NEGRI

Enciclopedia Italiana (1934)

NEGRI

Gioacchino SERA
Raffaello BATTAGLIA

In Francia è ancora usata abbastanza spesso per i Negri d'Africa, la denominazione, sorta appunto in quel paese, di Negri occidentali, in contrasto con quella di Negri orientali, che dovrebbe designare la popolazione scura dell'Arcipelago Malese e della Melanesia: questa locuzione non è stata mai molto diffusa fra noi e di solito nelle scuole italiane i Negri occidentali o africani sono chiamati semplicemente Negri. (Per i Negri d'America, v. stati uniti d'america).

Antropologia. - Per Negri si devono intendere, antropologicamente parlando, tutte quelle popolazioni dell'Africa, che non appaiono strettamente congiunte né con le popolazioni del nord del Sahara e dell'Africa orientale settentrionale (popolazioni di tipo cosiddetto "camitico", fra cui ricordiamo, solo per esemplificazione, i Berberi, i Libici, gli Egiziani, gli Abissini, i Galla, i Somali) né con le popolazioni di piccola statura, i cosiddetti Negrilli delle regioni centro-occidentali, né coi cosiddetti Boscimani del sud. Come dice il nome, la definizione del Negro si basò nei primi tempi sul colorito della pelle e dei capelli, di cui si considerò anche l'aspetto lanoso come elemento essenziale. Ma presto si venne a conoscere che popolazioni del cosiddetto tipo camitico, come gli Abissini, i Galla, i Somali, ne posseggono entrambi i caratteri. Si credette poi di trovare un segno distintivo nella depressione del naso, soprattutto nella regione della radice, e nella sporgenza della fronte sulla linea mediana (fronte bombée), ma si vide poi che questi due caratteri non sono affatto generali nell'Africa negra e, tutto sommato, piuttosto limitati e in una zona soltanto veramente sensibili, la zona dei Negri nilotici. Altri ancora hanno creduto di vedere dei caratteri distintivi nelle proporzioni somatiche, ma anche per queste i Camiti non si differenziano dai Negri, mentre fra questi all'opposto ne abbiamo alcuni certamente che hanno gambe non così lunghe, come si crede. Né il prognatismo, né l'indice nasale alto, cioè un naso largo e basso, sono sempre posseduti dai Negri e non mai da altri gruppi. Lo stesso valga per le labbra grosse ed everse. Si può tuttavia pensare che sia l'insieme di questi caratteri (di cui uno talvolta può mancare o essere in comune con altri gruppi umani non negri) ciò che caratterizza quello che noi intendiamo per Negro. Questo è forse fino a un certo punto vero, perché è proprio l'associazione di questi caratteri che richiama alla nostra mente quella forma umana che diciamo Negro. E senza dubbio una caratteristica generica del Negro, sufficiente almeno a richiamarlo alla nostra mente, potrebbe essere così data, sulla base dei caratteri citati: statura piuttosto alta o altissima, proporzioni di macroschelia (gambe lunghe) prevalenti, capelli a spirale di raggio piccolo, corti, lanosi, indice orizzontale della testa in genere basso, faccia bassa o media, naso largo, labbra spesse ed everse, faccia sovente prognata, colorito della pelle scurissimo. Ma siamo con ciò veramente innanzi a una completa caratterizzazione antropologica? Se si esaminano a uno a uno i diversi caratteri che abbiamo detto, per il loro valore a distinguere i tipi diversi dell'umanità, come eseguì sistematicamente il Biasutti, si constata che la maggioranza di essi non hanno nessun valore tipologico, ma ne hanno solo uno gerarchico, cioè hanno discriminazioni del come, o meglio, del quanto una determinata forma si è evoluta nel senso umano (che è soltanto in parte un'evoluzione nel senso di una cerebrizzazione progressiva) e del quanto una determinata forma si approssima ai nostri criterî estetici europei. Per esemplificare, una faccia alta e una bassa si possono trovare nello stesso tipo raziale, lo stesso si dica per una statura piccola e una alta. Così abbiamo molti elementi per ritenere che un tempo gli stessi Europei avessero un capello più ricciuto, almeno, di quello che essi possiedano attualmente. La stessa critica bisogna fare dei caratteri che hanno un valore ambientale di adattamento climatico, come il colore della pelle, l'indice nasale e lo stesso tipo del capello, più o meno crespo. Dobbiamo perciò restare assai dubitosi se vediamo questi caratteri fissare, fino a un certo segno, il concetto di Negro. Giacché i valori quantitativi speciali che i diversi caratteri sopra nominati hanno fra i Negri, a rigore, dimostrano solo che i Negri sono in genere in un gradino gerarchico basso. E più ancora essi caratteri indicano il più delle volte solo degli adattamenti specifici climatici, come del resto dimostra anche il fatto che spesso essi caratteri sono solo l'esagerazione di quelli sudeuropei, in confronto dei nordeuropei. Si può dire che un certo carattere di valore gerarchico, generalmente parlando, abbia nella zona africana un valore di indicazione di differenze raziali più profonde cioè di vere differenze di tipo originario. In tal caso lo possiamo dire al più un indizio o sintomo di un tipo in una certa zona. Così è per esempio dell'indice nasale, che è assai basso (nasi stretti e alti) in tutta la cosiddetta zona camitica; ma questa è una concomitanza puramente locale e niente affatto necessaria, per quanto possa essere utile per l'analisi etnica in Africa. Non è detto con ciò che non esistano caratteri metrici che abbiano valore raziale, ma solamente che occorre dimostrare che essi posseggono tale valore realmente.

I caratteri veramente importanti, razialmente parlando, sono i caratteri indicativi di una speciale origine del gruppo o dell'individuo relativo e non quelli che indicano il gradino in cui quello si trova. Il Sera indicò che i caratteri descrittivi della faccia, o, per dire più esattamente, della regione fronto-naso-lacrimale (cioè della regione inferiore e mediana del frontale e della radice del naso) regione che determina essenzialmente le differenze fisionomiche, hanno valore tipologico grandissimo e in base a questi caratteri distinse nove tipi di fisionomia facciale (v. fisionomia) nell'umanità. Orbene, è assai interessante osservare come i Negri rientrino in tipi fisionomici abbastanza diversi, come vedremo. Ma un carattere metrico (e perciò di più facile controllo) è anche molto importante per darci differenze tipiche, sebbene di altra natura, ma tuttavia preziosa, per l'apprezzamento migliore degli stessi caratteri fisionomici, per il loro controllo e per altre deduzioni di valore antropologico, che esso permette. Questo carattere è l'altezza del cranio (v. cefalici, indici); è perciò opportuno che iniziamo con esso il nostro esame particolare.

Purtroppo i dati metrici che possediamo per l'Africa (e ciò non vale soltanto pei l'altezza del cranio) sono di un valore assai eterogeneo. Le metodiche diverse, la diversa esperienza dei singoli viaggiatori e misuratori, le condizioni diversissime della loro attività, rendono comparabili i dati con estrema cautela e si può dire che buona parte delle vecchie misure antropologiche è di un valore limitato. Purtroppo anche il massimo lavoro antropometrico che possediamo sull'Africa negra, quello di J. Czekanowski, che ha studiato e misurato ben oltre quattromila individui delle regioni intorno ai laghi e delle regioni finitime è diminuito nel suo valore a causa della mancanza di un'elaborazione dei dati numerici, di cui si hanno solo delle medie di gruppo, ma soprattutto della deficienza d'illustrazione fotografica, che è certo un'esigenza imprescindibile per una retta interpretazione. Ciò è tanto più deplorevole in quanto il puro e solo lavoro di misurazione fornito dallo Czekanowski, nella sua colossale inchiesta, fu veramente straordinario. Un esempio di un'esattissima descrizione, misurazione e illustrazione antropologica è il lavoro di J. Weninger su cento negri dell'Africa Occidentale Francese (prigionieri di guerra), ma occorre riconoscere che il compito del Weninger è molto più limitato.

I cento individui del Weninger si distribuiscono sopra una vastissima area dei possedimenti coloniali francesi, che abbraccia i distretti amministrativi seguenti: Senegal superiore e Niger, Guinea Francese, Costa di Avorio, Dahomey, Territorio militare del Niger, Territorio civile del basso Senegal. Dati i grandi spostamenti etnici che conosciamo storicamente e dato che molti fatti ci inducono a ritenere che una grande mobilità abbia sempre caratterizzato le genti africane, possiamo ritenere per sicuro che la serie del Weninger ci esprime assai bene le condizioni generali della regione nel suo complesso, confermando essa molti altri lavori più ristretti e meno rigorosi per le loro analisi. Orbene, in questa serie, non un solo caso appartiene a cranio basso; non solo, ma gli ortocefali sono assai meno numerosi in confronto degl'ipsicefali, che caratterizzano la serie. Spostandoci più al sud, ma rimanendo sempre nell'Africa occidentale, la serie di 93 cranî del Camerun, illustrata da Drontschilow, pur non permettendoci per la tecnica seguita, di stabilire con precisione la frequenza relativa fra ortocefali e ipsicefali, ci permette anch'essa di escludere con certezza la presenza di laticefali. Lo stesso fatto è dimostrato dalle serie congolesi. Anzi vi è qualche cosa di più. Così la serie dei Bangala del Wolf, contiene pochi ortocefali in confronto di una maggioranza d'ipsicefali, la serie dei Baluba, dello stesso autore, dimostra invece gli ortocefali nella stessa quantità degl'ipsicefali, ma è presente anche qualche raro platicefalo. Ora è importante notare che i Bangala sono più occidentali dei Baluba, che dimorano in maggiore vicinanza della linea dei laghi. E infatti un quadro completamente diverso ci porgono i dati dello Czekanowski, che si riferiscono appunto a questa regione. Nella grande abbondanza dei gruppi etnici studiati dall'autore, ricordiamo solo i più importanti. Nei Manyema, prossimi ai Baluba, che abbiamo innanzi citati, e alquanto ad ovest del lago Tanganica, gl'ipsicefali sono i due terzi della serie, l'altro terzo essendo fornito dagli ortocefali, ma è interessante notare che mentre gl'ipsicefali sono brachioidi, gli ortocefali sono dolicoidi. Simili differenze per l'indice orizzontale tra le forme appartenenti ai tre tipi di altezza si riscontrano su tutto il territorio, come del resto su tutta la superficie terrestre. Questo fatto invalida assolutamente il significato dell'indice orizzontale, anche per confronti di valore ristretto e locale, come si dirà poi. Ma vi è di più: le quattro stirpi della costa ovest del Tanganica, Babembo, Babwari, Babuio e Bagoma sono composte esclusivamente d'ipsicefali. Gl'ipsicefali prevalgono ancora fra i Bakumu, che abitano fra il Luvuto e lo Tschopo, affluenti del Congo e sempre a una certa distanza dalla linea dei laghi. Qui però gl'ipsicefali hanno indice orizzontale basso. E lo stesso vale per i Barumbi e i Mabali, siti più a nord. Negli Ababua però, situati all'estremo nord-ovest del territorio studiato dallo Czekanowski e cioè sulla confluenza dell'Uelle-Makua e del Bomokandi, abbiamo che una metà dei casi sono ortocefali piuttosto corti. È questo dunque un caso in cui la considerazione del puro indice orizzontale ci trae assolutamente in errore. Procedendo verso l'est e il nord, vediamo gl'ipsicefali qua e là predominare sugli ortocefali, nei Bangba, che abitano alla confluenza del Oungu e del Kibali (Uelle-Makua), nei Mabudu, che vivono sul Nepoko, nei Bambula, siti all'ovest del Semliki.

Fra questi gruppi, a forte costituente ipsicefalica, sono intercalati gruppi con prevalenza di ortocefali, come gli Abaramdo, siti a est degli Abadua, i Maberu, i Balica ed i Medje, siti sull'angolo di confluenza del Nepoko e dell'Epolu (Aruwimi), i Babira, siti al nord dell'alto Lindi. È interessante osservare che finora, in tutte queste stirpi, che corrispondono a una direzione sud-ovest, non abbiamo trovato tracce di platicefali, ma proseguendo verso il nord e l'est vediamo il duplice fenomeno della diminuzione degl'ipsicefali e della comparsa dei platicefali. Questi però non prendono mai, salvo in certi gruppi che vedremo poi, una preponderanza numerica, la quale è tenuta qua costantemente dagli ortocefali. Così gli Asandè, del margine nord del territorio studiato dallo Czekanowski, e abitanti in maggior parte al nord dell'Uelle-Madua, hanno localmente (Risasi) delle forti quantità di platicefali. Così i Momvu, siti al sud del Kibali, presentano solo un terzo d'ipsicefali e il 14% di platicefali. Più ad est fra i Manghetu, i Logo, i Mundu, gl'ipsicefali hanno presso a poco la stessa proporzione. Presso i Lendù, infine, adiacenti a ovest del lago Alberto, solo il 17% sono ipsicefali, il 23% platicefali.

Ma, fatto di un grandissimo interesse antropogeografico, i Lur, che abitano all'estremo nord del lago Alberto, sono degli ortocefali, quasi allo stato puro e sul confine tra forme dolico e brachicefale. Più a sud sulla sponda ovest del Lago Edoardo, troviamo i Bacongo, con il 25% di ipsicefali e più del 20% di platicefali. Nei gruppi etnici a est dei laghi Alberto, Edoardo, Kivu e ad occidente del Vittoria, gl'ipsicefali non sorpassano il 20%, i platicefali hanno proporzioni variabili. Essi arrivano a proporzioni notevolissime presso i Balera di Ruasa, col 45%, contro la stessa cifra percentuale di ortocefali e persino, nei Balera di Leukara, al 50% contro il 38 di ortocefali. I Bahutu invece presentano l'elemento ortocefalico quasi puro; la penetrazione quindi verso l'est, nell'intervallo fra lago Alberto e Kivu, della brachicefalia, che lo Czekanowski afferma avere avuto luogo è anch'essa illusoria, trattandosi di forme ad altezza diversa. Di una grande importanza è il fatto che i Batutsi, l'elemento dominante, aristocratico, della regione, e di tipo schiettamente camitico, sono per una buona metà dei casi plaiicefali. Disgraziatamente, le figure dello Czekanowski non ci permettono di assicurare che la forte componente platicefalica dei Balera sia data dallo stesso elemento camitico. Ma nelle regioni adiacenti alle sponde meridionali del lago Vittoria, gl'ipsicefali crescono di nuovo rapidamente (Vanianiembe). Considerando il significato antropogeografico di questi dati, è assai logico il supporre che gl'ipsicefali possano essere di provenienza occidentale all'est dei laghi, i platicefali, almeno in parte, possano essere di provenienza dal nordest dell'Africa (cosiddetto tipo camitico, tipo etiopico del Sera). Con ciò non è detto che l'elemento camitico sia sempre caratterizzato da cranio basso; anzi è sicuro il contrario. Ma i dati del Sergi sui cranî di Kohaito (Abissinia) pongono fuori questione la presenza di platicefali fra gli Etiopici puri. L'elemento ortocefalico sarebbe il più antico all'est dei laghi almeno, ma cosa più importante, esso non era limitato a est dei laghi, ma assai probabilmente si estendeva alquanto a ovest della detta linea. Il confine antropologico che lo Czekanowski vede nella linea dei laghi ha forse un valore per fatti recenti, non per fatti antichi di distribuzione. Assai interessante si presenta il quesito del tipo di altezza delle regioni africane abitate dal tipo nilotico (alta statura, macroschelia, dolicocefalia estrema, colorito scuro, radice nasale assai depressa). I dati raccolti da N. Puccioni da autori diversi sembrerebbero indicare che la zona è ortocefalica. Importanti sono i risultati che si desumono dai dati di F. Fülleborn sui gruppi del Niassa. Ivi i gruppi che hanno una posizione geografica più remota e isolata (certamente i Bakissi della sponda nord, sita contro il ripido pendio dei monti Livingstone e forse i Vakinga montanari degli stessi monti) sono ortocefali, i restanti più o meno con forti quantità di ipsicefali.

Da quanto si è esposto risulta chiaramente una certa opposizione fra la parte dell'Africa negra a occidente dei grandi laghi e quella a oriente. Mentre nella prima prevale l'ipsicefalia sull'ortocefalia, è esclusa la platicefalia e le suddette due forme hanno tendenza alla produzione di brachicefalia, a est prevale l'ortocefalia sull'ipsicefalia ed è presente in misura variabile la platicefalia, il cranio essendo quasi sempre lungo. Risulta anche bene evidente come non si possa dare alcun valore alla distribuzione dell'indice cefalico. Un'accurata carta di distribuzione di questo indice ha compilato B. Struck, sui lavori pubblicati sino al 1921. Ma più importanti sono i risultatì dell'esame dei tipi fisionomici dell'Africa negra, eseguito dal Sera, di cui riproduciamo le linee principali. Fra i tipi facciali illustrati dal Weninger, appartenenti all'Africa occidentale (v. sopra), si può stabilire il predominio assoluto di due tipi, l'uno che rientra nell'Atlanto-Indico del Sera (v. fisionomia), ma di cui rappresenta, in certa guisa, una forma gerarchicamente bassa. Diamo nelle figure due casi, fra i più significativi, di questo tipo nella regione. È interessante notare, in aggiunta, che il cranio cerebrale ha, nel profilo laterale, una forma speciale, per cui il vertice è assai spostato all'indietro e la fronte sfuggente. Questo tipo corrisponde al secondo tipo di profilo, distinto dal Weninger. Oltre a ciò e ai caratteri proprî del tipo, altrove descritti, la faccia vista dall'innanzi ha forma fra ovale ed ellittica, perché la larghezza bizigomatica sopravanza di assai le altre larghezze e la vòlta del cranio è a sesto acuto. Il naso ha spesso la forma che il Weninger dice a imbuto. Questo tipo allo stato puro è piuttosto raro. Sopra cento casi si può dire essere presente cinque o sei volte al più, ma si riscontra spesso allo stato di mescolanza con l'altro, il negritoide, di cui diamo ai numeri 3 e 4 della figura a p. 511 due esempî. Questo tipo è assai più frequente allo stato puro ed è soprattutto frequente nel gruppo etnico dei Malinkè. Altri tipi in questa zona sono, tutto sommato, rari, forse solo il Melanesoide si può dire essere presente. Ne diamo un bell'esempio nei numeri 5 e 6. Nel Congo si hanno presso a poco gli stessi fatti. Qua non soltanto il tipo negritoide si trova assai più frequente dell'altro allo stato puro, ma anche con forme relativamente fini (facce alte, nasi stretti) senza che si possa pensare fondatamente, come pur da taluno si è fatto, a un'influenza araba, soprattutto per le latitudini meridionali. Così pure è da scartare l'ipotesi d'inquinamenti camitici, che è stata fatta per i Manyema. Il tipo camitico in questa regione non s'incontra che sporadicamente, mentre i Manyema hanno frequenze notevoli del tipo negritoide. Una certa ripresa invece del tipo atlantico è evidente più a sud-ovest nell'Angola e soprattutto nel gruppo dei Lutciasi, dell'alto Zambesi. All'est della linea dei laghi la diagnosi dei tipi facciali si fa assai più difficile, perché certamente i fattori etnici, i tipi, divengono assai più numerosi e il grado della loro mescolanza è assai più intenso. In questa zona l'influenza del tipo etiopico in moltissimi luoghi è certo sensibile, sebbene vada rapidamente diminuendo verso il sud. Parrebbe come se in tutta la zona, dal fiume Tana fino allo Zambesi e, sulla costa, molto più al sud, esista un fondo antico di tipo melanesoide. Esso pare essere rimasto più evidente in certe zone d'isolamento. Così è forse più chiaro fra i Lur, fra i Vachinga sui monti Livingstone, fra i Nandi-Lumbwa dell'altipiano fra Elgon e Kenya. Altri caratteri, oltre quelli altrove descritti, distinguono questi tipi, fra cui una larghezza di spalle. In molti casi è evidente un aspetto tasmanoide. Vi sono molte ragioni per ritenere che nel passato questo tipo si estendesse assai più a nord che nel presente. Così, ad esempio, i caratteri alquanto divergenti del gruppo etiopico occidentale del Puccioni (Ghimirrà, Caffa) forse sono dovuti a una maggiore persistenza locale di un fondo di questo tipo; i suoi caratteri facciali del resto vengono spesso in evidenza presso certi individui Galla. Il tipo negritoide affiora in molti luoghi di questa zona. Così, ad esempio, fra gli Elgumi dell'Elgon, e al sud fra i Wahehe, i Wayao e i Vamuera. È anche in più stirpi di questa zona orientale evidente il tipo nigrizio. Questo tipo però domina, per territorî estesi, fra i gruppi del Sudan centrale e occidentale soprattutto. Nelle stirpi negre situate al sud del 15° lat. S. sono sempre più o meno evidenti tracce di mescolanze col tipo boscimano. Così i Batonga, illustrati recentemente dal Cipriani, sembrano al Sera una mescolanza del tipo melanesoide e del boscimano. Il tipo batonga ha nei tratti fisionomici assai spesso notevoli affinità con i Bastardi sudafricani.

Più d'un accordo è evidente tra i dati dell'altezza della testa e i risultati della diagnosi tipologica della faccia. Il tipo negritoide è certamente caratterizzato da una altezza assai forte. Nel tipo atlantico crediamo che l'altezza sia in genere alquanto più piccola, sempre però contenuta fra ipsicefalia e ortocefalia. Rimane però dubbio fino a oggi se gli ipsicefali orientali siano sempre di tipo negritoide. È bene possibile che essi in parte appartengano al tipo etiopico. Il tipo melanesoide è quasi con certezza sempre ortocefalico, e ortocefalico è probabilmente anche il tipo nigrizio. Non è sicuro che il tipo platicefalico sia sempre etiopico per la faccia, giacché i Balera e i Batua, aggiungiamo, delle vicinanze del Kivu, hanno una forte percentuale di platicefali, senza che questi ultimi almeno, accusino presenza di facce etiopiche. Queste concordanze rafforzano il valore diagnostico dei caratteri facciali. Esistono dunque nell'Africa negra molti tipi facciali, parecchi dei quali hanno certamente un forte valore raziale, di cui la ricerca avvenire dovrà definire il grado sistematico. Questi tipi facciali sono gli stessi che riscontriamo in Europa e nell'Asia europoide; ma in Africa li troviamo sotto forme più primitive e sopra tutto estremamente specializzate per adattamento al clima tropicale. Nel concetto che sinora si è avuto del Negro, è prevalso questo aspetto della morfologia complessiva di esso. Ma questo apprezzamento dovrà essere per l'avvenire profondamente modificato.

Bibl.: F. Fülleborn, Beitr. z. phys. Anthrop. der Nord-Nyassaländer, Berlino 1902; J. Czekanowski, Forsch. im Nilkongozwischengebiet, Dritter Band III, IV, Lipsia 1922; A. A. Mendes Correa, Antropologia Angolense-Quiocos, ecc., in Archivo de anatomia y antrop., II (1916); B. Struck, Versuch ein. Karte d. Kopfindex im mittl. Afrika, in Zeitsch. f. Ethnol., LIV (1922); J. Weninger, Eine morphol. anthrop. Studie. Durchgeführt on 100 Westafrik. Negern, ecc., Vienna 1927; N. Puccioni, Affrica nord-orientale ed Arabia, Pavia 1929; L. Cipriani, Osservaz. antropom. in indigeni asiatici ed africani, in Arch. antrop. etnol., V (1932), pp. 60-61.

La cultura dei Negri africani.

Agricoltura. - Nelle società negre dell'Africa l'agricoltura ha assunto un grande sviluppo. Eccettuate le tribù pastorali dell'alto Nilo e delle regioni meridionali del continente, essa costituisce la principale attività economica di queste popolazioni. È nelle grandi regioni agricole del Sudan che sorsero i grandi imperi negri medievali, come quello di Ghana, il quale raggiunse il massimo sviluppo nel sec. IX-X, per cadere poi sotto i colpi degli Almoravidi. Ma anche i popoli pastori curano l'agricoltura, magari con l'aiuto di schiavi, come fanno i Dinca (Denca), poiché, salvo poche eccezioni, si nutrono in prevalenza di alimenti vegetali.

I Negri non hanno tuttavia superato lo stadio dell'agricoltura alla zappa. Gli strumenti agricoli in uso sono molto semplici, anzi spesso si riducono alla sola zappa. Le zappe grandi vengono adoperate a due mani; il manico può essere foggiato a clava per rendere più pesante l'estremità che porta infisso il ferro; la lama è di forma trapezoidale o ovale (o cordifo me). Comune è pure una zappetta col manico corto, il quale fa con la lama un angolo acuto. A questi strumenti si aggiungono talora un coltello, una falciola o un bastone di legno appuntito per la semina e i trapianti. Malgrado la povertà dei mezzi di cui dispone e le difficoltà offerte dall'ambiente, il negro si dimostra agricoltore capace e laborioso. Il dissodamento del terreno viene fatto mediante il fuoco. Con questo mezzo, comune agli agricoltori primitivi di tutti i continenti, vengono preparati gli spazî della foresta e della savana destinati alla coltura e, in mancanza d'altri ingrassi, viene contemporaneamente fertilizzato il terreno agrario.

Alla lavorazione dei campi, nelle comunità agricole, partecipa tutta la famiglia. I lavori possono anche venire fatti in comune. Presso i Mossi del Sudan, i ricchi proprietarî rendono noto il giorno in cui incomincia il lavoro dei campi. Nel giorno fissato, parte della popolazione maschile del villaggio si trova sul posto e, accompagnata dal suono di trombe, aiuta il proprietario a zappare la terra. Alla prossima occasione egli si recherà a lavorare nelle terre degli altri. Anche i Basuto si riuniscono in molti per i lavori agricoli; il capo, il quale assegna ai vassalli le zone di terra da coltivare e da spartire ai capi famiglia, sorveglia spesso personalmente i lavori. In queste occasioni si radunano centinaia d'individui, i quali, disposti in riga, zappano con ritmo uguale regolando i moviment col canto.

I lavori più pesanti spettano di solito agli uomini. Le donne in questo caso puliscono il terreno, curano gli orti e i piccoli giardini che coltivano vicino alle capanne, nei villaggi. I tetti stessi delle capanne servono spesso di sostegno a numerose piante di zucca, dalle quali gl'indigeni ricavano un grande numero di utensili domestici e altri oggetti. Presso i Dinca pastori, gli Asandè e i Balunda sono le donne che si occupano principalmente dei campi. La stessa cosa venne osservata tra i Giur, presso i quali gli uomini curano invece il pollaio.

Il sistema di lavorazione dipende dallo spessore del terreno agrario. Dove questo è profondo, l'uomo zappa stando in piedi; se la coltre di terra coltivabile ha piccolo spessore, l'agricoltore lavora in ginocchio o accosciato, limitandosi a raschiare la terra con una zappetta dal manico corto. Il terreno viene diviso in lunghi solchi paralleli da rialzi o da serie di coni di terra alti fino a un metro. I Senufo della Costa d'Avorio piantano su queste elevazioni igname, manioca, arachidi, miglio e mais. Nei solchi dove ristagna l'acqua seminano il riso. I Giur gettano invece le sementi entro piccole fosse scavate a un metro di distanza l'una dall'altra, che vengono poi ricoperte di terra pestata con i piedi. I Waniassa, agricoltori che abitano le regioni meridionali del lago Niassa e la valle dello Shire, coltivano anche i terreni paludosi riempiendo di sabbia le buche aperte nel fango, prima di seminare il mais, e ricoprendo poi i semi con altra sabbia. Nella stagione secca le donne portano l'acqua nelle zucche per innaffiare i campi. Presso i Mossi nessun angolo del paese intorno agli abitati è libero. Quando matura il sorgo le spighe s'intrecciano sopra i sentieri rendendo difficile il cammino. Nel paese degli Ovambo i campi di cereali si estendono per chilometri.

Nell'agricoltura dei Negri tengono un posto importante i cereali, e principalmente il miglio, del quale si coltivano diverse specie (miglio bianco, miglio rosso o sorgo, eleusine). Il mais - come anche altre piante americane e asiatiche - trovò largo favore tra gli agricoltori negri. La coltivazione del frumento è meno diffusa; la si trova nelle zone marginali del Sudan e nelle regioni orientali che subirono l'influsso degli Arabi. Numerosi sono pure i legumi e le piante a tubero, come piselli, fagioli, arachidi, sesamo, manioca, ignami, patate, colocasia. Chevalier riferisce che le popolazioni antropofaghe dell'Ubanghi coltivano oltre venti specie di piante diverse, dalle quali ricavano semi, tuberi, frutta e foglie per l'alimentazione, senza contare quelle che forniscono materie grasse, fibre tessili, profumi (basilico) e sostanze voluttuarie (tabacco, canapa). In tutto il Sudan la coltura dell'indaco è monopolizzata dai Saracole, che ne ricavano una bella tintura blu, la quale non resiste però alla lavatura per mancanza di mordente. Nello Yatenga le donne attendono alla raccolta delle foglie dell'indaco selvatico per tingere le stoffe; altre tinture (giallo, nero) per stoffe e per cuoi vengono ugualmente ricavate da sostanze vegetali.

La coltivazione dei cereali estesa a tutta l'Africa negra - come quella delle leguminose - è particolarmente sviluppata nelle savane sudanesi. Nelle regioni forestali più umide ed esposte ai monsoni prevalgono le piante bulbose e anche il riso, che i Negri tengono comunemente come cibo di lusso. Nel Congo abbonda la coltura della manioca. Nella Guinea prevale quella dell'igname, diffusa anche fra i Bongo e i Dinca. Le risaie sono frequenti nei paesi costieri, dalla Guinea Francese alla Costa d'Avorio, nel bacino del Niger e nei paesi della costa sud-orientale da Mozambico allo Zambesi. Il mais è comune nel Dahomey e costituisce - insieme con la patata - il principale alimento dei Baronga (Baia di Delagoa). Nelle regioni umide del centro del continente e della costa della Guinea viene coltivata la banana, la quale costituisce, con la manioca, l'alimento fondamentale delle tribù viventi nella foresta congolese. Tra i prodotti vegetali della foresta equatoriale, utilizzati dai Negri, è da ricordare l'Elaeis guineensis, dalla quale gli abitanti della Guinea, del Dahomey, e del basso Niger ricavano l'olio, mentre quelli del Congo la coltivano specialmente per estrarne il vino di palma.

Notevole importanza etnologica ha l'origine delle piante coltivate dai Negri. Le diverse specie e varietà indigene di miglio - dalle quali vengono ricavate anche bevande alcooliche (birra di sorgo) - sono certamente tra i più antichi prodotti dell'agricoltura africana. Anche la coltivazione delle banane sembra sia molto antica. Delle 20 specie che conta il sottogenere Physiocaulis, 18 sono ritenute proprie dell'Africa. Secondo lo Schmidt la banana - il cui territorio d'origine pare sia l'Arcipelago Indiano (Indonesia) - sarebbe stata importata in Africa dai Negridi stessi insieme con la coltura alla zappa.

Anche altre piante asiatiche, di introduzione più recente, sono coltivate dai Negri. In un vasto territorio tra il Giur ed il Tongi, nell'Africa centrale, lo Schweinfurth trovò oltre 50 specie di piante domestiche d'origine indiana.

Nella grande foresta l'agricoltura, più arretrata rispetto a quella della savana, è legata ancora a un vero e proprio nomadismo, determinato dai sistemi primitivi di sfruttamento del suolo. I Fan, totemisti del Gabon, restano fermi in media 5 o 6 anni in uno stesso posto; i campi di manioca e di igname devono venire presto abbandonati per il rapido impoverimento del territorio agrario dovuto alla mancanza di concime. Per conseguenza ogni anno vengono abbattuti centinaia di ettari di foresta per rinnovare le piantagioni. Quando queste vengono a trovarsi troppo lontane dal villaggio il gruppo emigra in cerca di terreni più fertili. Anche i Niarhafolo ed i Pala della Costa d'Avorio nomadizzano e non rimangono fermi nello stesso luogo più di cinque anni, fino a tanto cioè che hanno terra disponibile per la coltura.

La raccolta delle piante selvatiche per uso alimentare (erbe, fiori, semi, foglie, tuberi) per foraggio e per usi industriali o medicinali è largamente praticata tanto dagli agricoltori quanto dai pastori. Talora i prodotti della raccolta suppliscono all'insufficienza delle messi e alla scarsità del bestiame. I funghi, molto apprezzati dai Negri, vengono anche seccati e ridotti in polvere per condire le salse.

Va tenuto presente che gli agricoltori africani curano poco la coltivazione degli alberi. Alcuni di essi, come i Baronga, quando dissodano il terreno, rispettano gli alberi da frutto, favorendo con una specie di selezione lo sviluppo di queste piante.

L'allevamento. - Nelle comunità di agricoltori l'allevamento del bestiame non è tenuto in grande onore. I Mossi del Sudan affidano le mandrie ai pastori Fulbè (Peuls), d'origine etiopica, i quali in cambio si trattengono il latte e quando possono anche parte del bestiame. Dopo il bue, gli animali che s'incontrano con maggiore frequenza nei villaggi negri sono la capra, la pecora, il maiale, il cane e i gallinacei. Nelle regioni forestali umide dell'Africa centrale e occidentale il bue manca o è molto raro, causa le punture della Glossina morsitans, la quale ostacola anche la diffusione del cavallo. Nelle regioni tropicali l'allevamento del bestiame ha talora notevole importanza nella vita economica delle popolazioni che occupano le regioni montuose del Kenya, dell'Adamaua, del Futa-Gialon e del Camerun.

Buone razze cavalline vengono allevate nel Sudan dai Mossi e dalle popolazioni dell'Adamaua. Si tratta comunque, per i Negri, d'un acquisto relativamente recente e limitato alle zone marginali del loro habitat, più esposte alle influenze delle civiltà berbere e arabe. I Mossi apprezzano molto il cavallo e chi può non manca di procurarsene almeno uno; esso però rimane l'animale dei capi e dei nobili. Anche l'asino in queste regioni è abbastanza numeroso e serve utilmente da animale da trasporto. Più diffuso è presso i Negri l'uso del bue come animale da soma e da sella. Esso è comune in tutto il Sudan, dall'Atlantico fino al Nilo Bianco e nelle regioni del sud-ovest, nell'Angola, nel paese dei Beciuana e presso i Cafri.

Presso i popoli pastori dell'Africa orientale e meridionale i bovini vengono raramente macellati per l'alimentazione giornaliera. Gli Zulu e i Damara (Herero) si cibano del latte o del sangue di questi animali, che estraggono mediante salassi. La carne di bue, lessata o arrostita, viene mangiata in occasione di feste familiari o della comunità, come per es. quella delle messi presso gli Zulu. Il grasso di bue serve da alimento e anche per ungere il corpo. Anche gli escrementi e l'urina di questi animali vengono utilizzati dai pastori. I Dinca adoperano queste sostanze per fare cosmetici, per pulire i vasi di latte e in luogo di sale. Nei villaggi Dinca il vero animale da macello è la capra; i Baronga invece la allevano quasi esclusivamente per scopi religiosi e rituali. Gl'indigeni della Costa d'Oro, del Dahomey e dello Yatenga mangiano anche carne di cane, che nel Dahomey viene venduta sui mercati. Anche il cane, come la capra, il montone, i polli, vengono immolati nei sacrifici. Il cane viene tenuto anche per fare la guardia alle abitazioni e agli armenti, e per la caccia.

La principale ricchezza delle tribù pastorali dell'alto Nilo e dell'Africa meridionale è costituita dalle mandrie di bovini. Gli Herero ricchi possiedono decine di migliaia di mucche, tenute in recinti separati e affidati alla custodia di parenti poveri o di servi fidati. Tutti i pastori negri, Dinca, Scilluk, Cafri, Herero, sono molto attaccati alle loro mandrie. La perdita d'una mucca è un vero lutto per i Dinca.

L'attaccamento e la cura che hanno questi pastori per il loro bestiame si riflette anche nel vocabolario. Per ciò che concerne il bestiame e il suo allevamento, dice Schweinfurth, il vocabolario dinca è più ricco di qualsiasi lingua europea. La cura delle mandrie, compresa la mungitura, è riservata agli uomini, non esclusi i capi. Tutta la vita economica e sociale di queste comunità è legata a questo capitale vivente, che presso gli Zulu viene amministrato dai capi e dal re. Nel diritto degli Herero la successione è regolata in modo da impedire la dispersione delle mandrie.

L'apicoltura è diffusa tra i Negri del Sudan, dell'alto Nilo, dove le api sono molto numerose, e fra quelli del Lunda e dell'Angola. I Mossi ricavano dal miele una specie d'idromele, molto apprezzato dai Fulbè, Yarsè e Haussa musulmani. La cera serve per la metallurgia (fusione di braccialetti a stampo perduto). Gli abitanti del Lunda esportano la cera a Benguela e a S. Paolo di Loanda.

La caccia e la pesca. - Popolazioni negre a cui sia ignota l'agricoltura e la pastorizia, e che vivano esclusivamente di caccia sono eccezioni. Questo stadio economico primitivo si trova in Africa presso i Pigmei e i Boscimani. Tra i Negri si possono ricordare gli Andorobo delle foreste del Kenya, cacciatori viventi in piccoli villaggi sparsi negli spazî liberi della foresta tropicale. Uccidono la selvaggina con frecce avvelenate e hanno il cane. Da alcuni anni, secondo il Huntingford, piccoli gruppi si sono stabiliti ai margini della foresta per dedicarsi anche all'agricoltura. Queste famiglie possiedono animali domestici.

Agricoltori e pastori si procurano, d'altra parte, mediante la caccia alimenti carnei e materie prime (pelli, avorio) per uso industriale o per scambî commerciali. I Fan cacciano soli, accompagnati dal cane, oppure, se i terreni di caccia sono lontani, si radunano in molti, accampandosi nella foresta. Il periodo di caccia dura al massimo tre settimane. Nella foresta si fa spesso uso di trappole e di fosse. Nelle steppe sudanesi per la cattura degli animali vengono adoperate anche grandi reti. A queste battute partecipano anche donne e ragazzi, che aiutano a cacciare la selvaggina verso le reti. Grandi cacce collettive organizzano anche i Cafri.

Queste cacce si svolgono secondo regole tradizionali e sono precedute da cerimonie propiziatorie e da pratiche magiche individuali, per assicurare abbondante preda e precisione di tiro. Presso alcune tribù Habbe dell'altipiano centrale della Nigeria si costituiscono associazioni di cacciatori (e di pescatori), a scopo commerciale, dato che il prodotto della caccia o della pesca viene portato al mercato per gli scambî. Le armi adoperate per la caccia sono lance, giavellotti e frecce, molto spesso avvelenate. Ora si è diffuso anche l'uso del fucile. La selvaggina varia naturalmente nelle diverse regioni e va dai piccoli rosicanti alle antilopi, dai bufali agli elefanti, per tacere dell'avifauna. Non va dimenticata infine la cattura, a scopo alimentare, di insetti, rettili, batraci, anfibî.

Le tribù rivierasche e quelle viventi in regioni lacustri e costiere non trascurano la pesca. I Giur prima d'incominciare le semine lasciano in massa i villaggi per dedicarsi alla pesca, come fanno i Bongo al principio della stagione delle piogge e quando le acque si ritirano. Presso le tribù del Niger le associazioni dei pescatori sono rette da "capi della pesca" dipendenti dal "capo del fiume", i quali sottostanno all'autorità politica del capo del villaggio. I corsi d'acqua e i laghi sono divisi in settori e ognuno di questi dipende da uno di questi capi. Il pesce viene catturato mediante sbarramenti, reti, grandi nasse, ramponi, ecc.

L'abitazione e gli abitati. - Il tipo d'abitazione più diffuso tra i Negri è la capanna (v. vol. I a p. 759, cartina). Nella grande varietà di forme si possono distinguere due tipi fondamentali: la capanna a pianta circolare e quella rettangolare col tetto piatto o a due pioventi. Il primo tipo si suddivide a sua volta in capanne a cupola (o ad alveare) e in capanne cilindriche col tetto conico. Oltre a queste si distinguono nei territorî abitati dai Negri altre forme di abitazioni, limitate però ad aree più ristrette. Alcune di queste, come le primitive dimore trogloditiche e quelle erette su palafitte, appaiono legate a particolari condizioni d'ambiente; altre invece, come le case a terrazza e i cristalli sudanesi, rivelano influenze di tecniche costruttive irradiate dai centri culturali camito-semiti dell'Africa settentrionale e dell'Asia anteriore.

Le capanne circolari (talvolta anche ovali: Basuto) col tetto a cupola sono molto diffuse tra i Bantu meridionali (Cafri, Herero, Ovambo). L'espressione più caratteristica di questo tipo di abitazione è la capanna monocellulare cupoliforme degli Zulu. Più a nord ritroviamo le capanne ad alveare nella regione dei laghi equatoriali (Ugigi, Urundi, Ruanda, Karagwe, Uganda, Unyoro), nei territorî abitati dai Nilotici (Acholi, Turcana) e più a occidente tra i Lur e i Kregi del Bah rel-Ghazal. Gruppi residuali isolati s'incontrano anche in altre regioni del Sudan e nella foresta congolese. Queste dimore sono costituite normalmente da uno scheletro di rami flessibili curvati ad arco e piantati nel terreno. Sopra di essi viene posta la copertura di erbe o di paglia. Nei paesi dove si è diffuso l'uso delle costruzioni d'argilla troviamo anche notevoli esempî di capanne a cupola costruite con questo materiale: vanno ricordate le dimore emisferiche dei Giukun del Benué e le capanne a cupola ogivale, alte fino a dieci metri, dei Banana del Camerun. Nelle sue forme più semplici la capanna ad alveare si collega ai ricoveri costruiti dai Pigmei e dai Boscimani. Essa raggiunge invece la più alta espressione architettonica nei grandi "palazzi" reali dell'Uganda e dell'Unyoro, che sono stati descritti con parole d'ammirazione dai viaggiatori del secolo XIX, principalmente da Speke, Stanley e Wilson.

Le capanne ad alveare presentano una distribuzione geografica marginale, rispetto al blocco centro-occidentale costituito dalle abitazioni a pianta quadrangolare e ai territorî intermedî in cui domina la capanna cilindrica a tetto conico. Quest'ultimo tipo ha una larga diffusione tra le stirpi Bantu del bacino del Limpopo e dell'alto Zambesi; tra quelle dei territorî del Niassa e dell'alto Nilo, e tra i Negri del Sudan. Il muro perimetrale viene fatto con pali e rami intrecciati ricoperti spesso da un intonaco d'argilla oppure viene costruito tutto in terra battuta o in mattoni. Il tetto è di rami intrecciati coperto di paglia o di foglie, viene costruito separatamente e poi poggiato sul muro cilindrico. Queste capanne sono comuni nel Sudan e nei territorî Malinke e Mossi. Un tipo diverso presentano le dimore dei Niloti, che si distinguono per la bassezza delle pareti coperte da un grande tetto a cupola il quale termina in una sottile cuspide conica. Nel loro complesso queste capanne ricordano la sagoma delle capanne ad alveare.

Le dimore dei Dinca sono spaziose e raggiungono anche dieci metri di diametro. Ben diverse sono invece le abitazioni costruite da certe tribù Mongelima del Congo, viventi lungo le rive dell'Aruwimi nel cuore della foresta equatoriale. Il vano ha una larghezza massima di metri 1,25-1,50 ed è coperto da un tetto cilindrico alto tre o quattro metri, il quale poggia sopra un'elevazione di terra battuta alta 50-60 cm., circondata da paletti di legno. Si entra attraverso un'apertura di cm. 40 per 50.

Nelle foreste e nelle savane del bacino del Congo domina la capanna rettangolare col tetto a due pioventi. Questa forma si estende a oriente fino al Tanganica, a mezzogiorno si spinge fino nell'Angola e nel Lunda, mentre a occidente segue la grande foresta litoranea della Guinea settentrionale fino alla Liberia. Nel Congo e nel Camerun queste abitazioni sono costruite con tavole rozzamente squadrate o con intrecci di rami. Le capanne dei Senufo hanno le pareti costruite in mattoni o con argilla battuta. I pioventi del tetto sono invece coperti di paglia, di foglie di rafia o di banano. L'interno può essere diviso in due o più vani. L'antico palazzo reale di Abomey, nel Dahomey, costruito nello scorso secolo da Ghezo e dal suo successore Glele era composto di grandi capanne rettangolari di terra battuta coperte di tetti di paglia. Le pareti di questi edifici erano decorate da numerosi bassorilievi policromi di carattere allegorico e storico. Meritano un cenno speciale anche i grandi edifici rettangolari della residenza di Munza, re dei Mangbetu. La sala delle udienze, aperta ai due lati minori, era lunga oltre trenta metri e alta una quindicina. Il tetto era a vòlta ogivale sostenuta da tre file di pilastri di legno. Questa sala, che ricorda le grandi tettoie costruite dagl'Indî dell'America centrale, poteva contenere alcune centinaia di persone. Accanto ad essa esisteva un edificio dello stesso tipo ancora più vasto, ma chiuso da tutti i lati. Grandi tettoie rettangolari costruiscono anche gli Asandè per le riunioni dei capi o come ricovero nella foresta quando si trovano in spedizione di caccia.

Di tutte le forme d'abitazione che si trovano nel territorio abitato dai Negri le dimore trogloditiche sono le più rare. Notizie lasciate da qualche esploratore sull'esistenza di vaste caverne naturali abitate nel centro del continente, non trovarono conferma nelle relazioni dei viaggiatori che visitarono in seguito queste contrade. Probabilmente esse furono prese per dimore permanenti mentre non erano che ricoveri temporanei. Caverne abitate s'incontrano anche nei territorî abitati dai Damara montanari e sul monte Elgon a ovest del Vittoria Nyanza.

Più frequenti sono le abitazioni scavate nel terreno. Le capanne dei Bobo e dei Samo dell'altipiano centrale del Niger sono descritte come vere fosse coperte da un tetto piatto di rami e di terra. Vicino ai villaggi, nelle colline, sono scavati profondi corridoi sotterranei, dove la popolazione va a rifugiarsi in caso di pericolo, e dove conserva le provviste alimentari e gli averi. Abitazioni sotterranee e semisotterranee composte d'un ambiente centrale, quadrato o circolare, e di nicchie laterali, hanno i Mossi del Niger e i Gurunsi dell'alto Volta. Le pareti di queste abitazioni sono rivestite di mattoni seccati all'aria. Secondo Frobenius queste dimore deriverebbero dalle abitazioni trogloditiche a croce dell'Africa Minore (cultura sirtica), con le quali presentano di fatto molte affinità nella distribuzione degli ambienti. Abitazioni su palafitte si incontrano con una certa frequenza lungo i corsi fluviali del bacino del Congo, del Niger nel Dahomey, dell'alto Nilo e anche sulle rive di alcuni laghi come il Niassa, il Bangueolo, il Moero e il Ciad. Le capanne sono costruite sopra ampie piattaforme sostenute da pali (Niassa) oppure sono isolate (Moero, Lulongo). Abbastanza frequenti sono le palafitte costruite in terra asciutta. Ricordiamo quelle dei Batonga del basso Zambesi e quelle dei Dinca nel Bahr el-Ghazal. Notevoli per la loro singolarità sono i dormitorî degli Acholi, piccole cellette col tetto conico di paglia, poggiate sopra una robusta palizzata e alle quali si accede arrampicandosi sopra un piano inclinato fatto con tronchi disposti orizzontalmente e sostenuto da pali verticali. Nei villaggi degli Acholi, una rozza impalcatura rettangolare sostenuta da quattro tronchi piantati nel terreno serve da luogo di riunione agli uomini.

Per completare questa rapida rassegna delle abitazioni dei Negri giova ricordare ancora i tembè, le case di argilla col tetto a terrazza e i castelli sudanesi.

I tembè sono costruzioni rettangolari di legno, rivestito di argilla, le quali racchiudono una corte centrale. Il tetto piatto è leggermente inclinato verso il cortile. La galleria quadrilatera interna è divisa in varî scompartimenti, ognuno dei quali è occupato da una famiglia, insieme con la quale vivono anche le capre e i polli. Gl'ingressi di questi vani dànno sul cortile interno, nel quale vengono racchiusi di notte i bovini. Si comunica con l'esterno attraverso una o al più due porte, aperte nella parete esterna. Queste abitazioni collettive si trovano nelle regioni a oriente del Tanganica e sono particolarmente frequenti nell'Ugogo.

Le case d'argilla col tetto a terrazza, sebbene facciano parte dell'architettura negra sudanese, rivelano indubbiamente l'influsso di antiche correnti straniere provenienti dall'Africa mediterranea. Probabilmente la penetrazione di questo stile nei territorî negri - stile che oggi è molto diffuso fra le popolazioni islamizzate - risale ad epoche anteriori al diffondersi della civiltà musulmana. Nei territorî negri la casa a terrazza è diffusa nell'alto Niger e nell'alto Volta (Saracole, Bambara, Bobo, Gurunsi) donde, attraverso il territorio dei Senufo, penetra fino nel Togo meridionale. Il tetto è sostenuto da un'impalcatura di tronchi e le pareti esternamente sono spesso a scarpata, poiché diminuiscono di spessore verso l'alto. Nei maggiori centri urbani di questa parte del Sudan (Dienné, Bandiagara) si hanno anche abitazioni a più piani. Molto caratteristica è la decorazione plastica delle pareti esterne e delle porte d'ingresso. Meritano d'essere ricordate anche le curiose moschee d'argilla col tozzo minareto conico o a tronco di piramide del Sudan occidentale. Nell'altipiano centrale del Niger le case a terrazza sono costruite anche in pietra: i villaggi Habbe, costituiti da abitazioni addossate e disposte a scaglioni sul pendio d'un monte, ricordano assai, come osserva giustamente il Desplagnes, la disposizione degli abitati cabili.

Un'area più ristretta occupano i caratteristici castelli sudanesi del bacino del Volta (Gurunsi e Somolo) e del Togo (Tamberna, Ssola). Sono costruzioni d'argilla a uno o più piani- contando anche quelli delle torri più alte - composte di due o più torri tronco-coniche unite da muri perimetrali, irrobustiti da colonne cave di argilla che servono da armadî; queste colonne si allargano in alto formando grandi urne (granai) coperte talora da tetti conici di paglia. L'intera area racchiusa dai muri perimetrali e le torri sono coperte da terrazze orizzontali sostenute da impalcature di legno. I vani interni sono oscuri, poiché le pareti non hanno finestre e una sola porta permette l'accesso all'interno. Essa serve per le donne e per gli animali. Gli uomini salgono direttamente nella terrazza superiore, valendosi d'una scala primitiva ricavata da un tronco d'albero. Gli abitanti di questi castelli si radunano per diversi lavori domestici sulle terrazze esterne. Negli oscuri vani interni si trovano gli alloggi della famiglia, che, come s'è detto più sopra, può essere composta da alcune decine di persone. Le donne e il capo famiglia occupano stanze separate. Negli altri locali si conservano gli utensili domestici e le provviste. Nel pianoterra sono le stalle, dove si racchiudono di notte gli armenti.

La vita delle comunità negre si svolge quasi sempre all'aperto, nei recinti davanti alle capanne, nelle strade e nelle piazze del villaggio. Nelle epoche in cui fervono i lavori agricoli, durante la stagione della caccia o della pesca, certi villaggi rimangono quasi deserti. Nelle capanne i Negri si ritirano durante la notte per riposare o nelle giornate piovose. Quivi vengono anche conservati gli averi, gli ornamenti, le armi. Rare volte i lavori domestici vengono eseguiti nell'interno dell'abitazione: nelle grandi capanne rettangolari dei Baya, popolazione che vive nei territorî boscosi attraversati dall'Ekela-Mambere (Africa equatoriale), un vasto ambiente centrale, il bagala, serve da luogo di riunione per i membri della famiglia durante il giorno: le donne lavorano e preparano gli alimenti, gli uomini si ritirano per riposare. Due locali più piccoli ai lati di questo servono l'uno da ripostiglio, l'altro da dormitorio comune.

L'arredamento delle capanne è in generale molto povero. Esso consiste in stuoie e in pelli, che servono anche da letti, in qualche sgabello (dove questo mobile è in uso) e in numerosi recipienti di terracotta e di fibre vegetali, nei quali - come nelle zucche - vengono conservate le provviste alimentari, le vesti e altri oggetti. Nelle regioni in cui si diffuse l'uso delle costruzioni in argilla, le pareti delle capanne presentano talora decorazioni plastiche dipinte: i migliori prodotti di quest'arte decorativa s'incontrano nell'Adamaua, nell'alto Benué e tra i Gurunsi. Nella foresta equatoriale le decorazioni plastiche sono sostituite da intagli in legno dipinti.

La forma dei villaggi dipende spesso dal tipo delle abitazioni. Tra i Bantu meridionali, costruttori di capanne rotonde (i Beciuana al tempo di Livingstone erano incapaci di costruire edifici quadrati) gli abitati sono a pianta circolare. Le capanne sono disposte in circolo e nello spazio da esse racchiuso viene eretto un recinto pure circolare - il kraal - nel quale si chiude il bestiame durante la notte. Una siepe gira tutto intorno alle capanne. Secondo la felice definizione data dal Casalis, questo tipo di abitato costituisce il primitivo accampamento di nomadi divenuto permanente. Tra gli Ovambo i gruppi di capanne racchiusi da palizzate sono invece disposti senza nessun ordine. Nella foresta e nella savana tropicale, dove domina la capanna rettangolare, le abitazioni sono allineate su due file parallele nel senso della lunghezza, sicché l'intero villaggio si estende lungo una strada più o meno diritta. Questa disposizione presentano per esempio i villaggi dei M'Baka del medio Ubanghi e quelli dei Warega. Su due file irregolari sono a] lineate anche le piccole capanne rotonde dei Mongelima (Aruwimi). Accanto alle capanne rotonde dall'alto tetto conico - più sopra descritte - i Mongelima costruiscono anche tettoie rettangolari sostenute da pali, sotto le quali si radunano gli uomini per discutere, bere e fumare la canapa. Le capanne del capo e quelle delle sue donne (da dieci a cinquanta) sono erette nel mezzo del villaggio. Le capanne rettangolari dei Mangbetu formano lunghe file interrotte, che si snodano a mezza costa lungo vallecole e piccoli corsi d'acqua. Nei villaggi sudanesi, in cui predominano le case a terrazza (per es., quelli dei Soninke), le viuzze strette e tortuose formano un vero labirinto. Dove il paese è tranquillo, gli abitati non sono circondati da opere difensive. Nelle zone esposte agli attacchi o alle invasioni e nelle foreste dell'occidente, dove il frazionamento delle tribù tra loro ostili è massimo, i villaggi - costruiti nel folto degli alberi - sono difesi da fossati o da alte e robuste palizzate. Nei villaggi dei Baya la palizzata non ha nessuna apertura. Due travi, poggiate contro la palizzata, una all'esterno e l'altra all'interno, le quali durante la notte vengono ritirate, permettono l'accesso al villaggio. Mura di argilla alte sino a quattro metri e profondi fossati circondavano i villaggi dei Senufo nelle zone che erano maggiormente esposte alle incursioni nemiche.

Nell'Africa negra la densità della popolazione è molto bassa. Vi sono però certe zone che, per favorevoli condizioni naturali o per ragioni storiche, furono, o sono ancora, fittamente abitate. Secondo un censimento del 1871 ordinato dal Kedive, il territorio degli Scilluk, sulla sinistra del Nilo Bianco, contava circa 600 abitanti per miglio quadrato. Lungo tutta la riva del fiume si succedevano i villaggi, separati soltanto da brevi spazî, quasi formassero un solo estesissimo abitato. Per tacere delle fertili regioni del Niger, sedi dei grandi imperi negri, e di quelle dei laghi equatoriali, va ricordata l'esistenza di zone densamente popolate e ricche di villaggi anche nel centro del continente, come per esempio era il Manyema al tempo di Livingstone, malgrado le tristi condizioni in cui si trovavano allora quelle contrade, in preda a continue guerriglie e alle razzie dei cacciatori di schiavi.

Non si può parlare dei villaggi negri senza menzionare i granai, costruzioni di varia grandezza, simili a urne e a capanne, sostenute da una impalcatura di tronchi d'albero, per impedire ai roditori e agl'insetti di rovinare le provviste alimentari. Talora essi sono tenuti nell'interno delle capanne, come fanno i Giur e i Barolong; comunemente però i granai sono fabbricati all'esterno, vicino alle capanne. I Kregi, i Batonga, i Beciuana coprono i loro granai mediante grandi tettoie coniche sostenute da pali. Nel villaggio di Ganyong, capo dei Kregi, Schweinfurth vide granai di notevole grandezza, tanto che quattro donne potevano macinare il grano sotto l'impalcatura che sosteneva il recipiente fatto di vimini.

I granai degli Zulu, poggiati sopra bassi sostegni di legno, sono simili alle capanne. Nell'Africa occidentale e nel Sudan (Senufo, Habbe, Tombo) sono comuni i granai d'argilla di forma ovale, cilindrica o prismatica, poggiati sopra uno zoccolo di pietre e coperti di piccoli cappucci conici di paglia. Le pareti sono sovente decorate da bassorilievi. D'argilla sono anche i gra. nai degli Scilluk e dei Beciuana. Molto eleganti per la loro forma slanciata, sopra la quale si allarga un ampio tetto di paglia, sono i granai degli Asandè e dei Golo. Una caratteristica dei villaggi Samo (Yatenga), sono i depositi di miglio, alti da 3 a 6 metri, con la sommità cupoliforme coperta da un piccolo cono di paglia. Ogni famiglia ne costruisce parecchi vicino alla propria abitazione, sicché in certi villaggi se ne trovano a centinaia.

Zimbabue. - Tra le più interessanti creazioni dell'architettura africana vanno poste le grandi rovine della Rhodesia meridionale. Questi giganteschi resti di antichi abitati fortificati si trovano sovente sopra alture e in luoghi di difficile accesso. Sono grandi muraglie di notevole spessore, a pianta circolare, costruite a secco con blocchetti di granito. Nell'interno si trovano recinti minori, muri trasversali, torri coniche, piattaforme di cemento fatte con un impasto di granito pestato, e bassi muretti circolari, che sono probabilmente resti di capanne simili a quelle dei Mashona e dei Bavenda abitatori attuali di quelle regioni. Non mancano infine indizî di antiche fonderie di metalli. Gl'ingressi sono talora molto stretti e muniti di opere difensive. Uno dei complessi più noti e imponenti è quello di Zimbabue. Altri se ne trovano a Dhlo-Dhlo, Khami, Ummukwana, Chum, Umtali, Inyanga, ecc. Secondo il Cipriani, nella zona compresa tra il Limpopo e lo Zambesi sarebbero note ormai altre 500 rovine. L'origine di queste costruzioni, le più antiche delle quali - secondo le ipotesi più attendibili - risalgono al Medioevo, è ancora molto oscura. Queste costruzioni furono attribuite per lo più a popolazioni straniere: Indiani, Arabi e gl'immancabili Fenici.

L'ipotesi più probabile, sostenuta anche dal Cipriani - al quale si devono le più recenti ricerche intorno a questi monumenti - è che le costruzioni di cui ci occupiamo appartengano a una civiltà indigena notevolmente elevata (le rovine si trovano entro i confini dell'antico regno di Monomotapa). Tenendo conto delle scoperte fatte nell'interno di questi recinti e del fatto che tali rovine si trovano entro la zona delle antiche miniere, sembra probabile che il principale fattore economico della potenza raggiunta dalla civiltà di Zimbabue fosse lo sfruttamento minerario e la lavorazione dell'oro, del rame, dello stagno e del ferro. L'ipotesi dell'origine africana di questa civiltà trova una conferma anche nei caratteri somatici degli scheletri sepolti sotto le piattaforme di cemento, i quali rivelano il tipo Bantu.

Arte. - v. africa, I, pp. 765-774.

Le vesti e gli ornamenti. - L'abbigliamento dei Negri presenta una straordinaria varietà di tipi e di forme. L'importanza che spetta alle vesti è molto ristretta di fronte a quella che hanno gli adornamenti, le acconciature del capo e le numerose e strane deformazioni e mutilazioni del corpo, delle quali la più diffusa tra i Negri d'Africa è la scarificazione, seguita a breve distanza dal costume di strapparsi o di limarsi gl'incisivi. Gli adornamenti e le mutilazioni etniche come molti particolari dell'abbigliamento non rispondono solo ai bisogni del senso estetico. Essi costituiscono anche emblemi di stirpe e di tribù, distintivi di classe, di grado, di stato sociale.

Presso molte popolazioni negre uomini e donne vanno completamente nudi. Quest'uso è molto diffuso tra Niloti, Scilluk, Giur, Nuer, Bari, Gialuo i quali lasciano volentieri a casa le loro succinte vesti, composte di qualche pelle e di minuscoli grembiulini di cuoio o di altra materia, che coprono appena la regione pubica. I grembiuli delle donne Bari sono formati da catenelle o da piastrine di ferro attaccate a una cintura di cuoio. Piccole coperture di foglie, di erbe o di corteccia, sostenute da cordoncini o da cinture portano usualmente le donne Senufo, Diula e Mangbetu. Questi indumenti possono anche essere formati da pezzi di stoffa o di cuoio, tagliati sovente in striscioline e ornati di perle di vetro e di ferro, di cauri e di campanellini. Oltre a questo grembiule le donne cafre portano cinture, collari e braccialetti di perline colorate e d'ottone. I guerrieri e i capi Zulu portano sulla testa ciuffi o grandi pennacchi di piume; i nobili tengono sulle spalle pelli di leopardi. Ricchi ornamenti di piume di struzzo usano in certe occasioni anche gli Scilluk e i Cavirondo. Altre popolazioni usano coprire il corpo con ampie vesti di tessuto vegetale o di pelli. Presso i popoli pastori sono in voga vesti di pelli d'animali conciate o no. Esse vengono portate sulle spalle, intorno alle anche, oppure a foggia di tuniche o di mantelli, come usano p. es. i Wangoni o i Cavirondo. Lunghi mantelli di pelle d'antilope decorati con motivi geometrici impressi, che dalle ascelle scendono fino alle caviglie, indossano alcune tribù della regione del Bangueolo. Degno di nota è il curioso costume delle donne Herero, composto d'un mantello, di un'alta cintura fatta con strisce di cuoio e d'un casco a calotta della stessa materia, o nato da tre creste a forma di orecchio d'asino e da lunghi cordoni (che scendono lungo la schiena) in cui sono infilate conchiglie, perle d'avorio e di ferro. Braccialetti di rame e di ferro e collane completano l'abbigliamento.

Larga diffusione hanno i tessuti vegetali e le stoffe di fibra o di corteccia. Speke ebbe a lodare l'abbigliamento dei nobili Waganda, le cui vesti di scorza ricordano per aspetto e morbidezza i più fini tessuti di lana inglese. Tra le stoffe di fibra si possono ricordare quelle dei Bakuba del Kassai. Ampie vesti di cotonate indigene decorate da originali disegni indossano i nobili e i capi Mandingo e Mossi. Grande importanza hanno nell'abbigliamento dei Negri i braccialetti, gli anelli, le collane di filo metallico, di perle, di conchiglie, di pezzetti d'uova di struzzo, ecc. Nell'Africa orientale e centrale sono in grande voga ornamenti di ottone e di ferro. Molto apprezzate sono le perle di ferro. Caratteristici sono i grandi dischi spiraliformi che adornano le orecchie delle donne Masai maritate e il largo collare di filo metallico che copre le spalle e parte del petto, mentre braccia e avambracci sono avvolti in lunghe spirali di rame o di ferro. Le donne Dinca portano indosso fino a mezzo quintale di ornamenti, tra braccialetti, anelli e catenelle di ferro. Gli uomini si accontentano di bracciali d'avorio. Nell'Angola, le donne di certe tribù si avvolgono il collo e le gambe, dal malleolo al ginocchio, con metri e metri di filo di rame o di ferro attorcigliato. Il re Munza compariva nelle udienze con la testa, il petto, le braccia e le gambe adorne di ornamenti di rame. Nel Senegal, nel Sudan e nella Guinea sono in voga anche pesanti gioielli d'argento e d'oro. Ornamenti d'oro come s'è detto, furono scoperti anche nelle antiche sepolture della Rhodesia meridionale.

Forme svariatissime presenta l'acconciatura della testa. Esse sono ottenute impastando i capelli con argilla, grasso, sterco di bovini. Le donne cafre maritate raccolgono i capelli in un alto cono. I Latuka li foggiano a elmo conico, la cui forma varia a seconda della tribù a cui appartengono. Gli Scilluk portano i capelli divisi in creste trasversali. Strane acconciature si vedono tra i Manyema e i Wahondo. Nell'Angola, nell'Unyoro, tra gli Asandè si usa raccogliere i capelli in tante treccioline.

Le deformazioni e le mutilazioni etniche. Tra le deformazioni etniche va ricordato l'uso della deformazione cranica in voga tra i Mangbetu, e quello degli Ekoi (Africa occidentale) d'ingrassare artificialmente le ragazze prima del matrimonio. All'ingrassamento artificiale erano sottoposte anche le principesse Wahima del Karagwe, dell'Uganda e dell'Unyoro.

Il tatuaggio e la pittura corporale sono poco diffusi tra i Negri. Essi si dipingono il corpo con creta bianca o ocra rossa principalmente in occasione di feste, di danze rituali o per le cerimonie iniziatiche. Esempî di tatuaggio si conoscono nel Congo. Diffusissima è invece la scarificazione, che serve normalmente anche quale distintivo di schiatta e di tribù. I rilievi ottenuti mediante queste incisioni, ritardandone la cicatrizzazione, possono essere di forma lineare o a tubercoli, come nel cosiddetto "tatuaggio a bottoni" dei Bangala e del Mongo (Congo). La scarificazione è estremamente diffusa tra gl'indigeni del Congo, dove si hanno individui che presentano tutto il corpo coperto di incisioni piane o fortemente rilevate, le quali talora formano figure angolari o curvilinee. Nel sesso femminile si hanno scarificazioni fino sulla vulva, raramente invece vengono incise le mammelle.

Tra i popoli che meno seguono questa pratica sono i Niloti, tra i quali solo i Dinca e i Giur portano incisioni lineari sulla faccia. Frequentissimo è pure l'uso d'introdurre anelli metallici, dischi e bastoncini di metallo, di pietra, d'osso o di legno, e anche fili d'erba nel setto nasale o nelle narici, nel lobo o lungo l'orlo delle orecchie e nelle labbra. ll lobo delle orecchie può venire allungato per il peso degli ornamenti metallici fino quasi a toccare le spalle. Le donne di certe tribù del fiume Volta s'infilano nelle labbra bastoncini lunghi da 5 a 8 cm. Ornamenti labiali abbastanza diffusi nel sesso femminile sono i dischetti di legno, di pietra, di ferro o di terracotta. Dischetti del diametro da 4-6 cm. portano sul labbro superiore le donne Mangianga (Niassa), le Dinca della tribù Jar, le Mobali del Congo. Tra le popolazioni del Rowuma i dischetti labiali sono portati anche dagli uomini. Le donne Lobi (Volta Nero) infilano dischetti su tutte e due le labbra, come le Sara dello Sciari, tra le quali tale ornamento raggiunge proporzioni inusitate. Le labbra vengono forate alle fanciulle Sara - spesso dal futuro sposo - già all'età di 5-10 anni. I primi dischetti vengono sostituiti in seguito con dischi di legno leggiero - chiamati sundu - sempre più grandi, fino a raggiungere nelle donne adulte diametri da 10 a 24 cm. In alcune tribù il disco maggiore (fino a 18 cm. di diametro) viene infilato nel labbro superiore, in altre invece, come presso i Dinghe, esso viene portato nel labbro inferiore. Le donne Sara tengono molto a questo ornamento.

Le armi. - Le armi offensive e difensive che hanno più larga diffusione tra i Negri africani sono la lancia, l'arco e lo scudo; seguono la clava, i coltelli da getto e l'ascia da guerra. Pugnali e daghe vengono usati con maggiore frequenza nelle regioni settentrionali e occidentali. La diffusione della spada a lama dritta nel Sudan è dovuta probabilmente all'influenza araba. Forme indigene, derivate secondo Frobenius dalla punta di lancia e da clave, sono in uso nel bacino del Congo.

La diffusione dei principali tipi d'armi è legata nella maggior parte dei casi a quella delle aree culturali. L'arco semplice occupa tutta la parte meridionale o ccidentale del continente africano, spostandosi a nord verso la regione dei laghi equatoriali, senza penetrare però nel paese dei Cafri. Nel Congo e nella Guinea doinina l'arco piatto, mentre nelle zone marginali dell'habitat dei Negri (Sudan, Senegambia) - da dove penetrarono nella Guinea (Dahomey) - s'incontrano tipi derivati dall'arco composto asiatico. Tra le numerose varietà di lance foggiate dai fabbri indigeni si possono distinguere due gruppi principali: lance con la punta falcata, a losanga o triangolare, e lance dentellate, frequenti nei territorî centrali (Mangbetu, Bongo, Asandè). Notevoli per la lunghezza della cuspide a taglienti paralleli sono le lance dei Masai. Il ferro viene fissato all'asta in due maniere diverse.

Tra le armi da getto, lasciando da parte le comuni zagaglie, va ricordato in primo luogo il bumerùng, usato da qualche popolazione del Sudan. I più antichi esemplari di quest'arma trovati sul suolo africano provengono dall'Egitto faraonico. Derivazione del bumerang sono le clave di legno da getto e i caratteristici coltelli di ferro multipunte, diffusi dall'alto Nilo al territorio del Ciad e nella foresta equatoriale. La clava di legno a testa globulare è comune nelle regioni abitate dai Bantu meridionali (Matabele, Basuto, Zulu) e tra i Wanika, i Dinca e gli Scilluk. Belle clave intagliate si trovano nel Lunda. Anche i bastoni da difesa e gli stretti paracolpi con la guardia di cuoio o di legno s'incontrano in queste regioni. L'uso dell'arco è ignoto ai Cafri, ai Dinca, e agli Scilluk. I bastoni da difesa, senza riparo per la mano, vengono adoperati nelle sfide atletiche anche dagli Zulu, dai Marutse e dai Wabondei. I paracolpi con guardia di cuoio o di legno s'incontrano tra le popolazioni dell'Africa orientale (Watatura, Wanyatura), quelle dell'alto Nilo (Denca, Scilluk) e nel Camerun. Gli scudi di pelle e di cuoio, comunemente a contorno ovale, variamente decorati e talora anche dipinti, sono in uso in tutta l'Africa orientale, nell'Angola, nel Camerun e nel Togo. I popoli pastori meridionali e i Masai adoperano pelli bovine; le popolazioni del Nilo e del Vittoria Nyanza ricavano gli scudi da pelli di pachidermi; in altre regioni, comprese quelle occidentali, sono in uso le pelli d'antilope. Lo scudo di legno, di forma rettangolare ovale larga, si trova nell'Africa centrale (Mangbetu, Ababua) e orientale (Warundi, Waganda, Bakerewe) e nel bacino del Congo. Lo scudo ligneo non presenta una distribuzione omogenea: s'incontra nell'Africa centrale e orientale e nella foresta congolese, negli stessi territorî occupati dalla capanna ad alveare. Lo scudo quadrangolare e ovale di fibre vegetali intrecciate appare invece nell'area della capanna rettangolare col tetto a due pioventi del ciclo esogamico matriarcale. Sono da segnalare inoltre le caratteristiche corazze di cuoio dei Musgu, le corazze e le cotte di maglia che sono usate nel Borku, e le curiose armature di stoffa imbottita di cotone che vengono portate dai cavalieri della Nigeria e del Baghirmi.

La lavorazione dei metalli. - Nei paragrafi dedicati all'agricoltura, all'abbigliamento e alle classi sociali vengono nominate le principali industrie indigene; non è il caso qui di trattare particolarmente dei diversi e talora pregevoli prodotti delle industrie dei Negri e dei processi tecnici con cui tali prodotti vengono ottenuti. È necessario invece dire alcune parole sulla lavorazione dei metalli, industria antichissima molto diffusa tra i Negri africani. Il problema dell'origine della metallurgia e in modo particolare quello della estrazione e della lavorazione del ferro è ancora molto discusso. La maggioranza degli etnologi è d'opinione che essa sia stata introdotta in Africa da altri paesi. Secondo le idee dell'Ankermann, anzi, la metallotecnica sarebbe giunta a conoscenza dei Negri non da uno, ma da due centri differenti. Tra i paesi dei quali i Negri potrebbero essere debitori delle loro cognizioni metallurgiche vengono indicati l'Asia Minore e l'India. Gli stretti rapporti esistenti tra i principali cicli culturali africani (totemistico, patriarcale ed esogamico matriarcale) e quelli indonesiani pongono fuori discussione i rapporti di parentela tra le culture negre africane e quelle dei gruppi oceanici, alle quali però rimase ignota la lavorazione del ferro. Queste correnti culturali giunte in Africa forse nel Mesolitico (civiltà tumbiana), non poterono portare nel continente nero i primi rudimenti della tecnica dei metalli. La metallurgia, perciò, se non è una scoperta dei Negri, poté essere introdotta da altri paesi, forse dall'India anteriore, con la quale l'Africa ha in comune parecchi elementi etnografici (armi, ornamenti metallici, strumenti musicali). Ci pare più probabile la prima ipotesi, poco convinti come siamo della giustezza dell'assioma che l'Africa negra, nel campo culturale, abbia soltanto ricevuto e nulla dato. Comunque sia, la lavorazione del ferro risale molto addietro nel passato, perché già in antichi bassorilievi egiziani sono raffigurati Negri nell'atto di portare il loro tributo al faraone, e questi tributi consistono in sbarre di ferro. L'ipotesi che le cognizioni metallotecniche siano penetrate in Africa da uno o due centri asiatici, è basata principalmente sulla forma dei soffietti usati dai fonditori. Il tipo più antico formato da due otri di pelle terminanti in un cannello presenta la diffusione più ampia e si trova in tutta l'area nigritica, eccetto che nelle regioni occidentali. L'altro tipo è composto da due ciotole di legno o d'argilla, coperte di pelli o di pezzi di foglia di banano, che funzionano da mantici e che vengono mossi con le mani o con un bastoncino. Il soffietto a ciotole d'argilla è diffuso nel Sudan fino al Wadai e penetra con diverse lingue a sud, fino nel territorio del Tanganica e nel paese dei Mangbetu. Quello a ciotole di legno, forma recente copiata secondo Frobenius da quella d'argilla, s'estende su tutta l'area della cultura matriarcale occidentale.

Centri fiorenti dell'industria del ferro si trovano nell'Africa orientale e nell'Africa centrale equatoriale, specialmente nelle zone dove affiorano formazioni ferruginose. Gli utensili adoperati dai fabbri negri sono molto primitivi. Martelli e piccole incudini di ferro usano i Mangbetu e i Bongo. I martelli possono anche ridursi a una piramidetta di ferro senza manico. Altri popoli adoperano ancora incudini e martelli di pietra, p. es. i Latuka, i Mangangia e i Basuto. A questi strumenti si aggiungono una piccola cesoia e una tenaglia, la quale spesso non è altro che un pezzo di legno verde fenduto a un'estremità. Malgrado la povertà dello strumentario i fabbri negri dimostrano una grande maestria e destrezza nel foggiare il ferro, e i loro prodotti - le armi e gli ornamenti in particolare - potevano reggere il confronto, secondo le relazioni degli esploratori che primi visitarono quelle contrade, con quelli lavorati nelle officine europee. Nell'Africa equatoriale fabbri molto abili sono i Bongo e i Mangbetu. La lavorazione del ferro è generale presso i Giur. Prima della stagione delle semine essi abbandonano in massa i villaggi insieme con le famiglie, per andare a piantare le loro officine nella foresta. Più a sud, tra le diverse popolazioni viventi nella regione dei laghi equatoriali, la lavorazione del ferro è pure molto in voga. Si possono ricordare i Wanyoro - i quali fabbricano anche aghi - i Warega, i Wafipa e i Wangoni. In certi villaggi Mangangia (Niassa) il rumore delle officine risonava incessante dall'alba al tramonto. Nello Zambesi inferiore i Malemba costituiscono gruppi di fabbri girovaghi. I Baronga, in mancanza di ferro naturale, che non si trova nel paese da loro abitato, lavorano il ferro tratto da barche naufragate oppure trasformano in armi e in zappe oggetti di ferro acquistati dagli Europei.

L'arte del fabbro è diffusa anche nel Sudan e nella Guinea. Nello Yatenga la metallurgia è molto sviluppata tra i Samo; su 20.000 individui che contava questa popolazione nel 1917, 2000 esercitavano il mestiere del fabbro. L'arte del fabbro è spesso legata a pratiche magico-religiose. Tra i Basuto il fabbro è chiamato ugaka a tsepe, cioè il "medico del ferro". Coloro che vogliono addestrarsi a questo mestiere devono fare un lungo tirocinio e sottoporsi a purificazioni. Le operazioni per la fondita del minerale, tra i Wafipa del Tanganica, sono precedute e accompagnate da invocazioni e sacrifici agli antenati divinizzati, sacrifici fatti fare a bambini innocenti. Gli aiutanti del maestro fonditore devono essere in stato d'assoluta purità, non devono avere mangiato, cioè, durante l'anno, carne di maiale, né avere avuto rapporti sessuali illeciti. La stessa cosa è richiesta alle loro mogli. La sera che precede il taglio degli alberi per fare il carbone, l'ascia viene posta sotto la protezione degli antenati e tutti devono osservare la più assoluta continenza.

I Mangbetu lavorano anche il rame, che un tempo ricevevano dall'Angola o da Loango. La lavorazione indigena del rame, per fusione, avveniva in due centri principalmente: nel Bahr el-Ghazal e nel Katanga. Il metallo fuso in forma di croci serviva come moneta e articolo da scambio. Anche gli oggetti di ferro servivano per attivi traffici. Il rame e l'argento vengono lavorati anche nel Sudan e nella Guinea. Le scoperte di Zimbabue lasciano supporre anche l'esistenza di centri indigeni in cui si lavora l'oro. Notevoli sono poi gli artistici bronzi fusi del Benin (sec. XV-XVI).

Le istituzioni sociali e politiche: la famiglia. - La famiglia nel diritto dei Negri non corrisponde alla famiglia naturale (genitori e figli), bensì a un organismo sociale ben più vasto e complesso. La famiglia negra risulta composta da tutti gl'individui discendenti da un comune antenato, maschio o femmina, viventi nello stesso territorio. Nello Yatenga le famiglie Mossi comprendono fino 200 persone, divise in più gruppi di capanne. Famiglie meno numerose composte d'una cinquantina di individui possono occupare una sola abitazione (zaka), composta d'un certo numero di capanne e di granai circondati da un recinto o da un muro di terra.

Anche presso quelle tribù in cui la parentela segue la linea materna, il capofamiglia può essere un maschio. Il patriarca è di regola il primogenito della generazione più vecchia ed è investito di funzioni giuridiche e religiose (offerte agli antenati, sacrifici per la prosperità della famiglia, ecc.). Nei casi in cui la famiglia viene divisa, sono questi gruppi, composti di due o più famiglie naturali, generalmente poligame, che costituiscono le vere unità economiche, in quanto lavorano in comune le terre a essi assegnate dal patriarca. Le singole famiglie, come anche i membri di esse (p. es. le donne) possono coltivare privatamente qualche campo o piccoli giardini. Nel periodo dei lavori agricoli i Mossi dello Yatenga dedicano due giorni ai lavori in comune; il terzo è riservato per la cura delle coltivazioni private.

Quando il gruppo familiare si accresce in modo che i terreni in cui vive non bastano più al sostentamento di tutti i suoi membri, un gruppo di questi - guidato dal più anziano - si stacca e va a stabilirsi in altro territorio, dando origine così a una nuova famiglia.

Nella famiglia negra a fondo collettivista l'individuo conta poco. L'intero gruppo è tenuto a rispondere delle colpe d'uno dei suoi membri. Delle malefatte dei giovani sono responsabili i parenti adulti e in particolare il padre o lo zio. Anche il matrimonio è spesso più una questione di rapporti tra due famiglie che non tra due individui, per quanto nella vita corrente la volontà e l'abilità individuale possano avere non poca influenza in questi contratti. Secondo Schweinfurth presso gli Asandè era il capo del distretto che s'incaricava della scelta della sposa.

Data la costituzione della famiglia negra i rapporti sociali e giuridici dei figli verso i genitori e le loro famiglie sono diversi a seconda che nella parentela conti la discendenza in linea paterna o quella uterina. Nelle tribù patriarcali i figli appartengono alla famiglia del padre, della quale portano il nome. Nelle comunità matriarcali o dove la parentela e il diritto ereditario sono basati sulla discendenza femminile, i figli appartengono alla famiglia della madre e spetta allo zio materno d'esercitare, giuridicamente, i diritti paterni sui figli della sorella. Anche nelle famiglie patriarcali, lo zio materno gode spesso d'una posizione speciale. Nel Congo, mentre lo zio paterno è chiamato "padre", lo zio materno è chiamato con un nome particolare derivato dall'essere egli considerato il rappresentante della parentela uterina nella famiglia della sorella. Così pure la moglie non fa parte di diritto della famiglia del marito, ma pur vivendo in seno a questa, continua ad appartenere giuridicamente alla propria; ciò non esclude talora che il marito consideri la moglie come cosa di sua proprietà, della quale può anche disfarsi vendendola come schiava. Nella stessa condizione si viene a trovare l'uomo di fronte alla famiglia della sposa, nei casi, non molto frequenti, in cui si pratichi la matrilocalità (p. es. tra i Bambiri del basso Zambesi). Nelle tribù matriarcali il passaggio della sposa nella famiglia del marito porta alla conseguenza che i figli restano privi di diritti civili nel clan paterno in cui vivono.

Il patriarcato è molto diffuso tra i Negri del Sudan e quelli della foresta equatoriale congolese, tra i Nilotici e i pastori Bantu dell'Africa meridionale. Il matriarcato regna tra le popolazioni della Costa d'Oro e della Costa d'Avorio, tra quelle dell'Ogoué, del Congo meridionale, dell'Angola e del basso Zambesi. Un tempo questa istituzione dovette avere però una diffusione molto più vasta. Il Baumann osserva che spesso essa appare associata a forme d'organizzazione politica elevate, come nell'Ascianti, nel Luba, nel Monomotapa, a Loango, ecc.

Nelle famiglie patriarcali il diritto di successione va da fratello a fratello o da padre a figlio. Nelle comunità sudanesi primitive, parlanti dialetti arcaici, il capofamiglia lascia l'eredità al fratello più giovane e in mancanza di questo agli altri fratelli. Se tutti i fratelli sono morti, può ereditare il nipote più anziano, cosicché anche in questo caso i figli e la vedova del paterfamiglia possono rimanerne esclusi. Nelle comunità patriarcali più evolute vige il diritto di primogenitura, diffuso anche fra i pastori camiti. Presso quei popoli in cui la parentela segue la linea femminile sono eredi lo zio paterno e i figli maschi delle sorelle della madre. Nell'Angola l'eredità può passare anche direttamente alla sorella.

È idea molto diffusa che il matrimonio presso i Negri sia basato sulla compera della moglie. La maggioranza dei moderni osservatori insistono sul fatto che la dote non rappresenta un prezzo d'acquisto, bensì un compenso dato alla famiglia della sposa, per la perdita d'uno dei suoi membri. La dote, per quanto piccola sia, come pure i negoziati preliminari e i doni che li accompagnano, sono necessarî per legalizzare l'unione. Presso le popolazioni voltaiche, Bobo, Gurunsi, Mossi, la dote può ridursi a qualche migliaio di cauri, pari a un valore massimo di 50 lire.

L'esiguità della dote rende più facile e frequente la rottura del matrimonio. Se non viene fatto il versamento della dote, pur essendo concordi i parenti, l'unione è considerata illegale, e i figli appartengono alla famiglia della madre anche nelle comunità patriarcali.

La dote può consistere in animali, principalmente bovini e capre, in schiavi, in oggetti di fabbricazione indigena o europea (cappe, lame, coltelli, stoffe, ecc.), o in denaro (cauri, e ora anche moneta europea). Presso gli allevatori di bestiame dell'Africa orientale il futuro marito dà alla famiglia della sposa un numero di bovini, che varia secondo le consuetudini, lo stato economico della famiglia dello sposo e le condizioni sociali della ragazza. I Baronga dànno per una donna due o tre buoi; i Basuto 20-30, gli Zulu 4-6, ma se si tratta della figlia d'un capo la dote sale fino a 100 animali. I Baronga ora pagano la dote (loloba) anche in sterline, che vengono consegnate al capo della famiglia della sposa. Questo denaro potrà servire in seguito da loloba per ammogliare uno dei maschi della famiglia, uso questo frequente anche presso altre popolazioni negre. In alcune tribù del Congo, nel caso che la dote della sorella abbia servito per procurare moglie al fratello, i figli della prima e i loro discendenti godono di speciali diritti di fronte a quelli del fratello. Essi possono p. es. prendere in moglie certe discendenti del fratello senza essere tenuti a pagare la dote.

Talora al momento del matrimonio viene consegnata alla famiglia della sposa soltanto una parte della dote. Se gli sposi non vanno d'accordo riesce più facile così lo scioglimento del matrimonio. I Baluba e altre tribù congolesi completano la dote con versamenti successivi in occasione della nascita dei figli. Tra gli Zulu i parenti domandano un supplemento della dote se la donna è sana e laboriosa. Nelle famiglie patriarcali è il padre che deve procurare la dote per il primo matrimonio del figlio, e che conserva la dote ricevuta per la figlia; in quelle fondate sulla discendenza uterina questi obblighi spettano allo zio materno. Se il matrimonio viene sciolto i parenti della sposa restituiscono tutta o parte della dote alla famiglia dello sposo, a seconda delle cause della rottura, degli usi locali, dei precedenti accordi presi tra le due famiglie.

La poligamia può dirsi universale tra i Negri africani. Il numero delle mogli sta in diretto rapporto con le condizioni dello sposo e della sua famiglia. Nelle classi povere non mancano quindi casi di monogamia. I Baronga si accontentano in generale di due o tre spose. I Saracole, musulmani, tengono al massimo quattro mogli; gl'individui che possiedono una sola donna - legalmente sposata secondo gli usi locali - sono considerati celibi.

Le cause principali della larga diffusione che ha la poligamia nelle società negre non vanno ricercate nella sfera della vita sessuale o in una eccedenza di femmine, che non esiste di fatto, essendo le proporzioni dei sessi alla nascita simili alle nostre. La poligamia appare legata piuttosto alla vita economica e sociale dei Negri. L'istituzione della dote permette alle famiglie che hanno molte figlie di aumentare il proprio capitale. L'avere un certo numero di mogli (e quindi numerosi figli) è anche questione di prestigio e indice di benessere. I nobili, i capi, i regnanti sono circondati perciò da decine e talora anche da centinaia di spose. I naba Mossi tengono da trenta a ottanta mogli. Parecchie decine di donne possedevano i Muata Janvo del Lunda. Il re di Loango alla fine del Settecento ne avrebbe possedute parecchie migliaia, come i regnanti del Dahomey. Settemila sarebbero state le mogli assegnate a Mtesa, re dell'Uganda. In questi casi bisogna tenere conto del fatto che in questo (come in altri stati negri) il figlio maggiore eredita alla morte del padre e dei fratelli anche le mogli di questi, eccettuata la propria madre. Munza, re dei Mangbetu, al tempo di Schweinfurth era circondato da un'ottantina di mogli, viventi entro la cinta del palazzo. Le più anziane, tra cui erano quelle avute in eredità, abitavano in villaggi fatti costruire vicino al palazzo reale. I capi dei Beciuana tengono talora le loro mogli nei villaggi dei distretti in cui sono divisi i loro dominî e le visitano a turno. Nelle famiglie poligame ogni donna vive in una capanna separata. Tra gli Humbele degli altipiani della Nigeria settentrionale, che abitano in case di tipo sudanese, il marito occupa il primo piano, mentre le mogli stanno nei locali del pianoterra. Le bambine vivono in una stanza comune; i maschi dopo i sette anni vanno ad abitare nella casa degli uomini. Le donne preparano a turno il pasto per tutta la famiglia nel giorno in cui ricevono la visita del marito. Tutte le mogli hanno eguali diritti e doveri. La prima però gode di speciali prerogative, che variano da popolo a popolo. Presso i Mossi del Sudan essa esercita una certa autorità sulle compagne, trasmette ad esse gli ordini del marito e a questo i loro desiderî, dirige la cucina, ecc. Nella capanna della moglie preferita i capi Wakende del Tanganica sogliono tenere anche assemblee importanti. Presso gli Asandè la prima moglie, a differenza delle altre, non è scelta dallo sposo, ma dal padre di questo, il quale procura anche la dote. Essa ha cura di preparare le offerte alimentari destinate al culto degli antenati ed è la sola il cui matrimonio sia ritenuto indissolubile. Indissolubile è pure, nel Congo, il lusalo, matrimonio monogamico, il cui rituale si basa sullo scambio del sangue. Anche presso i Basuto, la prima o grande moglie gode d'una posizione speciale e viene scelta dal padre del futuro sposo. Nelle famiglie regnanti, riferisce Casalis, soltanto i figli della prima moglie potevano succedere al padre.

In molte tribù negre la verginità della sposa è d'importanza del tutto secondaria; poche sono quelle che ne esigono la prova; in questi casi si nota spesso l'influenza dei costumi musulmani. A differenza di quanto si osserva tra le genti dell'India e dell'Asia centrale, la poliandria in Africa è molto rara, anzi eccezionale. Si conoscono esempî tra i Bakunda del Camerun, tra i Damara e a Loango. Le cause sono molteplici: impotenza del primo marito, accordi tra il marito e l'amante, posizione preminente della donna, specie nelle classi superiori e regnanti in certe popolazioni matriarcali.

La parentela del sangue. - Mediante il patto o la fratellanza del sangue, che è molto frequente tra i Negri africani, vengono stretti vincoli di amicizia e alleanze politiche offensive e difensive, tra individui, tra famiglie e anche tra capi - come viene segnalato per esempio per i Wabende del Tanganica - allo scopo, in questo caso, di evitare conflitti. I vincoli mistici della parentela del sangue sono considerati eguali e talora anche superiori a quelli della parentela carnale. Tra i Wakereve del Vittoria Nyanza un individuo legato a un altro dalla parentela del sangue non può sposare la sorella di questo. Nelle tribù dell'alto Niger si viene a stabilire in questo modo una parentela indissolubile, che si trasmette anche ai discendenti e che, data la particolare costituzione della famiglia negra, si perpetua attraverso le generazioni. L'uccisione d'un fratello del sangue è giudicata da certe tribù molto più grave d'un parricidio.

Il clan, le classi sociali e le caste. - Grande importanza ha nelle società negre dell'Africa il clan, costituito da un gruppo talora molto esteso di famiglie - viventi separate nello stesso territorio o in territorî lontani - le quali derivano o credono di derivare da un comune antenato. Nelle società sudanesi più evolute il clan istituzione sociale è in via di dissolvimento. Presso molte schiatte del Congo, all'incontro, esso conserva ancora tutto il suo primitivo valore di unità sociale e politica. Il nome dato dagl'indigeni a questi aggregati sociali è legato spesso al concetto della generazione e quindi ha significato genealogico. Il termine eanda (clan) degli Herero e dei Nyaneka dell'Africa sud-occidentale, che seguono la parentela uterina, è sinonimo di e-imo (ventre) e di e-mbunda (coscia). I Mandingo usano invece la voce niagha (nido). Ogni clan si distingue a sua volta con un nome particolare che riflette - secondo la tradizione - qualche episodio leggendario della vita del suo fondatore. I membri dei diversi clan osservano tutti determinati tabu, i quali vengono strettamente osservati in modo particolare nei clan totemici. Al disopra della famiglia e del clan stanno le classi e le caste. Di regola si possono distinguere tre classi fondamentali, alle quali si appartiene per diritto di nascita: la classe dei nobili, quella della gente libera e gli schiavi. Il numero delle caste, che raccolgono le varie corporazioni industriali, è più vario e dipende - oltre che dal grado di civiltà raggiunto dai gruppi umani - dai loro pregiudizî rispetto a certi mestieri e alle materie prime in essi adoperate (ferro). Si possono distinguere a questo riguardo due categorie di lavori manuali: i lavori cioè che possono venire eseguiti da tutti i membri della comunità e che costituiscono anzi l'occupazione giornaliera principale della famiglia e quelli ritenuti vili, infimi o pericolosi, perché legati in qualche modo con la sfera della magia (per esempio il lavoro del ferro), e che vengono perciò eseguiti da speciali caste di artigiani.

Tra i Senufo le donne, oltre che dei lavori domestici, si occupano della filatura del cotone, della fabbricazione del sapone, dell'olio e della birra; gli uomini invece tessono, fabbricano polvere da sparo con sistemi primitivi, confezionano sandali e conciano il tabacco. La preparazione dell'indaco, la tintura delle stoffe e la fabbricazione dei panieri vengono eseguite tanto dai maschi quanto dalle femmine. All'incontro la lavorazione del ferro, del legno e del cuoio è lasciata a una casta speciale, quella dei fabbri, le cui donne si dedicano alla fabbricazione delle pentole d'argilla, altro lavoro ritenuto vile. La casta dei Lorho, probabilmente d'origine straniera, lavora il rame - di provenienza europea - ricavandone anelli e altri ornamenti. Nei villaggi Mossi del Sudan i fabbri, i quali eseguono anche lavori in legno, costituiscono la sola categoria di persone ben distinta dal resto della popolazione; gli appartenenti a questa casta sono quasi tutti Fulbè. I Mossi e i Fulbè (i quali si sposano tra loro) non prendono mai in moglie le figlie dei fabbri. Altre popolazioni distinguono invece un numero maggiore di caste: fabbri, falegnami, panierai, tessitori, calzolai, vasai, ecc., per tacere - quando esistono come caste - quelle degl'indovini, dei musici ambulanti, ecc. Gli appartenenti a queste caste sono di regola poco stimati, talora anche disprezzati e invisi alla popolazione del villaggio. L'individuo appartiene a una casta per nascita e continua a farne parte anche se non esercita il mestiere dei suoi genitori. Esso può anche mutare casta, ma in questo caso passa a far parte d'una inferiore. Questi passaggi avvengono per lo più in seguito a matrimonio. Se una persona delle classi superiori si sposa con una di casta inferiore, essa perde la prerogativa di nascita ed entra a fare parte della casta del coniuge.

Le istituzioni politiche: il governo. - Nella foresta tropicale del Volta Nero, del Gabon, del Kenya esistono ancora piccoli e primitivi aggregati tribali governati da capi ereditarî o elettivi e da un consiglio di anziani. In alcune comunità della foresta occidentale l'unità politica può essere costituita dalla grande famiglia. Accanto a queste società primitive, che sono talvolta nuclei rimbarbariti staccatisi da popolazioni più evolute, esistono sistemi bene organizzati di governo, come quelli che s'incontrano tra le popolazioni della savana sudanese, della Guinea, della regione dei grandi laghi e delle regioni meridionali del continente. In questi paesi retti a monarchia si affermarono talora quelle forme di governo dispotico che gettarono un'ombra di truce e feroce barbarie sulla storia politica dei Negri. Nella maggior parte dei casi però, e in particolare tra i Sudanesi ed i Bantu meridionali, il capo - anche se è investito di poteri dispotici - non è un tiranno e tanto meno un tiranno sanguinario. Esploratori e missionarî del secolo XIX sono concordi nel riconoscere in questi capi negri dignità, franchezza e distinzione. Tra i Cafri e i Beciuana - presso i quali il nucleo sociale è costituito da famiglie patrizie - i rapporti tra capo e popolo non sono regolati da una rigida etichetta. Nelle discussioni ognuno può interrompere e contraddire le osservazioni del capo e anche l'infimo suddito ha il diritto di appellarsi al capo per ottenere giustizia. Ben diversi e rigorosi erano invece i rapporti tra sovrano e sudditi nell'Ascianti, nel Dahomey, nell'Uganda e in altri reami africani.

La regalità comunque è sempre considerata un'istituzione sacra, come sacra è creduta talora la persona del re, alla quale è legata mediante vincoli mistici la vita della comunità e perciò il benessere e la prosperità degl'individui che la compongono. Si giunge così alle figure dei re divini degli Scilluk (Nilo Bianco) e di altre tribù negre, i quali venivano messi a morte appena incominciavano a invecchiare o quando si ammalavano, acciocché il loro spirito potesse incarnarsi in un più giovane e vigoroso successore. L'uccisione rituale del re era in uso nei tempi passati, con modalità differenti, anche nel Bunyoro, nel Kibanga, nel Lunda, in alcuni reami cafri, ecc.

Il potere dei capi e dei sovrani negri (eccettuati i casi in cui essi esercitavano un potere dispotico, come quelli dell'Uganda e del Dahomey o come certi tiranni cafri del sec. XIX) non è illimitato e i loro privilegi sono talora relativamente modesti. Le prerogative dei capi Asandè si riducono al diritto di dichiarare la guerra e di concludere la pace, di mobilitare l'esercito e di giustiziare i condannati. Il loro appannaggio consisteva in avorio o in schiavi e in metà della carne degli elefanti uccisi. I sovrani Mangbetu, oltre ai contributi sui prodotti del suolo, avevano il monopolio del commercio dell'avorio. Le imposte riscosse dai capi Baronga consistevano in un paniere di miglio per villaggio. Essi amministravano la giustizia ed esercitavano inoltre il diritto del luma, cioè dovevano assaggiare per primi il miglio dopo il raccolto e la birra di bokagne.

I despoti del Dahomey, ai quali il popolo tributava onori divini, avevano invece diritto di vita e di morte su tutti i loro sudditi. Secondo uno scrittore del sec. XVIII il re ereditava i beni di tutti i funzionarî.

Nelle forme più basse d'organizzazione politica il capo è circondato da un consiglio composto dai capifamiglia e dagli anziani della tribù; in quelle più evolute accanto al sovrano stanno numerosi ministri e dignitarî, ognuno dei quali è incaricato di funzioni speciali. Nelle corti Baronga vi sono numerosi dignitarî, tra i quali il Junod ricorda i consiglieri principali, quelli dell'esercito, quelli degli affari esteri, ecc. Curiosa è la carica, talora ereditaria, dell'insultatore di corte, specie di censore pubblico. Grande influenza ha nelle decisioni dei capi Zulu il parere dei due induna, specie di primi ministri e di generali d'esercito. Tra i Mossi dello Yatenga accanto al Moro-naba stanno quattro ministri. Il primo, Togonaba, amministra i quattro villaggi reali di pioprietà del sovrano. Egli inoltre presenta al popolo, dopo l'investitura, il nuovo Moro-naba. Il Rassam-naba è il capo degli schiavi del re; egli ha inoltre in sua custodia il tesoro e i beni del sovrano e comanda a tutti i fabbri dello Yatenga per tramite del loro capo o Saba-naba. Vengono infine il Balum-naba o maestro di palazzo e l'Uidiranga-naba, capo dei cavalli e comandante della cavalleria in caso di guerra. Ogni ministro ha infine sotto la propria giurisdizione un certo numero di cantoni del regno. È da osservare che questi ministri non sono scelti tra i nobili, ma provengono da comuni famiglie Mossi e Fulbè. Il Rassam-naba appartiene normalmente a famiglie di bingo (schiavi familiari). Seguono poi numerosi altri funzionarî, alcuni dei quali devono supplire in caso di malattia i ministri. Gli ultimi in ordine gerarchico sono i guardiani delle tombe reali e gli eunuchi. Giova osservare che a differenza degli altri stati negri del Sudan, i reami dei Mossi, di Uagodugu e dello Yatenga rimasero sempre chiusi alle influenze straniere, come seppero anche resistere alla penetrazione dell'islamismo. Maggiore ancora era il numero dei ministri, dignitarî e generali che circondavano il sovrano dell'Uganda. Sono classiche le descrizioni lasciate da Speke e da Stanley sul fasto e sul complicato e rigoroso cerimoniale di corte al tempo di Mtesa.

Gli stati negri sono normalmente divisi in provincie rette da governatori o da viceré, più o meno indipendenti a seconda della forma di governo che vige nel paese o della maggiore o minore autorità del sovrano. Al governatore della provincia seguono per grado gerarchico i capi dei cantoni o dei distretti (quando questi esistono) e i capi dei villaggi. Tra i Mossi tutte queste diverse gerarchie possono venire successivamente consultate anche per semplici questioni familiari, quando queste sono giudicate di una certa importanza. Capi provincia possono essere anche gli zii e i fratelli del re, come avviene per esempio tra i Mangbetu e i Baronga. Secondo quanto riferisce Speke, i fratelli di Mtesa vivevano invece alla corte in una specie di prigionia, sotto la sorveglianza di ufficiali. Tra gli Ascianti il re funziona spesso da capo provincia per gli affari della capitale e dei villaggi da essa dipendenti.

Una forma comune d'organizzazione politica è la confederazione di piccoli stati e anche di pochi villaggi, come avviene tra i Fanti della Costa occidentale. Il Kabende (Tanganica) è una confederazione di diversi moami, i quali esercitano un potere assoluto sulle loro terre e hanno diritto di vita e di morte sui loro sudditi e sugli schiavi. I villaggi dipendono amministrativamente dai moami e sono governati dai loro figli o nipoti. I muata del Lunda sono indipendenti negli affari locali, ma inviano un tributo annuale (avorio, sale, rame) al Muata Janvo, capo supremo dello stato.

Questo ordinamento politico e amministrativo pare sia il più frequente e anche il più antico degli stati africani, poiché su queste basi erano fondati anche i grandi reami e gl'imperi negri medievali di Ghana, di Gao e dei Mossi, come pure quelli dei Mandingo, del Dahomey, ecc. Oltre a questi ebbero grande importanza nella storia dei Negri i regni dell'Uniamwesi (con gli stati vassalli dell'Urundi e del Ruanda) e dell'Uganda, con l'Unyoro, l'impero del Congo (sec. XIV), il grande reame di Loango, quello del Monomotapa e altri ancora.

Gli stati negri hanno come organismi politici poca coesione. Casalis osserva, parlando dei Cafri, che i sovrani i quali stanno a capo di numerose tribù raramente riescono a formare un popolo omogeneo con usi uniformi e a soffocare ogni idea d'indipendenza. Gli elementi di cui si compone la nazione tendono a dissociarsi per riunirsi con i nuclei originarî. Questo frazionamento può venire impedito soltanto da un'oculata e abile politica e dal prestigio personale del capo, come è il caso di Sebituane, il fondatore del regno dei Makololo, la cui vita e le gesta furono narrate da Livingstone.

La classe dominante, negli stati negri del Sudan e della regione dei laghi, è composta spesso da pastori guerrieri appartenenti a stirpi differenti da quelle delle popolazioni locali agricole. Nell'Uganda e in altre regioni dell'Africa orientale la classe aristocratica è composta di Wahima, etiopici. Secondo fonti arabe l'impero di Ghana sarebbe stato fondato, prima dell'ègira, da principi di razza bianca, dei quali però s'ignora la provenienza. Il potere passò successivamente a una dinastia Saracole, e fu sotto il governo di questi negri che l'impero di Ghana raggiunse nel sec. IX il suo massimo splendore.

Il diritto di successione al trono segue normalmente le regole ereditarie del patriarcato (sia che il potere passi al fratello sia al figlio del defunto) o del matriarcato. Vi sono però casi in cui la successione al trono, in seno a società patriarcali, segue la linea materna, come nell'Uniamwesi, nell'Usukuma o tra i Wafipa del Tanganica. In questi casi il potere viene trasmesso al figlio della sorella. Nel Benin gli eredi al trono erano i figli del sovrano regnante, ma a questi seguivano come eredi presuntivi i figli della sorella. Nel territorio dello Zambesi, nel Lunda, nel Togo, nella Costa d'Oro non è raro il caso di trovare donne regnanti. Anche nell'Uniamwesi, nel Niassa, nell'Angola - e in altre ancora - le donne godono di speciali diritti politici e le sorelle del re o i figli di queste possono salire al trono alla morte del fratello o dello zio. In molte famiglie regnanti africane sono ammessi matrimonî tra fratelli, e il re - come nell'antico Egitto - sposa la propria sorella. Sembra però che almeno in alcuni casi sia esclusa la sorella uterina. Usanze consimili furono osservate fra gli Scilluk, i Wafipa, i Wahima, i Baganda, le schiatte del Lunda e del Monomotapa, i Fulbè della Nigeria settentrionale, ecc.

Nello Yatenga, avvenuta la sepoltura del Moro-naba, nel settimo giorno dopo la sua morte (e in questo tempo sono permessi in tutto il regno il furto, la violenza e gli assassinî), prende momentaneamente il potere la figlia primogenita, nubile o maritata, del defunto, la quale coperta dalle vesti paterne - eccettuati i calzoni - regna per sette giorni e cioè fino alla elezione del nuovo Moro-naba. L'istituzione della napoko, nello Yatenga, non è limitata alla famiglia reale. Anche le figlie dei capi provincia, dei capi villaggio o dei capi della terra, alla morte dei loro padri divengono napoko e possono rimanere in carica anche per un anno, fino alla nomina del successore. Altra istituzione legata al matriarcato è quella della iukokesia, sorella del Muata Janvo (Lunda), che tiene una corte speciale, e ha, tra le altre prerogative, quella di confermare la nomina dell'erede al trono. Non mancano esempî, anche nelle famiglie regnanti, di donne che furono abili condottiere d'eserciti. Una figlia di Tikibo, sovrano di Mangbetu, seppe sconfiggere nel 1866 l'esercito nuba di Abu-Guru, quantunque i suoi soldati si trovassero per la prima volta davanti alle armi da fuoco. Nel regno del Monomotapa vi era un corpo di coraggiose amazzoni, le quali vivevano in uno speciale territorio a loro assegnato dal sovrano. Non vanno dimenticati infine i celebri corpi di amazzoni del Dahomey.

Le credenze mistiche e religiose nella vita sociale: clan totemici. - La vita sociale e politica dei Negri, come quella di tutte le altre popolazioni inculte, è permeata di idee e di concetti mistici e magici, i quali non sono sempre direttamente connessi con la religione, pur rientrando nella complessa e polimorfa sfera del sacro e del soprannaturale. È necessario perciò ricordare qui ancora altre istituzioni che hanno grande importanza nella vita di questi popoli è cioè i clan totemici, le classi di età e le società segrete. Nel clan totemico alla parentela di sangue si aggiunge o si sostituisce la parentela mistica col totem, che può essere un animale, una pianta (o parti di essi), un minerale, un oggetto e anche un astro o un fenomeno celeste. Nella maggior parte dei casi il clan stesso prende il nome del proprio totem, sia che i membri della comunità credano di essere legati a esso mediante parentela genetica, sia che ammettano soltanto rapporti di vario genere (per lo più amichevoli) tra l'antenato del gruppo e il totem.

Il totem e spesso anche il suo nome sono sacri e tabu, sebbene i legami spirituali che uniscono i membri del clan al totem non siano di natura religiosa. Se si tratta di totem animali o vegetali è proibita - salvo singole eccezioni - l'uccisione e la distruzione delle specie a cui il totem appartiene, come pure gravano su esse rigorosi tabu alimentari o d'altro genere.

Il totemismo è particolarmente diffuso tra i Bantu, come anche tra i Nilotici, gli Herero, i Mande, i Masai e gli Haussa pagani e molte popolazioni della Costa degli Schiavi, della Costa d'Oro e della Costa d'Avorio. I totem più frequenti tra i Negri appartengono a specie animali. I Mande e gli Haussa del Sudan, i Senufo della Costa d'Avorio, i Gialuo del Vittoria Nyanza e altri hanno soltanto totem animali. Alcune popolazioni dell'Africa orientale (Baganda, Wagogo, ecc.) hanno totem parziali, per i quali il tabu è limitato a una parte soltanto dell'animale. Numerosi totem vegetali hanno i Bini e i Baganda. Altre tribù hanno totem minerali (ferro), astri o fenomeni celesti (sole), oppure anche oggetti (martello). Sono da ricordare ancora i totem indiretti o supplementari dei Fò del Togo, che sono vegetali o cose le quali hanno qualche rapporto col totem principale.

Tra i Beciuana i gruppi totemici portano per lo più nomi animali: Bakuena, uomini del coccodrillo; Banare, uomini del bufalo, ecc. Rari sono invece i totem vegetali e minerali, come la Vite selvatica o il ferro. L'animale totem è molto venerato, sebbene non sia oggetto di culto. I Beciuana appartenenti al clan del coccodrillo considerano questo rettile come il loro padre, cantano le sue lodi nelle feste e giurano in suo nome. Le carni degli animali totem non vengono mangiate, né vengono adoperate le loro pelli per fare vesti o ornamenti. I Borolong appartenenti al clan del ferro non possono lavorare questo metallo.

Secondo che la parentela segue la linea maschile o uterina, il neonato entra a fare parte del clan totemico paterno o materno. Salvo poche eccezioni, l'individuo non può prendere moglie nel proprio clan, poiché agli effetti dell'incesto la parentela totemica vale quanto quella di sangue. Il divieto delle leggi esogamiche può estendersi contemporaneamente ai clan totemici dei due genitori (Asandè), oppure all'esogamia di clan può associarsi quella del villaggio in cui l'individuo vive (Mayombe). I Nyaneka dell'Africa sud-occidentale ammettono anche l'esistenza di legami o parentele mistiche tra gruppi di clan, come per esempio quello del toro e quello della vacca gravida. In questi casi gli appartenenti a questi clan non possono sposarsi tra loro. Clan totemici endogami si trovano tra i Wahehe dell'Africa orientale. Nel Sudan occidentale sono permessi matrimonî fra persone che hanno il medesimo totem, purché esse appartengano a famiglie differenti. L'esogamia è praticata anche da tribù che non sono totemiste.

I riti dell'iniziazione. - È abbastanza frequente anche fra i Negri africani l'uso che i ragazzi, dopo i sei anni d'età, abbandonino la famiglia per andare a vivere in luoghi appartati fuori del villaggio, come avviene tra gli Habbe del Niger, oppure che vadano nelle "case degli uomini", dove pernottano e si raccolgono gli scapoli, e dove i maschi della tribù tengono le loro riunioni. Case degli uomini, che sono normalmente edifici più grandi e costruiti con maggior cura delle altre capanne, si trovano nel Sudan, nel Camerun, nel Congo, tra gli Uniamwesi, i Masai e altre schiatte dell'Africa Orientale. Presso i Bantu meridionali (Beciuana, Basuto) la casa degli uomini è costituita da un recinto circolare di canne o di rami - kotla - costruito in prossimità della capanna del capo. Quivi si radunano gli adulti e i giovani, e vengono discussi gli affari pubblici e le cause giudiziarie. L'ingresso al kotla generalmente è proibito alle donne.

L'allontanamento dei giovani dalla propria famiglia all'inizio dell'età puberale non ha soltanto lo scopo di sottrarre il ragazzo alla compagnia delle donne, ma anche e particolarmente quello d'iniziarlo alla vita della tribù e di regolare la vita sessuale prematrimoniale dei giovani. Nelle società attuali, però, viene lasciata ai giovani d'ambo i sessi la più ampia libertà in fatto di rapporti sessuali, che non sono considerati immorali, mancando ai Negri, come dice il P. Junod, la nozione del peccato di fornicazione. I ragazzetti Habbe ricevono nei loro accampamenti fuori del villaggio, dove vanno ad abitare dopo la circoncisione, la visita delle loro piccole amiche, con le quali vivono in piena promiscuità. Sui figli eventualmente nati da questi incontri esercita l'autorità legale lo zio materno della ragazza. Ai ragazzi Baronga veniva permessa ogni libertà con le loro coetanee; era proibito soltanto di avere rapporti con donne maritate e di rendere madri le loro compagne. Pene severe colpivano i giovani amanti tra i Kikuyu del Kenya se avveniva la deflorazione, perché la donna - pur godendo la massima libertà - doveva mantenersi vergine per il matrimonio.

Due sono i riti fondamentali che accompagnano di regola l'iniziazione dei ragazzi: la circoncisione e l'estirpazione dei denti incisivi. La circoncisione è diffusa principalmente tra gl'indigeni del Congo, del Camerun e dell'Africa orientale. Essa viene praticata anche dagli Ewè e dai Ga della Guinea, dai Balante, dai Landuman e da altri gruppi della Senegambia e del Sudan occidentale. Nell'Africa del sud la circoncisione era pure praticata, come è ancora tra i Basuto; ma tra gli Zulu, i Baronga, gli Ovambo essa è caduta in disuso. Anche nel Congo, nei centri dove più forte si fa sentire la civiltà europea, la circoncisione ha perduto ogni valore rituale, pur persistendone ancora l'uso. La decadenza del valore rituale appare chiara nel fatto che i giovani Bacongo e Balali si fanno operare nell'ospedale di Brazzaville. Anche nella foresta pare che i riti della pubertà siano in declino.

Il rito dell'estirpazione dei denti si trova tra i Wagogo, gli Ova-Herero, i Batongo (incisivi mediani inferiori), i Mussurongo, i Bacongo (incisivi mediani superiori), ecc. L'uso dell'estrazione e della limatura dei denti è largamente praticato dai Negri africani, ma almeno attualmente esso non appare sempre associato alle cerimonie iniziatiche, rientrando nel campo più vasto delle deformazioni etniche. Dove l'iniziazione è in uso, essa segna il passaggio del ragazzo nella classe degli uomini adulti atti al matrimonio. Nel periodo di segregazione, che accompagna i riti della pubertà e che può durare anche un anno (Vai) i novizî apprendono dagli anziani le norme della vita tribale, e vengono esortati a emendarsi dei proprî difetti e a comportarsi d'ora in avanti da veri uomini. Questi insegnamenti sono accompagnati da frequenti battiture per meglio inculcare questi principî e per abituare anche i ragazzi a sopportare le sofferenze e i dolori. Essi vengono inoltre istruiti sulle loro future occupazioni e principalmente sul maneggio delle armi, sulla guerra, sulla caccia, sulla pesca, sulla cura del bestiame o sulla lavorazione della terra. Tra le prove che talvolta si esigevano dai novizî era anche quella d'uccidere un uomo (Yoruba). Nelle società totemiche vengono rivelati ai giovani anche i riti e le danze del totem. Presso i Basuto i ragazzi che per sottrarsi ai rigori di questo noviziato cercavano di fuggire dal mopato, potevano venire uccisi.

L'iniziazione delle ragazze, che si afferma nelle culture matriarcali, è meno diffusa e di regola anche meno complicata di quella dei maschi. Essa viene praticata dai Mandingo del Senegal, dai Vai della Liberia, dagli Yoruba e dai Bini del basso Niger, dai Mpongwe del Gabon, come anche da alcune tribù della Nigeria settentrionale. Questi riti vengono praticati anche dai Bantu orientali (Kikuyu, Basuto). L'iniziazione delle ragazze viene frequentemente accompagnata dalla recisione rituale della clitoride e delle grandi labbra. Durante l'iniziazione esse vengono istruite dalle vecchie della tribù sui loro doveri matrimoniali, sull'allevamento dei figli e sui lavori domestici. Nel corso del noviziato vengono eseguite danze e canti, e, spesso, pratiche e riti osceni.

Per quanto dolorose e ripugnanti possano essere le prove cui i maschi vengono assoggettati presso quelle popolazioni in cui i riti della pubertà mantengono ancora il loro primitivo rigore, i ragazzi attendono con impazienza il giorno dell'iniziazione, mediante la quale soltanto possono entrare a far parte della classe degli uomini e per conseguenza avere il diritto di ammogliarsi, di portare armi e di partecipare in seguito alla vita politica della tribù. Questi riti sono sempre accompagnati da complicati cerimoniali e da danze, alle quali partecipano i novizî mascherati e col corpo coperto di creta o di ocra.

Le classi d'età e le società segrete. - La popolazione maschile dei villaggi è divisa in classi d'età, alle quali si accede - come nei diversi gradi delle società segrete - attraverso cerimonie iniziatiche e talora anche, per le classi più alte, mediante il pagamento di speciali onorarî. Una divisione abbastanza frequente è quella in tre classi: vecchi, uomini di media età e giovani; ognuna delle quali viene distinta con un nome particolare (Nandi, Wanika). Sempre nell'Africa orientale, i Wakwafi distinguono ancora altre due categorie: i fanciulli e gli uomini ammogliati. Presso i Kamelilo del Kenya le classi d'età sono costituite da tutti i maschi che sono stati circoncisi nello stesso anno. Le feste dell'iniziazione sono tenute ogni dieci anni.

Tra i Beciuana ha luogo ogni sei o sette anni una cerimonia, detta boguera, in cui vengono iniziati i giovani dai 10 ai 15 anni, coetanei di un figlio del capo. Tra i componenti di questi gruppi, cui viene impartita un'istruzione militare e politica, regna una parziale comunanza di beni. La disciplina e le regole che i membri del mopato devono osservare contribuiscono a rendere più compatto l'aggregato sociale e più stretti i vincoli fra la tribù e la famiglia che tiene il potere. In caso di guerra la classe più anziana rimane nel villaggio per proteggere le donne e i bambini. Livingstone, il quale dà queste notizie sul boguera dei Beciuana, non dice se i ragazzi venissero circoncisi. Questo rito era invece praticato nei mopato dei Basuto. Anche tra gli Zulu, presso i quali l'istituzione della pubertà è caduta in disuso, esistono aggruppamenti per classi d'età di carattere esclusivamente militare.

Il passaggio ai gradi più elevati, quando i membri di questi godono di speciali prerogative o hanno funzioni direttive nell'organizzazione tribale (Wanika), viene reso naturalmente più difficile. È interessante notare come questa particolare struttura sociale diffusa in Africa tra le stirpi negre, venisse adottata anche dai Galla della Somalia, in seguito ai secolari contatti che questi popoli ebbero con i Bantu viventi un tempo nella regione dell'Uebi e del Giuba.

Un'altra istituzione, che può giungere perfino a dominare l'intera vita politica e sociale della tribù, è quella delle società segrete, molto diffuse principalmente tra i Negri dell'Africa occidentale e centrale. In queste società segrete ritroviamo la divisione in classi o gradi, le cerimonie iniziatiche per il passaggio da un grado all'altro e l'uso delle maschere. I membri della grande società Egbo di Old Calabar sono divisi in 11 gradi, ognuno dei quali ha funzioni speciali. Sembra che la funzione originaria di queste società sia stata prevalentemente giuridica e politica. All'Egbo si affiliano anche commercianti europei, per mettere sotto la protezione della società i loro beni e per riscuotere i crediti. Il Purrah della Sierra Leone domina e governa tutta la vita degl'indigeni. Le riunioni segrete della società, alle quali, come a tutte le assemblee del genere, non possono assistere i non iniziati, si tengono in una radura della foresta (il boschetto dei Purrah). L'iniziazione alla società, divisa in tre gradi, può avvenire in qualunque età dai sette ai venti anni. Gli anziani della società Simo della Guinea Francese non uscivano quasi mai dalla foresta, dove dirigevano i riti d'iniziazione dei giovani che entravano a far parte della società; ma tuttavia essi avevano una grande influenza e potevano considerarsi i veri capi del paese. L'iniziazione dei novizî nella foresta sacra durava tre anni, e in tutto questo tempo essi non potevano avvicinare i parenti e dovevano vivere in assoluta castità. Ogni nove anni i delegati dei diversi gruppi Simo sparsi nella Guinea tenevano un'adunanza generale, mutando però ogni volta sede. Oggi la società è in piena decadenza e, secondo lo Chevalier, le sue danze mascherate hanno la stessa importanza che ha per i Bianchi il carnevale.

Altre associazioni si occupano principalmente o in modo esclusivo di pratiche magiche, come p. es. il Kufong dei Mende. Gli appartenenti all'Idiong del Calabar sono provocatori di pioggia. I membri dell'Ogboni nel territorio degli Yoruba sono ritenuti i rappresentanti del dio Oro. In questa società troviamo ancora in uso i sacri rombi, il cui rumore è creduto dalle donne la voce di Oro.

Alle società segrete maschili non possono di regola appartenere le donne. La società Elung del Camerun conta tra i proprî membri anche la moglie del capo della società stessa. Nel Lubuku del territorio del Lulua e nella grande società Ndembo del Congo sono ammesse invece liberamente anche le donne. Nella Guinea francese le donne potevano appartenere alla società Simo, ma la loro iniziazione durava soltanto un anno.

Esistono anche società segrete costituite soltanto da donne. Una delle più importanti è la società Bundu della Sierra Leone, divisa in tre gradi, come il Purrah maschile. Le fanciulle vengono iniziate nel boschetto di Bundu, nell'interno della foresta, da donne anziane. I riti del noviziato, lunghi e complicati, sono tenuti segretissimi, e gli uomini, non senza ragione, osserva l'Alldrigge, considerano il boschetto di Bundu con terrore. Si possono ricordare ancora le società segrete femminili esistenti tra i Mpongwe e tra i Vai.

La religione e la magia. - La definizione di feticista data da taluni alla religione dei Negri è errata e non corrisponde alla realtà dei fatti, poiché il feticcio non è né un idolo né tanto meno una divinità; esso rientra piuttosto nella categoria degli amuleti e dei talismani, quindi nel dominio delle credenze e delle pratiche magiche, con la differenza che i primi - secondo Torday - hanno un'azione individuale in virtù di una loro specifica qualità, mentre i feticci possono avere un'azione multipla, collettiva, grazie alla pluralità delle forze di cui sono impregnati. Il concetto che hanno i Negri delle forze spirituali e naturali extraumane è molto complesso e non presenta differenze sostanziali da quello degli altri popoli inculti, che hanno superato i più bassi stadî (culture primitive) dell'incivilimento umano. Accanto a entità spirituali e animistiche individuali, molti di questi popoli ammettono anche l'esistenza di forze e energie (impersonali) mistiche e naturali, talora molto potenti e che si possono trovare anche in oggetti materiali. Gli esperti nelle arti magiche possono far agire queste forze in senso buono (protettivo) o malefico. Molto complesso è pure il concetto che i popoli di cui qui si tratta, hanno dell'anima e della vita. Nelle società, tra le quali le credenze animistiche sono maggiormente sviluppate (come tra i Negri della foresta tropicale) si crede all'esistenza di varie specie di anime e di fluidi spirituali, che dànno vita agli uomini, agli animali e alle piante. Anche i minerali, le rocce o speciali categorie di oggetti, tra cui manufatti umani, possono avere un'anima o uno spirito particolare. Va notato che riesce talora molto difficile interpretare e rendere con vocaboli della lingua europea l'esatto pensiero dei Negri sui fenomeni vitali e le sottili distinzioni che essi fanno sulla qualità ed essenza delle anime e degli spiriti. Gl'indigeni del Congo ammettono che l'uomo soltanto possieda un'anima, anzi più di un'anima, essendo pressoché generale tra i Negri l'idea che l'uomo abbia due o più anime distinte, e oltre alle anime, anche un doppio corpo o un'ombra, che - come il nitu - possono essere o divenire in determinate circostanze percettibili. I Congolesi distinguono però tra nitu, la forma individuale che riceve l'anima (o le anime) e kim, l'ombra, il riflesso o la manifestazione sensibile dell'anima spirituale (moyo), la quale ultima risiede nel sangue. L'anima sensoriale (mwanda) che viene trasmessa con il totem e unisce quindi l'individuo vivente agli antenati del clan, risiede nella testa. Il fluido o l'energia diversa dall'anima umana, che agli animali, alle piante e alle pietre dà forza vitale, viene chiamata dai Congolesi nkisi. I Sudanesi oltre al mimtunde e al niore, che dànno vita al corpo, distinguono lo tsiga, spirito che durante il sonno può allontanarsi dal corpo, e l'anima ancestrale (kimba), la quale ha sede nella testa e dopo la morte ritorna nel villaggio degli antenati, donde però ritorna per reincarnarsi in un altro membro della comunità. Queste credenze e l'idea che queste genti si fanno sulla personalità umana e sui suoi rapporti con il mondo dei trapassati, costituiscono le basi mistiche di quello stretto collettivismo, che regola la loro vita sociale. Si spiega così anche l'alta importanza sociale, oltre che religiosa, che ha il culto degli antenati. Già nei secoli scorsi i missionarî osservarono che la manifestazione più importante della religione dei Bantu occidentali è il culto dei morti. La stessa osservazione viene ripetuta dagli osservatori moderni per i Bantu dell'Africa meridionale. Sono gli antenati divinizzati dei . capi regnanti (Psikuembo psa tiko, cioè "grandi dei", dei del paese) che i Baronga invocano in casi di calamità nazionali. Ogni famiglia possiede però i proprî psikuembo, ai quali rivolge preghiere, e offre sacrifici in caso di matrimonio, di malattie, di morti o in altre circostanze. Tra i Mossi il culto privato degli antenati è esercitato dal capofamiglia, quello pubblico dal tengasola (capo della terra). Nel Congo i sacrifici agli antenati del clan - di cui conservano le reliquie - vengono offerti dal più anziano del gruppo. Nell'Africa centrale sono comuni le statuette dedicate ai mani dei defunti, che sono tenute nelle capanne, nelle cappellette funerarie o rizzate sul luogo della sepoltura. Tra le più rudimentali sono quelle dei Lori, dei Moru e dei Bongo. Si tratta di grossi tronchi d'albero terminanti in due o tre rami divergenti appuntiti, decorati da intagli orizzontali e da una rozza figura o da una testa umana. Queste figurine umane, secondo gl'indigeni, non hanno nessun significato religioso né possiedono virtù magiche: si tratta semplicemente di figure allegoriche e commemorative.

Oltre alle divinità la cui origine è legata al culto dei morti e alle divinità e spiriti della natura i Negri venerano un essere supremo creatore, che risiede nel cielo e che talora può venire percepito come rappresentazione mitica del cielo stesso (Pettazzoni). La credenza negli esseri celesti - a differenza di quelle nelle altre divinità - non è accompagnata di regola da cerimonie cultuali e da preghiere. Essi sono invocati molto raramente e in modo particolare nei periodi di siccità, come avviene per Dzingbe tra gli Ewè o per Mpambe tra gli Ama-Zulu. A Nzame i Congolesi ricorrono anche in caso di malattie. Juok, uno dei grandi iddii dei Nilotici, viene ancora onorato dai Giur con sacrifici e danze; gli Scilluk lo invocano per ottenere la pioggia attraverso Nyikang, lo spirito d'un grande re divinizzato, al quale offrono i sacrifici che in tempi lontani venivano fatti a Juok. Sotto l'influenza delle istituzioni matriarcali alcuni di questi esseri supremi furono concepiti come femmine oppure a essi venne associata una divinità femminile, la "madre della terra". Nel Congo accanto a Ngambi, il signore del cielo, sta Ngambi-ci, la divinità della terra; uguale significato hanno tra gli Ekoi Obashi-osaw e Obashi-nsi.

I Negri credono inoltre in un numero infinito di divinità personali animistiche, di esseri soprannaturali, di forze mistiche della natura; entità ed energie agenti per virtù propria, o latenti e dirette a beneficio dei clienti o contro la comunità e gl'individui dalle arti magiche degli stregoni. Questo stuolo di esseri e di forze soprannaturali popola le rocce, gli alberi, le acque e l'atmosfera. Le selve e i luoghi incolti offrono rifugio a spiriti e a demoni malefici, tra i quali si trovano anche anime di fantasmi. Per propiziarsi mediante offerte e sacrifici queste divinità e questi spiriti, o per combattere mediante riti e cerimonie magiche la loro potenza malefica esistono numerose categorie di sacerdoti (uniti spesso in corporazioni), di stregoni, d'indovini e di fattucchieri specialisti nella preparazione di filtri magici, di medicine, di feticci, di amuleti e di talismani. Vanno ricordati inoltre i provocatori di pioggia. Questa facoltà possiedono anche i capi di alcune popolazioni nilotiche e dei Bacongo. Potenti provocatori di pioggia erano i capi dei Dinca, nei quali vivevano incarnati gli spiriti dei loro avi, pure famosi in quest'arte magica. Diffusa è tra i Negri la pratica dell'ordalia, della divinazione, come pure la credenza nei presagi.

Il culto dei morti - che unito alle pratiche magiche si manifesta sotto gli aspetti più diversi - e le cerimonie funebri sono accompagnati spesso da sacrifici umani. Gli antichi re degli Ascianti erano circondati da giovani e da fanciulle che dovevano servirli e proteggerli. Queste persone - chiamate le "anime del re" - godevano di speciali privilegi, ma alla morte del sovrano venivano uccise e sepolte insieme con la salma, per continuare a servirlo anche dopo la morte. Una vera carneficina accompagnava i funerali del re dell'Urua, secondo quanto riferisce Cameron. Le pareti d'una grande fossa scavata nel letto d'un fiume, del quale veniva deviato il corso, erano tappezzate di donne vive. Il cadavere del re sostenuto da una delle vedove veniva deposto sopra il corpo di una donna che stava ginocchioni. La seconda moglie, seduta ai piedi del cadavere, veniva uccisa prima che la fossa venisse colmata. Tutte le altre donne restavano sepolte vive. Prima di lasciare che le acque riprendessero il corso naturale, si sgozzavano sopra la tomba decine di schiavi maschi. In varie occasioni, ma specialmente nelle grandi feste della morte, nell'Ascianti e nel Dahomey venivano uccisi centinaia di individui, vittime offerte agli spiriti dei re defunti. Prigionieri di guerra, schiavi, malfattori, erano periodicamente sacrificati per inviare nuovi servi, talora con incarichi speciali, agli antenati del sovrano. Con queste cerimonie e con i riti della magia si collega in certi casi l'antropofagia. Qualunque sia l'origine (o le origini) di questa pratica - credenze magico-religiose o bisogno di alimentazione carnea - è certo che essa trovò largo favore presso alcune popolazioni dell'Africa centrale e occidentale, in modo particolare tra gli Asandè, i Mangbetu, i Fan, molte tribù del Congo, del Calabar e della Guinea. Il cannibalismo dei Mangbetu supera quello d'ogni altra gente, stando alle affermazioni dello Schweinfurth. Essi, come i M'Baka del Congo, conservano anche provviste di carne umana affumicata. Secondo Poutrin i M'Baka sono avidi di carne umana - carnivori per eccellenza sono pure gli Asandè - e per loro l'antropofagia sembra rispondere più a un bisogno alimentare che non a credenze di natura religiosa o superstiziosa. Tra i Baya la carne umana che è proibita alle donne è cucinata in speciali marmitte di terracotta, che non vengono mai lavate. Fra le stesse tribù di cannibali però molte persone aborrono questo cibo. I guerrieri Fan tengono i loro pasti di carne umana lontano dagli sguardi altrui e gli utensili da cucina adoperati vengono fatti a pezzi. Anche i Bambala spezzano il recipiente adoperato per questo uso e ne disperdono i cocci. Nella Nigeria gli atti di cannibalismo hanno valore rituale. Tutto il popolo mangia un pezzo della vittima offerta alla divinità. Altre volte invece soltanto i sacerdoti assaggiano un pezzo di quella carne, allo stesso modo come mangiano un pezzo degli animali offerti in sacrificio. Il cannibalismo viene spesso praticato dagli stregoni i quali si servono di parti del corpo umano per preparare amuleti e filtri magici.

Per i Negri d'America, v. stati uniti d'america.

Per la tratta dei Negri, v. schiavitù.

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