Orizzonti missionari, coloniali, terzomondisti

Cristiani d'Italia (2011)

Orizzonti missionari, coloniali, terzomondisti

Massimo De Giuseppe

Impulsi missionari nella stagione liberale: i dilemmi della nazione e il rilancio dell’universalismo cattolico

Un tema per lungo tempo lasciato sullo sfondo negli studi intorno al processo di costruzione nazionale italiano e nelle analisi sulle relazioni tra istituzioni statuali ed ecclesiastiche, riguarda il collegamento tra l’evoluzione delle vicende politiche e culturali italiane e la proiezione missionaria della Chiesa nazionale in quelli che un tempo si definivano i «territori esterni»1. O meglio, in alcune stagioni questo nesso è emerso in modo più chiaro e rilevante (come in occasione della guerra italo-turca in età giolittiana, dell’adesione cattolica all’impresa etiopica mussoliniana o perfino della mobilitazione terzomondista negli anni postconciliari), alimentando ricerche, analisi e dibattiti storiografici piuttosto vivaci. Esiste anche una ricca serie di ricerche specifiche e particolari intorno all’esperienza «nazionale», ai legami con il territorio di origine e alla sensibilità politica di singoli missionari, oltre che alle singole storie di seminari o congregazioni religiose. Questo impianto ci aiuterà a declinare una rilettura, attraverso il filtro particolare delle missioni, della percezione italiana dell’extra-Europa e, indirettamente, della cangiante relazione dei cristiani con l’idea di nazione, con le istituzioni statuali e con gli attori politici ed ecclesiali.

Quello che qui cercheremo di presentare è quindi un sintetico percorso attraverso le maglie fitte di un cristianesimo italiano costantemente dominato (mai però in modo totalizzante) dalla tensione tra una dimensione locale, nazionale e universale della propria matrice cattolica, cui andrebbe aggiunta una breve riflessione sulla minoritaria ma via via sempre più dinamica sensibilità missionaria delle altre chiese cristiane presenti nella penisola. Un tragitto che prende le mosse dalla complessa ricostruzione postunitaria e dalla necessaria e irrisolta metabolizzazione dell’esperienza risorgimentale, per approdare, attraverso la frammentaria esperienza coloniale italiana, le vicende belliche e gli anni della guerra fredda, alla partecipazione italiana alla elaborazione di originali proposte e movimenti terzomondisti nella stagione del concilio Vaticano II.

Un primo dato interessante che emerge in questa rilettura di lungo periodo riguarda il ruolo specifico dei cattolici italiani nel processo di rinnovamento dell’azione missionaria mondiale e al contempo richiama alla luce la significativa coincidenza tra la chiusura del processo di unificazione nazionale e l’insorgere della questione romana da un lato, l’adesione dei cattolici della penisola al rilancio della proiezione universalista ed «esterna» della Chiesa dall’altro. Era come se i confini di quel «contro-mondo» cattolico ideale e immaginario che nel XIX e, almeno per buona parte del secolo XX, avrebbe alimentato, come un basso continuo e alternato, la riflessione di antiassolutisti, guelfi, intransigenti, cattolici liberali e finanche terzomondisti, avessero progressivamente disegnato una nuova mappa ideale; una cartografia simbolica e reale di quei territori «esterni» della Chiesa, in cui nemmeno la perdita del potere temporale sul suolo patrio della Santa Sede decimononica o i limiti politici dellaDemocrazia cristiana nell’età della guerra fredda apparivano come un limite invalicabile, incentivando e ridefinendo impulsi e letture universalistiche.

Ben oltre quindi i confini libertari impregnati di ideologia cattolica liberale disegnati da Le speranze dell’Italia di Cesare Balbo2, segnati dai contatti con l’idealismo giobertiano o dai termini critici della prospettiva rosminiana3, con la riscoperta della demarcazione medievale del territorio, incarnata dai nuovi comuni e municipalità evocati da Nicolò Tommaseo, l’extra-Europa poteva divenire uno spazio inedito di collegamento tra passato e presente nazionale: un luogo ideale di proiezione missionale e di affermazione di quella nazione cattolica che il solco risorgimentale sembrava aver demarcato politicamente e forse anche marginalizzato culturalmente4. In quest’ottica non fu certo casuale la decisione di Pio IX di accelerare, proprio nel fatidico 1847, avvicinandosi al cuore della tormenta risorgimentale, il progetto, già vagheggiato dal suo predecessore Gregorio XVI (autore nel 1839 della costituzione contro lo schiavismo In supremo Apostolatus fastigio e, l’anno successivo, della prima enciclica missionaria, la Probe nosti)5, di costituire in Italia un Istituto per le missioni estere, diretto esplicitamente al clero secolare e rivolto a quei territori che dipendevano direttamente, attraverso il sistema globale dei vicariati apostolici, dalla Sacra congregazione di Propaganda Fide6.

Quello sarebbe divenuto di lì a tre anni, superati i venti rivoluzionari, il Seminario lombardo per le missioni estere, nucleo originario del futuro Pontificio istituto missioni estere (Pime), esplicitamente costruito secondo il modello delle Missioni estere di Parigi7. La genesi dell’Istituto lombardo fu il frutto di un complesso intreccio tra spinte locali e nazionali, alla ricerca di una spiccata proiezione universalista che partisse da un territorio sempre più profondamente segnato dalle trasformazioni dell’incipiente rivoluzione industriale. Quell’esperienza avrebbe rappresentato infatti una prima svolta, culturale e politica, nell’interpretazione della missionarietà da parte della Chiesa italiana di metà Ottocento, aiutandoci a trovare una formula di periodizzazione. Il lavoro diplomatico del legato pontificio, Giovanni Loquet, incaricato direttamente dal Pio IX, trovò allora un interlocutore dinamico in padre Angelo Ramazzotti8, già superiore degli oblati di Rho e ancora fresco di nomina a vescovo di Pavia (nonché futuro patriarca di Venezia). In attesa del riconoscimento formale da parte di Propaganda Fide, il Seminario lombardo per le missioni estere venne aperto a Saronno (strategicamente localizzata tra Milano, Como e Varese) il 31 luglio del 1850, in una proprietà della famiglia Ramazzotti, già adibita a casa per gli orfani della grande ondata di colera del 1835-1836. Il progetto ottenne il sostegno dei vescovi lombardi, a cominciare dal titolare dell’arcidiocesi milanese, Bartolomeo Romilli. L’atto di fondazione sarebbe arrivato poi il successivo 1° dicembre, quando monsignor Ramazzotti aveva già affidato la direzione del seminario al sacerdote di origine milanese Giuseppe Marinoni. Il documento che recepiva la proposta si apriva con una significativa avvertenza preliminare:

«L’Arcivescovo di Milano e i Vescovi comprovinciali, non trattenuti dal timore di perdere qualche soggetto ai bisogni della Diocesi; considerando il compenso che devono attendere le loro Chiese del Signore; considerando che gli splendidi esempi di distaccamento e di sacrificio sono atti più che altro a svegliare la fede e possono rendere fruttuoso alla diocesi non meno il missionario, il quale parte per un altro emisfero, che il sacerdote rimasto a operare fra i suoi… ma più che tutto considerando che è interesse di ogni Chiesa particolare la dilatazione della Chiesa universale e che ciascuna delle diocesi è in qualche modo tenuta a fornire per questo suo intento il contingente di milizia apostolica, pensarono di dover fornire e tener cura delle vocazioni al ministero delle estere missioni con non minor zelo di quello che usino per la buona educazione del clero destinato alla diocesi»9.

L’episcopato lombardo ribadiva dunque il legame tra chiesa particolare e universale, tra clero diocesano e mondo «esterno», cercando nel rinnovamento dell’azione missionaria una valvola di sfogo per riaffermare i principi etici e formativi della nazione cristiana. Al contempo ridava slancio al progetto della Santa Sede, con il papa che si presentava come ultimo e autentico terminale di tutta l’operazione. In quest’ottica si possono infatti rileggere le serrate trattative intraprese con i vertici di Propaganda Fide, il cui prefetto, il cardinale Filippo Fransoni, accolse con grande favore il progetto milanese che sembrava poter sensibilizzare il clero locale e cooperare al contempo al piano romano di rilancio del sistema dei vicariati apostolici. La segreteria di Stato invitò quindi il nunzio in Francia a chiedere il sostegno della Pia opera di propagazione della fede di Lione, perché prestasse, almeno per qualche anno, «al nascente seminario di Saronno un regolare e copioso soccorso»10.

Quella scelta di seguire il modello francese delle missioni estere, sottoponendo cioè il nuovo istituto missionario direttamente al controllo del pontefice e alla Congregazione di Propaganda Fide, era anche il frutto di una particolare dinamica di localizzazione geografica. La proposta del seminario lombardo infatti non solo era maturata in un contesto culturale profondamente segnato dall’esperienza rosminiana, giobertiana e risorgimentale, modellatasi intorno al dibattito sul rapporto tra nazione e Chiesa Instrumentum Regni, ma metteva in luce una coincidenza di interessi attorno a una proposta che appariva fortemente innovativa tanto in termini intraecclesiali quanto rispetto al quadro politico esterno. Riguardo alla situazione politica italiana, la proposta di Ramazzotti ribadiva infatti la volontà del «Papa delle missioni» – come lo avrebbe definito anni dopo il più noto Atlante missionario pubblicato in Italia, riprendendo una diffusa vulgata popolare11 – di rilanciare l’universalismo cattolico attraverso un processo di riorganizzazione della spinta evangelizzatrice «dal basso», dal territorio regionale, forse perfino dai singoli comuni, ma all’insegna di un’inedita collaborazione interdiocesana. Questo particolare approccio alla missionarietà, di lì a poco ripreso anche dal Collegio di Brignole Sale, inaugurato a Genova nel febbraio del 1855 e dall’Istituto Villoresi, fondato a Monza nel 1862, apriva una finestra su un’Italia profonda che avrebbe così potuto dare il proprio contributo al rilancio dell’universalismo cristiano. D’altra parte il progetto del seminario segnava una frattura nella tradizione missionaria nazionale che puntava dichiaratamente a uscire dalle secche in cui era precipitata tra gli ultimi decenni del secolo XVIII e i primi del XIX, rilanciando un’istituzione come la Sacra congregazione di Propaganda Fide e rafforzando le prerogative della Santa Sede anche rispetto al potere e alle logiche delle, spesso stanche, congregazioni religiose tradizionali.

I tentativi di rinnovamento della missionarietà

La crisi della missionarietà non era stata infatti soltanto il prodotto degli assolutismi, delle riforme borboniche, della crescente contrapposizione tra clericalismo e liberalismo o l’effetto dell’onda lunga delle rivoluzioni atlantiche e delle imprese napoleoniche ma aveva avuto anche una complessa serie di motivazioni interne che, dopo i traumi dei pontificati di Pio VI e Pio VII (che pure aveva riordinato il sistema dei vicariati apostolici), proprioGregorio XVI e Pio IX avevano cercato faticosamente di superare. La crisi era apparsa globale: aveva toccato i virreynati iberoamericani, cardine delle monarchie «cattolicissime», accompagnandoli, attraverso i faticosi processi indipendentisti12, fino alla stagione degli scontri tra conservatori e liberali; al pari si era riversata anche sugli storici e più fragili insediamenti missionari africani e asiatici, colpendo spesso più duramente le congregazioni del clero secolare, laddove questo era presente. Tale motivo di fondo, oltre a una serie di questioni politiche contingenti, aveva spinto la Santa Sede a riflettere sulle modalità di selezione e formazione dei missionari, sulle forme di controllo e sulla loro capacità di adattamento ai diversi contesti politici, geografici, religiosi e socio-culturali. La crisi delle congregazioni storiche era legata sia a ragioni fisiologiche, sia economiche e rientrava in fondo nei termini di quella disputa di «sovranità» che le rivoluzioni atlantiche e il processo di ridefinizione degli Stati nazionali avevano definitivamente affermato. La decadenza era però legata anche ad una serie di significativi fattori interni e metodologici, a cominciare da una sorta di «invecchiamento» dell’azione missionaria, difesa in particolare dall’incapacità di rinnovamento di alcuni ordini storici. Viceversa la nuova azione missionaria che si voleva costituire si sarebbe dispiegata in una stagione di inedita penetrazione del modello della civilizzazione occidentale nell’extra-Europa, anche in territori che in passato si erano mostrati impermeabili alla ricezione di influssi esterni, tanto da contribuire a ridefinire i termini del mito delle «frontiere della cristianità». In particolare si stava iniziando a riproporre un confronto serrato tra il patrimonio di unità e pluriculturalità dell’ideale Universitas cristianorum con mondi altri e complessi, incidendo indirettamente sul lungo periodo anche su quelle riprese teoriche che si andavano facendo sul suolo nazionale (si pensi al D’Azeglio Taparelli) del confronto tra istituzioni ecclesiastiche e appartenenze religiose.

Nelle Americhe, come in Asia, esauritasi la spinta evangelizzatrice degli ordini mendicanti (pur senza dimenticare gli elementi di continuità dati dalla presenza francescana in prospettiva globale), incrinata la capacità evangelizzatrice di Cappuccini, Carmelitani e Agostiniani, la decadenza dell’universalismo missionario era stata simbolicamente rappresentata dalla faticosa riorganizzazione dell’azione extra-europea della Compagnia di Gesù (la congregazione dei più famosi missionari italiani dell’Ancien régime, da Matteo Ricci a Eusebio Chini)13 e dal principio di ‘nazionalizzazione’ che il processo missionario stava sperimentando in seno ad alcune grande potenze coloniali come la Francia, pronta a rivendicare il diritto di proteggere i cristiani presenti nei territori dell’impero ottomano.

Negli anni Trenta dell’Ottocento, segnati dai viaggi rocamboleschi del filoasburgico mantovano Giuseppe Acerbi e del prete sociale Giustino De Jacobis in Abissinia, del lazzarista piemonteseGiuseppe Sapeto in Siria, al tempo della fondazione dell’Opera del riscatto degli schiavi da parte del ligure Nicola Oliveri14 e dalle proposte innovative del francescanoLudovico da Casoria, fautore dell’educazione dei bimbi neri in Europa15, si era iniziato faticosamente a invertire quel processo di graduale decadenza delle congregazioni storiche e del numero dei missionari, attraverso un processo dai tratti marcatamente globali che aveva coinvolto anche gli ordini italiani. Secondo la mappatura di Schmidlin, ripresa da Louvet, si calcolava che nel Medio Oriente ottomano vi erano, alle soglie della ripresa missionaria, 6.000 cattolici latini o «levantini», 381.000 di rito orientale, 80.000 di rito armeno, 250.000 maroniti, 10.000 greco-melchiti, 10.000 siriaci e 25.000 caldei. In Nordafrica restavano poche migliaia di cristiani, grazie alla presenza di missionari francescani e lazzaristi francesi16, sparsi tra Tripoli, Tunisi e Algeri e con l’eccezione del Congo e delle colonie portoghesi. L’Africa subsahariana appariva chiusa a una penetrazione missionaria cattolica nell’impero britannico e dai coloni olandesi-boeri. In India invece Cappuccini italiani mantenevano la loro storica stazione di Agra e i Carmelitani quella di Bombay, mentre i francesi garantivano una presenza nei tre vicariati indocinesi, a Pechino, Nanchino e nel Fokien17.

Il panorama geopolitico mondiale che stava iniziando a mutare radicalmente, avvicinandosi alla metà del secolo XIX, sull’onda della seconda rivoluzione industriale, del consolidamento statunitense, della crisi del Concerto europeo e dei primi passi degli Stati-nazione emergenti, introduceva il mondo a quella che John A. Hobson definì «l’età dell’imperialismo»; al pari cominciava a porre delle nuove inquietudini intorno alla relazione tra impulsi nazionali, universalismo cristiano e ruolo delle missioni. Mentre le pressioni delle cancellerie dei vari Stati protagonisti della nuova ondata di espansioni coloniali sulla Segreteria di Stato vaticana si dirigevano chiaramente verso una richiesta di nazionalizzazione dei missionari, davanti a Propaganda Fide si ponevano nuovi problemi di natura più strettamente missiologica. Alle prese con un mondo, e con confini, in costante cambiamento, la vecchia tradizionale classificazione missionale elaborata da Pedro Borges, e ripresa da Antonio García y García, che identificava almeno tre grandi sistemi di penetrazione missionaria nelle terre «indigene», ribattezzati rispettivamente de bolsa (rimasti vergini alla penetrazione cristiana), de enclave (aree «pagane», circondate da altre già evangelizzate) e de flecha (un prolungamento del processo di evangelizzazione in territori contigui ma più periferici e culturalmente disomogenei) necessitava ormai di un riadattamento18. A questo si aggiungeva il nodo dell’obbligato confronto tanto con le istituzioni politiche, militari e socio-culturali dei paesi colonizzatori, quanto con le caratteristiche dei popoli colonizzati, laddove i «missionati» potevano essere esponenti di complesse civiltà stanziali, minoranze in contesti solidamente segnati dalla presenza di altre religioni, o che ci si trovasse in presenza membri di comunità indigene meno organicamente strutturate, prive di veri e propri centri urbani e di istituzioni educative stabili, spesso in presenza anche di forti elementi nomadici.

La necessità di trovare nuove formule nazionali in risposta all’indebolimento del clero regolare andrà quindi suscitando motivazioni rilevanti; una risposta da parte della Santa Sede sarebbe emersa con chiarezza durante il pontificato diPio IX (e, in termini diversi ma forse più compiuti, in quello di Leone XIII), nell’esigenza di rilanciare una generale romanizzazione delle strutture ecclesiastiche nelle chiese locali, ridefinendo al pari il ruolo evangelizzatore del clero secolare, alla ricerca di un nuovo equilibrio tra azione evangelizzatrice, pastorale e sociale, senza dimenticare i meccanismi più prettamente interculturali ed educativi: dall’importanza della lingua e all’accettazione di elementi culturali autoctoni nelle cerimonie e nelle manifestazioni devozionali, alla riproduzione esterna di formule di missione popolare e opere di assistenza (sia in ambito urbano che rurale) già sperimentate in patria. Proprio mettendo a confronto tali fermenti con la costruzione dei processi identitari, nel passaggio dall’esperienza sabauda a quella nazionale, ha scritto dei missionari italiani Gioacchino Volpe:

«Svolgevano essi gran parte della loro attività in una sfera ideale che non è quella che noi chiamiamo Italia: ma, pur tuttavia, Italiani anche essi, e segno anche essi della nuova vita dell’Italia. L’Italia risorgeva, e risorgeva la civiltà missionaria in Italia. Il Piemonte si metteva alla testa dell’Italia, e il Piemonte era anche alla testa delle opere missionarie. I Savoia si facevano guida dell’Italia, e i Savoia più degli altri principi italiani protessero e promossero le opere missionarie»19.

Se tutti questi fattori contribuivano quindi a promuovere un rinnovamento generale della missionarietà, nel caso italiano vi era anche un ulteriore elemento da tener in considerazione. Propaganda Fide aveva infatti trovato un proprio strumento privilegiato nelle Missioni estere di Parigi, godendo del clima di risveglio missionario che in Francia si era associato al nuovo impulso coloniale. Le missioni francesi si erano rianimate fin dagli anni Venti, sull’onda anche delle iniziative di Lazzaristi, Maristi, Padri dello Spirito Santo, Opera di propagazione della Fede, Padri bianchi, Assunzionisti e, dal 1843, con il Seminario per le missioni africane. Cruciale in tal senso, oltre allo zelo delle nuove congregazioni, era risultato il riposizionamento del clero gallicano, regolare e secolare, nei nuovi equilibri nazionali della Francia del secolo XIX, ma anche la capacità della Santa Sede di adattarsi alle nuove pulsioni di politica estera di Parigi. Un impulso che il rilancio dell’espansionismo asiatico e africano del Secondo Impero avrebbe alimentato in modo piuttosto significativo.

Se la Francia si presentava dunque come un modello, che offriva spazi per un’avanzata missionaria, in cambio di concessioni al nazionalismo gallicano e coloniale, rivolgendo lo sguardo dentro la cerchia delle Alpi, la situazione appariva piuttosto distinta. L’Italia in questo senso pagava un chiaro ritardo, sia sul fronte della piena incorporazione dei cattolici nel discorso nazionale sia per quanto riguardava le ambizioni coloniali e la conseguente possibilità di trasformarsi in un volano per l’attività missionaria del clero e di riceverne viceversa un sostegno ed una legittimazione. Una situazione che i fatti del 1870 e il riacutizzarsi della questione romana non avrebbero certo semplificato, finendo per retroalimentarne, per nuove vie, l’ambizione universalista dei cattolici della penisola20. Indirettamente però le esperienze missionarie di quella stagione, alla ricerca di un posto per l’Italia nel discorso sulla missione di civiltà mondiale degli Stati europei, scuotevano i cattolici anche su altri fronti, riavvicinandoli a una riscoperta della nazione, anche attraverso quella che, ancora Volpe, ha definito una «spiritualizzazione» dell’esperienza sociale21.

D’altronde proprio questi fermenti, i ritardi di una politica coloniale italiana, le esigenze di una nuova missionarietà, assistenziale ed educativa22, l’insorgere di rilevanti fenomeni emigratori, spingevano gli strateghi della politica missionaria italiana a un confronto serrato e sempre più consapevole con categorie quali quella di nazione, comunità internazionale, missione di civiltà e modernità, temi che avrebbero toccato trasversalmente «preti sociali» alla don Bosco, vescovi, sacerdoti, laici e indirettamente anche i grandi animatori dell’Opera dei congressi, da Giuseppe Sacchetti a donDavide Albertario fino al campione dell’intransigentismo bianco, il conte Paganuzzi, negli anni delle imprese africane dell’Italia crispina. Questo nuovo approccio alla missione contribuiva infatti a ridefinire i miti della nazione cattolica, rivendicando ad esempio l’«italianità» della battaglia di Lepanto (celebrata il 2 ottobre 1871) o ripensando a un internazionalismo cattolico sulla base della necessaria ricristianizzazione della società mondiale, specie di quei paesi «schiavisti», che non rispettavano il Trattato di Parigi del 1856. Erano temi che ridefinivano il rapporto tra territorio, nazione e universalismo cristiano e che d’altronde riverberavano in alcune delle sempre più numerose pubblicazioni missionarie, dalla torinese «Il Museo delle missioni cattoliche»23 alla milanese «Le missioni cattoliche» a «Gli Annali della propagazione della fede».

Il rilancio dello spirito missionario della Chiesa italiana si concretizzò quindi sulla scia degli impulsi dati da Pio IX in occasione del concilio Vaticano I e avrebbe seguito una costante crescita durante i tre pontificati successivi, lungo un percorso ideale che collega l’enciclica ai missionari Sancta Dei Civitas del 3 dicembre 1880 alla più nota Maximum Illud, l’«enciclica missionaria» di Benedetto XV del 1919.

Tra missionari e migranti: gli orizzonti asiatici e americani

Nella stagione della sinistra storica, dei navigli transatlantici diretti verso le Americhe e delle imprese crispine nel Corno d’Africa, le missioni italiane si riorganizzarono rapidamente e conobbero un impulso rilevante, muovendosi ben oltre i confini triplicisti e «abissini» della politica estera nazionale. Fin dai suoi primi passi, ancora negli anni Cinquanta, il Seminario lombardo per le missioni estere di monsignor Ramazzotti, diretto da monsignor Giuseppe Marinoni (cui sarebbe subentrato nel 1891 monsignor Giacomo Scurati), aveva manifestato una vocazione prettamente asiatica o oceanica. La prima missione in Melanesia e Micronesia, sotto la guida del prefetto della missione, padre Paolo Reina, e del superiore di Woodlark, padre Carlo Salerio, si era rivelata più turbolenta del previsto, nonostante la cooperazione con i maristi francesi che costò anche il primo «martire» della congregazione, il beato Giovanni Mazzucconi, ucciso da un gruppo di indigeni nella baia di Guazup. In quella fase sperimentale i missionari lombardi, muovendosi sulle reti dei vicariati di Propaganda Fide, arrivarono in India, nella missione di Hydebarad, con pro-vicario, dal 1864, monsignor Domenico Barbero, cui sarebbe subentrato nel 1882, come vicario apostolico e vescovo residenziale, monsignor Pietro Caprotti. In Bengala, a Krishnagar, si stabilì una stazione con superiori i padri Albino Parietti (1855-1864) e Antonio Marietti (1864-1879), fino all’arrivo del vescovo e prefetto Francesco Pozzi (1879-1887); in Birmania orientale, a Tuongoo, la guida della missione fu affidata a monsignor Eugenio Biffi (1867-1881), Tancredi Conti (1881-1886) e Rocco Tornatore (1886-1890), mentre a Hong Kong, l’incarico di prefetto e quindi di vicario apostolico andò a Timoleone Raimondi (1868-1894). Ancora in Cina, a Nanyang, sotto il vicariato apostolico del Honan, si stabilì Simeone Volonteri (1873-1904), a Weihwei, monsignor Stefano Scarella (1884-1902) e ad Hanchung si succedettero i padri Francesco Giulianelli e Gregorio Antonucci, prima dell’arrivo del vicario apostolico Pio Passerini (1895-1918). Solo dalla fine del secolo l’istituto missionario si sarebbe aperto anche ad una prospettiva americana, con una missione in Colombia, affidata dal 1882 al vescovo ordinario di Cartagena, Eugenio Biffi, e, dal 1895 al 1926, con un vicariato nella Baja California, nel Messico nord-occidentale, sui cui poi torneremo brevemente.

Nel frattempo, fin dal 1871, a pochi mesi da Porta Pia e a fronte del declino delle ambizioni austriache di ottenere una colonia africana, al Seminario lombardo se ne era aggiunto un secondo: il Seminario romano per le missioni, poi ribattezzato Pontificio seminario romano dei Ss. Aa. Pietro e Paolo. Questo era stato voluto esplicitamente ancora una volta da Pio IX che l’aveva nuovamente affidato alla Congregazione di Propaganda Fide24. In questo caso l’artefice del progetto era stato un sacerdote della capitale «restaurata», Pietro Avanzini, formatosi in un clima culturale piuttosto distante da quello che aveva forgiatomonsignor Ramazzotti, nel cuore pulsante della Lombardia della rivoluzione industriale. Di famiglia modesta (il padre era un carrettiere), formatosi nel collegio Capranica, appoggiato all’epoca alle strutture del Collegio romano dei padri gesuiti (antenato della Pontificia Università gregoriana), Avanzini era stato ordinato nel 1856; influenzato daVincenzo Pallotti, visse in pieno il clima di risveglio missionario che sembrò animare i seminari romani delle diverse congregazioni negli anni Cinquanta e Sessanta del XIX secolo. Fondatore, nel 1865 degli «Acta Sanctae Sedis», rivista che servì anche da volano finanziario per la fondazione del seminario, pubblicò il 29 giugno del 1867 il programma dell’erigendo istituto, aprendolo con un simbolico proclama, Vivens Momentum, dedicato al martirio dei primi grandi evangelizzatori, i ss. Pietro e Paolo25. Non va infatti dimenticato che nell’istituto romano confluirono anche i membri dei seminari di Torino e Genova e di altri collegi sparsi per la penisola. A differenza del seminario lombardo emergevano qui due elementi di novità: un’impronta più tipicamente romana e clericale da un lato (rispetto all’istituto di monsignor Ramazzotti, il progetto era rivolto solo a sacerdoti e non anche a laici) e una dimensione al pari italiana (si legge al punto uno: «Anzitutto il Seminario avrebbe accettato giovani di buona indole o sacerdoti provenienti da Roma o dall’Italia») e universalmente vaticana (punto 7: «I promotori dell’Associazione sarebbero potuti essere di qualunque nazione e i patroni di tutta questa opera sarebbero stati Maria Immacolata Regina degli apostoli e i santi apostoli Pietro e Paolo»). A 13 anni dalla proclamazione del dogma dell’Immacolata Concezione, nuovi simboli andavano quindi ad aggiungersi all’immaginario culturale dei missionari romani che avrebbero aperto ufficialmente il proprio seminario apostolico il 23 dicembre del 1871, ottenendo di lì a due mesi l’ufficiale benedizione del pontefice26. Dopo l’improvvisa morte di Avanzini (nel 1874 a meno di 42 anni) e il breve interim di monsignor Pietro Crostarosa, la guida del seminario passò a monsignor Giuseppe Pennacchi, amico personale del nuovo vicario per l’Africa Centrale, Daniele Comboni, che l’avrebbe retto fino al 1894. In questa fase presero le mosse le prime esperienze missionarie del seminario romano, grazie ai contatti con altre congregazioni storiche, a cominciare dai Francescani, e si posero le basi per una collaborazione con l’istituto milanese che di lì a trent’anni, nel 1926, avrebbe portato alla fusione tra i due e alla nascita del Pime. Sostenendo la rete dei vicariati assegnati da Propaganda Fide al seminario di Milano, gli alunni romani furono inviati tra il 1876 e il 1877 nelle missioni del Queensland, Honan e Hong Kong; quindi nel Bengala centrale e in Albania (1881), al Cairo, in Paraguay e Colombia (1882) e, dal 1883, assunsero il controllo della missione californiana di Clear Lake e del vicariato dello Shaanxi Meridionale, affidato l’anno successivo a padre Francesco Giulianelli, dove fin dal 1876 operava don Gregorio Antonucci. La missione cinese, sviluppatasi nel cuore della stagione imperialista, mise in luce piuttosto rapidamente una serie di elementi contraddittori che accompagnavano d’altronde anche gli altri protagonisti dell’avanzata missionaria occidentale, lungo i varchi aperti dalle guerre dell’oppio. Per quanto questa esperienza avrebbe contribuito negli anni alla crescita dei metodi missionari (attraverso la fondazione di confraternite, la diffusione di devozioni vecchie e nuove e di elementi religiosi tipicamente sacramentali, ma anche di progetti educativi, come la promozione della Pia unione delle maestre della dottrina cristiana), a costo anche di un significativo tributo di sangue e aprendo una nuova finestra sulla cultura orientale ad uso del pubblico italiano, la missione avrebbe poi sofferto irrimediabilmente l’ambiguità della stretta commistione tra avanzata missionaria e coloniale27.

Nel pieno di questo fermento missionario, che sembrava trasferire oltre confine i fermenti nazionali del cattolicesimo italiano e, al contempo, stimolare l’interesse delle istituzioni liberali, pronte a considerare «italianissime» le gesta di preti, suore, frati e laici missionari nativi della penisola28, va poi aggiunto un altro fattore di detonazione legato alla rapida crescita di scala dei processi migratori. Un volume edito nel 1899, in concomitanza con la grande mostra delle missioni, nell’ambito dell’Esposizione internazionale italiana, individuava simbolicamente tre grandi categorie di italiani all’estero: quella degli emigranti, quella dei commercianti e quella dei missionari29.

Emblematico in tal senso risultò il ruolo dei Salesiani di don Bosco che aprì la strada ad altre, coeve e successive, esperienze specifiche di ridefinizione del rapporto tra emigrazione e missionarietà, a cominciare da quella degli Scalabriniani. L’idea della prima missione salesiana in Argentina, affidata a Giovanni Cagliero, si concretizzò nel 1875 su richiesta del nuovo arcivescovo di Buenos Aires, monsignor León Federico Aneiros che aveva avuto informazioni sull’azione sociale del sacerdote piemontese grazie al console in Argentina Giovanni Battista Gazzolo30. Nel maggio del 1876 la Santa Sede approvò l’istituzione dell’Associazione dei cooperatori salesiani, fondata con l’idea di esportare oltre i confini nazionali l’esperienza della congregazione. Obiettivo primario era l’America meridionale. Questa nuova formula missionaria avrebbe da subito seguito un duplice binario, affiancando alle opere di assistenza spirituale e sociale agli emigrati italiani, la direzione del collegio di San Nicolás de los Arroyos per l’evangelizzazione dei locali. Due canali di ricostruzione della propria italianità che si sarebbero presto confrontati con altre formule di identità nazionali e di appartenenze politiche sudamericane. Dopo le prime due missioni sperimentali del 1876 e del 1877, i missionari piemontesi si specializzarono nella costruzione di scuole di arti e mestieri, ottenendo il sostegno, per il ramo femminile, delle suore di Maria ausiliatrice. Al contempo i Salesiani ambivano a sperimentare una missionarietà di frontiera, in aree sconosciute e con popolazioni indigene. Questa vocazione si sarebbe concretizzata nuovamente, tra spada e croce, con la nota spedizione patagonica guidata dal general Julio Roca, in cui i Salesiani svolsero un ruolo di veri e propri cappellani militari; fondarono quindi una serie di case missionarie (secondo il prototipo della Carmen de Patagones), fino ad ottenere la nomina di monsignor Cagliero a vicario apostolico della Patagonia settentrionale31. Il governo di questo enorme territorio fronterizo (cui si sarebbero presto aggiunti anche i vicariati apostolici «magellanico», di Méndezs e Gualaquiza, la missione della Pampa centrale e del Chaco e la prelatura del registro d’Araguaya), avrebbe segnato per gli anni a venire il rapporto tra senso di appartenenza ‘italiana’ e ‘romana’ dei missionari salesiani, a confronto con il tema dell’evangelizzazione indigena, della promozione sociale, del ruolo del laicato e del clero nativo, così come della concezione della guerra coloniale. L’eredità di quel processo di metabolizzazione della propria nazionalità, e dei limiti del proprio nazionalismo, avrebbe finito per influire anche sulle successive posizioni dell’ordine nell’ambito delle relazioni Stato-Chiesa nell’Argentina contemporanea32. Dal 1883 i Salesiani iniziarono poi ad operare anche in Brasile (nella prefettura apostolica del Rio Negro), dal 1887 in Cile e dal 1997 in America centrale, pochi anni dopo l’avvio delle prime sperimentali presenze in Palestina e Algeria.

Nel passaggio tra il secolo XIX e il XX, tra i pontificati di Leone XIII e Pio X; sulla scia dei fermenti suscitati dall’enciclica missionaria Sancta Dei Civitas, del dinamismo del nuovo prefetto di Propaganda Fide (dal 1892 al 1902), Włodzimierz Ledóchowski, il processo di nazionalizzazione dei missionari coloniali e di romanizzazione degli episcopati proseguì33. In una fase in cui si registrò la fondazione di nuove diocesi extra-europee e la proiezione sociale esterna della Rerum Novarum, le esperienze di missionarietà italiana si moltiplicarono; al contempo si ridefinivano i termini dell’azione sociale e della presenza dei cattolici nella società italiana, a confronto con l’evoluzione dei processi di urbanizzazione, migrazione, industrializzazione e con la crisi dell’intransigentismo che aveva in qualche modo riposto le basi di quello che Formigoni definisce il «faticoso approccio di avvicinamento alla politica nazionale»34, nella stagione dei Murri, dei Meda, degli Sturzo e dei Bonomelli, dell’insorgere del dibattito su modernismo e americanismo35, sulla pace internazionale e sul ruolo delle nazioni europee, tra il concilio plenario latinoamericano e i congressi dell’Aja.

Si rinvigorirono in quella fase le attività di Francescani, che corsero a far ripubblicare, tra 1891 e 1895, gli undici tomi della famosa Storia universale delle Missioni francescane di Marcellino da Civezza36; deiGesuiti37, che nel 1852 erano passati dalla protezione austriaca a quella francese in Africa; e dei Cappuccini, che consolidarono le proprie stazioni; sorsero nuove e dinamiche realtà diocesane e proliferarono le iniziative anche da parte delle comunità protestanti38. Nel novembre del 1887 Leone XIII approvò, con il breve Libenter agnovimus, l’istituzione dell’Istituto piacentino di assistenza agli emigrati nelle Americhe e della congregazione dei Missionari di S. Carlo Borromeo, più noti come Scalabriniani, in omaggio al fondatore, Giovanni Battista Scalabrini39. La loro azione si sarebbe immediatamente diretta, sulle tracce dei nostri migranti e della loro «piccola patria», verso Brasile e Stati Uniti, riscoprendo successivamente anche le mete di emigrazione europea (Francia in primis). Anche monsignor Bonomelli, vescovo di Cremona, fondò l’Opera di assistenza degli emigranti. Sempre al sostegno degli italiani nelle Americhe era diretta l’azione delle Missionarie del Sacro Cuore di Gesù, congregazione fondata a Codogno, nel Lodigiano, nel 1880 da Francesca Saverio Cabrini. Viceversa la Madri francescane del Sacro Cuore immacolato appoggiarono i missionari trinitari nella loro missione del Senegambia. A questa seguì l’istituzione della Pia Società di S. Francesco Saverio per le Missioni estere e del Seminario per le missioni di Parma, fondato da Guido Maria Conforti nel 1895; ancora una volta si riaffermava il prototipo milanese del Seminario lombardo ma con una metabolizzazione anche delle nuove suggestioni fornite dall’opera missionaria di Salesiani, Comboniani e Gesuiti e con una particolare attenzione intorno ai temi del dibattito sulla proto-inculturazione40. I missionari saveriani avrebbero accompagnato, fin dal 1899, i frati minori nello Shaanxi cinese. Ancora i Cappuccini italiani, guidati dal missionario bresciano Timoteo Zani, avrebbero sperimentato una turbolenta penetrazione missionaria in Brasile (culminata nel massacro del 1908 nell’Alto Alegre), tra Pará e Marañhao41, mentre i Francescani ampliarono le loro missioni peruviane e antichi ordini come Trinitari e Silvestrini inviarono propri missionari a Benadir e Ceylon. A questi andrebbero aggiunti anche i tanti casi di singoli preti migranti; emblematico al riguardo risulta il caso del padre Salvatore Gambino42, ‘prete sociale’ di origine siciliana, partito da Palermo per le Americhe insieme a un gruppo di compaesani assoldati da una compagnia mineraria britannica, poi fallita, durante il viaggio, e protagonista nei primi anni del secolo della fondazione dei primi centri di assistenza ad orfani e anziani dello Stato di Chihuahua.

Chiudiamo questa parte con un cenno all’esperienza, assai poco studiata, dei Missionari dei Ss. Pietro e Paolo nel vicariato della Baja California, in un’area ibrida tra i processi di migrazione (perlopiù mineraria) europea e la presenza di popolazioni indigene, alla frontiera tra il Messico porfiriano e gli Stati Uniti. Questo caso offre infatti risposte interessanti ad alcune delle domande che ci siamo posti sul dualismo tra riscoperta di un senso nazionale e l’adesione all’universalismo vaticano. Come il recupero della memoria e dell’esperienza missionale di Matteo Ricci aveva rappresentato il simbolo del ritorno dei missionari italiani nell’Estremo Oriente43, ricostituendo un singolare motivo di orgoglio nazionale, così, questa penisola nord-occidentale del Messico occupava un posto particolare nell’immaginario missionario italiano; nel corso del secolo XVIII era stata infatti al centro dell’impulso evangelizzatore/esplorativo di alcuni noti missionari italiani, tra cui in particolare due Gesuiti, il trentino Francesco Eusebio Chini, alias padre Kino, l’evangelizzatore della Pimería alta, e il cronista missionario Giovanni Maria Salvaterra, fondatore della prima missione di Loreto. Proprio con l’espulsione dei Gesuiti era iniziata per la regione una lunga decadenza, solo in parte compensata dall’azione di Francescani, che con Iunipero Sierra avevano fondato nel 1768 la missione di San Fernando Villacate; anche i Domenicani si erano resi protagonisti della fondazione di numerose chiese nella parte settentrionale della regione, poi passata agli Stati Uniti dopo la guerra del 1847. Da allora la Baja California aveva coperto un ruolo estremamente marginale nella storia della Chiesa messicana, con pochi sacerdoti (nel 1893 se ne contavano appena tre) e pochissime risorse44. Per ovviare a tale situazione, nel 1855 Pio IX aveva istituito il vicariato apostolico della Baja California e dal 1882 questo era passato sotto la giurisdizione del vescovo di Sonora. L’idea di sperimentare la presenza di missionari italiani in una terra semi-abbandonata al confine con gli Stati Uniti sembrò però sollevare l’interesse di Propaganda Fide. Con una lettera dell’8 gennaio 1894 la segreteria della congregazione, attraverso il pro-segretario Cavassa, convocò il rettore del seminario romano, padre Francesco Tommasini, per affidargli l’incarico di fondare nuove missioni in Messico45. La missione fu quindi istituita con decreto dell’8 novembre 189546 e pochi giorni dopo partirono dall’Italia i primi tre missionari: il superiore Luigi Pettinelli, di Matelica, nel salentino, il laziale Domenico Scarpetta e il piemontese Paolo Rivelli. È interessante notare come dai documenti conservati nell’archivio romano del Pime, emergesse la volontà di rinverdire i fasti «degli illustri missionari italiani che li avevano preceduti in terra messicana»47; questa vena patriottica, per quanto fortemente influenzata dagli stilemi del citato ‘contro-mondo’ cattolico e attenta all’universalismo vaticano, sembrò emergere in modo più manifesto in una fase in cui la politica moderatamente conciliatrice di Leone XIII apriva varchi di dialogo, seppur indiretto, con le istituzioni politiche italiane. Al contempo quell’esperienza metteva a contatto sacerdoti provenienti da aree culturali della penisola molto diverse tra loro e offriva lo specchio di un confronto triangolare con un nazionalismo di altra matrice, quello messicano, in una fase di graduale e silenzioso riavvicinamento tra istituzioni politiche ed ecclesiastiche garantite dai caratteri conciliatori della politica diPorfirio Díaz48. Un elemento interessante, che emerge dalle lettere e resoconti dei missionari italiani, in buona parte pubblicate sulla rivista della congregazione, «Periodico mensile delle missioni estere», edito a Roma dal 1897 al 1905, rimanda in modo esplicito alla rielaborazione dei simboli nazionali. Ad esempio all’incorporazione del mito cattolico messicano che spogliava la Virgen de Guadalupe, «nuestra señora» per i cattolici della regione, di qualsiasi separatismo etnico o sociale49, fino a porla al centro del tricolore giacobino (al posto dell’aquila azteca seduta sul nopal). Tutto ciò li faceva riflettere sull’assenza di un simbolo riconciliatore ugualmente potente nell’esperienza italiana50. Al pari nel faticoso tentativo di costruire una missione esemplare risuonano ripetutamente l’appello ai «buoni compatrioti» che dall’Italia avrebbero dovuto aiutare i sacerdoti in quell’impresa, cooperando a restaurare le vecchie chiese di missione o edificarne di nuove, o organizzare l’evangelizzazione degli indigeni e degli hombres de razón, in una regione priva di migranti italiani. La riflessione si allargava poi anche al regime di separazione Stato-Chiesa che nell’esperienza messicana sembrava riflettere, pur in un contesto percepito come più virulento, alcuni elementi delle vicende italiane; si legge ad esempio in uno dei primi rapporti inviati dai padri da La Paz al seminario romano: «le scuole poche e senza Dio; i costumi corrotti; ed a questo miserando stato la Bassa California fu ridotta dalla massoneria e dal liberalismo, che vi regnano prepotenti», mentre per quanto riguardava gli indigeni si riportava che ormai non restava nella regione che «qualche migliaio di pagani»51. Al contempo emergeva una diversa prospettiva del rapporto con la modernità, con il passato e con una povertà che appariva in qualche modo diversa da quella di cui certo non difettava nemmeno l’Italia del tempo. La realtà con cui si dovettero confrontare i missionari italiani era estremamente eterogenea. L’influsso nordamericano sulla regione era stato significativo principalmente per via delle miniere sparse nel territorio che avevano attirato per tre decenni uomini e investimenti ma che, dopo il progressivo esaurimento, avevano prodotto singolari rimescolamenti demografici e culturali. Nonostante l’arrivo di forze fresche, tra 1897 e il 1901 (con i padri Tito Alessandri Regoli, Fabiano Tedeschini Lalli e Ignazio Salvatori), le difficoltà di dare organicità alla propria azione pastorale ed evangelizzatrice, così come di rafforzare la presenza dei missionari sul territorio, avrebbero segnato tutta la storia della missione romana nella Baja California, fino al suo decadimento, e alla decisione dell’episcopato messicano, di ‘nazionalizzarla’, chiedendo alla Santa Sede l’instaurazione di una diocesi che la sottraesse al controllo di missionari stranieri, ponendo fine al vicariato di Propaganda Fide (obiettivo raggiunto nel 1926).

Quella missione, così come molte altre di quelle sopra richiamate, offriva quindi una finestra su mondi altri, contribuendo a sollevare l’interesse dei lettori cattolici delle riviste missionarie, verso altre forme devozionali ed espressioni di religiosità popolare. Il dato più interessante, nel quadro di una decisa critica nei confronti della modernità liberale, riguarda però le conclusioni cui arriva il padre Rivelli, riflettendo sui «ritardi» degli indios, nella stagione degli imperi e della dollar diplomacy. Secondo il missionario, vero rsponsabile delle «difficoltà degli indii» era infatti l’uomo bianco che nel tempo non aveva saputo «civilizzare a dovere queste razze» e che aveva combattuto l’unico istituto che avrebbe potuto «elevarle», cioè «la religione cattolica»52. In questa personale rilettura che il missionario italiano faceva della storia messicana, tornava dunque a farsi viva l’aspirazione a un diritto di tutela per la Chiesa, accompagnata però da una non troppo velata nota di polemica politica. Le missioni cattoliche avrebbero quindi salvato, in quest’ottica, tanto gli indii, quanto la nazione, fosse quella messicana o quella italiana.

Questa particolare interpretazione della missione di civiltà offriva perfino alcune interessanti considerazioni in controtendenza rispetto ai benefici stessi dei processi migratori. Scrisse infatti ancora padre Rivelli,

«L’immigrazione dell’europeo, benché non grande, porta pure un danno gravissimo. Mille volte sono preferibili nella loro ignoranza compatibile quegli indigeni, che non gli europei nell’ignoranza superba e pretendente di saper tutto ciò che la religione insegna, quando in fondo son matricolati asini, portando dappertutto zizzania e disordine. Quei buoni Californesi non conoscono la bestemmia e sulle loro labbra è raro che appaia una scurrilità indecente, mentre l’europeo non sa dir altro che bestemmie e nel parlare è molto scurrile. Un fatto che pure hanno notato tutti i missionari, è che l’europeo, il quale si decanta un cattolicone, quando emigra non mette più piede in chiesa, con danno di quei deboli cristiani. Oh! Quanto male apporta l’emigrazione!»53.

Compito della missione era quindi quello di ricostruire e «redimere le anime» e quest’opera poteva farsi, a suo modo, anche nazionale, aiutando a formare la coscienza «dei buoni e lontani compatrioti». Infatti, per quanto abbondino i toni paternalistici, e a tratti razzisti, questo piccolo caso ci dimostra come proprio dal contatto con quelle realtà nuove e lontane l’esperienza italiana trasse giovamento rivelando al contempo una crescente capacità di adattamento dell’azione missionaria alle specifiche esigenze delle popolazioni incontrate. Questo ci permette ad esempio di ribadire la tesi per cui la missionarietà fu una delle protagoniste silenziose della stagione formativa del cattolicesimo sociale italiano alle soglie del XX secolo.

I cattolici, l’«antischiavismo» e la «scoperta» dell’Africa

Nella stagione compresa tra le spedizioni di Livingstone in Africa orientale (1851), l’ascesa del Secondo Impero e la risalita del fiume Congo da parte di Pietro Savorgnan di Brazzà (1880), ricevette un inedito e rilevante impulso soprattutto l’avanzata missionaria italiana nell’Africa sudsahariana54. La formazione di missionari specializzati per le esigenze dei «popoli negri» come si utilizzava chiamarli, aveva d’altronde animato il lavoro particolare di singole congregazioni e contribuito a ridefinire (rispondendo a una specifica richiesta di Propaganda Fide) la formazione spirituale, morale e culturale dei missionari. Questo punto era stato affrontato anche nei vari sinodi e concili, gli stessi in cui si andavano ponendo le basi per lo sviluppo di una missiologia cattolica che avrebbe dato i suoi frutti più maturi a partire dal Convegno cattolico di Breslavia del 1909 in cui si iniziò a chiedere la formazione di specialisti di scienza delle missioni, attenti anche alle esigenze culturali, politiche e religiose delle diverse aree geografiche di destinazione.

Se anche sul fronte africano l’Italia pagava un naturale ritardo nei confronti della Francia, non bisogna dimenticare che proprio qui si era forgiata l’esperienza missionaria di alcune figure che avrebbero assunto un ruolo di riferimento, come il cardinale Guglielmo Massaia e, successivamente, il già citato Daniele Comboni. Massaia, di origine astigiana, formatosi nelle scienze mediche nell’ospizio mauriziano di Torino, già assistente spirituale del futuro re Vittorio Emanuele II, fu nominato fin dal 1846 vicario apostolico dei Galla in Etiopia55. Figura dai tratti avventurosi e singolari, interlocutore privilegiato delle istituzioni sabaude e al centro di una complessa rete diplomatica, avrebbe passato 35 anni in missione, attraversando ripetutamente il Mediterraneo e il Mar Rosso, scrivendo il primo catechismo in galla e aprendo numerosi centri assistenziali per la cura del vaiolo e di altre malattie endemiche ma anche vie commerciali e favorendo ricerche geografiche. Un dato interessante riguarda però in particolare il ruolo che Massaia svolse nel processo di penetrazione italiana nel Corno d’Africa, rappresentando una vero e proprio apripista e, al contempo, offrendo una cerniera tra istituzioni politiche, religiose, finanche economiche, italiane ed abissine. Da un lato fu consigliere personale del re dello Scioa Menelik II (e solo dopo il suo declino, nel 1879, sarebbe stato espulso dall’Etiopia); dall’altro ricevette da re Umberto I l’onorificenza di Grand’ufficiale dell’ordine mauriziano. Una figura che, non a caso, nel clima di conciliazione Stato-Chiesa che avrebbe accompagnato l’avventura etiopica mussoliniana sarebbe stata recuperata simbolicamente e innalzata sull’altare della ritrovata «italianità» dei cattolici, trasformata dalla propaganda del regime, e in particolare dai clerico-fascisti, nel «patriota missionario», simbolo «dei destini congiunti dell’Italia e dell’Etiopia»56. A lui il regista Alessandrini avrebbe dedicato il film Abuna Messias, proprio mentre Pio XI decideva però di non riavviare il suo processo di beatificazione, già sospeso daBenedetto XV nel 1916.

Piuttosto diversa fu invece l’esperienza dell’istituto dei missionari comboniani del Sacro Cuore di Gesù, nati dal nucleo originario del Seminario per l’Africa di Verona fondato nel 1867 daDaniele Comboni57. Quest’ultimo aveva partecipato dieci anni prima a una missione in Sudan organizzata dal suo mentore, don Nicola Mazza58, amico di Rosmini, ideatore di un piano di conversione dell’Africa. La missione, in cui era stato accompagnato da altri quattro sacerdoti e da un laico, Isidoro Zilli, era improntata alla valorizzazione del clero indigeno. Dopo l’unificazione italiana, nel 1861, il vicariato dell’Africa centrale era stato trasformato da Propaganda Fide in Missione Serafica59, con provicario il francescano austriaco Giovanni Reinthaler, appoggiato da 37 missionari austro-tedeschi e 11 italiani. Comboni si fece quindi promotore di una divisione del vicariato tra Francescani e Mazziani e, dopo una visita alla missione nel 1865, accompagnato da Lodovico da Casoria (di cui però non condivideva affatto il progetto di educare in Europa i bimbi africani) e il ritiro dei Mazziani, Comboni si dedicò alla fondazione di un proprio Istituto missionario a Verona (1867). Dopo il rientro in Italia, raccolse finanziamenti e sviluppò un proprio metodo missionale, poi ripreso in un ambizioso «piano di rigenerazione dell’Africa», in cui si definivano una serie di linee programmatiche tanto in campo evangelizzatore, quanto ai fini della modernizzazione del continente e della lotta alla schiavitù60. Qui il tema della nazione era affrontato in termini espliciti sulla base di una chiara affermazione dell’unità della Chiesa che poteva incaricarsi della rinascita di un intero continente, superando i limiti e le forze di quanto avrebbe potuto fare un singolo Stato nazionale o un unico Istituto missionario o vicariato apostolico. Comboni criticava anche gli eccessi del corporativismo e settarismo di alcune congregazioni missionarie. L’idea di una Congregazione africana non si sarebbe attuata ma evidenziava i caratteri di novità che l’azione e la riflessione missionaria andava assumendo in quella fase storica turbolenta. Il passaggio, riassunto nello slogan comboniano «O Nigrizia o morte» è interessante perché permette di ristabilire un filo di continuità con quella ricerca di affermazione del nazionalismo cattolico nell’universalismo vaticano da cui eravamo partiti, declinandolo però in termini nuovi e con una chiara volontà di stabilire un nesso solido tra riscoperta della propria spiritualità interiore e i piani necessari della costruzione politica e diplomatica (si pensi ai rapporti stabiliti con il khedivé d’Egitto).

L’idea di uno sviluppo dal basso dei popoli missionati, la costruzione di un clero locale e la creazione di forme di autosviluppo, per l’africanizzazione della Plantatio Ecclesiae, divenne la cifra distintiva dell’istituto veronese, cui si aggiunsero, dal 1872, le Pie madri della Nigrizia. Il modello di riferimento era sempre quello dell’Istituto di Parigi, riadattato però alle esigenze cangianti della missione nell’Africa sudsahariana e alla particolare sensibilità culturale del fondatore che volle aprire il seminario a sacerdoti e coadiutori laici, legati da un giuramento di fedeltà ma senza l’obbligo dei voti religiosi. Tale scelta si dirigeva verso un consolidamento dell’apostolato sul campo e conteneva una chiara denuncia dei comportamenti morali volti alla dissipazione e una ridefinizione della pietas cristiana, ricca di elementi di devozione fortemente sacramentale (i Gesuiti ebbero d’altronde un ruolo cruciale nell’impianto formativo del seminario, anche se avrebbero declinato l’offerta di subentrare ai Comboniani nella guida del vicariato) e mariana. I Comboniani ottennero la direzione della missione dell’Africa centrale, di cui cinque anni dopo Comboni divenne vescovo e vicario apostolico, fino alla sua morte, avvenuta a Karthoum nel 1881. Dopo la guerra tra mahadisti e britannici in Sudan, che segnò un ripiegamento della missione nei confini egiziani, il panorama era cambiato ma la stagione compresa tra la Conferenza di Berlino del 1884-1885, quella della Scramble for Africa61, e la Prima guerra mondiale non avrebbe rallentato l’avanzata missionaria nel continente africano, anzi. Il successore di Comboni, Francesco Sogaro, modificò parzialmente, con il sostegno di Propaganda Fide, il sistema di reclutamento missionario, introducendo, nonostante diverse resistenze interne, un sistema di voti semplici62. Dopo 1900 i Comboniani rientrarono in pianta stabile in Sudan e posero le basi di una loro avanzata a Sud che pochi anni dopo li avrebbe portati ad aprire le prime basi missionarie in Uganda, mentre le Madri della Nigrizia avrebbero aperto stazioni, dal 1914, in Eritrea.

Il modello comboniano, oltre a confrontarsi con i problemi dell’Africa contemporanea63, proponeva una singolare formula di evangelizzazione di territori islamici e ridefiniva l’immagine dello schiavo agli occhi dei cattolici italiani. Per questo si fece portatore, fin dagli ultimi decenni del secolo XIX, di uno stile educativo e pastorale che attingeva anche ad una particolare metabolizzazione della propria italianità. Il tema restava complesso anche perché dopo una serie di tensioni tra governo italiano e Propaganda Fide (di cui una sentenza di Cassazione del 1885 aveva chiesto il sequestro dei beni) non avevano certo favorito l’adesione vaticana alla proclamazione della colonia dell’Eritrea, nel 1890. Una situazione non certo favorevole alle ambizioni coloniali italiane, come ben comprese lo stesso Crispi che, tornato alla guida del governo volle subito ristabilire buone relazioni con la congregazione romana. Questo avrebbe portato, nel 1894, alla erezione della Prefettura apostolica dell’Eritrea, divisa dal vicariato dell’Abissinia, e affidata al cappuccino romano Michele Carbonara. Dopo Adua e la crisi di fine secolo, nel 1904 le missioni nella Somalia italiana furono invece affidate ai Trinitari, mentre l’anno successivo, già in clima giolittiano, Asmara avrebbe ospitato il Congresso coloniale italiano. Questa particolare adesione nazionalistica dei gruppi missionari africani avrebbe però anche provocato ripetute tensioni, ad esempio con i lazzaristi francesi, e creato un dualismo di fondo all’interno dei Comboniani stessi. Dopo l’approvazione delle costituzioni dell’istituto da parte della Santa Sede, nel 1910, crebbe la contrapposizione tra il ramo italiano e quello tedesco; questa tendenza si sarebbe esacerbata negli anni della prima guerra mondiale, segnati dall’arresto dei missionari tedeschi in Sudan da parte delle truppe britanniche, fino alla separazione avvenuta nel 1924. A suo modo il modello comboniano ha offerto in quella stagione una propria interpretazione dell’intuizione rosminiana, religiosa e finanche politica, della caritas universale, filtrata dalla rilettura spiritualista di monsignor Mazza e nella sua applicazione attivistica, rimodellando l’appartenenza alla nazione nel quadro di una vasta solidarietà universale.

Diversa fu invece l’esperienza africana di un’altra congregazione italiana di poco successiva, i Missionari della Consolata, fondati a Torino nel gennaio 1901 da Giuseppe Alamanno, rettore del santuario della Consolata. In questo caso emergono una serie di altri fattori interessanti. In primo luogo la ricezione del modello ideale del «missionario esploratore» Carlo Massaia che ispirò l’iniziativa del fondatore; in secondo il ruolo del vescovo di Torino,Agostino Richelmy, fautore di un intenso apostolato sociale che aveva piemontesizzato i dettami dell’enciclica leonina, cogliendo però anche i nuovi fermenti che andavano maturando su un fronte più spiccatamente socio-politico (si veda la sua La Democrazia Cristiana inculcata ai chierici nella diocesi di Torino). Questi convinse Alamanno a rinunciare al progetto originario di appoggiarsi sulla struttura romana delle missioni dei Ss. Pietro e Paolo, per mantenere una più forte caratterizzazione piemontese e diocesana. In terzo luogo la scelta di riprendere il modello francese, basato su sacerdoti e laici con voti perpetui espressamente dedicati all’evangelizzazione nell’extra-Europa, trovava qui un’ennesima declinazione, distinta sia tanto dall’esperienza dei seminari lombardo e romano quanto da quella sperimentata da Comboni a Verona. Ciò valeva sia rispetto alla ridefinizione del legame tra territorio della diocesi e la sua proiezione missionaria, sia riguardo all’adesione all’ideale nazionale dell’Italia liberale e giolittiana. Dal 1902 i Missionari della Consolata aprirono poi una missione tra i kikuyu del Kenya, confrontandosi con il sistema coloniale britannico e con l’impianto missionario anglicano64, mentre nel 1910 iniziò la sua attività il ramo femminile dell’ordine65.

La presenza di missionari italiani, di diversi ordini e congregazioni, reggenti vicariati apostolici o dipendenti da diocesi locali permise, nella fase terminale dell’imperialismo, di confrontarsi con la crisi dei diversi modelli politico istituzionali vigenti nelle colonie, sperimentando al contempo le contraddizioni interne alla ‘missione di civiltà’ europea ma anche la drammaticità delle guerre asimmetriche che negavano un pari status al nemico indigeno66. Questo comportava, oltre che una messa alla prova della propria vocazione spirituale e religiosa, del proprio metodo missionale e delle proprie reti di collegamento con le istituzioni politiche locali, anche una rielaborazione della propria idea di nazione e impero e perfino di universalismo cristiano, impegnato in un confronto sempre più serrato con distinte realtà religiose, culturali, linguistiche e, naturalmente, sociali.

Dalla Libia all’Etiopia: le missioni coloniali e il fascismo

Il tema delle missioni coloniali italiane è stato studiato in modo ormai piuttosto approfondito da storici di diversa formazione e taglio disciplinare, lungo un filone che nel corso dell’ultimo quindicennio si è arricchito di nuove chiavi di lettura e interpretative, oltre che dell’accesso a fonti prima inedite (come quelle dell’Archivio segreto vaticano relative ai pontificati diBenedetto XV e Pio XI). Tutto ciò ha permesso di tornare a riflettere su formazione, ruolo, identità dei missionari e sulla ricaduta religiosa, ma anche sociale, culturale e politica della loro azione. Ha spinto inoltre a rivedere i termini delle relazioni tra Santa Sede, Propaganda Fide e singoli istituti e congregazioni con le istituzioni politiche dell’Italia liberale prima e fascista poi, oltre che con le trasformazioni del processo di Nation-building67.

La più antica «missione coloniale» italiana, come già ricordato, fu la prefettura apostolica dei Cappuccini in Eritrea, eretta nel 1894 e poi trasformata in vicariato apostolico nel 1911. Il primo vicario, monsignor Camillo Carrara da Albino (1911-1924), ricevuto dal re e dal presidente del Consiglio (oltre che dal papa), alla vigilia della partenza, puntò sull’apertura di un seminario diretto alla formazione del clero locale; produsse quindi una rivista in italiano ed una in tigré, tradusse il Vangelo in gh’ez, aprì scuole e orfanotrofi e rilanciò la penetrazione missionaria in aree indigene, cercando di evangelizzare comunità quali i cunama e i bogos68. Nel progetto cappuccino era quantomai presente anche l’idea di erigere una diga all’avanzata protestante nel Corno d’Africa, che individuava una possibile minaccia anche nella stazione aperta dal 1870 dai valdesi italiani a Massaua, con l’appoggio della Evangeliska Fosterland Stiffelsen di Stoccolma69. Dopo il passaggio alla Sacra congregazione per le Chiese orientali e la nomina di un vescovo indigeno ordinario dei cattolici di rito etiopico, la missione cappuccina avrebbe gradualmente migliorato le relazioni con le istituzioni coloniale italiane, passando dalle lamentele espresse nel 1911 dal deputato cattolicoCesare Nava (che aveva criticato come il frutto di un perdurante «settarismo massonico» gli scarsi fondi pubblici all’erezione di scuole missionarie)70 alla concordia e ai toni conciliatori della stagione dell’imperialismo fascista, più volte evocata in un rapporto del visitatore, padre Benigno da Sant’Ilario, pubblicato nel 193971. Nel 1904 la Santa Sede affidò invece, sempre attraverso Propaganda Fide, ai Trinitari la colonizzazione della Somalia italiana, con l’incarico di liberare gli schiavi. Fu quindi istituita un’apposita prefettura apostolica, staccata dal vicariato di Zanzibar, e affidata al padre Leandro dell’addolorata, che avrebbe poi ottenuto il via libera per aprire stazioni missionarie anche in territorio britannico. Dopo Chisimaio, i Trinitari avviarono missioni a Brava e, dal 1912, a Mogadiscio.

Più complesso appare invece il quadro della colonizzazione missionaria della Libia72, sia per le particolari condizioni derivanti dalla guerra italo-turca, sia per le differenze che marcarono l’esperienza in Tripolitania da quella in Cirenaica, dove la presenza islamica delle popolazioni berbere e arabe e gli specifici caratteri delle sette ibadite e senussite, mutavano in parte il quadro di riferimento. La Libia d’altronde vantava già un’antica presenza francescana e la nascita del nuovo vicariato apostolico, proclamato nel 1913, si intrecciava in modo inedito ai caratteri della presenza militare italiana73. La guerra coloniale contribuì d’altronde a rilanciare non solo l’interesse degli italiani per il sostegno ai piani caritatevoli e sociali dei missionari (si pensi al vecchio Comitato milanese pro-Eritrea) ma anche l’immagine del «missionario-soldato», anticipatrice dell’esperienza dei cappellani militari nella Prima guerra mondiale ed esaltata tanto sulle pagine di «Rassegna nazionale» ed altre riviste missionarie, quanto dalle iniziative dell’Associazione per soccorrere i missionari italiani74. Questo nuovo immaginario comportava la ridefinizione, in senso evangelizzatore, sociale e missionario, del miles Christi, e iniziò a penetrare anche oltre i confini della stampa cattolica, accompagnando la costruzione delle stazioni di Bengasi, Barce, Tolmetta, Cirene, Tobruch e Marsa Susa. In molti interventi del tempo si evocano scenari esotici di affermazione della cristianità italiana in un contesto segnato anche dal nuovo clima politico seguito alla sperimentazione del Patto Gentiloni o nei fermenti che animavano i giovani militanti dell’Azione cattolica75. D’altronde già alle soglie della disfatta di Adua (marzo 1896) su «La Scuola cattolica» si era potuto leggere un commento del seguente tenore:

«Perché vedendo la nostra bandiera combattere in Africa non ci è dato di dire di noi stessi: Ecco, nello sventolar di quella bandiera ondeggiano gli ideali di un popolo cattolico: la giustizia, la religione, la libertà; ideali, che quella bandiera porterà entro le sue pieghe ai popoli africani? Perché siamo costretti invece di vedere con l’animo contristato le bandiere italiane rappresentanti gli ideali della Massoneria gli ideali di Satana, gli ideali di Crispi, tutt’uno?»76.

Durante la stagione di Benedetto XV e della tempesta della Prima guerra mondiale, la proiezione extraeuropea del conflitto, che coinvolgeva le colonie tanto a livello di sfruttamento delle risorse e di reclutamento, quanto su un fronte più marcatamente geopolitico e strategico, accelerò i caratteri di quel confronto più o meno forzato. Da un lato si poneva infatti il problema della guerra in sé e dell’ideologia della cristianità di fronte al conflitto coloniale, che non aveva risparmiato ambiguità nell’esperienza delle guerre nel Corno d’Africa prima e nella Libia ex ottomana poi. Come la storiografia ha ben evidenziato, la posizione di prudente richiamo alla pace mantenuta dalla Santa Sede e gli impulsi neutralisti non rallentarono il crescente lealismo patriottico dei cattolici italiani che avrebbe ridisegnato definitivamente, nell’Italia profonda ancor prima che tra intellettuali e politici, i termini dell’adesione nazionale. Questa avrebbe poi trovato una piena legittimazione nell’esperienza dei cappellani militari, in iniziative come quella promossa dal futuro rettore dell’Università Cattolica di Milano, il francescano Agostino Gemelli, di consacrazione dei soldati e del tricolore al Sacro Cuore (rispondendo inconsapevolmente all’invocazione dei missionari della Baja California) o sulle pagine delle sempre più numerose riviste missionarie. Anche l’austero organo deiGesuiti italiani, «La Civilità cattolica» non nascose la crescente «benevolenza verso l’intervento italiano»77. Se questi stimoli avrebbero ridefinito i caratteri del guelfismo nazionale di un don Sturzo o della proposta sociale di Toniolo, va d’altronde ricordato che qui si posero le basi di una piena ricomposizione del dualismo tra quell’impulso universalista romano e le aspirazioni nazionali che aveva accompagnato i cattolici italiani nei decenni precedenti. Se del tutto minoritari sembravano i richiami al pacifismo di un Guido Miglioli o di un Giovanni Pioli, si deve considerare che nemmeno la nota papale dell’agosto del 1917 sulla fine della «inutile strage», con la crisi di coscienza che ne derivò, né l’enciclica Pacem Dei Munus, del maggio successivo, con il suo afflato mondialista e la non troppo tacita apertura alla Società delle Nazioni78, riuscirono a spezzare il processo culturale messosi ormai in moto: un processo centripeto che sembrava assorbire pienamente al suo interno anche l’orizzonte missionario e che gli anni del fascismo avrebbero di lì a poco ulteriormente accelerato e finanche schematizzato. A poco servì anche l’esplicito richiamo del papa in un passaggio cruciale della lettera apostolica sulle missioni Maximum Illud, del novembre 1919, in cui definiva «deplorevole» che

«vi fossero Missionari i quali, dimentichi della propria dignità, pensassero più alla loro patria terrestre che a quella celeste; e fossero preoccupati di dilatarne la potenza e la gloria al di sopra di tutte le cose. Sarebbe questa una delle più tristi piaghe dell’apostolato, che paralizzerebbe nel Missionario lo zelo per le anime, e ne ridurrebbe l’autorità presso gl’indigeni. Questi, infatti, quantunque barbari e selvaggi, comprendono sufficientemente ciò che vuole e cerca da loro il Missionario, e conoscono, si direbbe al fiuto, se egli ha per caso altre mire all’infuori del loro bene spirituale. Poniamo che egli non abbia del tutto deposto questi intenti umani, e non si comporti pienamente da vero uomo apostolico, ma dia motivo a supporre che egli faccia gl’interessi della sua patria; senz’altro tutta l’opera sua diverrà sospetta alla popolazione; la quale facilmente sarà indotta a credere che la religione cristiana non sia altro che la religione di una data nazione, abbracciando la quale uno viene a mettersi alla dipendenza di uno stato estero, rinunciando in tal modo alla propria nazionalità»79.

E ancora, aggiungeva,

«E veramente Ci recano gran dispiacere certe Riviste di Missioni, sorte in questi ultimi tempi, nelle quali più che lo zelo di estendere il regno di Dio, appare evidente il desiderio di allargare l’influenza del proprio paese: e stupisce che da esse non trapeli nessuna preoccupazione del grave pericolo di alienare in tal modo l’animo dei pagani dalla santa religione. Non così il Missionario cattolico, degno di questo nome. Non dimenticando mai che non è un inviato della sua patria, ma di Cristo, egli si comporta in modo che ognuno può indubbiamente riconoscere in lui un ministro di quella religione che, abbracciando tutti gli uomini che adorano Dio in spirito e verità, non è straniera a nessuna nazione»80.

In tal senso, nonostante quest’accorato appello universalista, aperto alla ricezione di stimoli interculturali, perfino il dibattito intorno al «suicidio dell’Europa civile» sembrava scuotere le nuove certezze nazionali solo in superficie, senza influire in modo significativo sul patriottismo coloniale, pronto ormai a rivalutare la croce sabauda come simbolo del vero incontro tra «religione e patria»81. In fondo solo l’Istituto per le missioni di Milano aveva registrato tra le sue fila, durante il conflitto, l’arruolamento di 35 soldati e di tre cappellani militari, con tre morti e tre medaglie al valore. Nonostante l’articolazione delle posizioni e la complessità del dibattito su missioni, pace e guerra, il recupero cattolico dell’ideale nazionale e dei suoi simboli sembrava dunque essersi compiuto de facto tra le campagne d’Africa e la prima guerra mondiale, alimentando le riflessioni di intellettuali, missionari, teologi e membri dell’associazionismo e ponendo le basi per una più completa politica di missioni nazionali italiane nel complesso e sofferto passaggio dal pontificato di Benedetto XV a quello diPio XI.

La stagione fascista, la frammentazione del popolarismo, i Patti Lateranensi e la graduale costruzione del regime, giocarono naturalmente un ruolo decisivo in tal senso. In particolare gli anni compresi tra il 1924 ed il 1931 registrarono una graduale ricomposizione dello sfondo, come ormai ampiamente ricostruito dalla storiografia82, ponendo le basi anche per una nuova fase della missionarietà italiana. Nel 1924 i Missionari della Consolata presenti a Mogadiscio potenziarono la propria stazione, aprendo un brefotrofio, un orfanotrofio e assumendo la gestione, oltre che dell’ospedale di S. Martino, delle scuole elementari del Regno; un trend analogo seguirono i frati minori francescani presenti in Libia, la cui amministrazione apostolica sarebbe passata a Fulgenzio Lazzati, nominato nel 1931 vicario apostolico. A questi furono affiancati, fin dal 1927, i Fratelli delle scuole cristiane, incaricati della gestione delle scuole elementari di Tripoli, Homs e Zuara, e una serie di congregazioni femminili: le suore di S. Giuseppe dell’apparizione, le francescane Missionarie d’Egitto e le suore di S. Vincenzo, incaricate della gestione dell’ospedale coloniale e di un orfanotrofio femminile. In questo clima si colloca anche il progetto di rilancio del Seminario lombardo ad opera del padre Paolo Manna, intenzionato a ridefinire l’opera della propagazione della fede e di salvaguardia delle missioni, adattandola al nuovo contesto politico nazionale e internazionale. Di origine campana, dopo un’esperienza missionaria in Birmania in una missione del Seminario lombardo missioni estere, padre Manna assunse dal 1909 la direzione della rivista del seminario, «Le missioni cattoliche» e avviò un’intensa opera di propaganda e divulgazione dei temi missionari, attraverso la pubblicazione di libri, opuscoli, cartoline, immagini devozionali83. In particolare un’iniziativa editoriale, l’«Almanacco delle missioni», opere di propagazione della fede e della S. Infanzia, ottenne una notevole rilevanza, contribuendo a diffondere agli occhi dell’opinione pubblica, lombarda e non solo, l’immagine dei missionari come di veri cristiani italiani, sparsi per ogni angolo del sempre più vasto orbe terracqueo. L’istituto cresceva, aprendo case apostoliche in varie località della penisola, un seminario minore a Genova e incrementando il numero dei missionari. Questo era in parte il risultato dell’attenta direzione di monsignor Piero Viganò, vescovo di Hyedebarad in India, grazie a cui si cominciarono a moltiplicare i vicariati, a partire da quello di Kaifeng in Cina, dove a 62 milioni di non cristiani, corrispondevano 141.565 battezzati, 191 missionari italiani, 37 sacerdoti indigeni, 19 religiosi europei, 280 suore europee e 107 indigene, con 1.734 catechisti e 148 seminaristi sparsi in 6 istituti. Dopo il secondo capitolo del 1924, convocato per risolvere alcuni problemi di diritto canonico, e che introdusse il giuramento ma senza voti religiosi, padre Manna divenne superiore e iniziò a mettere in pratica il suo progetto più ambizioso, la fusione tra l’Istituto lombardo e il seminario romano dei Ss. Pietro e Paolo. Nonostante la Santa Sede avesse espresso una serie di perplessità sul carattere nazionale che sarebbe derivato da tale fusione84, la crisi che accompagnò il seminario romano dopo l’espulsione dei suoi missionari dal Messico nel 1926 (prodotto delle nuove leggi anticlericali volute dal presidente Calles ma anche di una decisa spinta verso la creazione di una diocesi nazionale da parte dell’episcopato locale), sembrò favorire il progetto di Manna che si risolse nel 1926 con la fusione. Superate le incertezze iniziali, questa fu d’altronde accolta con favore dal prefetto di Propaganda Fide, Van Rossum, che a quel punto stimava utile una razionalizzazione delle risorse85 anche in vista di un’ulteriore professionalizzazione del nuovo Pontificio istituto per le missioni estere che subito aprì tre nuove case a Roma, Gaeta e Lucca. Padre Manna, oltre a porre le basi per la fondazione delle Missionarie dell’Immacolata86 tra il 1927 e il 1929, promosse varie iniziative d’avanguardia per una ridefinizione dei metodi missionari e dell’impianto missionale, pastorale ed evangelizzatore, puntando molto, come si evince dalle lettere ai missionari, sull’introduzione di elementi religiosi tipicamente cristocentrici e sacramentali, specie in aree indigene considerate «a rischio» di eccessivo sincretismo. Una chiara influenza in tal senso era fornita d’altronde dagli studi di Giovanni Battista Tragella, titolare, dal 1912 al 1922 della cattedra di Missiologia dell’Università Urbaniana di Propaganda Fide. È sufficiente scorrere il regesto delle principali biblioteche cattoliche italiane per registrare la proliferazione di testi, studi e pubblicazioni su argomenti missionari, spesso finalizzati al recupero di un’italiana missionarietà medievale e rinascimentale87, che investì il paese tra la seconda metà degli anni Venti e la prima metà degli anni Trenta, in una fase in cui l’attenzione verso le vicende dei cattolici extra-europei era monopolizzata dallo scontro armato Stato-Chiesa esploso nel Messico della cristiada88.

A questo clima di curiosità avevano d’altronde contribuito anche la nuova cultura collezionistico-scientifica culminata nella grande Esposizione missionaria universale del 1925 che aveva portato in Vaticano oltre 100.000 oggetti provenienti da tutti i continenti, ponendo le basi di quello che di lì a poco sarebbe stato il Museo missionario etnologico vaticano (che avrebbe fatto ombra al ben più antico Museo borgiano di Propaganda Fide). Tra universalismo e nazione, l’Atlante delle missioni De Agostini del 1932 ricostruiva una mappatura cronologico-geografica della storia missionaria che si chiudeva con un capitolo ad hoc dedicato alle Missioni nelle colonie italiane. Sottolineava quindi che «la cifra esatta dei cattolici in questo territorio che si potrebbe chiamare mondo esterno della Chiesa non si può facilmente fissare ma si aggira intorno ai 25.000.000»89. Il calcolo si otteneva addizionando i fedeli soggetti a ciascuna della quattro congregazioni romane (quella di Propaganda Fide, con 13.665.141 individui, la Concistoriale con 7.804.923, quella per le Chiese orientali con 1.151.358, e per gli Affari ecclesiastici straordinari con 607.730), più la Commissione pontificia per la Russia (altri 200.000). Si calcolava poi che tra tutti i missionari europei sparsi per il mondo, l’Italia ne contasse 2.876, di cui 866 sacerdoti, 208 frati laici, 1.582 suore, dietro solo alla Francia, con 7.754 missionari (di cui 3.541 suore), e davanti alla Germania, con 2.807 missionari (di cui 1.677 suore). A parte il dato di genere, tutt’altro che irrilevante, che mostrava il maggior sforzo femminile in campo missionario, emergeva anche un inedito interesse divulgativo verso i giovani. Nel 1933 infatti, il Pime iniziò ad organizzare una serie di giornate e iniziative di sensibilizzazione, abbinandovi i primi «congressini missionari» direttamente rivolti a quelli che venivano definiti «i piccoli amici» dell’istituto.

La guerra d’Etiopia naturalmente modificò ulteriormente gli scenari. Come ha scritto Lucia Ceci, da parte della maggioranza dei cattolici l’impresa coloniale fu letta in maniera provvidenzialistica, quasi a investire simbolicamente militari e missionari dell’incarico di «diffondere l’aurea benefica della civiltà cattolica romana»90. In qualche modo quel conflitto violento, ancorché anacronistico, a lungo preparato a livello di propaganda e relazioni diplomatiche, sembrò in qualche modo riassumere l’incontro tra l’imperialismo proletario mussoliniano, le ambizioni di grande potenza della monarchia, gli appelli contro lo schiavismo, i richiami alla crociata e la necessità di consolidare la conciliazione scaturita dai Patti Lateranensi nel fuoco e nel sangue di un impero coloniale91. Era in fondo anche un tentativo, per quanto artificiale, di fusione tra «contro-mondi» e universi simbolici che sembrava aver pienamente metabolizzato la lezione dell’impresa libica e della prima guerra mondiale, in un contesto internazionale che aveva però nel frattempo subito profondi e «pericolosi» riassestamenti geopolitici. Una generale adesione dei cattolici alla nuova guerra coloniale e, per la prima volta imperiale, dell’Italia, è ampiamente testimoniata dalle fonti a stampa e dalla pubblicistica, finanche dalle riviste missionarie e dai bollettini diocesani; si ritrova in documenti di varia natura, perfino in alcune lettere pastorali, e si sviluppò lungo un’attenta opera di mobilitazione delle coscienze che normalizzava sempre più i rapporti con il regime mussoliniano. Questa ebbe il suo culmine, nell’autunno-inverno del 1935, nella donazione dell’oro alla patria (e nel febbraio successivo nella benedizione delle «fedi di acciaio»), che offriva quei termini di sacralità all’impresa a lungo invocati dai clerico-fascisti o dagli appelli di Manacorda e Papini su «Il Frontespizio»; questi univano l’avventura etiopica ai destini della salvezza della civiltà occidentale92, ridefinendo tanto i termini del «consenso» al regime, quanto i caratteri della missione «cristianizzatrice» della nuova Roma. Se pure vi furono delle significative distinzioni tra i cattolici italiani, da Sturzo a Miglioli, decisi oppositori dell’accettazione della «natura civilizzatrice della guerra», fino ai professori della Gregoriana o al Primo Mazzolari di Risposta a un aviatore, che invitava a non confondere «il missionario con il legionario»93, queste rimasero comunque minoritarie. Non va però sottovalutato il richiamo critico del sacerdote cremonese, portatore di un solido patriottismo cattolico, che, pur accettando i generali termini «umanitari» del conflitto, scriveva nel 1935:

«A me pare che non ci convenga neppure sottolineare per giustificarci, gli scopi o i profitti immediati dell’impresa africana. Una parola autorevole e schietta sul Popolo d’Italia l’ha sfrondata da ogni romanticismo ed ogni ipocrisia. L’Italia non si arroga una missione civilizzatrice, né si ammanta di quella antischiavista, né s’atteggia a missionaria94. Il ricordo delle crociate è nostalgia o reviviscenza di qualche spirito imbelle, che spolvera ogni angolo del passato per evitare una presa di posizione franca e responsabile sul presente. Anche il centurione è superato, poiché la chiesa, dopo le ultime esperienze missionarie, si è provvidenzialmente incamminata verso mezzi meno pesanti. Il centurione non fa sempre buona strada al missionario. Carlo de Focauld ha capito che doveva ritornare nel Marocco con un altro abito e un altro cuore e lasciarsi uccidere95».

Se dunque è vero che l’impatto del conflitto etiopico del 1935-1938 sul cattolicesimo italiano è stato ampiamente studiato più rispetto alle relazioni Stato-Chiesa, al dibattuto culturale, nella stampa e nella pubblicistica, e alla mobilitazione sociale96, che non in quanto ai rapporti con il mondo missionario, va segnalato che negli ultimi anni la storiografia ha compiuto alcuni importanti passi avanti97. Se resta aperto il lavoro di scavo intorno alla figura di Pio XI, contrario al conflitto e protagonista di alcune sottili manovre diplomatiche per scongiurarlo, ma anche incapace di denunciare pubblicamente l’aggressione, è anche vero che l’afflato di nazionalismo imperialista e missionario cattolico nella stagione della guerra d’Etiopia passò per una riscoperta ufficiale e una fascistizzazione delle imprese di Massaia.

Da un punto di vista pratico, cruciale sarebbe stata invece l’adesione all’impresa da parte dei Missionari della Consolata; questi, dal 1913, avevano ottenuto il controllo della prefettura del Kaffa, divisa dal vicariato dell’Harar, gestito dai Cappuccini francesi, insieme alla più antica missione del Galla. La presenza in un’area cruciale per gli equilibri interni al composito mondo etiopico-abissino, permise ai missionari, negli anni precedenti all’invasione, di stabilire buone relazioni con le istituzioni locali98. In particolare i legami si consolidarono con Ras Tafari Makonnen, negus d’Etiopia dal 1930 con il nome di Hailé Selassié I, aprendo 10 stazioni, 36 scuole, 10 orfanotrofi, 6 istituti professionali, due lebbrosari e un seminario per il clero indigeno, cui si aggiunse, dal 1933, un collegio per i figli dell’élite locale. Tra il 1930 e il 1935, nonostante le perplessità di monsignor Luigi Santa e del prefetto del Kaffa, Giovanni Ciravegna, secondo la linea abbracciata dal superiore, monsignor Barlassina, i missionari ricevettero ingenti finanziamenti da parte del governo fascista, in particolare dal ministro per le Colonie Emilio De Bono. In cambio offrirono una solida azione missionaria e assistenziale ma raccolsero anche una serie di dati e informazioni di natura etno-antropologica e socio-economica che, secondo la lettura di Angelo Del Boca99, sfociarono anche in una sotterranea attività spionistica. Con l’avvicinarsi del conflitto s’intensificò naturalmente anche la propaganda da parte dei missionari che denunciavano una recrudescenza dello schiavismo, alzando il livello della critica anche nei confronti del cristianesimo copto, ritenuto incapace di favorire un vero processo di modernizzazione del paese. A guerra iniziata, indubbio fu il sostegno logistico e culturale offerto dai missionari alle truppe italiane, in particolare attraverso alcuni cappellani militari; tra questi Mario Borrello, nominato anche capo dell’ufficio censura, nonché segretario particolare di Rodolfo Graziani. Quest’ultimo, successivamente insignito di una medaglia d’oro al valor militare, si fece artefice di una vera e propria campagna contro le «orde schiaviste del negus»100, sostenendo in pieno un impegno militare che si sarebbe macchiato di ripetuti massacri, a cominciare da quello del maggio 1937 contro i religiosi copti del monastero di Debra Libanos, nell’ambito della feroce rappresaglia seguita al fallito attentato a Graziani. Nel 1937 la missione italiana in Etiopia fu eretta a vicariato apostolico, con 4 prefetture, Adigrat, Neghelli, Dessié e Gondar. Quella fu dunque la stagione del rilancio del mito dell’«eroe crociato» ripreso da gran parte delle riviste missionarie: da «Le missioni illustrate» a «Le Missioni cattoliche» a «Il Massaia», ma anche dei Te Deum salesiani, che dalle Americhe sembravano voler benedire l’impresa101; un clima che contrastava con gli sforzi del nuovo prefetto di Propaganda Fide, reduce dalla ricomposizione della crisi religiosa messicana, Pietro Fumasoni Biondi, del segretario delle Chiese orientali, Eugène Tisserant, e di monsignor Tacchi Venturi, finalizzati a promuovere una rapida normalizzazione della situazione, accelerando al contempo la pacificazione diplomatica. Questo processo comportò tra i cattolici una sorta di rimozione della dimensione violenta del conflitto ma anche la legittimazione di una serie di elementi razzisti che connotavano il progetto coloniale fascista (si veda ad esempio l’esperienza del padre domenicano Reginaldo Giuliani, ardito e dannunziano, nonché autore di Per Cristo e per la patria, morto in battaglia a Passo Uaruei nel 1936)102.

La guerra etiopica d’altronde permise ai cattolici italiani di riflettere anche attorno ad altri temi, sospesi tra idea nazionale e universalismo cristiano, quali la devozione popolare dei soldati, la relazione con il meticciato (per cui fu fondato l’istituto S. Giuseppe pro meticci di Asmara), alle soglie delle leggi razziali mussoliniane, o il discorso sullo schiavismo. In fondo, nonostante il consenso al regime fosse giunto al suo culmine, proprio l’esperienza drammatica di quella guerra coloniale sembrava aver rimesso in discussione l’adesione entusiasta di chierici e laici che aveva sostenuto gli esordi dell’impresa, tanto da spingere il cardinale Schuster a proclamare, nell’ottobre del 1935, il suo famoso richiamo al «vessillo d’Italia che reca in trionfo la croce di Cristo, spezza le catene degli schiavi, spiana la strada ai missionari di Cristo»103. Alle porte della seconda guerra mondiale il clima sembrava però definitivamente mutato e in fondo anche la Summi Pontificatus, la prima grande enciclica del nuovo papa Pio XII, sembrava volerlo ribadire, laddove affermava:

«La chiesa di Cristo, fedelissima depositaria della divina educatrice saggezza, non può pensare né pensa d’intaccare o disistimare le caratteristiche particolari, che ciascun popolo con gelosa pietà e comprensibile fierezza custodisce e considera qual prezioso patrimonio. Il suo scopo è l’unità soprannaturale nell’amore universale sentito e praticato, non l’uniformità, esclusivamente esterna, superficiale e per ciò stesso debilitante. Tutte quelle direttive e cure, che servono ad un saggio ordinato svolgimento di forze e tendenze particolari, le quali hanno radici nei più riposti penetrali d’ogni stirpe, purché non si oppongano ai doveri derivanti all’umanità dall’unità d’origine e comune destinazione, la chiesa le saluta con gioia e le accompagna con i suoi voti materni. Essa ha ripetutamente mostrato, nella sua attività missionaria, che tale norma è la stella polare del suo apostolato universale»104.

Le nuove missionarietà postcoloniali, fino alle porte del concilio

Nella stagione repubblicana, segnata dall’avvento al governo della Democrazia cristiana, dalla nascita dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, dal processo di modernizzazione economica e dai venti di guerra fredda, che mutarono definitivamente il quadro delle relazioni internazionali, i cattolici italiani si trovarono a fare nuovamente i conti con il concetto di nazione e, di conseguenza, con il proprio afflato universalista. Mentre i nuovi scenari riducevano, sotto il peso dei blocchi politico-militari e delle rigide esigenze imposte dal containment, in nuovi schemi assai poco flessibili i limiti della politica estera italiana, la pervasività nazionale del confronto Usa-Urss rimetteva alla prova la sopravvivenza stessa del vecchio mito neo-guelfo di un’italianità originalmente cattolica. D’altro canto proprio i termini della «scelta occidentale» democristiana, mentre contribuivano a consolidare l’impianto statuale, non sembravano esaurire del tutto la tensione tra pulsioni nazionali e universaliste che avevano caratterizzato la storia dei cristiani d’Italia nel secolo precedente105.

Il mito dell’Occidente, il «mondo libero», contrapposto all’Oriente, comunista, i termini dell’accesa competizione interna con i comunisti, non cancellarono infatti completamente né alcuni elementi del retaggio di antiamericanismo, che aveva permeato molti contesti culturali cattolici nel recente passato, né l’interesse per le vicende dell’extra-Europa che, in fondo, il mondo missionario continuava ad alimentare con nuovi stimoli e prospettive, ben oltre i limiti di un paese che avrebbe dovuto attendere la metà degli anni Cinquanta per essere ammesso nel consesso delle Nazioni Unite. In quest’ottica proprio la partecipazione italiana ai fermenti missionari che sarebbero riemersi nel corso di quel decennio avrebbe contribuito all’ennesima riscoperta e metabolizzazione degli orizzonti africani, asiatici e, successivamente, latinoamericani, alimentando nei decenni successivi forme di mobilitazione sociale e culturale106. Dalla fine del decennio questo rinnovato sforzo avrebbe contribuito a rilanciare in prospettiva cattolica non solo un processo di «italianizzazione» dell’universalismo missionario ma anche una rilettura, a suo modo singolarmente nazionale, dell’idea di Terzo mondo e di «sviluppo», che ne avrebbe mutato, del primo, l’originale matrice francese e del secondo il substrato economicista tipicamente anglosassone. Qui ci limiteremo solo ad alcuni rapsodici cenni che ci accompagneranno fino alla svolta conciliare, quando quel processo avrebbe assunto nuovi tempi e forme di maturazione. In questa nuova lettura del rapporto tra missione, mondo e nazione si possono però senz’altro leggere sullo sfondo le trasformazioni degli equilibri bipolari, dalla stagione del Roll Back a quella della distensione, una rilettura della frammentaria esperienza della colonizzazione prima e della rapida decolonizzazione italiana poi, nonché una specifica concezione del neutralismo e del terzaforzismo, così come del rapporto tra missioniarietà e mass media, con il sistema politico-partitico, con le ansie e mobilitazioni della società civile. Intorno al concetto di ricezione del terzomondismo missionario, l’Italia avrebbe nuovamente pagato un ritardo rispetto alla Francia, ma, una volta metabolizzato, lo avrebbe declinato con originalità, tanto a livello culturale, quanto di mobilitazione pratica (fino all’emancipazione di un associazionismo laicale dal mondo ecclesiastico). In parte la resistenza alle proposte di Sauvy veniva proprio dalla diversa concezione dell’universalismo extraeuropeo che connotava la cultura cattolica italiana (oltre che dalle diffidenze del Partito comunista, forgiatosi nel dogma zdanoviano della teoria dei «due campi») ma paradossalmente proprio il mondo missionario avrebbe giocato un ruolo non indifferente nella legittimazione di parte di quelle tesi107.

Negli anni Cinquanta si aprirono infatti nuove brecce culturali e prospettive politiche intorno all’afflato missionario italiano che venivano anche da non specialisti di missioni. Giorgio La Pira, ad esempio, con le sue iniziative fiorentine, ispirandosi alla lezione dossettiana, cominciò a disegnare un asse storico nuovo da contrapporre alla rigida schematicità del bipolarismo, lavorando intorno a quella che lui stesso definì una proposta «politica» per far fronte alla «geografia della fame»108. Chiamando in causa direttamente sia la società civile, sia l’associazionismo cristiano, religioso, missionario e laicale, e perfino gli attori politici ed economici (con l’Eni capofila), individuava la priorità dello sviluppo dei paesi poveri nella causa comune della pace e proponeva un’internazionalizzazione della caritas cristiana ispirata alle norme della dottrina sociale della Chiesa, secondo quella che definì «la necessità, cioè, di costruire un villaggio nuovo attorno alla fontana antica (per usare una felice immagine di Giovanni XXIII109. Gli impulsi furono in realtà molteplici durante il pontificato di Pio XII, si pensi ad esempio alle proposte extra-missionarie di Pax Christi o del cardinale Lercaro a Bologna, e posero la base di un rinnovamento che il pontificato giovanneo avrebbe poi rapidamente allargato.

A livello missionario cruciale risultò indubbiamente da un lato la crescente apertura ai laici e dall’altro l’istituzionalizzazione da parte della Santa Sede dei sacerdoti Fidei donum, dopo la pubblicazione, il 21 aprile 1957, dell’omonima enciclica dipapa Pacelli110. Per quanto il documento pontificio avesse originariamente una chiara prospettiva africana (con il contributo di monsignor Lefevbre, all’epoca arcivescovo di Dakar), in parte anche difensiva (per far fronte alle trasformazioni socio-politiche innescate dai processi di decolonizzazione), introduceva una serie di elementi di grande novità, anticipando alcune aperture conciliari. La figura di un prete missionario diocesano, attivo in missioni americane, asiatiche o africane, avrebbe infatti dovuto incentivare i vescovi, dell’Occidente e dell’extra-Europa, a stimolare l’unione missionaria del clero, ridefinendo al contempo i termini di comunione, evangelizzazione e missionarietà stessa. Inoltre il rapporto tra l’appartenenza del missionario al clero diocesano, la sua italianità e la sua cultura universalista avrebbe potuto attingere alle sperimentazioni del secolo precedente (secondo il modello del Pime) ma alla ricerca di nuovi elementi e terreni di maturazione pastorale finalizzati a consolidare i legami tra territori diocesani lontani tra loro. L’associazionismo cristiano avrebbe fortemente goduto di questa nuova prospettiva, in termini di conoscenza e cooperazione (si pensi ai legami che si sarebbero stabiliti ad esempio, attraverso le comunità ecclesiali di base, con diverse esperienze religiose latinoamericane) al pari dei processi di formazione di un clero missionario libero dai vincoli delle singole congregazioni. Al contempo la missionarietà avrebbe potuto assumere un carattere maggiormente nazionale, uscendo dalle tradizionali sacche geografiche di provenienza, per abbracciare nuove diocesi e regioni. Il processo che si innescò fu effettivamente dirompente e avrebbe finito per accelerare e favorire i fenomeni di inculturazione (ancor prima dell’esperienza di Pedro Arrupe alla guida dei Gesuiti)111 e di mobilitazione sociale e, in alcuni casi (nella stagione delle «guerre di liberazione»), perfino politica. Cinquant’anni dopo si sarebbero calcolati 1.900 sacerdoti fidei donum, partiti per paesi africani, latinoamericani e asiatici, appartenenti a 160 diocesi italiane, all’insegna di un nuovo modello missionale112.

Per avere una percezione dei fermenti missionari tra il pontificato pacelliano e quello giovanneo, risultano interessanti le pubblicazioni edite, a partire proprio dalla metà degli anni Cinquanta, dalla sigla Emi, costituita, (prima ancora della nascita dell’omonima editrice nel 1973), da quattro delle principali congregazioni missionarie italiane fin qui incontrate: Comboniani, Missionari della Consolata, Missionari saveriani e Pontificio istituto delle missioni estere (Pime). L’idea di accompagnare le iniziative missionarie con la costruzione di una nuova sensibilità intorno ai problemi sociali dei paesi poveri, avvicinando il tema dell’evangelizzazione a quello della lotta alla fame, non solo contribuiva a rideclinare l’idea della vecchia missione di civiltà nel contesto del bipolarismo e l’esperienza missionaria nella stagione del dopo-Bandung e del boom dell’antropologia evoluzionista e strutturalista; offriva anche nuove chiavi di lettura al pubblico della penisola, che avrebbero travalicato anche i confini politici dell’adesione italiana al blocco occidentale, rimettendone in discussione la stessa natura profonda. L’idea fu del comboniano Romeo Panciroli, di padre Piero Gheddo del Pime, del saveriano Walter Gardini e di padre Igino Tubaldo per la Consolata. Il tentativo andava nella direzione di affrontare in termini nuovi e coordinati l’evoluzione dell’esperienza missionaria, in una fase storica in cui l’ondata di decolonizzazioni poneva la Santa Sede di fronte alla questione di una ridefinizione della propria «politica estera», e alle esigenze di ripensare le logiche gestionali dei «territori ecclesiastici», i criteri di nomina e formazione delle gerarchie e del clero locale in Africa e Asia ma anche rimettendo alla prova l’impianto, un po’ logorato dal tempo, della Maximum Illud del 1919113. Si trattava in realtà di un esperimento suscettibile di sviluppi, in una fase di transizione piuttosto creativa che già recepiva le crescenti spinte culturali della decolonizzazione e dei primi passi del terzomondismo. Le quattro congregazioni venivano da esperienze storiche diverse tra loro ma apparivano fortemente interessate ad elaborare sul campo quella ridefinizione della missionologia allora in atto114. Delle due prime collane, una, Studi missionari, era incentrata su questioni più prettamente pastorali, teologiche e missionali, ed esordì con A Dio il primo servizio, un collettaneo di teologia missionaria che raccoglieva saggi di Aujulat, Bigirumwani, Hastings e Paysama. L’altra, simbolicamente ribattezzata Crocevia dei popoli, affrontava invece direttamente i problemi d’attualità, con testi di taglio antropologico, geografico o di denuncia sociale. Il testo con cui l’Emi fece il suo debutto fu Il risveglio dei popoli di colore di Piero Gheddo (1956); il missionario del Pime si rese fautore di una decisa ripresa del processo di evangelizzazione nei paesi extraeuropei per combattere la povertà e al contempo porre una barriera culturale e sociale all’avanzata del comunismo115. In quel dualismo irrisolto di un italiano alle prese con le logiche della pervasività della guerra fredda, padre Gheddo rilanciava un dibattito intorno al nodo centrale dell’universalità della Chiesa attraverso il processo missionario, riflettendo sulla sua relazione con il colonialismo, con il nazionalismo; ponendosi di fronte alle istanze nuove del «mondo di colore», invitava i cattolici a prendere una posizione attivista sul fronte dei temi terzomondisti, indicando tra i nuovi pericoli per la Chiesa missionaria, anche il risveglio del mondo islamico, il laicismo di Stato e il riformismo tradizionalista panarabista e panislamista116.

Al di là dei confini bipolari, il rilancio dell’azione del Pime, dei Comboniani e dei Saveriani, così come di altri ordini e dei Fidei donum, offriva una serie di spunti interessanti e di novità in vista di una più piena ricezione dei temi terzomondisti nell’immaginario culturale dei cattolici italiani. Innanzi tutto si rivolgeva esplicitamente ai laici, chiedendone una mobilitazione dentro e fuori i confini europei. Quindi riconosceva la novità di Bandung, dando prova di aver colto il senso di urgenza della lotta alla fame e al sottosviluppo, ritenuti elementi fondamentali per la cooperazione e la pace mondiale. Si ponevano insomma le basi del discorso che Giovanni XXIII avrebbe cominciato a sviluppare di lì a poco nelle encicliche Mater et Magistra e Pacem in terris117 e che sarebbe riverberato nell’esperienza del nuovo Seminario per l’America latina, Nuestra Señora de Guadalupe, fondato a Verona nel 1962118. Proprio con la stagione conciliare, coscienza nazionale e universalismo cristiano avrebbero conosciuto una profonda ricomposizione, stabilendo agli occhi della maggioranza dei cattolici italiani un ponte ideale tra l’esperienza rifondativa della Costituzione119 che aveva consolidato la loro appartenenza italiana, chiudendo forse definitivamente i conti con un passato turbolento, e il nuovo orizzonte internazionale, che avrebbe trovato nel filtro del concilio Vaticano II una nuova rilettura120. D’altronde i lavori conciliari si aprirono proprio quando in Italia fece la sua comparsa la traduzione di un testo simbolico quale I dannati della terra di Fanon che sollevò interesse, oltre barriere e appartenenze politiche, rilevando una insospettabile fragilità dei due blocchi121. Una fase in cui le nuove e nascenti pulsioni terzomondiste arricchivano la stessa missionarietà di nuovi elementi interculturali e, a loro modo, democratizzanti. D’altronde nel 1964, mentre la Emi pubblicava tre testi simbolici quali Concilio e Terzo mondo di Gheddo, Una battaglia diversa delle altre di Raoul Follereau e Contro la fame di Farine, proprio nella sede milanese del Pime, nasceva su iniziativa dei 4 istituti missionari (Comboniani, Pime, Saveriani e Consolata) un nuovo tipo di movimento d’impegno sociale, ribattezzato Mani tese; questo, federato tra un’associazione laica e una missionaria, aveva l’obiettivo di condurre con metodo e continuità una campagna contro la fame. Era il preludio a una nuova fase nella storia della missionarietà italiana che negli anni a venire, avrebbe ridefinito le sintesi ed i rapporti tra le appartenenze politiche, sociali e religiose e la costruzione di immaginari nazionali e globali. Sullo sfondo di queste aperture restava però la questione della libertà come espressione di sviluppo della persona, e della comunità come suo luogo di realizzazione, dentro e oltre i confini della nazione. Una questione che avrebbe marcato a fuoco documenti conciliari quali la dichiarazione Dignitatis Humanae122 e il decreto Ad Gentes, con il suo pressante invito a superare i particolarismi, per «coltivare un sincero e fattivo amor di patria» volto a «evitare ogni forma di razzismo e di nazionalismo»123.

Qui, ancora lontani dagli echi degli scontri di civiltà che avrebbero segnato la fine del secolo, riverberava in fondo una profonda sensibilità nei confronti delle trasformazioni storiche del mondo missionario, all’indomani di un turbolento processo di riassestamento, giocatosi dentro e fuori un mondo cattolico, allora quanto mai articolato ma ancora permeabile ad avviare un dialogo prolungato con culture e realtà «esterne».

Note

1 Vedasi l’impostazione data da uno dei più noti docenti di missionologia del primo Novecento, il tedesco Joseph Schmidlin, nel suo Manuale di storia delle Missioni cattoliche, 3 vol., Milano 1927-1929; in particolare il vol. III, Le missioni nell’età contemporanea. Per un primo approccio generale al tema: Dalle Missioni alle Chiese locali (1846-1965), a cura di J. Metzler, in Storia della Chiesa, diretta da A. Fliche, V. Martin, XXIV, Cinisello Balsamo 1990.

2 C. Balbo, Le speranze d’Italia, Torino 1844.

3 Proprio Antonio Rosmini, fin dagli anni Trenta coltivò l’idea di fondare nel Regno sabaudo un istituto per le missioni estere, riprendendo l’esperienza francese; A. Rosmini, tra modernità e universalità, a cura di M. Dossi, M. Nicoletti, Brescia 2007; G. Campanini, Antonio Rosmini. Il fine della società e dello Stato, Roma 1988; F. De Giorgi, Rosmini e il suo tempo. L’educazione dell’uomo moderno, tra riforma della filosofia e rinnovamento della Chiesa, Brescia 2003.

4 Per un approccio generale a questi temi: F. Traniello, Religione cattolica e Stato nazionale. Dal Risorgimento al secondo dopoguerra, Bologna 2007; G. Formigoni, L’Italia dei cattolici. Dal Risorgimento a oggi, Bologna 20102; Storia dell’Italia religiosa, III, L’età contemporanea, a cura di G. De Rosa, Roma-Bari 1995, G. Rumi, Lombardia guelfa, Brescia 1988; St.It.Annali, IX.

5 Gregorio XVI, che prima di ascendere al soglio pontificio fu prefetto di Propaganda Fide, promosse l’Opera della Propagazione della Fede (fondata nel 1822 a Lione) e l’Opera missionaria della S. Infanzia (fondata nel 1843, sempre in Francia) e approvò nel 1845 l’istruzione Neminem profecto sulla formazione del clero indigeno. Vedasi: R.S. Maloney, Missions. Directives of Pope Gregory, 1831-1849. A contribution to the history of the catholic mission revival in the 19th century, Roma 1959.

6 Sulla genesi del Pontificio istituto delle missioni estere: P. Gheddo, PIME, 1850-2000: 150 anni di missione, Bologna 2000. La prima storia è invece quella di G.B. Tragella, Le Missioni estere di Milano nel quadro degli avvenimenti contemporanei, I, (1850-1861), Milano 1950.

7 Per una storia generale delle Missioni estere di Parigi, vedasi il volume che raccoglie i ponderosi studi di A. Launay, Histoire générale de la Société des Missions étrangères, Paris 2003.

8 Su monsignor Ramazzotti: A. Montonati, Angelo Ramazzotti (1800-1861): fondatore del PIME, vescovo di Pavia, patriarca di Venezia, Bologna 2000; Le missioni estere di Angelo Ramazzotti: radici storiche e spirituali, a cura di F. Cagnasso, Bologna 2002. In particolare, ibidem, il saggio F. De Giorgi, Nuovi ideali missionari: Rosmini, Luquet, Ramazzotti, pp. 113-143.

9 Archivio Generale del Pime, d’ora in poi AGPIME, citato in P. Gheddo, PIME 1850-2000, cit., p. 40.

10 Lettera del cardinale Fransoni a monsignor Giuseppe Marinoni del 16 gennaio del 1951, AGPIME, citato in G.B. Tragella, Le missioni estere di Milano, cit., p. 70.

11 Testo-Atlante illustrato delle Missioni dell’Istituto Geografico De Agostini, Novara 1932.

12 D. Brading, Orbe indiano. De la Monarquía Católica a la República Criolla, México 1991; A. Annino, F.X. Guerra, Inventando la Nación: Iberoamérica siglo XIX, México 2003; T. Pérez Vejo, Elegía Criolla, Madrid-México 2010.

13 Per una prima lettura generale sulla storia missionaria della Compagnia: P.C: Hartmann, I Gesuiti, Roma 2003; sul gesuita maceratese Matteo Ricci (1552-1610) la bibliografia è sterminata; vedasi ora M. Fontana, Matteo Ricci. Un gesuita alla corte dei Ming, Milano 2005; sul trentino padre Eusebio Chini, noto nelle Americhe come padre Kino, D. Calarco, L’apostolo dei Pima. Il metodo di evangelizzazione di Eusebio Francesco Chini missionario gesuita, pioniere delle coste del Pacifico, Bologna 1995. Inoltre A. Caviglia, Le missioni italiane nel Sud America, in P. D’Elia, Il contributo culturale dei missionari italiani, Milano 1934.

14 L. Traverso, Niccolo Olivieri e il riscatto delle schiave africane, Firenze 1916; P.R. Ravecca, Il “Ghellaba” Olivieri, Genova 1984.

15 G. Nardi, Il Venerabile Ludovico da Casoria e i Collegi dei Moretti, Milano 1932; S. Garofalo, La carità sfrenata. Il Ven. P. Ludovico da Casoria, francescano (1814-1885), Napoli 1985.

16 L. Betta, Fondazione della Missione lazzarista in Abissinia (1838), Roma 1955.

17 Index Capuccinorum qui in opere. Storia delle missioni dei cappuccini, Assisi 1939.

18 A. García y García, Actitudes de los cristianos con respectos a los pueblos indígenas, in Il cristianesimo nel mondo atlantico nel secolo XVII: atteggiamenti dei cristiani nei confronti dei popoli e delle culture indigene, Atti della Tavola rotonda del XVIII Congresso internazionale di scienze storiche (Montréal 1995), Città del Vaticano 1997.

19 G. Volpe, L’Italia in Africa, in Id., Scritti sul fascismo 1919-1938, II, Roma 1976, pp. 183-184.

20 Per una lettura generale della cultura del clero italiano: M. Guasco, Storia del clero in Italia dall’Ottocento ad oggi, Roma-Bari 1997.

21 Per un interessante confronto tra le tesi di Benedetto Croce e Giocchino Volpe intorno al rapporto cattolici-nazione e alla risorsa missionaria, vedasi il saggio di F. De Giorgi, I missionari da Massaia a Comboni. Educatori religiosi o educatori di italianità?, in Cattolici, educazione e trasformazioni socio-culturali in Italia tra Otto e Novecento, a cura di L. Pazzaglia, Brescia 1999, pp. 145-188.

22 C. Bona, La rinascita missionaria in Italia. Dalle Amicizie cristiane all’Opera per la propagazione della fede, Torino 1964.

23 Cfr. Don Bosco nella storia della cultura popolare, a cura di F. Traniello, Torino 1987.

24 Vedasi D. Mazza, Le radici romane del Pime. Il Pontificio Seminario Romano per le Missioni 1871-1926, Bologna 2008.

25 Primo nucleo del futuro seminario fu la Pia società dei principi e degli apostoli. D. Colombo, PIME 1850-2000. Documenti di fondazione, Bologna 2000.

26 AGPIME, Roma, Titolo XVI, II, 77-78.

27 E. Giunipero, Chiesa cattolica e mondo cinese: tra colonialismo ed evangelizzazione. 1840-1910, Città del Vaticano 2005.

28 Sulla Storia della geografia in Italia con particolare riguardo alle missioni cattoliche e all’Istituto di Propaganda Fide, Città di Castello 1889. Interessante il richiamo alle missioni italiane nel mondo nell’ambito degli studi di geografia italiana.

29 Gli italiani all’estero: emigrazioni, commercio, missioni, Torino 1899.

30 P. Manzo, Salesiani ed emigrati italiani nelle Americhe, Torino 2002. Per una prospettiva più generale, E. Scarzanella, Italiani d’Argentina: storie di contadini, industriali e missionari italiani in Argentina, 1850-1912, Venezia 1983.

31 In prospettiva testimonial-apologetica: E. Carletti, A. Colbacchini, J.B. Duroure, Conquistatori e martiri: contributo allo studio e alla storia delle missioni salesiane nel Mato Grosso, San Benigno Canavese 1942; L. Castano, I salesiani in Argentina: il cardinal Cagliero e la redenzione della Patagonia, Roma 1942. Inoltre A. Gentilucci, Giovanni Cagliero: biografia del primo missionario salesiano, Ivrea 1976; P. Scalzo, Storia delle prime missioni salesiane nella Patagonia centro-settentrionale: dal sogno di don Bosco (1871) alla fine del vicariato apostolico (1908), Cosenza 2003.

32 L. Zanatta, Historia de la Iglesia argentina: desde la conquista hasta fines del siglo XX, Buenos Aires 2009.

33 C. Prudhomme, Stratégie missionaire du Saint-Siège sous Léon XIII (1887-1903): centralisation romaine et défis culturels, Rome 1994; S. Trinchese, Sviluppi missionari e orientamenti sociali. Chiesa e stato nel magistero di Leone XIII, in Storia dell’Italia religiosa, III, L’età contemporanea, a cura di G. De Rosa, Roma-Bari 1995, pp. 61-86.

34 G. Formigoni, L’Italia dei cattolici, cit., p. 61.

35 D. Saresella, I cattolici italiani e l’americanismo, Brescia 2001.

36 M. da Civezza, Storia universale delle missioni francescane, VII, parte II, Prato 1891.

37 Sull’esperienza asiatica dei Gesuiti: P. Borruso, La questione missionaria tra Otto e Novecento: i gesuiti in India, Milano 2009; sugli esperimenti americani, culminati nella guida della provincia mexicana da parte del piemontese Camillo Crivelli: M. De Giuseppe, Gesuiti in Messico: lettere dalla missione Tarahumara, «Annali di storia dell’educazione», 1, 2000.

38 T. Gay, Breve storia delle missioni evangeliche tra i pagani, Roma 1889.

39 M. Calliaro, M. Francesconi, L’apostolo degli emigranti. Giovanni Maria Scalabrini, Milano 1968.

40 A. Luca, Monsignor. Conforti: vescovo di Parma fondatore dei missionari saveriani, Bologna 1991; L. Ballarin, Missione, storia di un progetto: le costituzioni dei missionari saveriani, Bologna 1993; Repertorio degli scritti saveriani, 1901-2001, Parma 2001.

41 T. Zani, Al Parà, Marañhao e Cearà (Brasile del Nord): note di viaggio, Milano 1905 e Alto Brasile: missione e colonie dei cappuccini lombardi: notizie storiche, geografiche, etnografiche, Milano 1911.

42 Nato a Altofonte nel palermitano nel 1849, dopo aver studiato nel seminario di Monreale seguì il beato Giacomo Cusmano nella Congregazione missionaria i Servi dei poveri e nel 1893 partì per la Baja California al seguito di un gruppo di immigrati siciliani reclutati da una compagnia britannica. Un anno e mezzo dopo giunse in Messico, dove gli fu affidata la parrocchia di Santa Cruz de Rosales nello Stato di Chihuahua.

43 Sulle orme di Matteo Ricci: Chiesa e Cina nel Novecento, a cura di E. Giunipero, Milano 2009.

44 Vedasi J.L. Aguilar Marco, Misiones en la peninsula de Baja California, México 1991.

45 In «Il Missionario cattolico», 152, 1913, p. 152. La lettera è stata ripresa anche da monsignor Domenico Callerio per la sua Storia del seminario dei S. Apostoli Pietro e Paolo per le missioni estere di Roma. I suoi missionari e le sue missioni, Roma 1926, p. 45, copia dattiloscritta, AGPIME.

46 L’amministrazione del vicariato apostolico passò ai missionari dei Ss. Pietro e Paolo che la mantennero fino al 1917.

47 Tra i più importanti si ricordano illustri Gesuiti quali Teofilo Ciotti, Orazio Carocci e Giovan Battista Aldrisio nel secolo XVI, il milanese Alberto Clerici attivo a Sinaloa nei primi anni del secolo XVII, Petro Gravina e Andrea Tutino tra gli acaxees, Leonardo Jatino tra i chirocatos, padre Salvaterra e Tommaso Basile tra gli yaquis e Francesco Olignano tra i nebomes di Chihuahua.

48 Su questi temi R. Cannelli, Nazione cattolica e Stato laico. Il conflitto politico-religioso in Messico dall’indipendenza alla rivoluzione, 1821-1914, Milano 2002; M. De Giuseppe, Messico 1900-1930. Stato, Chiesa, popoli indigeni, Brescia 2007.

49 Vedasi Dalla Bassa California. Nostra Signora della Guadalupa, lettera di padre Tito Alessandri Regoli, «Periodico delle missioni estere», 1897, 7, pp. 76-78.

50 Sui cattolici e il tricolore: G. Formigoni, Simboli religiosi e Tricolore nel movimento cattolico dall’Unità alla Conciliazione, in F. Tarozzi, G. Vecchio, Gli italiani e il Tricolore. Patriottismo, identità nazionale e fratture lungo due secoli di storia, Bologna 1999, pp. 263-295.

51 Cenni sulla missione della Bassa California, «Periodico delle missioni estere», 1897, 1, pp. 23-31.

52 Ibidem.

53 La Bassa California descritta dal p. Revelli, «Periodico delle missioni estere», 1901, 6, pp. 90-93.

54 Per un quadro generale del rilancio missionario in Africa nella stagione dell’imperialismo: E. Kange, Le politique dans le système religieux catholique romain en Afrique de 1815 à 1960, Lille-Paris 1976; C.P. Croves, The Planting of Christianity in Africa, II, 1840-1878, London 1954; III, 1878-1914, London 1956; S. Delacroix, Histoire universelle des missions catholiques, III, Les Missions contemporaines (1800-1957), Paris 1958; T. Christensen,W.R. Hutchison, Missionary Ideologies in the Imperialist Era: 1880-1920, Aarhus 1982.

55 M. Forno, Tra Africa e Occidente. Il cardinal Massaja e la missione cattolica in Etiopia nella coscienza e nelle politiche europee, Bologna 2009. Si veda anche l’autobiografico, G. Massaja, I miei 35 anni nell’Alta Etiopia, Milano 1885-1895.

56 E. Martire, Massaia da vicino, Roma 1937, pp. VII-XII; S. Tedeschi, Un’indagine storica per respingere giudizi errati. Guglielmo Massaja e il colonialismo italiano, «Rivista di studi politici internazionali», 3, 1990, pp. 433-442. L. Ceci, Letture politiche di una vicenda missionaria: Guglielmo Massaja nella propaganda colonialista, in Guglielmo Massaja 1809-2009: all’Africa attraverso l’Africa, a cura di P. Magistri, Roma 2009, pp. 91-105.

57 Vedasi Daniele Comboni fra Africa ed Europa, a cura di F. De Giorgi, Bologna 1998; G. Romanato, L’Africa nera fra cristianesimo e islam. L’esperienza di Daniele Comboni (1831-1881), Roma 2003; T. Agostoni, Outlines of the History of the Institute of the Comboni Missionaries of the Heart of Jesus, Roma 1996. Le opere di Comboni sono ora raccolte nei dieci volumi della serie Gli scritti, Roma 1983-1988.

58 Su don Mazza: A. Spagnolo, Di don Nicola Mazza e della I Missione nell’Africa Centrale, Verona 1910; E. Crestani, La prima Missione italiana nell’Africa Centrale per opera di Don Nicola Mazza, Verona 1933; E. Butturini, Rigore e libertà. La proposta educativa di don Nicola Mazza (1790-1865), Verona 1995.

59 Sulle vicende del vicariato negli anni precedenti: C. Tappi, Cenno storico della Missione dell’Africa Centrale, Torino 1894; E. Schmid, Le vicende della Missione dell’Africa Centrale sotto Ignazio Knoblecher, «Archivio comboniano», 16, 1978, 1, pp. 99-168.

60 F. Fernández González, Daniele Comboni e la rigenerazione dell’Africa. Piano, Postulatum, regole, Roma 2003.

61 T. Filesi, L’Italia e la Conferenza di Berlino (1882-1885), Roma 1985; R. Rweyemamu, The christian missions in Africa before and after the Berlin conference (1884-1885), «Euntes docete», 38, 1985, pp. 61-97.

62 A. Gilli, L’Istituto missionario comboniano dalla fondazione alla morte di Daniele Comboni, Bologna 1979.

63 Vedasi L’Africa ai tempi di Daniele Comboni, Atti del Congresso internazionale di studi africani (Roma 1981), Roma 1988; Fonti comboniane per la storia dell’Africa nord-orientale, a cura di S. Luciani, I. Taddia, Bologna 1986; Daniele Comboni e l’Africa, «Humanitas», 1, 2008, nr. monografico.

64 L. Nerner, Anglican and Roman Catholic attitudes on missions. An historical study of two Enghish Societies in the Late Nineteenth Century (1865-1885), St. Augustin 1981.

65 A. Trevisiol, I primi missionari della Consolata nel Kenya, 1902-1905, Roma 1983.

66 G. De Luna, Il corpo del nemico ucciso, Torino 2006.

67 Si vedano ad esempio i lavori di C.M. Betti, Colonialismo e missioni. Autorità coloniali e missionarie in Etiopia (1885-1896), Roma 1990 e Missioni e colonie in Africa Orientale, Roma 1999.

68 M. da Nembro, La missione dei Minori Cappuccini in Eritrea (1894-1952), Roma 1953. Tra gli studi: P. Borruso, I missionari cattolici italiani nella colonia eritrea, Fasano 1988.

69 Oltre al progetto di una colonia evangelica eritrea, afflati missionari accompagnarono l’emigrazione valdese in Sudafrica, Argentina e Uruguay. Vedasi: G. Libert, Un tentativo di colonizzazione valdese in Eritrea, in Id., L’emigrazione piemontese nel mondo, Torino 2009; G. Weitzeker, I valdesi nell’Africa australe, Torino 1906.

70 Pro Eritrea. Discorso dell’On. Nava Cesare Deputato al Parlamento, letto nel Salone dei Ciechi il 28 febbraio 1911 a Milano in onore dell’Ecc.mo Mons. Camillo Carrara, Primo Vicario Apostolico dell’Eritrea, Milano 1911, p. 12.

71 Panorama delle missioni dei minori cappuccini in Eritrea nella visita canonica del ministro provinciale di Lombardia, p. Benigno da S. Ilario Milanese, Milano 1939.

72 V. Ianari, Chiesa, coloni e Islam. Religione e politica nella Libia italiana, Torino 1995. Più in generale: C.G. Segré, Fourth Shore: The Italian Colonization of Libya, Chicago 1974; Id., L’Italia in Libia. Dall’età giolittiana a Gheddafi, Milano 1978; A. Del Boca, Gli italiani in Libia. Tripoli bel suol d’amore 1860-1922, Roma-Bari 1986; G. Rochat, Guerre italiane in Libia e in Etiopia, Treviso 1991.

73 A. Del Boca, Gli italiani in Africa orientale, Milano 1999 (prima ed. Roma-Bari 1979); M. Dominioni, Lo sfascio dell’impero. Gli italiani in Etiopia 1936-1941, Roma-Bari 2008.

74 L. Ganapini, Il nazionalismo cattolico. I cattolici e la politica estera in Italia dal 1871 al 1914, Bari 1970; O. Confessore, Conservatorismo politico e riformismo religioso: la “Rassegna nazionale” dal 1989 al 1908, Bologna 1971.

75 L. Osbat, La Società della gioventù cattolica italiana tra l’impresa libica e la prima guerra mondiale attraverso le carte del Consiglio superiore, «Rivista storica salernitana», 3, 1970, pp. 195-235; D. Veneruso, L’Azione cattolica italiana durante i pontificati di Pio X e Benedetto XV, Roma 1984.

76 A. Ruffoni, I cattolici italiani e la patria, «La Scuola cattolica», gennaio 1896, p. 21.

77 D. Menozzi, Ideologia di cristianità e pratica della «guerra giusta», in M. Franzinelli, R. Bottoni, Chiesa e guerra, cit., p. 113. In generale vedasi anche R. Morozzo della Rocca, La fede e la guerra. Cappellani militari e preti soldati 1915-1919, Roma 1980; Id., Benedetto XV e il nazionalismo, «Rivista di storia del cristianesimo», 17, 1996.

78 E. Vercesi, I cattolici e la Società delle nazioni, «Vita e pensiero», 11, 1925, p. 410; G. Rumi, Benedetto XV e la pace. 1918, Brescia 1990.

79 Benedetto XV, Lettera Apostolica Maximum Illud, 30 novembre 1919, n. 6.

80 Ibidem.

81 F. Fonzi, La presenza della Chiesa cattolica e dell’Italia in africa e in oriente nella seconda metà dell’’ottocento, «Clio», 27, 1991.

82 Si vedano per tutti: D. Veneruso, Il seme della pace. La cultura cattolica e il nazional-imperialismo tra le due guerre, Roma 1987; P. Bresso, La Chiesa e la politica estera del fascismo, Torino 1974; C.F. Casula, L’azione della S. Sede nella crisi fra le due guerre, Roma 1988; Cattolicesimo e totalitarismo. Chiese e culture religiose tra due guerre mondiali: Italia, Spagna, Francia, a cura di D. Menozzi, R. Moro, Brescia 2004.

83 Si vedano in particolare: P. Manna, Operarii Autem Pauci: Riflessioni sulla vocazione alle missioni estere, Milano 1912; L’Istituto delle Missioni estere di Milano e la sua opera di evangelizzazione, Milano 1915. Su padre Manna: G.B. Tragella, Un’anima di fuoco, p. Paolo Manna 1872-1952, Napoli 1954; F. Germani, Padre Paolo Manna, Trentola Ducenta 1990.

84 Sulla prospettiva missionaria di Pio XI: G. Battelli, Pio XI e le Chiese non occidentali. La questione dell’universalità del cattolicesimo, in Achille Ratti. Pape Pie XI, Roma 1996; Y. Chiron, Pio XI. Il Papa dei Patti laternanensi e dell’opposizione cattolica ai tradizionalismi, Cinisello Balsamo 2006.

85 D. Colombo, PIME: documenti di fondazione, cit., p. 470.

86 Questa fu poi portata a termine nel 1936 dal suo successore, Lorenzo Maria Balconi. Vedasi S. Mazzolini, Storia di una fondazione. Le missionarie dell’Immacolata, Roma 1984.

87 Si veda ad esempio T. Somigli da San Dietole, Le missioni francescane in Etiopia ai secoli 14 e 15: piccolo contributo alla storia delle missioni nel Medioevo, Firenze 1928.

88 M. De Giuseppe, Del «Calles con occhi di fuoco» a la «Guadalupe di Marzabotto». El conflicto religioso mexicano en Italia, in Las Naciones frente al conflicto religioso en México, a cura di J. Meyer, México-Madrid 2010, pp. 53-82.

89 Testo-Atlante illustrato delle Missioni, Novara 1932, pp. 99-100.

90 L. Ceci, Il Papa non deve parlare. Chiesa, fascismo e guerra d’Etiopia, Roma-Bari 2010, p. 77.

91 C. Alix, Le Saint-Siège et les nationalismes en Europe (1870-1960), Paris 1962.

92 G. Papini, Italia mia, Firenze 1941; sul tema D. Saresella, Le riviste cattoliche italiane e la guerra d’Etiopia, «Rivista di storia contemporanea», 19, 1990, 3, pp. 447-484.

93 P. Mazzolari, Risposta ad un aviatore, in P. Mazzolari, Scritti sulla pace e sulla guerra, a cura di G. Formigoni, M. De Giuseppe, Bologna 2009, pp. 234-264.

94 P. Mazzolari, Quando la patria chiama, ibidem, pp. 159-171. La citazione era di un articolo de «Il Popolo d’Italia» del 6 agosto 1935, Senso e coraggio della realtà, di Icilio Petrone.

95 Charles de Foucauld, prima della fondazione della congregazione dei Piccoli fratelli del Sacro cuore e di stabilirsi nell’eremo sahariano di Tamanrasset (dove fu ucciso nel 1916), aveva combattuto nell’esercito francese in Nordafrica e compiuto esplorazioni per la Società geografica francese.

96 Oltre agli studi classici sui cattolici e la guerra durante il fascismo, di Traniello, De Felice, Collotti, Scoppola, Webster, De Rosa, Rhodes, Miccoli e Malgeri, vedasi R. Moro, Il mito dell’Impero in Italia fra universalismo cristiano e totalitarismo, in Cattolicesimo e totalitarismo, a cura di D. Menozzi, R. Moro, cit., pp. 350-366; A. Giovagnoli, Il Vaticano di fronte al colonialismo fascista, in A. Del Boca, Le guerre coloniali del fascismo, Roma-Bari 1991.

97 L. Ceci, La Chiesa e la questione coloniale. Guerra e missione nell’impresa d’Etiopia, in M. Franzinelli, R. Bottoni, Chiesa e guerra. Dalla «benedizione delle armi» alla «Pacem in terris», Bologna 2005; Id., Santa Sede e guerra d’Etiopia: a proposito di un discorso di Pio XI, «Studi storici», 44, 2003, 3, pp. 511-525.

98 P. Borruso, L’ultimo impero cristiano: politica e religione nell’Etiopia contemporanea, 1916-1974, Milano 2002 e G. Crippa, I missionari della consolata in Etiopia. Dalla prefettura del Kaffa al vicariato di Gimma (1913-1942), Roma 1998.

99 A. Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale, II, La conquista dell’impero, Milano 1992, pp. 429 segg.

100 M. Borello, La schiavitù in Etiopia. L’opera dei nostri missionari, «Missioni consolata», 34, 1932.

101 Fascisti in Sud America, a cura di E. Scarzanella, Firenze 2005.

102 R. Giuliani, Per Cristo e per la patria: ultimi scritti dall’Africa, Firenze 1937.

103 Omelia del 28 ottobre 1935 del Cardinale Ildefonso Schuster, «Rivista diocesana milanese», 11, 1935. Sul vescovo milanese e la stagione della guerra: G. Vecchio, Lombardia 1940-1945. Vescovi, preti e società alla prova della guerra, Brescia 2005.

104 Pio XII, Lettera enciclica Summi Pontificatus, 20 ottobre 1939.

105 La bibliografia su questi temi è ormai sempre più ricca; cfr. G. Formigoni, La Democrazia cristiana e l’Alleanza occidentale (1943-1953), Bologna 2003; M. Del Pero, L’alleato scomodo. Gli Usa e la Dc negli anni del centrismo (1948-1955), Roma 2001.

106 A. Giovagnoli, G. Del Zanna, Il mondo visto dall’Italia, Milano 2004; Al di là dei confini. Cattolici italiani e vita internazionale, a cura di A. Canavero, Milano 2004.

107 D.K. Filedhouse, The West and the Third World, Oxford 1999; V. Prashad, Storia del Terzo mondo, Soveria Mannelli 2009; G. Garavini, Dopo gli imperi. L’integrazione europea nello scontro Nord-Sud, Torino 2009; L. Tosi, Il Terzo Mondo, in La nazione cattolica. Chiesa e società in Italia dal 1958 a oggi, a cura di M. Impagliazzo, Milano 2004, pp. 482-517.

108 G. La Pira, Per combattere la geografia della fame, «Il Focolare», 14, 1956, p. 6. Più in generale sul tema: G. La Pira, Beatissimo padre. Lettere a Pio XII, a cura di I. Piersanti, A. Riccardi, Milano 2004; M. De Giuseppe, La Pira, Firenze, il Terzo mondo, «Quaderni della biblioteca Balestrieri», 1, 2008.

109 G. La Pira, Enrico Mattei a Firenze: discorso commemorativo in occasione del Trigesimo della morte, 27 novembre 1962, Firenze 1962; Id., Il sentiero d’Isaia, Firenze 1978, pp. 101-126.

110 A. Giovagnoli, Pio XII e la decolonizzazione, in Pio XII, a cura di A. Riccardi, Roma-Bari 1984, pp. 179-209.

111 Pedro Arrupe. Un uomo per gli altri, a cura di G. La Bella, Bologna 2007.

112 D. Nicoli, Il movimento Fidei Donum: tra memoria e futuro, Bologna 2007; Fidei Donum 1957-2007. Profili, «Quaderni della segreteria generale della CEI», 22, 2005; Commissione episcopale per la cooperazione tra le chiese, Dall’aiuto allo scambio: venticinque anni di esperienza dei sacerdoti fidei donum, Atti del Seminario di studio (Verona 1983), Roma 1984.

113 Si veda al riguardo Nouvelles voies de la mission, 1950-1980, Actes de la Session conjointe du Credic et du Centre Vincent Lebbe, éd. M. Cheza, M. Costermans, J. Pirotte, Lyon 1999.

114 S. Paventi, La Chiesa missionaria. Manuale di missionologia dottrinale, 2 voll., Roma 1949-1950. Soprattutto la spinta al rinnovamento veniva dall’esterno, dalle pulsioni che le trasformazioni politiche delle regioni periferiche provocavano sul mondo missionario tout court, le stesse che interpellavano anche il mondo accademico e culturale occidentale (si pensi all’esperienza di quegli anni di Lévy Strauss e al successo del suo volume del 1955 Tristes Tropiques).

115 P. Gheddo, Il risveglio dei popoli di colore, Milano 1956.

116 Meno militanti e più attente a formule di antropologia religiosa furono invece le altre prime opere della collana, come F.A. Plattner, L’antica via della seta, Torino 1958; I. Tubaldo, Popoli in cammino, Torino 1958; A. Giovanditto, Popoli e razze d’Africa, Torino 1959; G.B. Tragella, Panorami d’Asia, Torino 1960; e soprattutto M. Villain, Introduzione all’ecumenismo, Torino 1964.

117 A. Melloni, Pacem in terris. Storia dell’ultima enciclica di Papa Giovanni, Roma-Bari 2010.

118 L’iniziativa, diretta a formare missionari specializzati, fu promossa da Giovanni XXIII con il sostegno della Pontificia commissione per l’America latina e del Comitato episcopale italiano per l’America latina (Ceial), istituito dalla Cei nel 1962 e presieduto dal vescovo di Verona, monsignor Giuseppe Carraro. Quattro anni dopo, su inziativa del Ceial, Armando Oberti avrebbe quindi fondato il Movimento laici per l’America latina (Mlal).

119 P. Pombeni, La Costituente. Un problema storico politico, Bologna 1995.

120 G. Alberigo, Breve storia del Concilio Vaticano II, Bologna 2005, Storia del concilio Vaticano II, diretta da G. Alberigo, 5 voll., Bologna 1995-2001.

121 F. Fanon, I dannati della terra, Torino 1962. Il libro, pubblicato in Francia dieci mesi prima, Le damnés de la terre, conobbe 4 riedizioni solo nel primo anno.

122 La dichiarazione e il decreto di Paolo VI sono del 7 dicembre 1965. Sul tema: S. Scatena, La fatica della libertà: l’elaborazione della dichiarazione Dignitatis Humanae sulla libertà religiosa del Vaticano II, Bologna 2003.

123 Concilio vaticano II, Decreto sull’attività missionaria della Chiesa, Ad Gentes, 7 dicembre 1965, n. 90. Vedasi: Le missioni nel Decreto Ad Gentes del Concilio Vaticano II, Roma 1966; J. Masson, L’attività missionaria della Chiesa; genesi storico-dottrinale del decreto (con testo del card. Suenens), Torino 1967.

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