PAPATO E COMUNI ITALIANI

Federiciana (2005)

Papato e comuni italiani

Laura Baietto

Il mutamento dei rapporti fra papato e Impero durante il regno di Federico II, che dalla collaborazione procedettero verso il conflitto aperto, interferì in maniera determinante sulla trasformazione delle relazioni fra il papato e i comuni dell'Italia centrosettentrionale lungo la prima metà del XIII secolo. La ricerca di un'alleanza politica e militare con i comuni italiani in funzione antifedericiana, iniziata sotto il pontificato di Gregorio IX, divenne sistematica e assunse un significato ideologico durante il pontificato di Innocenzo IV, interagendo con il processo di trasformazione della politica cittadina all'interno dei comuni. La forma di governo podestarile si era trovata a gestire la convivenza all'interno delle città di una pluralità di organizzazioni politico-sociali che si erano moltiplicate in seguito alla frammentazione e alla ricomposizione del tessuto sociale in nuove forme di aggregazione. Si tratta di un processo che interessò all'incirca il periodo che va dagli anni Ottanta del XII sec. agli anni Venti del successivo, anni in cui la dialettica fra le parti cittadine si svolse certamente in maniera conflittuale, ma in costante tensione con la necessità di gestire il confronto di forze diverse all'interno delle istituzioni comunali, anch'esse, quindi, sottoposte a sostanziali trasformazioni per assolvere a tale compito. Intorno agli anni Trenta-Quaranta del XIII sec. quella pluralità di formazioni politiche attive all'interno delle città procedette verso la progressiva definizione in due schieramenti unitari, il cui scopo divenne sempre più chiaramente il controllo del governo cittadino e l'esclusione da esso del partito avverso. Su questo processo interno al comune si inserì l'azione del papato che, soprattutto con Innocenzo IV, promosse in maniera attiva il formarsi di partiti filopapali e antimperiali nelle città. Servendosi di strumenti ideologici, giuridici, economici e politici, l'intervento pontificio interagì quindi in maniera determinante con il processo di polarizzazione socio-politica all'interno delle città italiane, fungendo da catalizzatore per la progressiva strutturazione della politica comunale sulla base di una serrata dialettica fra inclusione ed esclusione.

Le urgenze provocate dal conflitto fra la Sede Apostolica e Federico II furono certamente determinanti nella formazione di questo tipo di relazioni fra papato e comuni italiani, ma le condizioni che resero possibili questi sviluppi si crearono su un arco di tempo più lungo. Confrontando l'atteggiamento verso i comuni di Innocenzo III, a inizio secolo, e di Innocenzo IV, alla fine del periodo che ci interessa, si osserva un ribaltamento della situazione. Per Lotario di Segni le città italiane costituivano un mondo insubordinato, da sanzionare nei suoi tentativi di erodere le giurisdizioni ecclesiastiche, e attraversato da conflitti che andavano sedati in vista della preparazione della crociata. Innocenzo IV invece sfruttò a proprio vantaggio le dinamiche locali di frammentazione politica, considerò le partes attive all'interno dei comuni come soggetti politici a pieno titolo, aderendo così alla logica politica propria delle città e lasciando in secondo piano il problema dell'usurpazione dei diritti ecclesiastici. Cerchiamo quindi di seguire questa trasformazione nella politica del papato rivolta ai comuni.

L'atteggiamento di Innocenzo III nei confronti dei comuni italiani rientrava in un più vasto disegno rivolto all'intera societas christiana, la cui salvezza rappresentava l'orizzonte ultimo di ogni azione del papa. Si tratta di un programma complessivo definito in termini teologici ed ecclesiologici, che trovava una sua formulazione sul piano ideologico nel momento in cui era affermato e proposto di fronte al mondo ecclesiastico e laico. Perché questa ideologia diventasse realmente operante, il papa si servì di nuove procedure giuridiche che consentirono la trasformazione di quei principi ecclesiologici in azione politica. Un ruolo centrale nel grande progetto innocenziano fu attribuito ai vescovi, che ricoprivano una posizione chiave nella gerarchia ecclesiastica intorno alla quale tutta la societas avrebbe dovuto organizzarsi. All'episcopato fu attribuita la responsabilità di promuovere concretamente a livello locale il riordino della società e le relative politiche messe a punto da Roma, sotto stretto controllo del pontefice. Dal proprio ruolo di Vicarius Christi e dalla plenitudo potestatis di cui era detentore, il papa faceva derivare la natura divina del proprio potere e da essa faceva discendere i suoi diritti speciali di intervento sui vescovi nei casi di traslazione, di deposizione, di rinuncia, nonché il suo diritto di verifica sul loro operato, attuato soprattutto attraverso la procedura inquisitoriale. Durante il pontificato innocenziano l'inquisitio veritatis divenne uno strumento formalizzato di ricerca della verità, tutto interno alla Chiesa, che consentì di ovviare ai limiti del procedimento accusatorio concentrando nelle mani del giudice anche l'accusa. Un procedimento usato in maniera strutturale da Innocenzo III e dai suoi delegati proprio per controllare gli alti gradi della gerarchia ecclesiastica. Il papa cercava di limitare l'autonomia politica di cui gli episcopati godevano da sempre in ambito locale, riprendendo quindi un problema che affondava le sue radici nella riforma dei secc. XI-XII. Fin da allora le gerarchie episcopali si erano opposte al programma accentratore del papato, rendendosi disponibili ad ammettere il primato di Roma solo entro i limiti delle antiche consuetudini e dei propri privilegi, fra i quali rientrava a pieno titolo la gestione dei rapporti con i poteri locali e in particolare con le città.

A qualsiasi appello alla consuetudine o ad autonomie sancite da privilegi papali, regi e imperiali e quindi da precedenti storici, il papa opponeva ora la natura divina del proprio potere e del diritto emanante dalla sua persona. In questo disegno dunque il rapporto con i comuni cittadini non rappresentava un problema immediato per il papato, ma era invece demandato ai presuli, incaricati però di gestirlo in perfetta sintonia con le direttive papali. La collocazione del problema delle relazioni con le città entro un progetto di portata universale non implicò una carenza di azione pratica. Al contrario, analizzando le azioni rivolte ai vescovi durante il pontificato di Innocenzo III, emerge che proprio i rapporti fra episcopato e comune assunsero un ruolo determinante nella gran parte delle deposizioni vescovili operate dal papa. Il numero delle rimozioni e delle sospensioni di presuli che, dopo essere stati inquisiti, risultarono indegni e inefficaci al dispiegarsi del disegno innocenziano, consente di parlare di un vero programma di rinnovamento delle gerarchie episcopali: fra i primi anni del Duecento e la fine del pontificato di Innocenzo III furono deposti i vescovi di Ivrea, di Asti, di Albenga, di Vicenza, di Bologna, di Piacenza e di Brescia, ai quali vanno aggiunte la rimozione dell'arcivescovo di Milano, documentata solo dai Gesta Innocentii Papae III, le sospensioni temporanee dai poteri di amministrazione della diocesi dei presuli di Treviso e di Milano, nonché gli esiti incerti delle inchieste avviate sui vescovi di Novara e di Verona: un quadro che consente di cogliere come l'azione del papa sull'episcopato si concentrasse proprio sull'area geografica maggiormente interessata dagli sviluppi comunali. L'analisi delle inquisizioni condotte su questi presuli permette anzi di spingersi oltre: nei casi di Ivrea, Asti, Piacenza e Treviso risulta chiaramente, da fonti diverse da quelle pontificie, che quei vescovi avevano ceduto alle pressioni dei comuni, rinunciando a diritti, terre e poteri in favore di questi ultimi e agendo dunque in totale disaccordo con la politica innocenziana di difesa dei diritti della Chiesa.

Il dato comune di questi casi non è tanto il fatto che tali vescovi si fossero trovati a gestire fasi assai critiche di conflitto con i comuni, cosa che di solito provocava il pieno appoggio politico ed economico del papa ai presuli 'perseguitati', bensì il fatto di aver acconsentito a trovare un accordo con le autorità cittadine, raggiungendo un compromesso con i comuni. Il papa sanzionò cioè con durezza ogni scelta politica operata dai singoli membri della gerarchia ecclesiastica che si fondasse sui reali rapporti di forza operanti a livello locale, a prescindere dalle direttive romane. Nel punire questi vescovi Innocenzo promosse al tempo stesso una nuova procedura, formalizzata in termini di legge nel quarantaseiesimo canone del IV concilio lateranense, mirante a sottoporre al controllo e all'approvazione del papato ogni accordo fra episcopato e comune: in analoghe circostanze infatti si salvarono solo i presuli, come quello di Verona, che prima di ratificare gli accordi con la città avevano richiesto l'approvazione romana, mentre furono puniti quelli che procedettero in maniera autonoma. Nel 1208 il vescovo di Piacenza fu sospeso proprio per aver concesso un aiuto finanziario al comune senza ascoltare il consiglio di un delegato apostolico, che gli aveva suggerito di consultare preventivamente il pontefice. Rispetto al III concilio lateranense (1179), dove si prevedeva che, in caso di necessità, il vescovo potesse contribuire alle spese cittadine, senza che però vi fosse alcuna costrizione in tal senso da parte dell'autorità civile, il IV concilio lateranense apportò il correttivo della preventiva approvazione papale anche in caso di contribuzione volontaria. La richiesta dell'approvazione pontificia fu una prassi imposta agli episcopati anche in altri contesti e di fatto si concretizzava sempre in un'inquisitio ordinata dal papa e affidata a un gruppo di ecclesiastici di provata fiducia. Attraverso tale procedimento il papato poteva controllare l'operato degli ordinari diocesani e imporre il rispetto delle linee politiche e ideologiche promosse da Roma. Si trattò dell'introduzione di una procedura che permetteva al papa di agire al di fuori della procedura: attraverso l'inquisitio egli poteva infatti indirizzare le scelte dei presuli anche in aperto contrasto con le consuetudini e le procedure d'azione consolidate. In un simile quadro i comuni restarono in secondo piano: furono i vescovi e al massimo le loro relazioni con le città a costituire il vero oggetto dell'azione di Innocenzo III.

Come l'analisi della legislazione conciliare, anche quella delle azioni del papa rivolte direttamente ai comuni dell'Italia centrosettentrionale ‒ sanzionati, spesso senza successo, perché impegnati in guerre che distoglievano attenzione e risorse al progetto della crociata o perché usurpavano la libertas ecclesiae ‒ rivela che il pontefice concepiva i comuni come un mondo dalle caratteristiche uniformi, colpevole di opporsi al programma pontificio e permeato da conflitti che dovevano essere neutralizzati. Ogni azione verso le città fu sempre subordinata al disegno innocenziano rivolto in prima istanza al mondo ecclesiastico e risultò incentrata sulla pacificazione in vista della crociata, sulla repressione dell'eresia, sulla tutela dei diritti ecclesiastici e sull'adesione alla politica imperiale della Sede Apostolica nel periodo in cui essa si trovò a gestire la successione a Enrico VI. Non vi fu invece alcun interesse per la reale comprensione delle trasformazioni politiche e istituzionali in atto nelle città, per la concreta varietà di situazioni socioeconomiche che caratterizzava ciascuna realtà e per la complessa rete di relazioni che si stava instaurando fra i comuni, tutti aspetti, questi, che sembrano offuscati nella documentazione papale. L'amplissima gamma di azioni in cui si concretizzarono gli scontri fra le istituzioni comunali e le Chiese locali ‒ azioni violente, leggi create ad hoc dai legislatori cittadini per favorire il passaggio di beni, diritti e persone dalle giurisdizioni ecclesiastiche a quelle secolari, usurpazioni e imposizioni fiscali di varia natura ‒ fu descritta nella documentazione pontificia con il concetto generico e onnicomprensivo di lesione della libertas ecclesiae, eclissando la concretezza degli scontri e dei rapporti di forza. Alle città furono insomma applicati criteri di interpretazione della realtà propri dell'elaborazione ecclesiastica e distanti dal mondo comunale, fatto, questo, che produsse nella percezione della Chiesa un avvicinamento fra lotta politica ed eresia e che generò una difficoltà di reale comprensione e di interazione fra papato e città.

I limiti di questa prospettiva divennero più evidenti durante il pontificato di Onorio III, che si trovò a dare attuazione all'ingombrante disegno del predecessore entro condizioni politiche che stavano mutando. Onorio puntò sulla collaborazione con l'Impero come condizione necessaria per raggiungere tale obiettivo. In questo modo la politica papale nei confronti delle città risultò ancora una volta inserita in un progetto più ampio, che faceva perno sulla liberazione della Terrasanta e sulla preventiva pacificazione necessaria ad attuarla, ordinata formalmente nel IV concilio lateranense. A questa priorità fu subordinato ogni tipo di intervento sul mondo comunale: la stessa difesa della libertà ecclesiastica e la lotta contro l'espansione dell'eresia erano viste come condizioni necessarie per la pacificazione dell'irrequieto mondo comunale italiano. Nell'affrontare questo genere di problemi fu richiesto in maniera programmatica il coinvolgimento imperiale, ribadito nel giuramento prestato da Federico II nel 1213 ‒ sul modello di quello prestato nel 1201, e poi tradito, da Ottone IV ‒ e in quello del 1219. Il tema della collaborazione fra papato e Impero raggiunse la sua formulazione più completa nelle costituzioni emanate, su iniziativa pontificia, il giorno dell'incoronazione imperiale (22 novembre 1220) e fu ancora confermato in quelle del 1224. Oltre ad affermare la comunanza di intenti fra papato e Impero nella tutela dei diritti della Chiesa e nella lotta all'eresia, il collegamento fra i due poteri e la convergenza dei rispettivi diritti consentì la predisposizione degli strumenti giuridici necessari all'azione rivolta ai comuni. Ciò avvenne per esempio con l'equiparazione dell'eresia, definita ormai come disobbedienza a qualsiasi decisione papale, al crimine di lesa maestà, i cui precedenti sono da ricercare nella decretale Vergentis in senium di Innocenzo III.

Appoggiandosi al modello elaborato dal predecessore e alla collaborazione imperiale, Onorio formulò un programma di intervento attivo sui comuni supportando l'azione diretta con l'opera del legato pontificio Ugolino d'Ostia, futuro Gregorio IX. Il papa e il suo legato si rivolsero però a un mondo cittadino percepito ancora come uniforme. Tale atteggiamento diede luogo a una serie di difficoltà di interazione con le città, che ruotavano intorno al problema del comune diviso e all'incapacità di tener conto del funzionamento interno delle istituzioni cittadine.

La campagna di pacificazioni attuata da Onorio e dal suo legato Ugolino si occupò delle lotte interne ai singoli comuni, alle quali spesso si intrecciavano motivi di scontro fra il clero e una delle parti cittadine. A Milano tanto l'intervento di Ugolino nel 1221 quanto quello di Onorio nel 1222 tentarono di ristabilire la pace arginando il potere assunto nel governo dal partito dei populares, che aveva portato la città allo scontro aperto con l'arcivescovo e i milites. A Piacenza, dove la lotta fra milites e populares interagiva con la formazione delle reti di alleanze milanese e cremonese, nel 1221 il papa e i suoi legati giunsero a ordinare lo scioglimento delle societates cittadine. Un analogo atteggiamento avverso ai popolari e mirante a ripristinare il controllo del partito dei milites sul comune di Piacenza si riscontra anche nel precedente arbitrato del legato imperiale Corrado di Metz (1220), a conferma della consonanza di azione fra Papato e Impero in quel periodo. A Perugia, intervenendo nel 1223 sui dissidi che opponevano milites e popolari fin dai tempi di Innocenzo III, Onorio ripropose lo scioglimento delle societates, con un intervento dall'alto che mirava a ripristinare l'assetto istituzionale fondato sulla prevalenza economica e politica dei milites precedente agli scontri. Nel 1225 l'intervento di Onorio III sulle lotte di fazione di Brescia fu invece giocato sulla confusione fra dissenso politico e religioso. La descrizione della vicenda in termini di 'eretici' contro 'cattolici' era certamente funzionale alla politica pontificia, che tendeva a considerare alla stessa stregua dell'eresia ogni genere di disobbedienza ai dettami papali. Nelle città di provata vicinanza all'Impero, come Pavia e Asti, fu Federico a intervenire su questo stesso genere di problemi. Tali azioni, che si collocano nel 1220, a ridosso dell'incoronazione, lasciano ben supporre la pressione del pontefice in tal senso, ma dimostrano anche l'operatività del principio di collaborazione fra papato e Impero. Anche quando l'imperatore nel 1226 arrivò a ordinare lo scioglimento delle organizzazioni di parte pavesi e il rogo delle carte, sebbene si fosse già riformata la Lega lombarda, la prassi adottata da Federico fu in tutto simile a quella usata in precedenza dal papato, segno che dinanzi alle evoluzioni socio-istituzionali in atto nei comuni, tanto il papa quanto l'imperatore giungevano alle stesse drastiche soluzioni. La presenza all'interno delle città di una pluralità di parti politiche portatrici di istanze conflittuali limitava fortemente l'efficacia di un'azione pontificia modellizzata.

La mobilità sociale e politica e le alterne vicende delle parti, con il conseguente ridisegnarsi delle alleanze interne ed esterne, rendevano incontrollabili i comportamenti del mondo comunale, facendo sì che ogni comune rappresentasse un caso a sé, per il quale il papato avrebbe dovuto mettere a punto una specifica linea politica. Il pontefice agiva invece con l'intenzione di ripristinare il controllo dei milites sulle città, muovendo dalla convergenza di interessi fra quella componente sociale e la Chiesa, convergenza fondata sulla tutela delle giurisdizioni signorili minacciate dai popolari. Dagli anni Venti sempre più i conflitti scatenati dalla pretesa dei comuni di accedere alle risorse ecclesiastiche ‒ descritti nel linguaggio pontificio come attacchi alla libertas ecclesiae ‒ interagirono con gli scontri politici fra milites e populares: per risolvere il primo problema il papato si rese conto che occorreva agire sul secondo. Pacificare significò allora ristabilire l'egemonia politica ed economica dei milites come principale garanzia di sussistenza del potere locale delle istituzioni ecclesiastiche. Come dimostra la scarsa capacità di tenuta dei tentativi di Ugolino d'Ostia e del papa di sciogliere le societates, l'azione del papato nei confronti delle città era in netto contrasto con le evoluzioni dei comuni, intenti a gestire il proliferare dei raggruppamenti socio-politici e a elaborare forme complesse di composizione politica e di rappresentanza all'interno delle istituzioni. Su un piano più generale il mondo ecclesiastico, muovendosi su scala locale nell'ottica della costruzione signorile, si opponeva al progetto di ricomposizione giurisdizionale e politica portato avanti dal comune podestarile, che mirava a costruire uno spazio pubblico inteso come patrimonio della collettività.

La tendenza del papato a leggere il mondo comunale secondo schemi propri di quello ecclesiastico fu alla base della difficoltà nel comprendere i funzionamenti e le prassi giuridiche e istituzionali che stavano a fondamento dei comuni. Questo problema produsse un'altra serie di conflitti laddove Onorio e Ugolino ordinarono di introdurre nella normativa comunale la legislazione pontificia e imperiale in fatto di eresia e di tutela della libertas ecclesiae, e soprattutto dove pretesero la modifica o la cancellazione delle norme statutarie che ledevano i diritti della Chiesa. Queste azioni, specie quando non erano frutto di un compromesso o di una mediazione, furono interpretate dai comuni come una lesione della loro piena capacità legislativa, che costituiva uno dei fondamenti della loro autonomia di governo. Liti sugli statuti sono documentate per esempio a Firenze (1218), Modena (1219-1221), Padova (1219-1222), Rimini (1224). A Padova nel 1224 fra le norme contrarie alla libertas ecclesiae il papa annoverò un capitolo che obbligava il vescovo a prestare giuramento sugli statuti cittadini all'entrata in carica del podestà, giuramento, questo, che per i comuni era fondante del diritto di cittadinanza. Una misura della difficoltà del papato a comprendere i fondamenti giuridici dei comuni, fondati sullo statuto e sui patti giurati fra rettori e cittadinanza ad esso connessi, ci è fornita dal caso di Bergamo. Nel 1225 Onorio chiese la cancellazione della norma che ordinava a tutti i cittadini di prestare giuramento al podestà all'inizio del suo mandato e che era stata indicata dagli stessi bergamaschi come motivo dell'impossibilità di licenziare un podestà originario di Cremona, assunto dal comune nonostante le sanzioni papali che vietavano gli scambi podestarili con quella città. Dal punto di vista dei bergamaschi il giuramento reso obbligatorio da quello statuto, oltre a non presentare alcun intento antiecclesiastico, costituiva uno dei fondamenti giuridici del comune ed era pertanto irrinunciabile.

Con il pontificato di Gregorio IX, in concomitanza con l'acuirsi della lotta contro Federico II e con la connessa necessità di cercare nelle città italiane degli alleati contro l'imperatore, si iniziò a delineare un mutamento di prospettiva. Nel disegno pontificio la crociata passò in secondo piano rispetto alla politica italiana e i rapporti con i comuni risultarono improntati a un nuovo realismo politico. Non è più possibile individuare uno schema unico per inquadrare la linea tenuta dal pontefice nei confronti delle città. Le relazioni fra le due parti infatti risultarono condizionate dall'evoluzione dei rapporti fra Gregorio e Federico, e a loro volta le relazioni fra il papato e i comuni della Lega contribuirono a forgiare il comportamento del papa nei confronti dell'imperatore. Se all'inizio del suo pontificato Gregorio aveva ripresentato ai lombardi la proposta di accordo con l'imperatore messa a punto da Onorio III nel 1227, il cui intento principale era quello di perseguire la politica papale di difesa della libertas ecclesiae, di lotta all'eresia, e la preparazione della crociata, i toni dell'epistola inviata ai rettori della Lega il 26 giugno 1229 suonavano invece più concilianti, soprattutto se si considera che la richiesta di inviare le loro forze al servizio del papa era ora riferita a un'azione rivolta contro Federico e non più alla difesa della Terrasanta. Dopo la temporanea intesa con l'Impero raggiunta con la pace di San Germano (1230) Gregorio IX ancora nel 1233 ripropose ai comuni della Lega la soluzione di pacificazione elaborata da Onorio, ma pochi giorni dopo, precisando alcuni punti dell'accordo, specificò che la tregua raggiunta con l'imperatore non obbligava a mantenere la pace con Cremona, vale a dire con i comuni dello schieramento imperiale. Si tratta del primo atto esplicito del papa che indica un suo deciso appoggio alle città della societas. A partire dal 1236 si consolidarono infine gli schieramenti che vedevano da un lato il papa e i comuni lombardi riuniti nella Lega e dall'altro l'imperatore, coadiuvato dalle città italiane a lui fedeli e da Ezzelino III da Romano.

Fin dall'inizio del pontificato di Gregorio IX si registra un diverso atteggiamento del papato nei confronti dei comuni, senz'altro collegato all'esperienza diretta accumulata dal papa nelle sue legazioni in Lombardia durante il pontificato di Onorio. La politica del nuovo pontefice trovò un manifesto programmatico nella lettera inviata ai podestà e ai popoli delle città lombarde il 29 aprile 1227. Collegando esplicitamente l'usurpazione della libertas ecclesiae all'eresia, il papa individuava i problemi che impedivano una reale penetrazione della politica pontificia all'interno dei comuni nel funzionamento stesso delle loro istituzioni. Da subito fu chiaro che il problema risiedeva negli statuti cittadini e nella loro natura dinamica. Nella lettera Gregorio entrava nel merito dei funzionamenti interni delle città e faceva derivare tutte le accuse rivolte ai comuni dal potere legislativo del consiglio, che consentiva la modifica degli statuti. La linea politica della Chiesa era ancora una volta individuata nelle costituzioni del IV concilio lateranense e nelle leggi imperiali, accanto alle quali faceva però la sua comparsa la pacificazione del 1227, da estendersi a tutte le città lombarde. Anch'essa si fondava a sua volta sui primi due complessi legislativi, tuttavia la novità della concordia stava proprio nell'insistenza sugli statuti cittadini. In particolare nella proposta di pace del 1227 si istituiva l'obbligo per podestà e rettori di prestare alcuni giuramenti con i quali essi si impegnavano a far inserire le costituzioni papali e imperiali negli statuti cittadini, a non permetterne la cancellazione e a cassare tutte le norme contrarie. Gregorio evidentemente vedeva in questo dispositivo di giuramenti il mezzo per garantire stabilità alla normativa della Chiesa negli statuti comunali, impedendone successive modifiche e cancellazioni. Ciò significa che aveva ben compreso la centralità del giuramento prestato dai rettori comunali sugli statuti come fondamento giuridico del comune.

Questa nuova sensibilità ai funzionamenti interni delle città è confermata dalle azioni avviate nei loro confronti durante il pontificato di Gregorio. Gli interventi furono sempre più calati all'interno dei comuni e delle loro prassi di governo e questi aspetti diventarono più evidenti via via che i rapporti fra il papato e Federico II assunsero una piega sempre più conflittuale. Come dimostrano i casi di Piacenza, di Bergamo, di Bologna, di Mantova, di Padova e di Treviso, e altri ancora, i conflitti fra la Chiesa e i comuni cittadini che videro l'intervento di Gregorio IX presentavano un elevato grado di complessità, derivante dall'interferenza di molteplici fattori: le reazioni delle città alla coincidenza sempre più stretta fra eresia e disobbedienza politica, gli interventi dei predicatori del movimento dell'Alleluia del 1233, il sovrapporsi degli schieramenti imperiale e papale ai conflitti fra Chiesa e comuni, a loro volta già fortemente complicati dal peso politico assunto dai partiti popolari nella società comunale. Ciò che caratterizzò l'attività di Gregorio rispetto a quella dei suoi predecessori fu la capacità di affrontare le situazioni locali con interventi specifici e circostanziati, attenti all'evoluzione socio-istituzionale interna ai singoli comuni, alle prassi politiche di governo e alle relazioni intercomunali. Non era più possibile applicare un modello generale di azione, occorreva plasmarlo sulla situazione che si stava affrontando e adattarlo ai nuovi obiettivi che si stavano delineando, primo fra tutti quello di promuovere a livello locale soluzioni politiche che permettessero poi un'alleanza con quelle stesse forze al momento dello scontro diretto con Federico.

La tendenza ad applicare letture della realtà interna alla Chiesa fu gradualmente abbandonata: in un momento di ricerca di alleanze si delineò invece la maggior funzionalità di un'ottica che cercasse di leggere la realtà comunale tenendo conto della percezione di sé di quello stesso mondo. Si abbandonò in definitiva la costruzione e l'applicazione di un modello in favore della comprensione realistica delle situazioni. Lo dimostra bene l'azione di propaganda e di organizzazione del fronte leghista del legato pontificio Gregorio da Montelongo. A Milano, per esempio, grazie al suo intervento, nel 1243 le forze popolari riu-scirono finalmente a imporre un estimo esteso anche ai patrimoni ecclesiastici, fondato sull'accertamento dei patrimoni e su un criterio di ripartizione proporzionale. Le ragioni dell'appoggio fornito dal legato alle forze popolari erano chiaramente strumentali e legate all'urgenza di reperire fondi per le azioni di guerra contro Federico. Tuttavia l'episodio sottolinea una rottura rispetto a quella politica papale di tutela della componente dei milites che abbiamo osservato intorno agli anni Venti. A Vercelli Gregorio da Montelongo appoggiò le pretese delle forze popolari, che stavano conquistando un peso crescente nel governo cittadino, sostenendo l'acquisto da parte del comune della giurisdizione del vescovo sui territori dell'episcopatus in cambio del passaggio della città dal fronte imperiale a quello papale (1243). Proprio quest'intervento del legato contribuì in maniera significativa alla definizione di due schieramenti contrapposti di milites e popolari e segnò un momento chiave nel processo di selezione e di affermazione di una élite nell'ambito del partito popolare vercellese.

Il culmine del processo di comprensione e di alleanza fra papato e comuni si raggiunse con il pontificato di Innocenzo IV. Con questo pontefice la lotta contro Federico II si fece totale e si legò in modo inscindibile alla pretesa del papato di affermare una superiorità del potere spirituale su quello temporale. Il papa, canonista ed esperto di diritto, ancora una volta affiancò e supportò l'attività politica con una potente costruzione teorica e ideologica, che teneva conto della conoscenza dei meccanismi istituzionali e delle prassi di governo delle città. Nuovamente gli interventi particolari si collocarono in un quadro più ampio, partendo però da una conoscenza dell'interlocutore che permise la realizzazione di un'alleanza più profonda, fondata, per esempio, sulla rielaborazione del concetto di universitas, capace di far convergere da una parte la complessità e la realtà pluriforme delle dinamiche politiche della società cittadina e dall'altra l'esigenza di fondamenti giuridici universali e comuni al mondo laico ed ecclesiastico. La particolare concezione del comune podestarile, che si fondava su un momento di delega di potere attraverso uno scambio di giuramenti fra il rettore e la cittadinanza sulla base degli statuti cittadini, aveva rappresentato un motivo di incomprensione al tempo di Onorio III, al quale queste forme articolate di giuramento politico parevano inconciliabili con la progressiva pretesa di controllo sul giuramento da parte del papato. Adesso invece era proprio questa prassi a costituire un elemento di riconoscimento della costruzione politica dei comuni da parte del papa.

Secondo le riflessioni giuridiche di Innocenzo IV, è proprio attraverso il giuramento che l'universitas è in grado di delegare quel potere che può conferire ma non esercitare in assenza, appunto, di un momento di delega di autorità a un rappresentante. Su queste basi prese forma un progetto di alleanza fra comuni e papato che si strutturò su un duplice binario: ideologico-concettuale da un lato, politico dall'altro. L'urgenza della guerra portò in primo piano la politica, e la dinamica dei rapporti fra papato e comuni si fondò sul reale collegamento con le forze operanti nelle singole città. La presenza dei partiti, che durante il pontificato di Onorio III aveva rappresentato una delle principali difficoltà di interazione fra Chiesa e comuni, risultò ora una componente fondamentale del rapporto fra le due istituzioni. Le azioni di Innocenzo IV si inserirono pienamente nella dinamica delle partes, sostenendo con ogni mezzo il partito favorevole alla Chiesa e supportandolo nel suo obiettivo di escludere dal governo cittadino la parte avversa. Nell'epistolario di Innocenzo IV sono rare le lettere indirizzate alla città indifferenziata, mentre numerose sono quelle rivolte a un partito ben preciso, che il papa appoggiava per cercarne il sostegno. La dialettica fra inclusione ed esclusione propria della politica cittadina si saldò con l'esclusione messa in atto dalla Chiesa nei confronti dell'opposizione politica, sempre più chiaramente descritta come eresia e coincidente, nel periodo di lotta con l'Impero, con il sostegno allo scomunicato Federico. Si giunse così a una definizione politica degli schieramenti, supportata da un quadro ideologico che proponeva una partizione fra i difensori della Chiesa e dell'ordine sociale da questa propugnato e i sovvertitori di quell'ordine. Si verificò però un collegamento circolare fra il papato e i suoi sostenitori: l'ordine difeso dalla Chiesa divenne in qualche modo l'ordine sociale perseguito dai difensori della pars ecclesiae. Ciò consentì una saldatura con i governi popolari che, impegnati nel processo di selezione dei propri vertici, tendevano a proporsi come portatori di un nuovo ordine in cui la pace, da premessa all'azione, diveniva obiettivo della società comunale governata dal popolo.

Un obiettivo da perseguire secondo un duplice schema d'azione: da un lato si affermò la capacità di gestire e disciplinare i conflitti in ambito giudiziario, al di fuori dalla competizione violenta, dall'altro, laddove ciò non fosse stato sufficiente, si misero in atto le procedure di esclusione. Chi infrangeva o avversava quest'ordine era escluso giuridicamente e materialmente dalla società. In quest'ottica il papato si propose come sostenitore della libertas urbana, proponendone la coincidenza con la libertas ecclesiae, il cui significato era ora tutto politico. Nel linguaggio di papa Fieschi l'espressione non indicava più solo un insieme di diritti, ma si allargava a definire genericamente l'alleanza con Roma, con uno slittamento semantico dall'ambito giuridico-economico a quello politico.

Per sostenere le parti favorevoli alla Chiesa nelle lotte interne alle città, Innocenzo IV aderì alle prassi di governo vigenti nei comuni, confermando, come avvenne per esempio a Treviso, ad Assisi, a Vercelli, gli statuti e le decisioni politiche che contribuivano all'affermazione dei partiti antimperiali. Nella pratica gran parte dell'appoggio agli alleati si concretizzò in manovre economiche, centrate sulla revoca dei feudi ecclesiastici ai sostenitori di Federico e sulla loro ridistribuzione, in feudo o in enfiteusi, ai sostenitori del papa. Il pontefice non esitò inoltre a mobilitare le risorse della Chiesa per sostenere i partiti filopapali di fuoriusciti, a cercare di assicurare il rimborso dei danni subiti dagli alleati autorizzandoli a tenere obbligati a sé i beni e i proventi dei ribelli e, ancora, a concedere il permesso alle chiese di obbligare i propri beni per procurarsi denaro, favorendo così i profitti delle famiglie che localmente si dedicavano all'attività feneratizia. Sono azioni, queste, sostenute dalla riflessione canonistica ‒ di cui lo stesso Sinibaldo Fieschi fu protagonista ‒ che considerava l'attività creditizia come positiva dal punto di vista etico quando contribuisse all'utilitas della comunità e al funzionamento della società e non fosse invece meramente finalizzata all'utile personale. Lo stesso principio del trasferimento dei vantaggi derivanti dalle risorse della Chiesa dai sostenitori del deposto imperatore ai fedeli alla pars ecclesiae fu applicato in ambito ecclesiastico. I benefici e le cariche ecclesiastiche furono revocati agli infedeli per riassegnarli a persone che mostrassero attivamente il proprio sostegno al papa, con piena coscienza della necessità di uno stretto raccordo fra partito al potere e gerarchia ecclesiastica locale. Nel regolare l'accesso da parte delle grandi famiglie alle risorse ecclesiastiche si sovrappose dunque a un criterio di tipo sociale una logica tutta politica. Questo atteggiamento, come pure il nuovo e programmatico rinnovamento delle gerarchie episcopali attraverso l'attribuzione della carica a persone di fiducia del pontefice, della propria familia cardinalizia e talora provenienti dagli Ordini mendicanti, permise al papato di rompere il legame pressoché esclusivo fra gli alti gradi delle gerarchie ecclesiastiche locali e l'aristocrazia urbana che aveva monopolizzato il comune consolare.

Tale rottura consentì al papato di stabilire proficui contatti con i vertici popolari, in cui aveva grande peso la borghesia dedita alla mercatura e alle attività bancarie. La rottura del nesso fra episcopato e antica aristocrazia urbana permise alle grandi famiglie popolari di accedere alle alte cariche ecclesiastiche nel capitolo delle cattedrali, che fino a quel momento erano state loro precluse, e di godere dei privilegi e del prestigio ad esse connessi. Le necessità finanziarie del papato durante la guerra contro Federico rappresentarono inoltre un auspicato ampliamento dei mercati a cui potevano accedere i prestatori cittadini. Se l'appoggio garantito dalla Chiesa alle parti che si schieravano contro l'imperatore muoveva da una logica strumentale, le famiglie che costituivano il gruppo dirigente del popolo seppero cogliere le opportunità di affermazione offerte dal mutato atteggiamento del papa nei confronti del mondo comunale, preparando quella convergenza fra guelfismo e popolari che si stabilizzerà poi con la discesa di Carlo d'Angiò. A quel punto l'appoggio della Chiesa rappresentò per i 'regimi di popolo' un mezzo per tradurre un'egemonia economico-politica in ideologia, rafforzando così quello che era percepito dal popolo stesso come un diritto a governare.

Il pontificato di Innocenzo IV coincise dunque con la messa a punto di un nuovo rapporto fra il papato e i comuni italiani, fondato sulla convergenza della politica papale con le trasformazioni socio-politiche in atto nelle città, trasformazioni che proprio nei rapporti con il papato trovarono nuove possibilità di definizione. Nel momento di massimo sforzo nella costruzione di alleanze in funzione antifedericiana, il papato cercò consensi nei partiti operanti nei comuni, adottando il loro stesso linguaggio politico e chiarendo che la Chiesa non intendeva sostituirsi all'Impero nella volontà di sottomissione delle città lombarde. Un linguaggio comune che si formò in quel laboratorio di definizione giuridica e concettuale rappresentato dalla gestione processuale dei conflitti fra Chiesa e comune. Durante il pontificato di Onorio III erano emerse le carenze della capacità impositiva della giustizia pontificia e delegata. Tuttavia la gestione delle controversie comportava un altro aspetto che prescindeva dalla capacità di imporre una soluzione alla lite. Il significato e il successo della giustizia pontificia devono essere intesi in rapporto alle pretese avanzate e sostenute ‒ poco importa se non attuate ‒ nella gestione dei conflitti, nella capacità di condurre la lite entro passaggi formali all'interno di una procedura definita dagli ordines iudiciarii, ossia nel descrivere le fasi di scontro e le reciproche pretese delle parti in termini giuridici. La pratica processuale consentì cioè di imporre definizioni e di applicare un quadro linguistico alla realtà trasformando la natura stessa delle liti, perché la capacità di descrivere un evento era già una prima forma di controllo sull'evento stesso. È così che si formò un linguaggio condiviso che permise una comunicazione politica, giuridica e ideologica fra papato e comuni.

Tutti gli aspetti considerati convergono nel disegnare un quadro delle relazioni papato/comune fondato da un lato su un'elaborazione concettuale capace di coinvolgere l'intero dispiegarsi delle strutture sociali ed ecclesiastiche in un unico linguaggio e in un'unica cornice teorico-giuridica, e dall'altro sull'esasperazione del conflitto con tutti coloro che si ponevano al di fuori di questa costruzione: con l'imperatore, percepito ormai come un concorrente illegittimo nell'occupare il vertice di questa visione del mondo, e con tutti i suoi alleati, contro i quali si intraprese una battaglia a tutto campo, che non risparmiò nella prassi colpi bassi portati dall'interno alle città dello schieramento filoimperiale.

fonti e bibliografia

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Per il pontificato di Onorio III: Regesta Honorii Papae III, a cura di P. Pressutti, I-II, Romae 1888-1895; Registri dei cardinali Ugolino d'Ostia e Ottaviano degli Ubaldini, a cura di G. Levi, ivi 1890.

Per il pontificato di Gregorio IX: Les registres de Grégoire IX, a cura di L. Auvray, I-IV, Paris 1896-1907.

Per il pontificato di Innocenzo IV: Apparatus in quinque libros decretalium, Straßburg 1477 (cf. anche Venezia 1481 e 1578); Les registres d'Innocent IV, a cura di É. Berger, I-IV, Paris 1881-1921.

Fonti relative a tutto il periodo considerato: Acta Imperii selecta. Urkunden deutscher Könige und Kaiser 928-1398, a cura di J.F. Böhmer, Innsbruck 1870; Corpus Iuris Canonici, a cura di A. Friedberg, I-II, Leipzig 1879 (riprod. anast. Graz 1959); M.G.H., Epistolae saeculi XIII e regestis pontificum Romanorum selectae per G.H. Pertz, a cura di C. Rodenberg, I-III, ibid., 1883-1894; Constitutiones et acta publica imperatorum et regum, a cura di L. Weiland, I-II, ibid., Leges, Legum sectio IV, 1893-1896; Conciliorum oecumenicorum decreta, a cura di J. Alberigo-P.P. Joannou-C. Leonardi-P. Prodi, Freiburg im Breisgau 1962.

Per gli interventi del papato sulle singole città italiane, alle fonti citate vanno aggiunte la documentazione comunale e vescovile e le cronache locali.

Per i casi citati nel testo: Statuta communis Vercellarum ab anno MCCXLI, Statuta et documenta nova, a cura di G. Adriani, in Monumenta historiae patriae, XVI, Leges municipales, 2, Augustae Taurinorum 1876, coll. 1088-1584; I Biscioni, a cura di G.C. Faccio-M. Ranno, I, 1, ivi 1934; Gli atti del comune di Milano nel secolo XIII, I, 1217-1250, a cura di M.F. Baroni, Milano 1976; Codice diplomatico del comune di Perugia. Periodo consolare e podestarile (1139-1254), a cura di A. Bartoli Langeli, I, Perugia 1983; G. Levi, Documenti ad illustrazione del Registro del Card. Ugolino d'Ostia legato apostolico in Toscana e Lombardia, "Archivio della Società Romana di Storia Patria", 12, 1889, pp. 241-326; G. Marchetti-Longhi, La Legazione in Lombardia di Gregorio da Montelongo negli anni 1238-1251, ibid., 36, 1913, pp. 225-285; 37, 1914, pp. 139-266; 38, 1915, pp. 283-362; S.G. Kuttner, Harmony from Dissonance. 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