripartitismo sembra corrispondere meglio all'evoluzione delle forze sociali nelle nazioni industrializzate. Nell'Europa occidentale almeno tre grandi categorie di partiti si sono sviluppate a partire dall'inizio del XIX secolo: i partiti conservatori, i partiti liberali e i partiti socialisti. Ciascuna corrisponde nel contempo a una classe sociale, a un'ideologia politica e a un'organizzazione. Dopo la prima guerra mondiale sono emerse altre categorie di partiti, inizialmente con caratteristiche meno originali, dato che - piuttosto che categorie veramente nuove - erano il frutto di un frazionamento o di una trasformazione di partiti preesistenti. I partiti comunisti si sono in genere organizzati in seguito a scissioni di partiti socialisti preesistenti. Il fascismo è una forma nuova di conservatorismo. I partiti democratico-cristiani hanno cercato di raggruppare socialisti moderati, conservatori moderati e liberali.

A fianco di queste grandi formazioni di base - conservatori, liberali, socialisti, comunisti, democristiani, fascisti - si trovano, in taluni paesi, delle tendenze particolari. In Scandinavia si è sviluppato, a partire dal XIX secolo, un Partito Liberale Rurale, distinto sia dal Partito Conservatore che dal Partito Liberale propriamente detto: ciò corrisponde a una vecchia tradizione di rappresentanza contadina separata nelle assemblee degli stati. Nei Paesi Bassi la tendenza conservatrice fin dall'inizio si è scissa in due partiti, uno cattolico e l'altro protestante, mentre quest'ultimo si è in seguito diviso in ‛antirivoluzionari' e ‛cristiani storici'. In Francia, moderati ed estremisti hanno in genere costituito - all'interno di ogni categoria - partiti distinti: orleanisti e legittimisti, liberali e giacobini ecc. In numerosi paesi le minoranze etniche sono servite da base a partiti nazionalisti che si sono aggiunti agli altri partiti o ne hanno provocato la scissione.

Senza dubbio queste tendenze alla moltiplicazione dei partiti non devono essere esagerate. Per esempio, i tre grandi gruppi - conservatori, liberali e socialisti - non si sono semplicemente contrapposti gli uni agli altri. La lotta politica ha inizialmente posto in conflitto i primi due. La comparsa del socialismo ha sconvolto i termini dello scontro, spingendo a un ravvicinamento conservatori e liberali per la difesa comune della libera impresa e del capitalismo. La logica del sistema avrebbe dovuto portare alla fusione dei conservatori e dei liberali in un partito ‛borghese' avverso ai socialisti, cioè alla trasformazione di un bipartitismo in un altro. Ciò, come vedremo più oltre, è avvenuto in Gran Bretagna. Ma le organizzazioni resistono sempre alla pressione delle forze sociali che tendono a farle scomparire: alcuni partiti liberali indipendenti, benché ridotti e malgrado non corrispondano alle strutture e ai bisogni delle società attuali, sono riusciti a preservare la propria indipendenza, resistendo alle pressioni che li spingevano a fondersi con i vecchi partiti conservaton in una grande formazione del tipo dell'attuale Partito Conservatore inglese, o della Democrazia Cristiana tedesca o italiana.

2. Le basi tecniche del pluripartitismo. - Il processo di sviluppo delle società industriali, quale si è svolto in Europa, tendeva piuttosto a moltiplicare il numero dei partiti, secondo lo schema che abbiamo appena descritto. Intervengono però dei fattori tecnici che possono accelerare o frenare il processo in questione. Il più noto è il sistema elettorale. Nel 1951 si è cercato di riassumerne gli effetti attraverso queste tre formule: a) la rappresentanza proporzionale tende verso il pluripartitismo; b) il sistema maggioritario a un turno (anglosassone) tende verso il bipartitismo; c) il sistema maggioritario a due turni a un pluripartitismo temperato dalle alleanze. Riguardo al pluripartitismo, la prima formula è la più importante, visto che lo scrutinio maggioritario a due turni è assai raro e ha funzionato solo nell'Impero tedesco (1871-1914) e nella Francia della Terza (1871-1940) e della Quinta Repubblica (dopo il 1958).

Non si può dire che la proporzionale abbia realmente l'effetto di moltiplicare i partiti, come troppo spesso si sostiene. I partiti rappresentano forze sociali e una legge elettorale, o qualsiasi altro strumento tecnico, non può farli scaturire dal nulla. La verità è che la proporzionale non oppone alcun argine alla comparsa di nuovi partiti e non esercita alcuna pressione per la scomparsa di quelli vecchi. Si potrebbe dire che essa è neutra, passiva. Nei sistemi maggioritari i piccoli partiti sono sempre più o meno svantaggiati: ciò ostacola i nuovi venuti o i partiti in declino, e limita le scissioni e le spaccature dei partiti esistenti. La proporzionale ha così salvato dalla scomparsa il Partito Liberale belga, il Partito Liberale austriaco, il Partito Liberale tedesco; ha favorito la comparsa dei partiti fascisti nell'Europa degli anni 1920-1940, quella dell'MRP nella Francia del 1945, ecc.

Lo scrutinio maggioritario a due turni (sistema francese) è meno neutrale e meno passivo, ma è un poco svantaggioso per i partiti deboli. Tuttavia lascia loro grandi possibilità, attraverso il secondo turno, a condizione che siano disposti a entrare nelle alleanze elettorali. Grande è la differenza rispetto al meccanismo rigido del sistema maggioritario a un solo turno, che spinge molto energicamente nel senso del bipartitismo, come vedremo più avanti. Non si dimentichi, tuttavia, che l'analisi del sistema maggioritario a due turni è molto difficile a causa della sua rarità: le assemblee dell'Impero tedesco non avevano che scarsi poteri decisionali, e la Francia tra il 1871 e il 1939 e dopo il 1958 costituisce il solo esempio di nazione industriale moderna che adotti questo sistema elettorale.

Un altro fattore tecnico sembra sia costituito dalla stabilità o instabilità del regime politico. Nella Francia del XIX secolo, ad esempio, sembra che il frequente mutamento di regime costituisse un elemento supplementare di divisione politica, in aggiunta al gioco delle forze sociali che abbiamo descritto. Era possibile trovare così - tra il 1830 e il 1848 - conservatori contrari e conservatori favorevoli a Luigi Filippo, e - tra il 1851 e il 1870 - conservaton contrari e conservatori favorevoli a Napoleone III, come pure liberali favorevoli e liberali contrari. Fenomeni analoghi sembrano aver accresciuto il numero dei partiti tedeschi dopo la prima guerra mondiale, quando la contestazione della Repubblica di Weimar si aggiungeva - attraversandoli - agli altri conflitti politici. È d'altronde possibile discutere se si tratti di un dato ‛tecnico' o ‛politico', dal momento che la struttura e la natura di un regime, al di là dell'assetto tecnico dei poteri pubblici, mettono in gioco l'organizzazione fondamentale della società.

Lo stesso può dirsi di un altro fattore che favorisce il pluripartitismo: se, all'interno di un dato schieramento, c'è una forte ala estremista, sarà difficile che i moderati accettino di confluire con gli estremisti in un unico partito; prevarrà piuttosto la tendenza a formare due organizzazioni rivali. Così la forza dei ‛giacobini' tra i liberali francesi del XIX secolo ha contribuito a impedire il formarsi di un unico grande partito liberale come in Gran Bretagna. Ugualmente, la forza degli ultras tra i conservatori ha rappresentato un ostacolo allo sviluppo di un grande partito conservatore. Il fenomeno, beninteso, non è a senso unico: la divisione dei liberali ha a sua volta favorito in seguito il giacobinismo e quella dei conservatori l'oltranzismo.

3. Il funzionamento del pluripartitismo. - La distinzione tra pluripartitismo e bipartitismo è capitale, poiché corrisponde a quella fra due tipi di regimi politici occidentali. Alcuni pensano che, per la comprensione del funzionamento delle istituzioni politiche dell'Occidente, la distinzione fra regimi bipartitici e regimi pluripartitici sia più importante di quella fra regimi parlamentari e regimi presidenziali. In un regime bipartitico, in effetti, il governo dispone di una maggioranza sicura in parlamento, formata da un solo partito: vi sono dunque garanzie di durata e di efficienza. Oggi si tende a definire questo sistema ‛parlamentarismo maggioritario'. In un regime pluripartitico, al contrario, è assai raro che un partito disponga, da solo, della maggioranza parlamentare. Dovendo di conseguenza poggiare su coalizioni, caratterizzate inevitabilmente da una maggiore fragilità ed eterogeneità, i governi saranno meno forti e meno stabili. Si tende a definire questo sistema ‛parlamentarismo non maggioritario'.

In realtà, la distinzione fra parlamentarismo maggioritario e non maggioritario non coincide esattamente con quella fra bipartitismo e pluripartitismo. Innanzitutto, se entrambi i partiti sono elastici e non assoggettano a disciplina il voto dei loro deputati (come è il caso degli Stati Uniti), la maggioranza numerica di un unico partito non significa nulla: più avanti torneremo su questa situazione. Inoltre può succedere che anche in un sistema pluripartitico un partito detenga da solo la maggioranza assoluta dei seggi parlamentari. Se si tratta di un fatto eccezionale - come nella Germania federale, in Italia e in Belgio nel corso di alcune legislature successive al 1945 - la logica del sistema permane immutata. Diversamente vanno le cose se una tale maggioranza si perpetua per un lungo periodo; si ha allora una situazione di partito dominante: questo è stato il caso dell'India dal 1950 al 1969.

Si noterà come si tratti di un paese dove non vigeva la proporzionale: ciò è importante, poiché il Partito del Congresso, non avendo mai ottenuto la maggioranza dei suffragi, poteva dominare in parlamento grazie al sistema maggioritario. Si noterà ancora come si tratti di un paese di recente indipendenza, in cui il partito dominante era stato l'animatore principale della lotta di liberazione ed era il solo che si presentasse come un partito nazionale, mentre i suoi avversari avevano un'influenza esclusivamente locale; fenomeni analoghi sono frequenti in situazioni simili (Africa del Nord, Africa Nera negli anni immediatamente successivi all'indipendenza). Comunque sia, il meccanismo del partito dominante ha dato all'India venti anni di stabilità politica, assicurando ai suoi governi durata e possibilità d'azione; tale meccanismo rappresenta una delle tecniche che permettono il funzionamento di un ‛parlamentarismo maggioritario' nel quadro del pluripartitismo. Dal 1962 vige in Francia un sistema abbastanza simile.

Situazioni del genere restano eccezionali. Di norma, solo una coalizione permette una maggioranza parlamentare nel quadro del pluripartitismo, e, ovviamente, tali coalizioni sono più eterogenee e più fragili del blocco formato da un solo partito. Tuttavia le situazioni variano notevolmente, secondo il grado di disciplina e di organizzazione dei partiti coalizzati. Quando si tratta di partiti elastici, poco disciplinati, i cui parlamentari votano ciascuno secondo la propria preferenza personale, la coalizione risulta assai debole, molto eterogenea e in genere poco durevole. L'instabilità e l'impotenza dei governi giungono allora al culmine. La Terza Repubblica francese fornisce un buon esempio di una tale situazione. Solo il Partito Socialista e quello Comunista erano disciplinati; ma il secondo non ha partecipato, prima del 1936, a nessuna coalizione e il primo - sempre prima del 1936 - formava solo una frazione del ‛cartello delle sinistre', in cui i radicali e i repubblicani del centro occupavano il posto principale.

Se invece i partiti alleati sono rigidi e disciplinati e, in particolare, se i loro parlamentari votano tutti nello stesso modo secondo le indicazioni degli organi direttivi - come nei partiti britannici, nei partiti socialisti europei, nei partiti comunisti, ecc. - la coalizione è molto più stabile e molto più coerente. Si può allora arrivare a un sistema assai vicino al bipartitismo nel caso si costituiscano due alleanze che si fronteggiano, una a sinistra e l'altra a destra, durante tutto il corso della legislatura. Questo tipo di coalizione prende il nome di ‛bipolarizzazione' e introduce, se così possiamo dire, una sorta di bipartitismo nel pluripartitismo. In Svezia, in Norvegia e in Danimarca si sta sviluppando da qualche anno un meccanismo del genere, che oppone da un lato i tre partiti cosiddetti ‛borghesi' - conservatore, liberale e agrario - e dall'altro il Partito Socialdemocratico, alleato, eventualmente, al Partito Comunista. La Repubblica Federale Tedesca si muove nella stessa direzione, con l'alleanza dei socialisti e dei liberali da un lato e la Democrazia Cristiana dall'altro.

Dopo il 1962 la Francia sembrava esitare tra un sistema bipolare di questo genere e una situazione di partito dominante. Alle elezioni legislative del 1962, del 1967 e del 1968 e alle elezioni presidenziali del 1965 si è assistito allo scontro tra la coalizione gollista (U.D.R., repubblicani indipendenti e una parte dei centristi) e la coalizione delle sinistre (radicali, socialisti, comunisti): solo alcuni gruppi del centro sono rimasti fuori da queste grandi alleanze, con notevoli perdite. Alle elezioni presidenziali del 1969 mancò invece l'alleanza delle sinistre (realizzatasi invece nelle elezioni successive e poi nuovamente entrata in crisi) e i radicali e i socialisti si batterono separatamente dai comunisti. Dato che socialisti e radicali rappresentavano insieme appena il 20% dei suffragi e il Partito Comunista poco di più (20-22%), nessuno dei due gruppi poteva fronteggiare da solo la maggioranza gollista: il blocco maggioritario assunse allora le vesti di partito dominante.

Al sistema di alleanze bipolari si oppone il sistema di alleanza centrista: in luogo della situazione caratterizzata dalla contrapposizione tra un'alleanza dei partiti di sinistra (compresi quelli di centro-sinistra) e un'alleanza dei partiti di destra (compresi quelli di centro-destra), può configurarsene un'altra, in cui centro-destra e centro-sinistra si alleano, respingendo le estreme all'opposizione. La Repubblica di Weimar offre un buon esempio di una tale strategia, dato che i governi si appoggiavano su una maggioranza formata dalla coalizione del centro cattolico e della socialdemocrazia, mentre i comunisti e i nazionalisti costituivano due opposizioni, una all'estrema sinistra e l'altra all'estrema destra. La Quarta Repubblica francese ha funzionato seguendo questo stesso schema dopo la rottura dell'alleanza delle sinistre (1947-1958).

Bipolarizzazione e centrismo non sono sempre così contraddittori come sembrano. La Francia della Terza Repubbuca ha talvolta visto simultaneamente all'opera entrambi i meccanismi, grazie al doppio gioco del Partito Radicale. Questi si alleava con i socialisti (e nel 1936 con i comunisti) per le elezioni, nel quadro di una coalizione di sinistra opposta a una coalizione di destra. Tendeva poi a rompere con i suoi alleati di sinistra avvicinandosi al centro-destra, per costituire un governo fondato su un'alleanza centrista. Questa dissociazione tra alleanze elettorali di tipo bipolare e alleanze di governo centriste raggiunse il culmine tra le due guerre, quando si stabilì una sorta di movimento oscillatorio: vinte le elezioni, grazie all'alleanza elettorale (1924, 1932,1936), le sinistre governavano per due anni, dopo di che il Partito Radicale rovesciava le alleanze e costituiva una coalizione centrista allargata verso destra, battezzata ‛Unione Nazionale' (1926, 1934, 1938). Un simile meccanismo ha fortemente contribuito al declino delle istituzioni parlamentari francesi alla vigilia della seconda guerra mondiale.

A ogni modo, le coalizioni centriste hanno il comune difetto di dare ai cittadini un senso di alienazione politica. Respingere le estreme in un'opposizione semipermanente non significa solo emarginare i più violenti, ma anche i più dottrinari e coloro che sembrano essere i più puri e i più disinteressati. Riunire gli altri in una coalizione di governo non significa solo associare i più moderati, ma anche i meno sensibili alle idee, i più pragmatici, i più affaristi. Ciò favorisce una sorta di dissociazione permanente tra la politica vissuta e la politica pensata. Uno dei vantaggi della bipolarizzazione o del bipartitismo sta nel fatto che i moderati di ciascuno schieramento sono costretti a collaborare con gli estremisti e viceversa: i primi ricevono dai secondi un impulso che impedisce loro di impantanarsi, i secondi sono costretti a tener conto della realtà concreta. Al contrario, nel centrismo i moderati perdono lo stimolo degli estremisti, che a loro volta possono più liberamente fissarsi in atteggiamenti rigidi e dottrinari. Bisogna aggiungere che il centrismo non offre ai cittadini nessun'altra possibilità concreta se non la propria perpetuazione, essendo impossibile un'alleanza delle due estreme. La partecipazione alle scelte dei governanti diviene in questo modo irreale, poiché il potere resta, per l'essenziale, nelle mani degli stati maggiori dei partiti del centro.

b) Il bipartitismo

La nozione di ‛bipolarizzazione', quale l'abbiamo appena precisata, mostra che non esiste una frontiera invalicabile tra pluripartitismo e bipartitismo: molti dei tratti della bipolarizzazione si trovano in regime di bipartitismo. In realta la bipolarizzazione è più vicina al bipartitismo di quanto non lo sia a un pluripartitismo fondato su alleanze centriste o su alleanze senza disciplina. D'altronde la nozione di bipartitismo è eterogenea quanto quella di pluripartitismo. Una distinzione fondamentale a questo riguardo è quella tra il bipartitismo di tipo americano e il bipartitismo di tipo britannico.

1. Il bipartitismo di tipo americano. - Gli Stati Uniti d'America hanno sempre conosciuto il bipartitismo: nella forma di una contrapposizione prima tra federalisti e antifederalisti, poi tra repubblicani e democratici. In varie fasi della storia americana si sono sviluppati movimenti in favore di un terzo partito, ma sono sempre falliti. L'elezione presidenziale sembra aver esercitato un ruolo importante nella formazione del bipartitismo. Il meccanismo di una votazione nazionale in un territorio tanto vasto necessitava di organizzazioni politiche molto grosse e, insieme, di una semplificazione delle scelte offerte all'elettore. La potenza e la popolarità del presidente ne facevano d'altro canto un leader nazionale, l'animatore del suo partito. Per scalzarlo bisognava opporgli un solo altro grande leader sostenuto anch'esso da una vasta organizzazione. La complessità del sistema elettorale americano costringeva d'altronde a costituire organizzazioni nazionali di tal fatta, per assicurarne il funzionamento.

Ciò spiega in parte perché i partiti statunitensi si distinguano da tutti gli altri partiti occidentali, e come mai non presentino analoghe connessioni con i grandi movimenti sociali e ideologici che da due secoli costituiscono, in Europa e in America, il terreno della lotta politica. Gli Stati Uniti non hanno conosciuto realmente il conflitto tra conservatori e liberali; né hanno conosciuto - come abbiamo già detto - lo sviluppo del socialismo e il suo conflitto con liberali e conservatori, donde la loro tendenza a unificarsi in un unico partito borghese. Nella storia degli Stati Uniti troviamo bensì partiti socialisti, ma si tratta di piccoli partiti che non incidono durevolmente sul gioco tra i due grandi. Il proletariato americano era, nel XIX secolo, formato essenzialmente da immigrati desiderosi di integrarsi nella nuova società, in cui trovavano una mobilità relativamente elevata, dato che ogni generazione di immigrati poteva salire nella scala sociale via via che nuovi arrivati la rimpiazzavano nelle mansioni più umili. L'esistenza all'Ovest di una riserva - ancora disponibile - di terre coltivabili aumentava le prospettive di mobilità e di elevazione sociale. Comunque sia, la coscienza di classe non si è sviluppata negli Stati Uniti con un'intensità tale da promuovere la formazione di grandi partiti socialisti o comunisti.

I partiti americani appaiono così, se paragonati agli altri movimenti politici europei e americani, come due varianti di un partito liberale. Coerentemente con tale caratteristica la loro ideologia, pur essendo più sviluppata di quanto comunemente si creda, rimane in genere abbastanza inespressa: non abbisogna, infatti, di una formulazione esplicita in quanto corrisponde all'ideologia latente di tutta la popolazione americana. In ognuno dei due partiti troviamo una vasta gamma di opinioni, che vanno dalla destra alla sinistra, come nella maggior parte dei partiti liberali del mondo: rivoluzionari due secoli fa, conservatori oggi, l'amalgama delle loro vecchie tradizioni e dei loro attuali interessi permette combinazioni svariatissime, adattabili a tutte le situazioni, a condizione, beninteso, di restare nel quadro della libera impresa. Dei partiti liberali i partiti americani hanno anche la struttura fluida e decentrata, l'assenza di disciplina e di apparato: tutte caratteristiche tipiche dei partiti di quadri ottocenteschi e che i partiti liberali hanno in maggioranza conservato. Il federalismo e il decentramento dei poteri accentuano negli Stati Uniti l'elasticità di struttura e la debolezza dell'impalcatura dei partiti. Se l'organizzazione è relativamente forte e omogenea su scala locale, è assai labile a livello di Stato e pressocché inesistente a livello nazionale. Si è potuto affermare che negli Stati Uniti non esistono due partiti, ma cento, ossia due per ogni Stato. Non bisogna tuttavia dimenticare che ogni partito ritrova la sua unità nazionale in occasione delle elezioni presidenziali e che la leadership del presidente dà al suo partito una relativa omogeneità. Quanto al funzionamento del governo, il tratto più importante dei partiti americani è la mancanza completa di qualsiasi disciplina di voto nelle Assemblee. Al Senato come alla Camera dei rappresentanti, questa disciplina non esiste né per i repubblicani né per i democratici. Ogni senatore e ogni rappresentante vota come ritiene opportuno, liberamente. Quasi in ogni votazione troviamo dei repubblicani schierati con i democratici e viceversa. In generale, si delinea un'alleanza tra repubblicani liberali e democratici liberali, di fronte a quella tra repubblicani conservatori e democratici conservatori: ma nemmeno questi due blocchi sono stabili e si modificano da una votazione all'altra.

Di conseguenza, ogni parlamentarismo maggioritario - malgrado il bipartitismo - è negli Stati Uniti impossibile. Dire che il presidente dispone della maggioranza al Congresso semplicemente perché il suo partito ha il maggior numero di seggi nelle due Camere, significa avanzare un argomento di scarso rilievo, dato che il suo partito non è quasi mai compatto nelle votazioni parlamentari. Per fare approvare il bilancio e i progetti di legge, il presidente degli Stati Uniti deve cercare pazientemente di raccogliere una maggioranza su ogni problema: faticosa tela di Penelope, da ricominciare ogni giorno. Se - per mantenersi al potere - il governo degli Stati Uniti avesse bisogno, come i governi parlamentari europei, della fiducia dei deputati, sarebbe probabilmente, data la mancanza di una maggioranza coerente, altrettanto instabile e debole quanto i ministeri della Terza e della Quarta Repubblica francese.

Si può dunque vedere che il numero - due o più di due - non è l'unico criterio per una classificazione dei sistemi di partito. Il criterio numerico è in realtà inseparabile dalla struttura interna dei partiti e, in particolare, dall'esistenza o meno di una disciplina di voto nelle assemblee. Da questo punto di vista il bipartitismo americano è uno pseudobipartitismo, poiché ogni partito è solo una cornice assai fluida all'interno della quale si fa pressappoco quello che si vuole. Diminuisce fortemente, allora, l'interesse a distinguere il dualismo dagli altri sistemi (tripartitismo, quadripartitismo, ecc.). La ragione essenziale che giustifica la classificazione del bipartitismo in una categoria a parte sta in realtà nella sua capacità di assicurare una maggioranza omogenea e stabile nell'ambito di un partito. Se la struttura dei partiti è tale da inficiare questa condizione, il concetto di bipartitismo perde la sua importanza.

Una classificazione esauriente dei sistemi dei partiti non dovrebbe, dunque, contrapporre il bipartitismo al pluripartitismo, ma il bipartitismo di tipo britannico al pluripartitismo e al bipartitismo di tipo americano (quest'ultimo essendo, per quanto riguarda le maggioranze parlamentari, in definitiva più vicino al pluripartitismo che al bipartitismo inglese). Beninteso, all'interno del pluripartitismo, la bipolarizzazione costituirebbe un sistema intermedio, abbastanza vicino al bipartitismo britannico. Tuttavia, non va dimenticato che il dualismo americano permette un'elezione presidenziale relativamente chiara malgrado la complessità del sistema elettorale: in questo esso si differenzia profondamente dal pluripartitismo.

2. Il bipartitismo di tipo britannico. - Il bipartitismo di tipo britannico funziona in Gran Bretagna e in Nuova Zelanda. In Australia è parzialmente alterato dalla presenza di un terzo partito - il Partito delle campagne - tra i liberali e i laburisti: una stretta alleanza tra il Partito Liberale e il Partito delle campagne introduce, tuttavia, una bipolalarizzazione abbastanza rigida. In Canada il bipartitismo originario, di liberali e conservatori, è stato modificato in profondità dalla presenza di un Partito Socialista e di un Partito ‛Creditista' (Social Credit: movimento separatista di destra) e più ancora dal problema del Quebec. Se il bipartitismo arretra così nel Commonwealth, nell'Europa continentale tende, al contrario, a svilupparsi: la Repubblica Federale Tedesca e l'Austria vi sono assai vicine e il Belgio non ne è molto distante.

In Gran Bretagna si sono succeduti due bipartitismi diversi: il bipartitismo di liberali e conservatori che vigeva prima del 1914, il bipartitismo di conservatori e laburisti che funziona dal 1935. Il periodo 1920-1935 ha costituito una fase intermedia fra l'uno e l'altro, una fase in cui Londra ha conosciuto un'instabilità politica abbastanza accentuata. Il Partito Conservatore britannico attuale è, in realtà, un partito liberale conservatore nato dalla fusione delle componenti essenziali dei due grandi partiti del XIX secolo. Anche se mantiene la denominazione di ‛conservatore', la sua ideologia è piuttosto improntata al liberalismo, sia politico che economico. Il piccolo Partito Liberale, rimasto fuori da questa fusione, rappresenta la frazione di sinistra del vecchio grande Partito Liberale. Lo stesso può dirsi degli altri grandi partiti conservatori europei (Democrazia Cristiana tedesca, Democrazia Cristiana italiana, Partito Cristiano Sociale belga) e degli altri piccoli partiti liberali. Va notato che in Canada il vecchio bipartitismo di conservatori e liberali sussiste tuttora e che un grande partito socialista non è riuscito finora ad affermarsi nel paese: situazione in cui la vicinanza degli Stati Uniti e lo sviluppo di una mentalità nordamericana hanno avuto probabilmente un certo peso.

Il bipartitismo di tipo britannico poggia dunque sull'evoluzione sociale e ideologica comune alla maggior parte dei paesi d'Europa e d'America: conflitto tra conservatori e liberali, sviluppo del socialismo, comparsa del comunismo e di altre tendenze politiche affermatesi dopo la prima guerra mondiale (democrazia cristiana, fascismo, ecc.). L'incidenza di un fattore tecnico, il regime elettorale, sembra a questo riguardo importante: il sistema maggioritario a un unico turno opponeva un ostacolo alla scissione dei partiti esistenti e alla proliferazione di piccoli gruppi nuovi mentre, al tempo stesso, accelerava l'eliminazione dei vecchi partiti quando s'indebolivano. Fino al 1914 il sistema elettorale gioca dunque in favore del bipartitismo esistente: frena lo sviluppo del socialismo. A partire dal 1920, quando i laburisti diventano il secondo partito, il sistema si rivolge contro i liberali, contribuendo a eliminarli.

Al tempo stesso esso protegge il Partito Socialista contro la tentazione di scissioni che - in un tale meccanismo elettorale - rischierebbero di distruggerlo: viene così innalzato un ostacolo allo sviluppo del comunismo. A destra un ostacolo analogo intralcia la comparsa di partiti fascisti. È ovvio che, se comunismo e fascismo avessero rappresentato in Gran Bretagna forze sociali importanti, avrebbero anche superato l'ostacolo, così come è avvenuto per il socialismo. Il sistema maggioritario a un unico turno non può mantenere il bipartitismo se l'evoluzione delle strutture della società tende a distruggerlo. Ugualmente, non vi è bisogno di sistema maggioritario a un unico turno perché vi sia un'evoluzione verso il bipartitismo, se le forze sociali spingono in questo senso, come nella Repubblica Federale Tedesca e in Austria. Resta il fatto che l'adozione del sistema maggioritario a un unico turno porterebbe a compimento e consoliderebbe questa evoluzione, stabilendo in questi due paesi un autentico bipartitismo, il che non si è ancora verificato.

Il bipartitismo di tipo britannico poggia su partiti rigidi, nei quali, cioè, regni una disciplina di voto nelle assemblee. In tutte le votazioni importanti (investitura, fiducia, censura, ecc.), tutti i deputati del partito sono costretti a votare compatti, seguendo rigorosamente le direttive stabilite in comune da essi stessi o decise dagli organismi dirigenti. Una relativa indisciplina è tollerata, talvolta, nella misura in cui non compromette l'azione del governo: si ammette che qualche membro del partito si astenga se l'astensione non modifica il risultato del voto. In tal modo il leader del partito di maggioranza, che è al tempo stesso primo ministro, è sicuro di restare al potere per tutta la durata della legislatura e di fare adottare dal parlamento tutti i progetti che ritiene importanti. Non esiste piu autentica separazione dei poteri tra esecutivo e assemblee: il governo e la maggioranza parlamentare formano un blocco omogeneo e solido, di fronte al quale l'opposizione può solo esprimere le sue critiche. Durante i quattro o cinque anni della legislatura la maggioranza al potere è onnipotente: solo le difficoltà interne alla maggioranza stessa possono limitare questa onnipotenza. Questo è il ‛parlamentarismo maggioritario'.

Stabili e forti, i governi di tal genere sono in pratica designati dai cittadini, come se uscissero da un'elezione presidenziale. Poiché ogni partito costituisce un'organizzazione disciplinata con un leader riconosciuto, che diventa primo ministro in caso di vittoria elettorale, le elezioni legislative designano in realtà non soltanto i deputati, ma anche il capo del governo. Basta seguire una campagna elettorale britannica per rendersene conto. In Inghilterra, nel 1970, ad es., si è votato Wilson o Heath quasi allo stesso modo in cui negli Stati Uniti si votava nel 1968 Humphrey o Nixon. La differenza è che, votando per mandare al governo l'uno o l'altro dei leaders, gli inglesi gli assicurano al contempo una maggioranza disciplinata che gli fornisce i mezzi per governare. Da tutto ciò risulta un sistema politico insieme stabile, forte e democratico: più democratico, più stabile e più forte che in ogni altra parte dell'Occidente.

Questo sistema presuppone, ovviamente, che i due partiti siano d'accordo sulle regole fondamentali della democrazia. Se si trovassero di fronte in Gran Bretagna, non un Partito Conservatore e uno Laburista, ma un partito comunista e un partito fascista, il bipartitismo non durerebbe a lungo: il vincitore si affretterebbe a sopprimere il proprio avversario e a governare da solo. Ma il meccanismo del bipartitismo britannico tende precisamente a ‛moderare' entrambi i partiti. Per vincere, i laburisti hanno bisogno di conquistare non i voti dei laburisti convinti, voti che avranno comunque, ma quelli degli elettori esitanti del centro, che decidono della vittoria a seconda che si riversino sull'una o sull'altra parte. Su questo stesso settore dell'elettorato, e per le stesse ragioni, anche i conservatori concentreranno i loro sforzi di persuasione. La conseguenza è che in entrambi i partiti prevarranno, di solito, le forze moderate e centriste: un buon leader laburista è ‛il più a destra degli uomini di sinistra'; un buon leader conservatore è ‛il più a sinistra degli uomini di destra'.

Un tal sistema, spingendo ognuno dei due partiti in direzione moderata, protegge contro l'avvento di forze estremiste. Esso non presenta però unicamente dei vantaggi. Tende naturalmente a sclerotizzare i partiti, riducendo all'impotenza i suoi elementi innovatori, obbligati perpetuamente a piegarsi davanti agli elementi più moderati per non impaurire il centro. Si può pensare che ciò sia comunque meglio che la tendenza all'astrattezza, che minaccia i piccoli partiti estremisti quando sono separati dalle masse moderate. Ad ogni modo, sembra che il rischio di sclerosi, nelle società industriali, riguardi oggi tutti i partiti, e non solo quelli che funzionano in regime di bipartitismo. Questo rischio è legato alla difficoltà di creare organizzazioni nuove capaci di farsi prendere sul serio da una frazione importante di cittadini, o di rinnovare le vecchie organizzazioni dominate dagli apparati in carica. Più oltre affronteremo di nuovo questo problema (v. sotto, cap. 6).

5. Il partito unico

Le dittature moderne hanno preso a prestito dalle democrazie pluraliste i partiti politici, nella forma però del partito unico. Il sistema si è sviluppato nell'URSS, a vantaggio del Partito Comunista, dopo la rivoluzione del 1917. Qualche anno più tardi è stato imitato dall'Italia fascista. Dopo il 1933 la Germania nazionalsocialista ha adottato il modello italiano, portandolo a un alto grado di perfezione tecnica. Dopo il 1945 le democrazie popolari d'Europa hanno imitato il modello sovietico. Alcuni anni più tardi la Cina, la Corea del Nord e il Vietnam del Nord hanno fatto la stessa cosa. Dal canto loro, un gran numero di paesi del Terzo Mondo, in particolare africani, hanno stabilito un regime di partito unico dopo l'indipendenza. Si è così indotti a distinguere tre tipi di partito unico: i partiti unici comunisti, i partiti unici fascisti e i partiti unici dei paesi in via di sviluppo.

a) I partiti unici comunisti

Nei paesi comunisti il partito unico è considerato come l'avanguardia della classe operaia e dei suoi alleati (contadini, intellettuali, ecc.), avanguardia che permette di costruire un regime socialista nella fase transitoria della cosiddetta ‛dittatura del proletariato'. Per comprendere esattamente il suo ruolo, bisogna sempre tenere a mente la concezione marxista dell'evoluzione dello Stato. Nei paesi fondati sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, lo Stato è un insieme di strumenti di coercizione (amministrazione, polizia, esercito, ecc.) al servizio della classe dominante che possiede i mezzi di produzione e si serve appunto dello Stato per mantenere il proprio dominio. La rivoluzione socialista consiste nel fatto che i lavoratori si impadroniscono dell'apparato statale e lo volgono a un diverso fine: la soppressione della proprietà privata dei mezzi di produzione e l'edificazione delle basi del socialismo. La resistenza delle vecchie classi dominanti e dei loro alleati esterni (paesi capitalisti) obbliga all'impiego di mezzi coercitivi, donde la necessità di una dittatura del proletariato. Ma questa dittatura è solo temporanea: una volta poste le basi del socialismo e sviluppata la società socialista, la Costrizione scomparirà poco a poco. Si giungerà alla ‛fase superiore del comunismo', caratterizzata dal deperimento dello Stato.

Il ruolo del partito comunista, in quanto partito unico, si situa nel quadro della dittatura del proletariato, di cui è lo strumento essenziale. Lo Stato è solo un insieme di mezzi a disposizione del partito, che costituisce il centro del potere. La gerarchia reale è quella del partito e non già la gerarchia ufficiale dello Stato. Il segretario generale del partito o primo segretario è il numero uno del regime. Prima del 1940 Stalin non era neppure ministro, ma il suo titolo di segretario generale indicava chiaramente che era il capo supremo dell'URSS e nessuno aveva dubbi al riguardo. Gli eccessi del ‛culto della personalità' hanno portato dopo di allora a modificare l'autorità in seno al partito, dove ci si è sforzati di stabilire una direzione collegiale. Ciò riguarda unicamente l'organizzazione interna del partito, non il suo ruolo nello Stato: che la direzione sia collegiale o personale, il partito resta il centro del potere politico.

In tutti i paesi comunisti la struttura del partito unico è destinata a permettere al partito sia di esercitare il suo ruolo direttivo nello Stato che di mantenere il contatto con le masse popolari. L'originalità del partito consiste nel fatto che non costituisce un'organizzazione tecnica dell'autorità come può esserlo, per es., una qualsiasi amministrazione - ma un'organizzazione dell'autorità che vuole esprimere le aspirazioni e la volontà della popolazione. I membri del partito fanno parte di questa popolazione, di cui sono gli elementi più attivi e più coscienti. Il contatto è assicurato da una rete ramificata di cellule del partito, che sono presenti ovunque. Così, se il circuito funziona bene in entrambe le direzioni, i dirigenti del partito stanno continuamente in sintonia con le masse, e le masse sono costantemente al corrente delle decisioni dei dirigenti. In pratica può succedere che il partito sia più o meno isolato, come nell'URSS ai tempi di Stalin, in Cecoslovacchia dopo il 1968, ecc.

Il partito non è solo uno strumento permanente di contatto tra il popolo e i dirigenti: è anche un elemento di propaganda o, più esattamente, di formazione. Si è già detto del ruolo fondamentale dell'ideologia nei partiti comunisti. Nel caso siano partiti unici, l'educazione ideologica della popolazione è uno dei loro compiti essenziali. Essi agiscono direttamente attraverso le scuole di quadri, le campagne d'informazione, i giornali, le riviste, le pubblicazioni, e con l'azione instancabile dei propri militanti, che hanno un po' il ruolo che in una religione ha il clero di fronte ai fedeli. Agiscono anche in modo indiretto, controllando la stampa, i libri, le associazioni di intellettuali, ecc. Il partito è così il guardiano dell'ortodossia del regime, un guardiano che pronuncia condanne e scomuniche. Vigila inoltre sulla fedeltà e sull'ortodossia dei suoi propri membri, sorvegliandone in primo luogo il reclutamento (obbligo di presentazione e di un periodo di candidatura) e, in seguito, decidendo su eventuali espulsioni. Talvolta hanno luogo ‛purghe' generali: cioè un controllo sistematico di tutti gli iscritti.

b) I partiti unici fascisti

In teoria i partiti unici fascisti assicurano le stesse funzioni di direzione dello Stato e di contatto con la popolazione garantite dai partiti unici comunisti. Al pari di questi, tendono a riunire un'élite, formata dalle persone più fedeli e devote al regime. Ma dietro questi tratti generali affini si celano enormi differenze. Lasciamo da parte il fatto che, in teoria, l'esistenza di partiti comunisti è limitata alla fase transitoria della dittatura del proletariato, mentre i partiti fascisti sono per loro natura permanenti: essi corrispondono infatti a una dittatura stabile, il cui indebolimento futuro non è nemmeno preso in considerazione. In pratica, tuttavia, l'avvento della fase superiore del comunismo e il deperimento dello Stato appaiono come obiettivi assai lontani e le dittature comuniste rischiano di durare a lungo: il che rende meno sensibile la loro differenza rispetto alle dittature fasciste.

Più importante è il fatto che i partiti unici fascisti svolgono nello Stato un ruolo minore dei partiti unici comunisti. In Italia, il Partito Nazionale Fascista non è mai stato l'elemento preponderante del regime, e la sua influenza è restata spesso abbastanza secondaria. Anche in Spagna, la Falange non ha mai svolto un grande ruolo. In Portogallo, l'Unione Nazionale era un'organizzazione molto debole perfino quando il regime di Salazar era all'apogeo. Solo in Germania il Partito Nazionalsocialista ha avuto nello Stato una grande influenza, che non va tuttavia esagerata: dopo la ‛purga' del giugno 1934, ad es., le SA furono confinate in un ruolo subalterno (il resto del partito non aveva mai contato molto). La dittatura, in conclusione, poggiava piuttosto sulle SS, che costituivano una formazione a parte in seno al partito, molto chiusa e dipendente direttamente dal Führer, e sulla Gestapo, che era un'organizzazione dello Stato e non del partito.

La differenza rispetto ai partiti comunisti non verte unicamente sull'importanza del ruolo del partito unico, ma sulla natura stessa di questo ruolo. I partiti unici fascisti sono essenzialmente milizie che sostengono il regime con la forza delle armi. Questa funzione corrisponde sia alla struttura di questi partiti sia alla filosofia dei regimi fascisti, che intendono essere delle dittature imposte alle masse dall'azione di una minoranza fortemente organizzata. Quello di un partito unico fascista è, dunque, un ruolo poliziesco e militare piuttosto che un ruolo di formazione ideologica. Il tipo di propaganda cui fa ricorso è assolutamente diverso da quello dei partiti comunisti, i quali conducono la loro opera di convincimento elaborando una dottrina razionale in cui ogni avvenimento particolare è collocato in un sistema esplicativo generale.

La propaganda fascista non mira a convincere col ragionamento. Essa fa piuttosto appello alle pulsioni irrazionali. Si fonda su miti elementari (la nazione, la razza, il sangue, l'elite, il capo, ecc.). Tende a imporre anzitutto il culto del capo, il solo che possa assicurare la grandezza della patria e al quale si deve un'obbedienza cieca e totale. Per il suo stile questa propaganda assomiglia a quella militare, che sviluppa pochi temi semplificati e mescola i sentimenti di fedeltà personale, di onore, di nazionalismo con la minaccia di sanzioni implacabili contro gli oppositori. La grande novità dei regimi fascisti, in questo campo, è consistita nell'utilizzare tecniche modernissime di propaganda radio, cinema, manifesti, slogan, ecc. per trasmettere messaggi il cui contenuto rimaneva assai elementare e meramente suggestivo.

Aggiungiamo infine che l'evoluzione dei partiti fascisti dopo la presa del potere li allontana dal ruolo di strumenti di contatto tra il popolo e il governo, ruolo in generale assegnato ai partiti unici e assunto dai partiti comunisti. In Germania come in Italia, si nota la tendenza del partito a chiudersi in se stesso, con l'eliminazione di ogni nuova adesione individuale. Il rinnovamento del partito viene allora assicurato essenzialmente dalle organizzazioni giovanili, i cui elementi più fidati, selezionati sin dalla più tenera età, entrano in blocco ogni anno nel partito nel corso di una solenne cerimonia. Il partito in questo modo tende a costituire un ‛ordine' chiuso, composto da un'élite di superuomini votati corpo e anima al capo supremo, per il quale costituiscono il più solido sostegno. Si tratta di formare un'oligarchia di tipo nuovo, piuttosto che un'avanguardia che abbia il compito di esprimere e illuminare le masse.

c) I partiti unici dei paesi in via di sviluppo

Certi partiti unici di paesi in via di sviluppo non differiscono dai partiti unici corrispondenti dei paesi industriali. Così il Partito Comunista della Repubblica Democratica del Vietnam, il Partito Comunista della Corea del Nord, assomigliano molto, per struttura e funzioni, ai partiti unici degli altri paesi comunisti. Troviamo tuttavia in alcuni paesi africani, asiatici o dell'America Latina, dei partiti unici con caratteristiche originali, che non assomigliano nè ai partiti comunisti nè a quelli fascisti, quali li abbiamo descritti. Era questo il caso del Partito Repubblicano del Popolo nella Turchia kemalista prima del 1950. È questo, oggi, il caso dell'Unione Socialista Araba Egiziana, del Neo-Destur tunisino, del Fronte di Liberazione Nazionale Algerino e di parecchi partiti dell'Africa Nera, divenuti partiti unici dopo una fase di partito dominante all'indomani dell'indipendenza.

Tutti questi paesi, più o meno, si autodefiniscono socialisti, o per lo meno progressisti, pur restando assai lontani dal comunismo, di cui sono talvolta nemici. Ataturk voleva ‛repubblicanizzare' la Turchia, e il suo Partito Repubblicano del Popolo, laico e democratico, presentava qualche somiglianza col Partito Radical-Socialista francese. Nasser e i suoi successori hanno voluto stabilire in Egitto un socialismo nazionale e moderato. In Tunisia il Neo-Destur è repubblicano più che socialista, e trae ispirazione più dal kemalismo che dal nasserismo. Nell'Africa Nera i partiti unici si proclamano spesso socialisti, ma raramente lo sono, salvo qualche eccezione. Tuttavia non si tratta di mero mimetismo; i partiti unici di questo tipo vogliono effettivamente trasformare la società modernizzandola: se non sono rivoluzionari, sono però riformisti e, di conseguenza, si collocano agli antipodi del fascismo, dittatura reazionaria.

I partiti unici in questione hanno in generale un'organizzazione meno rigida di quella dei partiti comunisti o fascisti. In Turchia il Partito Repubblicano del Popolo era un partito di quadri piuttosto che un partito di massa. In Egitto ci si è sforzati di organizzare un nucleo di quadri all'interno di uno pseudopartito di massa. Nell'Africa Nera si tratta in generale di veri partiti di massa, sebbene l'adesione sembri motivata soprattutto dall'attaccamento personale al leader e dai legami tribali, e l'impalcatura non sia sempre solida. Questa debolezza nell'organizzazione spiega il ruolo secondario che questi partiti unici svolgono nell'ambito dello Stato. Talvolta si ha l'impressione che essi ricoprano il ruolo di partiti unici senza però svolgerne realmente le funzioni. Essi non sono, in nessun modo, gli organi direttivi del regime, la cui forza ha altre basi.

Alcuni regimi si sforzano tuttavia di sviluppare al massimo il ruolo del partito, ravvicinando progressivamente le sue funzioni reali alle sue funzioni teoriche. A questo riguardo è molto interessante lo studio della politica di Kemal Atatùrk, alla quale assomiglia la politica di Nasser, che ha tentato di aumentare l'influenza dell'Unione Socialista Araba e di farne il pilastro essenziale del regime. Questo modo di procedere è molto significativo in quanto dimostra la volontà di passare da una dittatura arcaica, basata sull'esercito (Kemal, Nasser) o su tradizioni tribali (certi regimi africani) o sul prestigio personale del capo (Burghiba, ecc.) a una dittatura moderna, basata su di un partito unico organizzato. Non bisogna dimenticare che i regimi comunisti hanno fornito la prova che il sistema del partito unico permette di istituzionalizzare le dittature, facendole durare oltre la vita di un singolo uomo.

6. Conclusione

In Occidente si parla spesso del declino dei partiti politici. A dire il vero, opinioni del genere vengono espresse da molto tempo negli ambienti conservatori e corrispondono a una latente ostilità contro i partiti, accusati di dividere i cittadini, di pregiudicare l'unità nazionale, di favorire le promesse eccessive e la demagogia. In alcuni paesi europei - in Francia, ad es. - le organizzazioni politiche di destra rifiutano perfino il nome di partito e si definiscono ‛movimenti', ‛unioni', ‛federazioni', ‛centri', ecc. Detto questo, è incontestabile che i grandi partiti politici d'Europa e degli Stati Uniti appaiono oggi invecchiati, sclerotizzati, se si pensa a come si presentava la situazione all'inizio del secolo o all'indomani della prima guerra mondiale. Perfino partiti relativamente nuovi come la Democrazia Cristiana italiana o la Democrazia Cristiana tedesca - nate nel 1945 - danno un'impressione di logoramento.

In realtà, in rapporto al 1900, i partiti politici non sono in declino, ma piuttosto in espansione. All'inizio del secolo i partiti politici erano essenzialmente limitati all'Europa e all'America del Nord; altrove le organizzazioni politiche erano molto deboli o addirittura inesistenti. Oggi i partiti politici funzionano nel mondo intero o quasi. E anche in Europa e nell'America del Nord il numero dei cittadini inquadrati dai partiti è oggi, in generale, molto superiore a quanto non fosse prima del 1914. I partiti attualmente esistenti sono più numerosi, più potenti, meglio organizzati di un secolo o mezzo secolo fa. Nei paesi industriali, e soprattutto nell'Europa occidentale, sono divenuti meno rivoluzionari e il loro rinnovamento è stato insufficiente: questo spiega l'impressione di sclerosi e di logoramento alla quale abbiamo fatto cenno. Ma si tratta di un fenomeno limitato nello spazio e forse anche nel tempo.

D'altro canto, lo stesso sviluppo dei partiti, la loro tendenza a costituire grandissime organizzazioni comporta un senso di impotenza nei cittadini così inquadrati in queste vaste macchine. Che si tratti di partiti, di imprese, di amministrazioni, di sindacati, ecc., la reazione è analoga. La difficoltà di modificare i partiti esistenti quando hanno ormai raggiunto una tale struttura, la quasi impossibilità di creare nuovi partiti che abbiano una dimensione iniziale sufficiente: tutto ciò dà la stessa impressione di immobilismo dei grandi trusts industriali che hanno sostituito le piccole e medie imprese. La tecnostruttura politica ha le stesse conseguenze della tecnostruttura economica. In ambedue i casi non si tratta affatto di un declino, ma di un'evoluzione.

D'altronde, i partiti rimangono insostituibili per permettere le scelte degli elettori e assicurare un minimo di inquadramento degli eletti. Non si è ancora riusciti a immaginare qualcosa di meglio - o di meno peggio - per selezionare i candidati e organizzare la propaganda. Il sistema americano delle ‛primarie', sviluppato a partire dal 1900 per sostituire i partiti, può funzionare solo grazie a essi. L'idea di riunire i rappresentanti dei sindacati, delle organizzazioni professionali, dei club di intellettuali, delle associazioni locali, ecc., per scegliere i candidati alle elezioni porta solo a modificare le strutture dei partiti: l'organizzazione laburista inglese, per es., è nata su queste basi.

Nessuno pensa che una democrazia possa funzionare senza partiti politici: in ogni caso, finora nessuno ha proposto un modello di democrazia che possa funzionare senza partiti politici. Che lo ‛spazio' dei partiti nei paesi industriali vada diminuendo, che il dibattito fra loro si banalizzi, che riescano spesso a esprimere le principali tendenze in campo solo imperfettamente, sono tutti fatti che rispecchiano un indebolimento della democrazia più che un indebolimento dei partiti stessi; in realtà, l'una cosa non può essere separata dall'altra, poiché democrazia e partiti rappresentano le due facce della stessa medaglia.

bibliografia

Charlot, J., Les partis politiques, Paris 1971.

Crotty, W. J. (a cura di), Approaches to the study of party organization, Boston 1968.

Duverger, M., Les partis politiques, Paris 19738 (tr. it.: I partiti politici, Milano 1961).

Epstein, L. D., Political parties in Western democracies, London 1968.

Henig, S., Pinder, J. (a cura di), European political parties, London 1959.

La Palombara, J., Weiner, M., Political parties and political development, Princeton 1966.

Leiserson, A., Parties and politics. An institutional and behavioral approach, New York 1958.

macridis, R. C. (a cura di), Political parties: contemporary trends and ideas, New York 1967.

Michels, R., Zur Sociologie des Parteiwesens in der modernen Demokratie, Leipzig 1911 (tr. it.: La sociologia del partito politico nella democrazia moderna, Bologna 1966).

Neumann, S. (a cura di), Modern political parties. Approaches to comparative politics, Chicago 1956.

Ostrogorski, M., La démocratie et l'organisation des partis politiques, 2 voll., Paris 1903.

Schlesinger, J. A., Parties, political, in International encyclopedia of the social sciences, New York 1968.

Sivini, G. (a cura di), Sociologia dei partiti politici, Bologna 1971.

© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata

CATEGORIE
TAG

Partito conservatore britannico

Repubblica federale tedesca

Germania nazionalsocialista

Partito nazionale fascista

Partito comunista italiano