MODENA

Enciclopedia dell' Arte Medievale (1997)

MODENA

P. Rossi

(lat. Mutina; Motina nei docc. medievali)

Città dell'Emilia-Romagna, capoluogo di provincia, posta su una lieve altura tra i fiumi Panaro e Secchia.M. in origine era un piccolo villaggio gallico, poi compreso nei confini della Gallia Cispadana, quando nel sec. 3° a.C. fu occupato dai Romani che lo trasformarono in castrum, attraversato dalla via Emilia, tracciata in quegli stessi anni dal console Marco Emilio Lepido per collegare Piacenza a Rimini.Gli antichi assi viari sono parzialmente riconoscibili nella zona orientale della M. moderna, dove il cardine e il decumano - il primo individuabile all'altezza di corso Canal Grande e il secondo identificabile ancora oggi con la via Emilia - documentano un municipium di dimensioni ragguardevoli.M. ancora nel sec. 4° d.C. viene raffigurata come un centro di medie proporzioni nella Tabula Peutingeriana (Vienna, Öst. Nat. Bibl., 324, copia del sec. 13° di un itinerario cartografico dell'Impero romano databile al 4°), ma già alla fine dello stesso secolo Ambrogio la definisce semidiruta (Ep., XXXIX, 3; PL, XVI, col. 1146). Secondo la vecchia storiografia, con le invasioni barbariche e le inondazioni la città sarebbe decaduta a tal punto da costringere Liutprando nei primi decenni del sec. 8° a fondare un nuovo borgo a pochi chilometri di distanza, in direzione di Reggio, dove spostare l'organizzazione civile: la Civitas Nova. Questa sarebbe stata distinta, ma prossima, al sobborgo sorto, a O della Mutina romana, attorno a una prima cattedrale - la cui ubicazione non è certa - eretta dalla fine del sec. 4° sulla tomba del santo vescovo Geminiano (m. nel 349). Le necropoli infatti erano ubicate fuori dalla cinta muraria e la stessa cattedrale, essendo edificata sulla tomba di Geminiano, si sarebbe trovata esterna al circuito delle mura romane. Nei secc. 8° e 9° M. era quindi costituita da due diversi nuclei, quello ecclesiastico e quello del potere civile, la cui formazione, secondo la storiografia moderna non sarebbe stata, però, causata dagli eventi, ma determinata da una vera e propria scelta politica di Liutprando (Lanfranco e Wiligelmo, 1984, p. 265).Nell'891 il vescovo Leodoino (869-898) ottenne da Guido di Spoleto, re d'Italia e imperatore, la concessione di erigere fortificazioni per un miglio intorno alla chiesa cittadina (Vicini, 1931-1936, I, nr. 13), sulla cui localizzazione le fonti tacciono, ma che doveva più o meno essere ubicata in prossimità di quella attuale, se le stesse fonti trattano della traslazione del corpo di s. Geminiano nel 1099 all'interno di un nuovo edificio, che quindi veniva a sostituire quello più antico, a sua volta posizionato in prossimità dell'antica sepoltura del santo (Trovabene Bussi, Serrazanetti, 1984, p. 265).Probabilmente proprio lo stretto legame tra chiesa e città fece in modo che il vescovo acquisisse nel centro urbano anche funzioni civili, mentre il comitato rimase di pertinenza dei conti laici e quindi, dal 961 - per concessione di Ottone I -, di Adalberto Azzo di Canossa e poi dei suoi discendenti: Tebaldo, Bonifacio, Matilde. Da ciò derivò la possibilità per il vescovo Eriberto (1054-1094 ca.) - che seguì nella lotta per le investiture la fazione imperiale al punto di consacrare nel 1084 l'antipapa Clemente III - di tenere legata la città all'imperatore e di mantenere il suo ruolo anche dopo la nomina papale del nuovo vescovo Benedetto, che riuscì a prendere possesso della sede solo alla morte dello stesso Eriberto. Dopo Benedetto seguì a M. un periodo di sede vacante, durante il quale il clero e i cittadini diedero inizio alla ricostruzione del duomo, poi portata avanti dal nuovo vescovo Dodone, che, già eletto nel 1100, entrò in città solo nel 1101 (Simeoni, 1949).Per i secc. 9° e 10° non si conosce la conformazione urbana di M., se non per qualche breve accenno, presente nei documenti, a possibili strutture amministrative (Vicini, 1931-1936, I, nr. 8). Solo nel 996 sono attestati da una parte la conferma della presenza a M. di una rete di canali, peraltro documentata già dal 983, e dall'altra un riferimento puntuale alla chiesa di S. Pietro e al suo monastero (Modena, Arch. di Stato, Fondo di S. Pietro, I, 2 e 7), al quale venne concessa nel 1016 una torre, individuata come primo e diretto riferimento a una struttura edilizia cittadina (Trovabene Bussi, Serrazanetti, 1984, p. 268). Un palazzo pubblico figura nel 1046 e nel 1068 è documentato con certezza il palazzo vescovile (Vicini, 1931-1936, I, nr. 255): nel sec. 11° insomma la struttura urbana di M. si andava delineando, anche se nel 1071 il monastero di S. Eufemia risultava ancora "adiacentis eccl(esiae) atque civitatis eiusdem patroni nostri Geminiani" (Vicini, 1931-1936, I, nr. 263) e solo nel 1092 si ritrova nei documenti un chiaro riferimento a mura urbiche (Vicini, 1931-1936, I, nr. 288), senza peraltro che ne venga specificata l'estensione.Nel 1110 viene fatta esplicita menzione a claustra canonicorum, le residenze dei canonici, probabilmente ubicate nell'area dell'episcopio vicinissima al duomo, mentre gli organismi comunali sono citati nel 1135 e nel 1194 figura espressamente il "Palatium vetus Comunis Mutinae", le cui primitive strutture vengono appunto datate a questo momento anche se l'od. edificio è stato completamente ristrutturato nel 1624 (Baracchi, 1981). Alla costruzione della cattedrale fece seguito nella seconda metà del sec. 12° l'istituzione della Fabbrica del Duomo, mentre dal 1156 comincia a figurare nei documenti uno slargo vicino all'edificio adibito a platea publica (Vicini, 1931-1936, I, nr. 462), occupato a E dal palazzo Comunale, a O dalla residenza del vescovo e a S da abitazioni. Il centro urbano ormai si andava ampliando: nel 1148 è documentata la chiesa di S. Giovanni Evangelista, nel 1190 S. Michele, nel 1192 S. Paolo, nel 1197 S. Margherita e S. Silvestro, nel 1199 S. Giovanni del Cantone (Trovabene Bussi, Serra-Zanetti, 1984, p. 272); tali edifici, oggi certamente difficili da rintracciare nel tessuto urbano, e comunque totalmente trasformati, documentano ancora una grande espansione della città, che infatti nel 1188 fu compresa all'interno di un nuovo e più ampio circuito murario. Sulla base della Cronaca di Bonifazio Morano, il tracciato delle mura è stato ricostruito dagli storici (Zannella, 1983; Trovabene Bussi, Serrazanetti, 1984) con maggiore certezza sul lato orientale, dove viene fatto coincidere con il percorso dell'antico Canal Grande, mentre su quello occidentale è probabile che la nuova cerchia urbica abbia inglobato una fascia extraurbana a ridosso delle mura della Civitas Vetus (Trovabene Bussi, Serrazanetti, 1984, p. 271).I canali facevano parte di una fitta rete che aveva favorito anche l'inserimento di M. nelle grosse vie fluviali commerciali in quanto, attraverso il Naviglio, la città comunicava con il Po e con Venezia. Lo sviluppo urbano fu quindi condizionato da questo circuito di canalizzazione, che produsse un'edilizia abitativa caratterizzata da planimetrie allungate, con facciate allineate lungo le strade che correvano parallele ai corsi d'acqua, cosicché questi lambivano il retro delle abitazioni; successivamente con la copertura dei canali le case acquisirono cortili interni lunghi e stretti. Dell'antica configurazione della città ancora oggi rimangono nella parte più vecchia - dove anche le abitazioni conservano i primitivi andamenti - i toponimi (corso Canal Grande, corso Canal Chiaro) a ricordare la caratteristica della M. medievale. Nel Duecento M. - che in quell'epoca si estendeva tra le od. via Belle Arti a N-O, rua Fredda e via delle Rose a S-O e rua Frati a S-E - vide lo scontro tra guelfi e ghibellini e l'abbattimento delle torri nobiliari, mentre il Comune si sviluppava assorbendo sempre più i diritti del vescovo, con cui era inizialmente alleato, ma con il quale sorsero attriti per il possesso dei canali e per leggi lesive dell'immunità ecclesiastica, finché nel 1227 il vescovo rinunciò alle pretese giurisdizionali a favore del Comune. Sono documentati dal primo ventennio del secolo insediamenti mendicanti (i Benedettini si erano già stanziati a M. da lungo tempo con le chiese di S. Pietro e S. Eufemia): una chiesa e un convento dedicati a s. Francesco risultano ubicati nel 1221 all'esterno della città, vicino alla porta Baggiovara, nei cui pressi figurano anche nel 1244, posizionati però all'interno della cinta, nell'edificio ancora visibile, anche se a più riprese trasformato e alterato da ripristini ottocenteschi (Pezzini, 1983); nel 1232 erano presenti i Domenicani, probabilmente già stanziati dal 1220 ca., che nel 1243 edificarono il convento con la chiesa di S. Matteo, dalla fine del sec. 14° dedicata a s. Domenico e nel sec. 18° ricostruita (Soli, 1974, I, p. 356ss.); nel 1245 anche gli Eremiti di s. Agostino iniziarono la costruzione di una chiesa, non localizzabile, all'esterno della cinta tra porta Cittanova e Ganaceto.Alla fine del sec. 13° M. si ampliò ulteriormente e l'abitato si estese dall'od. corso Cavour a N, a viale delle Rimembranze a S e dal Canale del Cerca al Canal Grande. In corrispondenza dei poli estremi degli assi ideali di un impianto cruciforme si localizzarono gli insediamenti mendicanti (Zannella, 1983): così all'asse N-S tracciato all'inizio del Duecento tra S. Francesco, il duomo e S. Matteo se ne aggiunse un secondo che intersecava il primo sul duomo e aveva i suoi estremi nel S. Donnino degli Agostiniani - assegnato all'Ordine nel 1292, nel sito su cui venne edificata nel 1338 una nuova costruzione dedicata a s. Agostino, a sua volta trasformata nel 1663 (Soli, 1974, I, pp. 32-34) - e in S. Biagio, costruito nel 1319 dai Carmelitani come semplice oratorio, poi trasformato dopo il 1649 (Soli, 1974, I, p. 184). Gli assi individuavano quattro quartieri e gli Ordini mendicanti, posizionati come si è detto ai loro estremi, in questo modo controllavano le quattro porte: i Domenicani porta Albareto, gli Agostiniani porta Cittanova, i Carmelitani porta Saliceto, i Francescani porta Baggiovara (Zannella, 1983).Nel 1326 sotto la signoria di Passerino Bonaccolsi di Mantova venne realizzato un ulteriore circuito murario, terminato nel 1380, quando ormai M. era da tempo sotto la famiglia d'Este.Il duomo, servito da un alto campanile, noto come Ghirlandina, rispecchia sostanzialmente il progetto originario: un edificio a tre navate la cui planimetria interna viene rivelata all'esterno dalla fronte tripartita. Sotto il presbiterio, fortemente rialzato, si apre una vasta cripta ad oratorium, con colonnine e capitelli decorati, i cui accessi sono posizionati in corrispondenza del grande pontile che salda il coro alle navate. La scansione interna è data dall'alternanza tra pilastri quadrilobati e colonne, secondo un sistema alternato che prevedeva una copertura a tetto (sostituita da crociere nel sec. 15°) su archi trasversi già dall'origine a profilo acuto, ma che si ripercuotono sulle navatelle con ghiere a tutto sesto, sormontate da bifore di alleggerimento. In corrispondenza di ogni campata così determinata, la parete viene scandita verticalmente su tre livelli costituiti dalle arcate, dal cleristorio e, nel piano intermedio, da coppie di trifore sopraccigliate che definiscono il finto matroneo e diventano all'esterno della costruzione motivo decorativo, marcando maggiormente i profili con elementi a tutta altezza, impostati su un basamento continuo. Viene così realizzata una sorta di galleria nana che 'cerchia' l'edificio con funzione puramente ornamentale, in quanto l'interno della costruzione prende luce da monofore posizionate al di sotto di questa loggetta non praticabile. Al colmo della navata maggiore, sulle testate dei contrafforti esterni, sono collocate le copie delle metope (gli originali sono nel Mus. Lapidario del Duomo), per le quali la critica è ormai concorde sulla destinazione originaria all'esterno del monumento, forse anche nell'attuale posizione, pur non potendo fare affermazioni certe in quanto più volte spostate nel tempo.Tutti i portali sono preceduti da protiri, a eccezione dei due laterali in facciata. Sul fianco settentrionale, parzialmente alterato dai restauri, si apre la porta della Pescheria, decorata con rilievi raffiguranti i Mesi e nell'archivolto scene del ciclo arturiano; sul lato meridionale, prospiciente piazza Grande, in corrispondenza della seconda campata, è la porta dei Principi, con Storie di s. Geminiano, e verso le absidi la porta Regia, inseribile nella più tarda fase campionese del monumento, insieme ai due portali laterali di facciata e alla parte superiore della stessa con il grande rosone (Salvini, 1966), che ha alterato anche il rapporto volumetrico del sottostante protiro del portale Maggiore.Per le sculture di facciata, rese 'erratiche' dai lavori duecenteschi, fu proposta da Quintavalle (1964-1965) una loro originaria collocazione all'interno come arredi dell'edificio, oggi esclusa dallo stesso studioso (Quintavalle, 1991, p. 185) per le lastre della Genesi, di cui aveva ipotizzato un utilizzo come recinzione presbiterale. È probabile infatti che la loro disposizione originaria fosse su un unico livello, a costituire un fregio continuo la cui lettura risulta oggi parzialmente alterata dallo sfasamento di due lastre, quella con la Creazione di Adamo ed Eva e quella con l'Arca di Noè, trasferite al di sopra dei portali.Le vicende costruttive del duomo sono note grazie a una serie di documenti attraverso i quali si può ricostruire in dettaglio la storia del monumento. La data di fondazione, il 9 giugno 1099, si ricava dall'epigrafe sull'abside e da quella in facciata. La prima è un'iscrizione problematica cronologicamente perché denuncia una grossa incongruenza nei caratteri paleografici, in quanto le ultime due linee - che menzionano un'opera commissionata dal massaro Bozzalino (1208-1225) - sono in caratteri gotici, mentre il resto del testo, che celebra l'architetto Lanfranco, è in lettere capitali. Non potendo trattarsi di una lapide che all'origine presentava uno spazio esuberante rispetto al testo, è stato proposto che ci si trovi davanti a un'iscrizione del tempo di Bozzalino, che copia - addirittura nei caratteri paleografici - l'originale deteriorato, ma ancora ben leggibile dallo scalpellino che lo avrebbe riprodotto. Resta comunque il problema dell'individuazione dell'hoc opus fecit di Bozzalino, identificato da alcuni con un affresco oggi perduto, ma più probabilmente da riferirsi ai lavori duecenteschi del coro (Lanfranco e Wiligelmo, 1984, p. 377). Comunque nel testo della primitiva lastra - databile al tempo di Aimone (magischola dal 1096 al 1110) ivi ricordato, e più precisamente al 1106 ca., anno della consacrazione dell'altare di s. Geminiano - è menzionato Lanfranco come "[...] / ingenio clarus [...] doctus et aptus / [...] operis princeps huius, rectorq(ue) magister [...]"; e nello stesso testo è indirettamente specificato che si procedeva di pari passo con l'erezione dei muri e con il rivestimento esterno, dato che si citano le sculture che ornano la stessa cattedrale: "Marmorib(us) sculptis dom(us) hec micat undiq(ue) pulchris / [...]" (Salvini, 1966). Viene così risolta la problematica legata all'impiego di blocchi di pietra su tutta la costruzione; tali blocchi infatti nelle fondamenta per le grosse dimensioni (cm 156104, profondità cm 43) denunciano un riuso di materiale antico, mentre negli alzati costituiscono il paramento esterno di muri apparecchiati all'interno in laterizio con probabile finitura policroma; un muro double-face, come lo definisce Peroni (1984a, p. 154), di cui è stata dimostrata appunto la contemporaneità tra le due facce.La seconda epigrafe è quella di facciata sostenuta dalle figure dei profeti Enoc ed Elia, ed è l'unica fonte che menzioni Wiligelmo (v.) o meglio Vuiligelmo o Guiligelmo secondo l'ultima lettura (Campana, 1984, pp. 370, 378-379). Il riferimento compare nelle ultime tre linee, in lettere capitali come il resto dell'iscrizione, ma in caratteri decisamente più piccoli ("[...] Inter scultores quan/to sis dignus onore. Cla/ret scultura nu(n)c Vuiligelme tua"). Attualmente la critica considera tutta l'epigrafe attribuibile a Wiligelmo, imputando la discordanza tra le due parti a un leggero scarto cronologico, derivato dall'inserimento delle linee finali in un momento immediatamente successivo, prima del posizionamento in situ della lastra, avvenuto comunque intorno al 1106.Se i dati fondamentali della costruzione del duomo - nomi degli artefici e cronologia - si ricavano da queste due epigrafi, lo studio della genesi dell'edificio è basato principalmente sul racconto della Relatio translationis corporis sancti Geminiani, del sec. 13° (Modena, Arch. Capitolare, II.11; Galavotti, 1972), decorata con quattro splendide miniature esplicative del testo, che analizza la storia della fabbrica dal 1099 al 1106 e conferma i dati dell'iscrizione dell'abside. In essa viene affermato infatti che a settecentocinquanta anni dalla morte di Geminiano si decise di costruire, con il contributo di tutto il popolo, un nuovo edificio per sostituire il vecchio, al quale erano state fatte aggiunte in tempi recenti e che risultava in quel momento pericolante; venne scelto Lanfranco che dal racconto sembra provenire da lontano: "ab incolis prefate urbis quesitum est ubi tanti operis designator, ubi talis structure edificator inveniri possit. Donante quippe Dei misericordia, inventus est vir quidam nomine Lanfrancus, mirabilis artifex, mirificus edificator" (Quintavalle, 1991, p. 147).Poste le fondamenta "in latitudine et longitudine", i lavori proseguirono fino a esaurimento dei materiali da costruzione, che furono poi trovati, secondo la Relatio, per ispirazione divina, ma più probabilmente per la localizzazione dell'antica necropoli della Mutina romana, dalla quale sarebbe stato prelevato il gran numero di pezzi archeologici oggi rintracciabile sull'edificio. I lavori quindi ripresero finché Lanfranco stesso nel 1106 si rifiutò di proseguire l'impresa se non fosse stato spostato il corpo del santo.Questo passo è stato messo in relazione dalla critica con i risultati degli scavi compiuti nel 1913, a seguito del rifacimento del pavimento della chiesa, che portarono alla luce le strutture del precedente edificio. Secondo gli autori delle indagini si trattava di una costruzione a cinque navate che, posizionata obliquamente rispetto all'od. duomo, in direzione E-O, sarebbe stata intersecata dal nuovo edificio. Per la tipologia dei sostegni interni, la prima cattedrale veniva riferita al vescovo Eriberto e ancorata al 1070 ca., ovvero a una data assai prossima al 1099, epoca del totale rifacimento. Dopo un così breve lasso di tempo un intervento di tali dimensioni non poteva essere giustificato se non con motivazioni politiche, con l'esigenza cioè di far rinascere il duomo come simbolo di alleanza con Roma, abbandonando quello vecchio, legato alla figura del vescovo scismatico; venivano però in questo modo ignorate le specifiche della Relatio che davano il primitivo edificio come pericolante.È quindi scaturita l'ipotesi che al momento della richiesta di Lanfranco fosse ormai conclusa la cripta dove poter riporre il corpo del santo e soprattutto che da questa traslazione dipendesse la prosecuzione dei lavori, evidentemente ostacolata dalla presenza del presbiterio della vecchia chiesa, non ancora demolito perché appunto contenente le reliquie. Frankl (1927) per primo aveva dedotto che l'edificio fosse stato innalzato contemporaneamente dalla facciata e dalle absidi e, a riprova di ciò, Salvini (1966) aveva portato sia alcune incongruenze sulla muratura dei fianchi - dovute probabilmente alla necessità di saldare e quindi di adattare i due nuclei costruiti in contemporanea - sia la presenza delle iscrizioni, posizionate appunto sui due poli opposti. Peroni (1989, p. 86) ha sostenuto questa tesi, ipotizzando inoltre anche una corresponsabilità architettonica per Wiligelmo in facciata e per il Maestro delle Metope su alcuni settori dei fianchi, giustificata dal fatto che "ci sono pezzi di relativa coerenza dove l'affermarsi di grandi personalità di scultori si accompagna con una standardizzazione dell'apparecchiatura e delle modanature che fa intravedere una concomitante maturazione di specializzazione delle maestranze, e insieme di coordinamento progettuale e programmatico".Gandolfo (1989) ha ribaltato i termini della questione analizzando nuovamente, punto per punto, i resoconti dello scavo e le quote dei singoli elementi, e stabilendo come la struttura a cinque navate sia pertinente a un atrio aggiunto nel sec. 11° a un edificio altomedievale, orientato allo stesso modo dell'attuale e strutturato probabilmente su tre navate, dal momento che l'area occupata da cinque navate non sarebbe potuta essere contenuta all'interno della costruzione lanfranchiana e che un impianto di questo genere risulterebbe essere totalmente anomalo in ambito altomedievale. Sarebbe così motivata anche la notizia della Relatio che specifica come la ricostruzione di Lanfranco si fosse resa necessaria perché l'edificio sarebbe stato fatiscente, nonostante le aggiunte, recenti rispetto a quel 1099; si tratterebbe infatti, in ultima analisi, della fabbrica altomedievale - e non quindi del tempo di Eriberto - alla quale sarebbe stato aggiunto l'atrio appunto nell'11° secolo. Verrebbe poi spiegato con questa tesi anche l'altro passo della Relatio che specifica come le fondamenta di Lanfranco fossero state poste "in latitudine et longitudine", cioè lungo tutto il perimetro e non interrotte in corrispondenza della sporgenza del corpo obliquo; del resto Sandonnini (1983) non aveva trovato durante i lavori per il pontile e il pulpito traccia di muri di incatenamento trasversali (Gandolfo, 1989, p. 43).Il rifiuto di Lanfranco di portare avanti l'opera - motivato dunque dall'impossibilità di proseguire i lavori internamente - sollevò, sempre secondo la Relatio, un acceso conflitto, anche questo letto oggi in chiave politica perché avvenuto fra i sostenitori del nuovo vescovo Dodone, che volevano il reinserimento di M. nella Chiesa romana, e quelli ancora legati al partito scismatico di Eriberto, morto pochi anni prima (Quintavalle, 1991, pp. 147-148). La situazione si risolse a favore di Lanfranco: fu fissata la traslazione delle reliquie al 30 aprile 1106; si procedette alla demolizione dell'antica chiesa compresa all'interno del nuovo edificio e, cinque mesi dopo, l'8 ottobre, alla consacrazione dell'altare, per la quale si attese, su consiglio di Matilde di Canossa, la visita di papa Pasquale II, probabilmente per sancire la sottomissione della Chiesa modenese a quella romana; "insomma Matilde, proponendo la soluzione della immediata traslazione ma della posticipata consacrazione dell'altare impone, di fatto, la distruzione del vecchio edificio che, senza le reliquie del santo, non aveva alcuna ragione di sussistere" (Quintavalle, 1991, p. 156).Al 1106 era completata la cripta, ma erano ancora assenti i pilastri interni, le arcate trasverse e il cleristorio: il cantiere sarebbe rimasto quindi aperto per Gandolfo (1989) ancora diversi anni, per Quintavalle (1991) fino al 1110-1115 ca., mentre per Peroni (1984a) molto più a lungo, fino al 1137, anno in cui un magister Lanfrancus sottoscriveva un atto nel capitolo della cattedrale. Questa dilatazione dei tempi relativi all'attività di Lanfranco al duomo ha permesso a Peroni (1984a) di attribuire all'architetto anche responsabilità amministrative acquisite negli anni - sulla scia delle competenze di Buscheto al duomo di Pisa - e una variante in corso d'opera, il profilo acuto degli archi trasversi della navata. L'altro grosso cambiamento di progetto, riferibile a Lanfranco, fu la rinuncia all'esecuzione sulle navatelle laterali di una galleria praticabile su solaio ligneo, che comportò al contrario l'esecuzione dello "stesso apparato di loggette e di arcature previsto per la navata centrale" (Peroni, 1984a, p. 158).La Relatio osanna l'opera di Lanfranco, ma non menziona Wiligelmo, per il quale è stata proposta una chiamata in un momento leggermente successivo all'inizio lavori, perché la prima maestranza, attiva alla cripta, prima parte compiuta dell'edificio, e quindi contemporanea alla venuta di Lanfranco, sembra essere stata di cultura lombarda; Lanfranco cioè sarebbe stato espressione del Capitolo e del popolo, Wiligelmo del vescovo Dodone (1101) e quindi della Chiesa di Roma (Gandolfo, 1988, p. 290). Peroni (1985) a proposito della cripta ha però rilevato che essendo stata notevolmente alterata in più occasioni, non è possibile conoscere con certezza la provenienza dei pezzi più arcaici, cioè di quelli appunto di ambito lombardo, che potrebbero anche non appartenere al cantiere lanfranchiano. Lo studioso ha individuato come prima fase scultorea quella delle absidi minori e ha ipotizzato che durante l'arco di tempo considerato dalla Relatio non fosse ancora adeguatamente riconosciuta la personalità di Wiligelmo (Peroni, 1984a, p. 143).Effettivamente la revisione delle fasi costruttive, e di conseguenza di quelle cronologiche, comporta secondo Gandolfo (1989, p. 43) una rilettura dei tempi scultorei, in quanto dalla contemporaneità tra le strutture murarie consegue "una ipotesi di attività sincronica, specie tra le diverse personalità scultoree presenti nel cantiere, piuttosto che il consueto riconoscimento diacronico che una analisi basata sulle differenze di stile in genere comporta". Su questa possibilità è tornato Quintavalle (1991), discutendo sull'opera delle personalità attive al duomo, nella visione però estremamente più allargata di officina medievale, dove è possibile l'individuazione di alcuni magistri, inseriti in un comune progetto, e ponendosi in questo modo in contrasto con la precedente letteratura che, incentrata su Salvini (1956), riconosceva come attiva alla scultura del duomo una serie di maestri, enucleabili all'interno di tre grandi gruppi: una prima maestranza lombarda, gli scultori condotti da Wiligelmo e un terzo nucleo di cultura borgognona. Il problema centrale resta per Quintavalle (1991) quello del Maestro delle Metope, identificato con lo stesso Wiligelmo, che con quest'opera chiuderebbe la sua attività a M. intorno agli anni 1110-1115; Peroni (1985) data la conclusione del programma scultoreo, così come dei lavori architettonici, intorno al 1130-1140, attribuendola al Maestro delle Metope, identificato però non con Wiligelmo, ma con una delle varie personalità attive al programma; lo studioso segue di fatto l'impostazione di Salvini (1956), individuando più figure artistiche, ma ricostruendone in modo diverso profilo e ascendenze culturali.Questo indirizzo secondo Quintavalle (1991) ha il limite di presupporre più campagne costruttive su un paramento al contrario omogeneo e, nello stesso tempo, di scaglionare l'attività dello scultore, pur essendo questa perfettamente coerente, nell'arco di quattro decenni per adeguarla a quel 1137, solamente dopo il quale si chiuderebbe l'opera di Lanfranco; inoltre accettare la proposta di un cantiere aperto e operante fino a questa data significherebbe anche mettere in crisi tutto il sistema che ruota intorno al duomo di M. e che da questo è stato permeato.Il progetto lanfranchiano, se a un'analisi dettagliata dei suoi elementi risulta come una summa di caratteri definibili anche singolarmente, va comunque considerato nel suo insieme. Le componenti culturali sono note: la rinuncia alle volte o meglio la scelta consapevole di adoperare una copertura a tetto su archi trasversi, impostata però su un sistema alternato, e la scansione delle navatelle con porzioni di pareti, traforate da bifore, costituiscono infatti sicuri rimandi alla Lombardia di S. Maria Maggiore a Lomello (1025 ca.), individuata anche come il tramite dell'architettura normanna (Jumièges, Notre-Dame). Anche i contatti con Pisa vanno sempre più delineandosi e chiarendosi. Tali componenti culturali, se analizzate singolarmente, rendono riduttivo l'apporto dell'architetto, il quale tuttavia ha creato una sorta di linguaggio, peraltro non recepito sul territorio in modo sistematico, ma come 'echi ravvicinati' (Sagra di Carpi, abbazia di Nonantola), con la sola eccezione della cattedrale di Ferrara del 1135, che ne costituisce il diretto conseguente.Di ben diversa portata sembra essere stata l'impronta lasciata dalla cultura di Wiligelmo sull'ambiente padano, dove i riflessi della sua scuola sono chiaramente leggibili nei cantieri del 1107 e del 1129 della cattedrale di Cremona, nel portale dell'abbazia di Nonantola, nella cattedrale di Piacenza (1122), nell'abbazia del Polirone a San Benedetto Po.Con Lanfranco e Wiligelmo la costruzione del duomo era comunque arrivata al suo compimento. Basandosi su un'errata interpretazione di una epigrafe graffita sulla Ghirlandina, la critica, in passato, posizionava intorno al 1160-1165 l'inizio dell'attività alla cattedrale di M. di una nuova bottega, i Campionesi (v.), che appunto a questa data avrebbero edificato la torre fino a una certa altezza ed eseguito il pontile all'interno del duomo. Sulla nuova interpretazione di questa iscrizione - che pone le sculture del campanile al 1169 (Montorsi, 1976) e colloca entro questa data i primi cinque piani della torre - e su una revisione cronologica della genealogia dei Campionesi, è stata individuata come attiva al duomo (Grandi, 1984), dopo Lanfranco e prima dei Campionesi, un'altra maestranza di cultura piacentino-emiliana, a cui andrebbe riferito, a ridosso della consacrazione del 1184 (documentata da un'iscrizione incisa sulle pietre del lato meridionale, tra porta dei Principi e porta Regia), anche il pontile (Gandolfo, 1992). Ai Campionesi, legati per generazioni alla fabbrica, ma solo dal tempo del massaro Alberto (1190-1208), cioè dagli anni 1190-1200, sono riferibili, più o meno in successione dagli anni del massaro Bozzalino: l'ambone, la recinzione del coro, l'altare con la sopraelevazione del presbiterio e il transetto, nel 1231 la porta Regia, nel 1261 le torrette cuspidate, poi demolite, della Ghirlandina e nel 1319 il suo coronamento, che, con il pulpito del 1322 nella navata sinistra, chiude con Enrico la serie dei Campionesi di Modena.Nel Mus. Lapidario del Duomo è conservato, oltre alle già citate metope, un nucleo consistente di pezzi altomedievali, riferibili con probabilità alle precedenti fasi costruttive della cattedrale, poste in relazione con gli episodi salienti della storia della città (Trovabene Bussi, 1984a) nel periodo compreso tra la metà del sec. 8° - epoca di Liutprando e del vescovo Lopiceno, il cui nome figura su di un frammento (inv. nr. 87), che costituisce per questo l'unico elemento databile della serie - e la fine del 9° o gli inizi del 10°, quando i vescovi avevano ormai acquisito anche i diritti comitali.Si tratta di elementi con cronologie diverse per i quali è stata proposta una ricomposizione come recinto presbiteriale, all'interno del quale avrebbero trovato collocazione un altare - il cui unico frammento superstite è stato individuato senza certezze nel pezzo di Lopiceno - e, in possibile posizione esterna, un baldacchino, appartenente a un ciborio o a una vasca battesimale, un ambone, di cui rimane il lettorino (inv. nr. 84), e altri frammenti di più difficile inserimento.Con questo complesso Trovabene Bussi (1984a) ha messo in relazione anche le due splendide lastre (inv. nrr. 67-68), per le quali la vecchia ipotesi di utilizzo come sarcofagi (Kautzsch, 1941) è stata rivista in rapporto ai plutei di Pavia (Civ. Mus.), con i quali sono stati istituiti raffronti convincenti anche dal punto di vista stilistico, permettendo la collocazione dei pezzi modenesi nell'ambito della 'rinascenza liutprandea' della metà del sec. 8° (I Longobardi, 1990; v. Longobardi).Nel tesoro del duomo, collocato nella sala capitolare, è conservato l'altarolo di s. Geminiano, in legno, rivestito in lamine d'argento con rilievi dorati a sbalzo, sorretto da quattro supporti a teste coronate su zampe leonine. Sui due lati lunghi compaiono sei apostoli, su quelli corti una Madonna in trono affiancata da due santi e Cristo in trono tra i ss. Geminiano e Nicola; le figure sono inserite in scomparti delimitati da colonnine e incorniciati da un fregio continuo a niello, con elementi fogliacei e iscrizione. Un'altra epigrafe è visibile sui bordi a lamina d'argento della copertura in marmo serpentino. Per questo altarolo, databile tra la fine del sec. 11° e l'inizio del 12°, di particolare pregio per la sua tipologia 'a cassettina', è stata proposta la committenza della stessa Matilde (Cecchi Gattolin, 1984; Lanfranco e Wiligelmo, 1984).

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