Navigazione

Enciclopedia dei ragazzi (2006)

Navigazione

Margherita Zizi

L’arte di percorrere fiumi, laghi, mari e oceani

La navigazione ha dato un contributo determinante allo sviluppo delle civiltà umane, ampliando gli orizzonti geografici e mentali dell’uomo. L’arte di condurre le imbarcazioni attraverso fiumi, laghi, mari e oceani è stata praticata sin da epoca remotissima per scopi commerciali, militari o di esplorazione, e poi perfezionata nel corso dei secoli. Questa pratica da sempre ha affascinato la fantasia per il suo carattere di sfida e di avventura, alimentando una ricchissima letteratura

e ispirando molti film di successo

Un’arte e una scienza

La navigazione è una tecnica che si avvale dell’apporto di varie scienze, dall’astronomia alla geografia, ma è anche un’arte, perché richiede destrezza e intuito nell’uso delle pratiche apprese dall’esperienza.

I problemi fondamentali della navigazione sono due: la conoscenza del punto in cui si trova la nave e la determinazione della rotta da seguire per raggiungere un determinato luogo.

I marinai che si basano unicamente sull’esperienza sanno dove si trovano e quale direzione devono prendere osservando il mare, soprattutto sorvegliando il suo colore, il cielo (in particolare, la posizione del Sole e delle stelle), tutto ciò che galleggia o vola, ma anche lasciandosi guidare dalle sensazioni olfattive. Per navigare è necessario un acutissimo spirito di osservazione, ma altrettanto importante è l’istinto, quella capacità quasi animale di muoversi in mare che indubbiamente possedevano i marinai del Nord per navigare nell’Atlantico settentrionale senza molti strumenti nautici a disposizione. Sin dall’antichità, poi, i viaggi in mare richiedevano una notevole conoscenza dei venti, delle correnti e dei fondali. Cristoforo Colombo, per esempio, seppe sfruttare abilmente gli alisei e le correnti dell’Atlantico centrale e questo fu uno dei fattori determinanti del successo della sua impresa.

Gli strumenti della navigazione: le carte nautiche

Nel caso della navigazione costiera, cioè quella che non abbandona mai la vista della costa, per determinare la posizione della nave e stabilire la rotta si usano punti di riferimento naturali, come alture o promontori, oppure artificiali, come i fari. Il nome di questi ultimi deriva da Faro, un isolotto situato di fronte alla città egizia di Alessandria, dove intorno al 280 a.C. sotto la dinastia dei Tolomei fu costruito il più antico segnale luminoso per guidare le navi. Si trattava di una torre alta 120 m sulla cui sommità veniva acceso un fuoco la cui luce veniva concentrata e direzionata grazie a grossi specchi concavi di metallo.

Tutti questi punti di riferimento e le caratteristiche delle coste sono segnalati nelle carte nautiche, preziose guide utilizzate dai marinai di tutte le latitudini e in tutte le epoche storiche. Gli abitanti delle Isole Marshall, un arcipelago del Pacifico centro-orientale, per esempio, usano i mattang, rudimentali carte nautiche formate da bacchette di legno e conchiglie.

Il prototipo della carta nautica fu il portolano (elencazione con descrizione accurata dei porti di una determinata regione costiera), inventato in Italia alla fine del 13° secolo: il più antico esemplare conosciuto è la Carta pisana conservata alla Biblioteca nazionale di Parigi. L’importanza dei portolani è dimostrata da un’ordinanza del re d’Aragona che, verso la metà del 14° secolo, imponeva a ogni bastimento che prendeva il mare di munirsi di due carte, ma anche dall’accanimento con cui corsari e pirati cercavano di impadronirsi di questi preziosi documenti.

Tavole astronomiche, astrolabio e bussola

I calcoli nautici si sono sempre basati sull’osservazione degli astri, che era praticata fin dall’antichità greca; l’astronomo Ipparco nel 2° secolo a.C. elaborò le prime effemeridi nautiche, cioè tavole numeriche che forniscono le coordinate degli astri, e costruì i primi astrolabi, strumenti necessari per determinare l’altezza del Sole o di un qualsiasi altro astro sull’orizzonte. L’astrolabio fu diffuso e perfezionato dagli Arabi; il più antico astrolabio conosciuto risale al 912.

L’invenzione della bussola è attribuita al leggendario Flavio Gioia di Amalfi, nella seconda metà del 13° secolo. L’uso dell’ago magnetico per individuare il Nord forse è arrivato in Occidente dalla Cina attraverso l’Oceano Indiano. I marinai arabi lo conoscevano, ma ne disdegnavano l’uso. Le proprietà della calamita erano note nel mondo occidentale già dalla fine del 12° secolo, ma il suo uso divenne generale sulle navi solo quando l’ago magnetico, fino allora poggiato su una cannuccia galleggiante su un po’ d’acqua, fu fissato su un perno all’interno di una piccola scatola (bossola, da cui il nome bussola).

Il problema della latitudine…

Fu l’esperienza dei viaggi di scoperta del Cinquecento (scoperte geografiche) a permettere di determinare con precisione la posizione in latitudine della nave. All’osservazione tradizionale della Stella polare venne ad aggiungersi quella dell’altezza del Sole al suo passaggio sul meridiano (la linea meridiana, che passa per i poli e lo zenit, che è il punto celeste sulla verticale dell’osservatore); essa permetteva, con l’aiuto di tavole astronomiche, di determinare la latitudine (coordinate geografiche). Si poteva così navigare a latitudine costante, verso est o verso ovest, come dimostra la rotta seguita da Colombo al ritorno dal suo primo viaggio, e soprattutto si poteva conoscere la posizione della nave in latitudine anche nell’emisfero sud, dove era impossibile osservare la Stella polare.

... e della longitudine

Per la determinazione della longitudine si dovette attendere invece il 17° secolo. Già da tempo si sapeva che esiste uno sfasamento orario lungo la circonferenza terrestre, e nel Quattrocento si era capito che per calcolare la longitudine era necessario confrontare l’ora della zona sotto osservazione con quella del luogo di partenza. La longitudine sarebbe risultata dalla differenza tra queste ore. La stima approssimativa della velocità forniva un metodo per calcolare il tempo trascorso. Al fine di determinare la velocità si usavano un orologio a polvere – la clessidra – per misurare il tempo, e un solcometro, introdotto nel Cinquecento, per mettere in relazione con tale intervallo la distanza percorsa. Il solcometro è una corda di canapa graduata da nodi posti a intervalli regolari e lasciata scorrere in mare per il tempo misurato dalla clessidra.

Per decenni la soluzione del problema della longitudine divenne una sfida appassionante. Dall’inizio del 16° secolo si era tentato di costruire cronometri di bordo che permettessero ai navigatori di avere presente l’ora del meridiano di partenza per confrontarla con l’ora solare locale (meccanica).

I primi successi si devono agli Inglesi, con l’orologio messo a punto da John Harrison nel 1759. Altri cronometri furono inventati e sperimentati con successo in mare dai Francesi nel 1761 e nel 1764. Grazie a queste invenzioni, si poteva ormai navigare senza commettere gravi errori di posizionamento.

Fare il punto

Il primo problema che si pone quando si naviga è quello di fare il punto, cioè determinare dove si trova la nave in un dato momento. Il punto si può fare in diversi modi. Nella navigazione costiera il punto è rilevato attraverso il grafometro, uno strumento per misurare gli angoli costituito da due regoli e da un circolo graduato, per mezzo del quale si stabilisce la posizione dei punti di riferimento costieri riportati sulle carte nautiche.

Quando la nave è in alto mare e non si hanno elementi di riferimento visibili, il punto si stabilisce con i metodi della navigazione stimata (punto stimato): si stima cioè il cammino percorso da un punto noto in base alla direzione tratta dal rilevamento della bussola, tenendo conto dello scarroccio (deviazione dovuta all’effetto del vento) e della deriva (deviazione dovuta alla corrente), e in base alla velocità della nave determinata attraverso il solcometro.

Il punto osservato si stabilisce invece osservando la posizione degli astri (cioè determinando la latitudine) e il tempo (cioè determinando la longitudine). Strumenti essenziali sono il sestante, che misura l’altezza degli astri sull’orizzonte, la bussola, per rilevare il Nord, e il cronometro, per misurare la differenza tra il tempo locale e il tempo di un meridiano di riferimento (di norma quello di Greenwich). Egualmente importanti sono le effemeridi, tavole in cui sono raccolte ora per ora di ogni giorno, anno per anno, le coordinate celesti del Sole, della Luna, dei pianeti e delle stelle principali.

Con lo sviluppo delle moderne tecnologie satellitari, il punto può essere stabilito anche attraverso la ricezione di segnali radio emessi da satelliti artificiali, che consentono un accurato posizionamento nonché determinazioni del tempo e della velocità molto precise.

Il problema delle scorte di cibo e acqua

Le traversate di lunga durata richiedevano ingenti scorte di viveri e acqua. Soprattutto il rifornimento d’acqua costituiva un grosso problema. Infatti durante i viaggi di lungo corso l’acqua si alterava rapidamente, e solo con i grandi viaggi di esplorazione del 18° secolo le navi furono dotate di un apparecchio, l’alambicco, destinato a dissalare l’acqua di mare per renderla adatta al consumo.

Quanto ai viveri, era sufficiente che il bastimento fosse bloccato dalla bonaccia (cioè dall’assoluta assenza di vento) perché le riserve andassero rapidamente esaurite. A tutto ciò bisogna aggiungere i casi frequenti di deterioramento dei cibi, che provocavano inevitabilmente malattie e morte. Molto diffuso nei viaggi di esplorazione transoceanici a partire dal 15° secolo era lo scorbuto, una malattia causata da carenza di vitamina C per mancanza di verdura e frutta fresche.

La vita sulla nave

Le condizioni di vita sulle navi naturalmente sono state differenti a seconda delle epoche, delle culture e degli scopi che hanno animato i viaggi per mare (commerciali, militari o di scoperta). L’arruolamento sulle navi poteva essere forzato oppure volontario: in quest’ultimo caso era motivato, oltre che dalla prospettiva di un’occupazione, anche dall’amore per l’avventura. L’equipaggio delle navi, a partire dall’età moderna, in genere era composto da uomini diversissimi per nazionalità ed estrazione sociale, che si trovavano a convivere per lunghi mesi in uno spazio ristretto, isolati dal resto del mondo. Il comandante o capitano (nella marina mercantile), cui spettavano le decisioni cruciali che potevano salvare la nave e l’equipaggio, aveva l’autorità di un sovrano assoluto che distribuiva ricompense – in genere razioni supplementari di viveri, tabacco e alcol – e punizioni talvolta crudeli. Chi non ha sentito parlare del famigerato giro di chiglia, in cui per punizione un marinaio legato a una corda veniva fatto passare sotto la chiglia della nave, rischiando di annegare o di ferirsi a morte con le incrostazioni dello scafo? La disciplina era essenziale per assicurare l’ordinata convivenza di un microcosmo maschile sottoposto spesso a notevoli tensioni. Come in tutte le situazioni di pericolo condiviso, però, anche le emergenze nei viaggi per mare – bonacce interminabili che condannavano le navi a un’esasperante immobilità, o spaventose tempeste – creavano un fortissimo senso di cameratismo e di solidarietà, simile a quello che si sviluppa tra i soldati al fronte.

Un’inesauribilefonte di ispirazione letteraria

Il carattere avventuroso della navigazione ha da sempre affascinato la fantasia degli scrittori, a partire da Omero: pensiamo all’Odissea, che è in sostanza il racconto di un lunghissimo viaggio per mare ricco di peripezie. Sindbad il Marinaio è l’eroe di un ciclo di racconti di viaggio che compaiono nelle Mille e una notte; l’ambiente delle avventure di Sindbad è l’Oceano Indiano, dove si spinsero gli arditi navigatori arabi e persiani intorno all’anno Mille. Tempeste e naufragi, ammutinamenti e approdi in paradisi esotici formano il repertorio di un ricco filone letterario, soprattutto di romanzi del 18° e del 19° secolo, come Robinson Crusoe di Daniel De Foe, Moby Dick di Herman Melville, L’Isola del Tesoro di Robert Louis Stevenson e, più tardi, di quelli di Joseph Conrad. In questi romanzi il confronto col mare diventa una metafora dell’esistenza stessa e delle sfide che essa pone all’uomo.

Un mare di film

Oltre che fonte di ispirazione letteraria, il mare e la navigazione hanno da sempre destato l’interesse di produttori, registi e sceneggiatori cinematografici, che si sono sbizzarriti a dare vita a situazioni ricche di tensione e di suspense ambientate a bordo di imbarcazioni. Benché l’uomo pratichi l’arte della navigazione da migliaia di anni, il mare resta comunque un ambiente spesso ostile e pericoloso in quanto fondamentalmente innaturale per un animale ‘terricolo’ come l’uomo.

Le imbarcazioni, per quanto grandi siano, costituiscono una sorta di prigione invalicabile e capace di suscitare fra chi è a bordo imprevedibili attriti e claustrofobie. Tutti spunti molto attraenti per la realizzazione di due ore di avvincente spettacolo! Tra i film più recenti dedicati all’argomento troviamo il thriller Ore 10: calma piatta (1989) di Phillip Noyce, dove due coniugi sono ostaggi di uno psicopatico sulla loro barca a vela in pieno oceano; il catastrofico – ma non tanto! – Waterworld (1995) di Kevin Reynolds, in cui in una Terra ormai completamente coperta dall’oceano si scatena una lotta serrata alla ricerca dell’ultima leggendaria terra emersa; lo storico Master & commander – Sfida ai confini del mare (2003) di Peter Weir, che racconta della traversata di due oceani da parte del comandante inglese Aubrey all’inseguimento del suo mortale nemico francese.

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