MICHELANGELO Buonarroti

Enciclopedia Italiana (1934)

MICHELANGELO Buonarroti

Pietro Toesca

Nacque il 6 marzo 1475 a Caprese la cui podesteria, insieme con quella del vicino castello di Chiusi in Casentino, era allora tenuta per Firenze dal fiorentino Lodovico di Leonardo di Buonarroto Simoni, suo padre; morì a Roma il 18 febbraio 1564.

I fatti esteriori della sua vita e della sua attività, e molti anche più intimi, in gran parte già raccolti lui vivente dai suoi biografi, sono accertati copiosamente da documenti, o dai suoi scritti: e qualche volta hanno richiamato l'attenzione più all'uomo che alla sua arte. Di certo, in M. le sue qualità morali e intellettuali sembrano necessità alla sua arte: né si può vedere l'artista senza pensare all'uomo, assorto ognora più in una concezione austera della vita, che lo rese severo non meno a sè che agli altri, vigilato da una coscienza religiosa che gli strappò gridi di dolore, confidati ai suoi versi e alle sue lettere, preso tutto dal fervore di operare e tante volte contrastato nei suoi disegni. Ma, se ciò ha dato occasione agli storici, e anzi alla critica, d'illuminare in modo drammatico la figura di M., facendola anche campeggiare su un grande scenario storico, ben più importa - e qui è necessario - vedere l'opera del maestro quasi al di sopra delle contingenze esteriori, fra cui già ai contemporanei essa parve rivelazione di uno spirito sovrano. Fuori delle contraddizioni, fuori delle ombre, troppo care alla comune curiosità biografica, nell'arte M., come il Cristo da lui disegnato per la Resurrezione, si libera dal suo tempo e da ogni spoglia caduca, esalta e trascende nell'eterno l'umanità.

La vita. - Esordî (1475-1494). - Portato subito da Caprese a Firenze, M. vi passò tutta la prima giovinezza. Fanciullo, poco attese a grammatica. L'inclinazione al disegno, presto manifestata, persuase il padre a collocarlo (1488) per allievo presso Domenico Ghirlandaio: ma presto (1489) M. lasciò quel maestro per passare nel giardino mediceo, presso S. Marco, dove Lorenzo il Magnifico aveva raccolto statue antiche e altre opere d'arte, ponendovi Bertoldo, lo scolaro di Donatello, ad addestrare i giovani, specialmente nella scultura. Il giovinetto, tenuto in casa (1490-1494) come figliolo da Lorenzo, e poi da Piero de' Medici, fu amato e consigliato dal Poliziano; ma sperimentò anche l'invidia del Torrigiano, uno dei suoi compagni di studio, e n'ebbe fratturate con un pugno le canne nasali, restandone segnato per sempre nel viso. Morti il Magnifico e il Poliziano, presentendo l'imminente cacciata di Piero de' Medici, M. riparò a Bologna e a Venezia.

Opere di questo periodo, scomparse in parte, ma ricordate dal Condivi e dal Vasari, futono disegni varî (alcuni copie o contraffazioni del Ghirlandaio e d'altri maestri; uno di veduta dei ponti per gli affreschi nel coro di S. Maria Novella); un dipinto, perduto, dalla stampa delle Tentazioni di S. Antonio di Martino Schongauer; la contraffazione in marmo d'una antica testa di fauno (perduta); i rilievi della Zuffa coi Centauri e della Madonna della Scala (Firenze, Casa Buonarroti); una statua d'Ercole, passata da palazzo Strozzi in Francia, a Fontainebleau, e poi perduta; una statua di neve nel cortile del palazzo mediceo; un Crocifisso di legno per l'altar maggiore di S. Spirito (perduto).

Intermezzo (1494-1501). - Dopo brevissimo soggiorno a Venezia, M. stette a Bologna sino al principio del 1495, ospite di Francesco Aldrovandi, che si dilettava di udirlo leggere Dante e altri poeti toscani: vi lavorò per l'arca di S. Domenico un Angelo e le statuette di S. Petronio e di S. Procolo. Ritornato a Firenze, dopo avervi modellato in marmo un S. Giovannino e un Amorino dormente (entrambi sono perduti), nel quale contraffece tanto l'antico che un mercante riuscì a ingannarne il compratore, il cardinale Riario, da questi fu chiamato a Roma (1496): vi disegnò un cartone con le Stimmate di S. Francesco (perduto); eseguì per Jacopo Galli il Bacco (Firenze, Museo nazionale) e un Cupido, per il cardinale de Villiers, tra il 1498 e il 1501, la Pietà (S. Pietro in Vaticano), che gli diede grandissima fama.

A Firenze (1501-1505). - Di ritorno da Roma (1501), M. ebbe importanti commissioni: dal cardinale Francesco Piccolomini, di 15 statue per un suo altare nel duomo di Siena, delle quali eseguì soltanto quelle dei Ss. Pietro, Paolo, Pio e Gregorio (1501-1504); dall'Arte della Lana, del David gigantesco, presto compiuto (il lavoro era a metà nel febbraio del 1502; quasi finito un anno dopo) e nel 1504 collocato sulla scala dinnanzi al Palazzo della Signoria. Nel 1502 la Signoria gli commise un David di bronzo, grande al naturale, ispirato a quello bronzeo di Donatello; ma il getto ne fu rifinito soltanto nel 1508, da Benedetto da Rovezzano, e allora inviato in Francia andò poi perduto (il Condivi accenna a un'altra statua di bronzo, anch'essa poi scomparsa, commessa a M. dal Soderini). Nel 1503 l'opera del duomo gli allogava dodici grandi statue degli Apostoli, col patto di costruirgli una casa in Borgo Pinti presso la chiesa dei cisterciensi; ma M. non cominciò che il grande abbozzo del S. Matteo, ora all'Accademia di Firenze. Nel 1504, avendo già avuto Leonardo l'incarico di dipingere parte della sala grande del Consiglio in Palazzo Vecchio, M. ebbe quello della pittura a riscontro: cominciò allora il cartone della Guerra di Pisa (Battaglia di Cascina), compiuto nel 1506 e presto disperso in brani dagli artefici che lo copiavano. Aveva intanto gettato in bronzo (Condivi e Vasari), un "tondo" della Madonna col bambino in grembo che nel 1506 fu mandato a Bruges, dove invece si trova una sua Madonna col bambino di tutto tondo, in marmo (a Notre-Dame); in marmo aveva scolpito due altri tondi della Madonna col bambino e S. Giovannino (Londra, Accademia; Firenze, Bargello), aveva dipinto il tondo della Sacra famiglia (Firenze, Uffizî) per Angelo Doni; e da ultimo, rallentata la foga del lavoro, si era dato a leggere poeti e a far sonetti.

Con Giulio II (1505-1513). - Giulio II volle per sé l'artista famoso: lo chiamò a Roma (1505), lo incaricò del proprio mausoleo, approvandone il progetto, in forma di edicola isolata da collocare nell'abside dell'erigenda nuova basilica vaticana; lo mandò alle cave di Carrara per scegliervi i marmi. A Carrara, dove rimase otto mesi, M. vagheggiò di dar forma di colosso, che apparisse da lungi ai naviganti, a un gran masso sulla vetta d'un monte. La vastità dei progetti cresceva animo all'artista. Ma, tornato a Roma, trovò mutato Giulio II, rivolto ad altre imprese, e già al proposito di fargli dipingere la vòlta della cappella Sistina; sdegnato, e forse intimorito dai rivali, M. partì d'improvviso per Firenze (1506), invano inseguito dai messi e dalle minacce del papa, cui rispose fieramente. A Firenze attese a compiere il cartone della Battaglia di Cascina, poi, mosso da nuove sollecitazioni del papa e del Soderini, che lo dissuase dal recarsi a servire il Gran Turco, si presentò (novembre 1506) in Bologna a Giulio II che allora aveva preso con l'armi la città: n'ebbe il perdono e la commissione di ritrarlo con la spada in una statua di bronzo da porre sulla facciata del S. Petronio. A Bologna si trattenne fino al principio del 1508 per quel lavoro, poi distrutto nel 1511. Richiamato a Roma, invano cercò di sottrarsi alla volontà del papa ch'egli affrescasse la vòlta della cappella Sistina: sospettava che il grave incarico fosse consigliato a Giulio II dagli intrighi del Bramante; affermava la propria incapacità di pittore, suggerendo di valersi piuttosto dell'opera di Raffaello; infine, dovette intraprendere il grande lavoro (maggio 1508). Presto rinviati a Firenze i frescanti che aveva chiamato per aiuti, da solo attese all'opera gigantesca, torturato anche fisicamente dalle difficoltà materiali di dipingere supino, guardando all'insù, com'egli stesso descrive in un sonetto: e già nel settembre del 1510 aveva compiuto una prima parte della vòlta, nell'ottobre del 1512 anche il resto.

A Firenze e a Roma (1513-1534). - M. mai non aveva tralasciato di pensare ai lavori del mausoleo di Giulio II, dai quali era stato stornato per gli affreschi della Sistina; e già aveva disposto l'acquisto, poi concluso, d'una casa al Macel de' Corvi - presso l'area del Foro Traiano -, dove raccogliere e lavorare i marmi, quando il papa morì. Ricominciò allora quella ch'egli disse la "tragedia della sepoltura": i tormentosi contrasti, l'abbandono della prima grande idea, le successive rinunce ad altri progetti sempre minori fino a ridursi alla tomba di San Pietro in Vincoli, non compiuta che nel 1545. Né mancarono a M. le accuse di avere abusato dei denari datigli da Giulio II, ond'egli protestava di averci rimesso, "legato a questa sepoltura", "tutta la giovinezza, et l'honore et la roba" (v. più oltre, per la storia particolare dei progetti e del monumento). I successori di Giulio II sollecitavano M. ad altre opere e lo distraevano da quel lavoro, cui pur egli si rivolgeva di continuo, attendendovì ora a Firenze ora a Roma. Leone X gli commise (1518) di costruire e ornare di statue la facciata del S. Lorenzo a Firenze, per cui M. aveva già fatto disegni e modelli (1517) e poi raccolto marmi; ma presto sciolse il contratto (1520): poi gli ordinò (1521) di erigere la sagrestia nuova di S. Lorenzo destinata a sepolcro mediceo, lavoro fattogli proseguire fino al termine (1534) da Clemente VII che intanto gli faceva costruire la Biblioteca Laurenziana (iniziata nel 1524) e pensava di fargli fare una statua colossale sul canto del palazzo mediceo, un ciborio per S. Lorenzo e altro.

Sopraggiunse il sacco di Roma (1527): M., quasi presentendolo, si era recato a Firenze. Quivi, dopo la cacciata dei Medici, l'artista dié opera a fortificare la città e le sue terre; ma, messo in sospetto dell'imminente tradimento di Malatesta Baglioni, e avendone invano avvertiti i magistrati (lo afferma il Condivi con l'evidente scopo di scagionare M. dalla taccia ch'egli ebbe per il precipitato abbandono di Firenze), riparò d'improvviso a Ferrara, indi a Venezia (ottobre 1529), dove progettò di passare in Francia. Bandito da Firenze, presto vi ritornò con salvacondotto; ne riprese le fortificazioni mentre pur lavorava per le tombe medicee e dipingeva una Leda. Tornati i Medici, ebbe perdono da Clemente VII portando innanzi le tombe medicee e attendendo ai lavori che più premevano al papa: la Biblioteca e il pergamo delle reliquie in S. Lorenzo. Poi, poco fidando nel duca Alessandro, e d'altra parte sollecitato dal papa, nonché dalla necessità di condurre a termine la tomba di Giulio II nei modi stabiliti da un nuovo gravoso contratto, tornò a Roma nella sua casa al Macel de' Corvi (1532), alternandone il soggiorno con lunghe dimore a Firenze dov'era richiamato dai lavori della Biblioteca e delle tombe. Strinse allora amicizia, piena di fervente ammirazione, a Roma col giovane Tommaso Cavalieri, a Firenze col giovane Febo di Poggio.

A Roma (1534-1564). - Nel 1534 M. lasciò per sempre Firenze. Giunse a Roma l'antivigilia della morte di Clemente VII; e il nuovo papa non tardò a impegnare per sé il maestro facendogli ancora ridurre la parte ch'egli avrebbe dovuto eseguire di sua mano nella tomba di Giulio II. Paolo III volle che M. subito attuasse il progetto, già meditato negli ultimi tempi di Clemente VII, di affrescare il Giudizio Universale nella Cappella Sistina (1534-1541); lo nominò (1535) architetto, scultore e pittore di Palazzo; gli fece dipingere (1541-1550) nella cappella Paolina, in Vaticano, la Conversione di S. Paolo e il Martirio di S. Pietro. Mentre queste grandi imprese costringevano M. a lasciare sempre più in mano di aiuti i lavori della tomba di Giulio II, egli non poteva rifiutarsi ad altre opere minori: fornì modelli per una saliera e per un cavallo al duca di Urbino; sbozzò largamente il busto di Bruto a intenzione dell'esule Donato Giannotti; favorì cartoni al Vasari; disegnò (1544) la tomba per Cecchino Bracci, all'Aracoeli; fece disegni per donarli a Vittoria Colonna, che dal 1538 fino alla morte (1547) gli fu amica severa, appassionatamente venerata: e con lei, e con altri, scambiava madrigali e rime. Morto Antonio da Sangallo il Giovane (1546), M. gli succedette nella fabbrica del palazzo Farnese per il cui cornicione già aveva fornito il modello, a preferenza di altri concorrenti; e fu nominato architetto di S. Pietro (1547). La sua attività si rivolse allora soprattutto all'architettura. Aveva già progettato, forse nel 1546, una nuova sistemazione del Campidoglio, poi attuata in parte con la sua direzione, e seguitata con varianti dopo la sua morte. Riconfermato da Giulio III (1552), da Paolo IV (1555) e infine da Pio IV (1559), nella carica di architetto di S. Pietro, resistette alle insistenze di Cosimo I perché tornasse a Firenze: ormai più che ottantenne, su tutto gli premeva condurre innanzi la fabbrica di S. Pietro. Errori incorrevano nella costruzione mentr'egli per l'età più non poteva seguirne il procedere: e doveva difendersi dai malevoli e dagli emuli. Seguitò nondimeno fino all'ultimo a moltiplicare la sua attività: diede il modello di una nuova scala al nicchione del cortile di Belvedere (1550) e per la facciata di un palazzo a Giulio III (1551) e disegni (1559) per la chiesa di S. Giovanni de' Fiorentini a Roma, poi non eseguiti; scolpì una Pietà, poi tralasciata (Firenze, duomo); fornì ancora modelli (1559) per la scala della Biblioteca Laurenziana di Firenze; consigliò Daniele da Volterra per la statua equestre di Enrico II (1559); disegnò (1560) a Leone Leoni l'architettura del monumento a G. Giacomo de' Medici nel duomo di Milano; fece disegni per Porta Pia (1561) e per altre porte di Roma, per il ciborio di bronzo, eseguito da Jacopo del Duca a S. Maria degli Angioli per il cui adattamento nelle Terme aveva dato il progetto; fino ai suoi ultimi giorni si mostrò infaticato nel disegnare e nello scolpire (Pietà "Rondanini").

Morto il maestro (18 febbraio 1564), mentre si faceva subito l'inventario delle poche cose d'arte - disegni, cartoni e sculture - della casa al Macel de' Corvi, il suo corpo fu deposto nella chiesa dei Ss. Apostoli, intendendo il papa di dargli sepoltura a Roma; poi, quasi trafugandolo, fu portato a Firenze; ebbe in S. Lorenzo dall'Accademia del disegno solenni esequie, recitando l'orazione funebre B. Varchi: è in S. Croce dove G. Vasari disegnò il monumento eseguito da Battista Lorenzi che vi modellò il busto di M. e la statua della Pittura a cui si accompagnano l'Architettura di Giovanni Bandini e la Scultura di Valerio Cioli.

I ritratti contemporanei di M. rappresentano tutti il maestro già in età matura o tarda. Il Vasari ricordò quelli modellati da Leone Leoni, in medaglia (1561), e da Daniele da Volterra in tutto tondo, quelli dipinti da Jacopo del Conte e dal Bugiardini. Ma in ogni aspetto, e nei casi maggiori della sua vita, volle M. Buonarroti il Giovine far ritrarre (1620) il grande avo nella serie dei dipinti che ornano la galleria della sua casa (Firenze, Via Ghibellina) dove sono custodite, accanto a molti disegni, tante inesplorate carte michelangiolesche.

Sembra che M. abbia ritratto sé stesso - oltre che nel Giudizio universale, con bizzarra arguzia, nella spoglia di S. Bartolomeo scorticato - nel Nicodemo della Pietà di Firenze, grande dolorosa figura. Il suo volto, a noi familiare come quello di Dante, non meno di questo portava il segno profondo di certi tratti del suo carattere: ossuto e forte, la durezza n'era temperata dal tormentato profilo che ricordava l'ingiuria giovanile del Torrigiano ma più esprimeva una costante amaritudine.

Il carattere dell'uomo, lumeggiato dalla tradizione, dai biografi e in primo luogo dalle lettere e dai versi di lui, potrebbe apparire diminuito da contraddizioni in qualche caso della vita, se non si veda nella qualità fondamentale che lo regge e lo giustifica in tutto.

M. fu sovranamente artista, creatore. Il suo mondo interiore, dove senso e fantasia ricomponevano e interpretavano l'essere e il destino, lo dominò e impose al di sopra d'ogni altra cosa, ad ogni suo atto, la necessità di esprimerlo: solo per questo, cioè nel proprio spirito e per estrinsecarlo nell'arte, visse e operò M.; era effimero tutto il resto, transitorio intorno a lui ed è passato: ma l'opera sua rimane per l'umanità. Egli stesso affermò quella sua necessità: per l'arte aveva rinunciato a "tor donna"; l'arte gli era stata "idol e monarca". E nulla meglio rivela la sua aspirazione a creare, che l'"invidia" di Dante:

fuss'io pur lui! c'a tal fortuna nato

per l'aspro esilio suo, con la virtute,

dare' del mondo il più felice stato.

Divennero per lui "tragedie" i casi esteriori che facevano ostacolo alla sua opera di creatore, e su tutti le vicende della tomba di Giulio II; cercò di evitarli quando ne fu minacciato, difendendo la propria vita interiore dal tumulto della vita comune, a cui non era chiamato; e come riparò lontano alla prima caduta dei Medici, così all'avvicinarsi della soldataglia spagnola (1556) si allontanò da Roma verso Loreto e, fermatosi a Spoleto, pensò di trovar pace nei boschi di Monte Luco. Ma all'arte diede ogni forza, in una tensione di volontà eroica: fino a sfinirsi dipingendo la vòlta della cappella Sistina: fino a dimenticare sé stesso. È facile intendere quale tedio potesse venirgli dalle cose ordinarie che lo toglievano all'arte, benché da fiorentino bene vigilasse il frutto del suo lavoro; quanto amasse la solitudine; e il suo sprezzo per gl'inetti, mentre lo commoveva ogni virtù di bene operare anche in umili persone. Al disdegno che lo portò sovente a motti acerbi, e talvolta ingiusti, si contrapponeva in lui un'impetuosa facoltà di amare. Amore nasceva in lui da qualunque forma gli suscitasse nell'animo e nella fantasia un'immagine superiore di bellezza: amava - ricorda il Condivi - non soltanto "la bellezza umana, ma universalmente ogni cosa bella, un bel cavallo, un bel cane, un bel paese, una bella pianta, una bella montagna, una bella selva, ed ogni sito e ogni cosa bella e rara nel suo genere, ammirandole con meraviglioso affetto". Già "a capo bianco" amò donna bella e aspra, dolendosi della propria vecchiezza. Ma la sua mente, che dai poeti e dalla cultura del Rinascimento aveva fatto proprie le dottrine platoniche, voleva ascendere dal sensibile all'idea; bellezza e amore, purificato anche tormentosamente da ogni scoria (e n'è traccia nei versi), dovevano essere tramite a Dio. Il volgo sussurra delle amicizie con Tommaso Cavalieri, e con altri; M. segue il desiderio degli occhi "vaghi delle cose belle" da cui traeva luce e ispirazione all'arte. E fu tutto amore intellettuale, che pur divenne anche pena, quello per Vittoria Colonna.

Dal carteggio di M. vengon fuori cose che tratteggiano più vivamente la sua figura: l'affetto per la famiglia, pronto ai soccorsi e ai rimbrotti; il pensiero di acquistare denari e poderi; qualche debolezza come la supposta vantata discendenza dai conti di Canossa, subito riscattata dalla nobile alterigia di non aver mai fatto bottega dell'esercizio dell'arte; il rimpianto quasi morboso per il fedelissimo Urbino che lungamente lo aveva servito. Anche dagli aneddoti del Condivi e del Vasari, dal dialogo di Donato Giannotti (De' giorni che Dante consumò nel cercare l'Inferno e il Purgatorio, Firenze 1859), balza il carattere del maestro pieno di umanità, ma pronto alla ritorsione e al sarcasmo, forte della propria "virtù". Più importa vedere negli scritti di M., e soprattutto nei versi, rivelarsi affetti profondi che dominarono sempre più imperiosi l'animo di lui: il sentimento religioso cristiano, nutrito dalle letture sacre; il pensiero della morte, non paventato ma ognor più invadente. S'ingrandivano quei sentimenti nel temperamento stesso di M. che gli scritti dimostrano chiuso agli aspetti sorridenti della vita, pronto a sentire in ogni cosa le aspirazioni deluse e il dolore, destinato a comporsi quella visione tragica dell'essere da cui l'eroica energia dell'artista trasse non pianti ma capolavori. Di tutto, anche della tormentosa concezione della vita, l'artista trionfò: fu dei maggiori poeti del dolore umano; ma da questo parve sorgere più forte a manifestare la potenza dello spirito che non si piega ma opera e crea.

Le opere. - Nato per la scultura, com'egli stesso affermava, M. rivelò il suo genio non meno nella pittura e nell'architettura; e alle tre corone, che gli furono attribuite dai discepoli come simbolo di quelle arti, un'altra sempre più gli si vuole aggiungere, quella di poesia, non trascurabile per certo ma incomparabilmente minore, anche se nei versi si scoprano meglio alcuni aspetti della sua mente e del cuore.

Gli scritti. - Fin da giovane, e poi costanti, furono in M. l'amore per la poesia e lo studio del verseggiare, qualche volta mossi dall'ispirazione, di frequente dall'ingegnosità. Ventenne, a Bologna, egli si era dato alla lettura dei poeti volgari; e fra questi Dante dovette essergli poi sempre compagno, anche se sia leggenda ch'egli ne abbia illustrato di disegni una copia del poema, perita poi in un naufragio. Della Commedia era stimato sottile commentatore, come si dimostra in quel dialogo di Donato Giannotti; né si contentò di sottoscrivere con altri la supplica (1519) a Leone X per restituire a Firenze le ossa del poeta: si profferì per erigerne in luogo degno la sepoltura. Di altri poeti - del Poliziano e del Berni - anche della poesia popolare e carnascialesca si hanno risonanze, e più frequenti del Petrarca, nei versi di M. Non pochi di questi, è forza riconoscerlo, si levano sul coro dei rimatori petrarcheggianti solo perché esprimono in modo altrimenti deciso la filosofia neoplatonica delle Idee che dànno forma al sensibile, della Bellezza per cui l'uomo intravvede il divino: c'introducono a conoscer meglio la mente di M., ma sono derivati dalla meditazione o dall'ingegnosità, poco dal sentimento. Pure, a volte, tra quelli ecco sonetti, madrigali, frammenti in cui è tanto calore di convinzione, tanta nobiltà di forma, da farne alte opere d'arte. È tra altri un capolavoro di evidenza espressiva e di concluso sviluppo di suoni e di pensiero, il sonetto che fornì argomento d'una elegante lezione di Benedetto Varchi (1546) all'Accademia fiorentina del disegno, specie sul platonismo del maestro:

Non ha l'ottimo artista alcun concetto

ch'un marmo solo in sé non circonscriva

col suo soverchio; e solo a quello arriva

la man che ubbidisce all'intelletto.

Il mal ch'io fuggo, e'l ben ch'io mi prometto,

in te, Donna leggiadra, altera e diva,

tal si nasconde; e perch'io più non viva

contraria ho l'arte al disiato effetto.

Amor dunque non ha, né tua beltate,

o durezza, o fortuna, o gran disdegno

del mio mal colpa, o mio destino, o sorte;

se dentro del tuo cor morte e pietate

porti in un tempo, e che 'l mio basso ingegno

non sappia, ardendo, trarne altro che morte.

E, accanto ai bislacchi epigrammi per la tomba di Cecchino Bracci, moltiplicati da M. per compiacere l'amico suo Luigi del Riccio, vi sono madrigali concettosi, ma così misurati, da non esser meraviglia che gli amici di M. curassero di farli musicare.

Maggior poeta è M. quando, se pur in troppo rari momenti, cede alla forza della passione. S'incalzano allora impetuosi i versi come in un sonetto a Tommaso Cavalieri (S'un casto amor, s'una pietà superna...") correnti a un'ansiosa domanda: si spezzano in singulti nei primi affanni d'amore (come può esser, ch'io non sia più mio? "O Dio, o Dio, o Dio!"); hanno cadenze profonde, lugubri, negli ultimi sonetti senili, occupati tutti dal senso della religione e della morte

l'anima volta a quell'amor divino

ch'aperse a prender noi 'n croce le braccia.

Sempre, anche dove i manoscritti dimostrino più insistente il lavoro della lima, e il maestro vi si mostra pazientissimo, la forma poetica e il concetto di M. mantengono un che di schietto e aspro che li distingue virilmente, pur nelle somiglianze, dalle levigate composizioni degli altri rimatori del Cinquecento. Sovente da versi monchi, da frammenti poi tralasciati, e quasi sbozzati a stento, si ha più viva impressione della forza e dello sforzo del poeta nell'esprimersi: ma è vano il confronto che altri ha osato farne con le sculture di lui sbozzate e non finite, ché a ogni natura d'artista è dato in sorte un modo d'espressione più appropriato d'ogni altro, e se nelle poesie di M. raramente lo sforzo cede a un'immediata attuazione dell'idea, questa è sempre piena nelle sculture, anche materialmente non finite. Troppe volte nel poeta fu raffreddata dalla riflessione e da fattori concettuali quell'ispirazione che nelle sculture si libera da ogni vincolo di tradizione, e trova una forma rispondente soltanto alla sua necessità.

Le lettere di M., documento della sua vita d'ogni giorno nelle relazioni con la famiglia o con altri, e sovente del suo operare nell'arte, sono improntate senza ornamenti dal suo carattere austero, a volte bonario, appassionato sempre; hanno quasi tutte il pregio dell'assoluta spontaneità.

Di un trattato dell'anatomia e dei moti umani che M. fin da giovane si proponeva di comporre, e a cui ripensò da vecchio, non è rimasta traccia nemmeno negli insegnamenti che A. Condivi raccolse dal maestro per pubblicarli.

Le opere nelle arti del disegno. - Nelle arti del disegno M. liberò tutto il suo potere di creatore: la sua ispirazione e volontà non vi conobbero limiti, o si accrebbero nelle difficoltà. a esprimere emozioni la cui profondità ci sgomenta e prende, in un immaginare che esalta la fantasia e sembra non potersi materiare che plasticamente. In quelle si acquietò fino all'estremo la sua anima (né pinger né scolpir fia più che quieti l'anima..."): vi trovò la liberazione fin dal pensiero della morte, eternandovi le proprie energie.

Delle arti M. preferì la scultura: gli pareva l'arte che, dentro i suoi limiti circoscritti, potesse esprimere ogni concetto dell'artista; era quella che meglio rispondeva al suo modo di sentire, derivante certamente dalla tradizione dell'arte fiorentina, da Giotto a Masaccio, ma in lui esaltato a nuova potenza; era l'arte più adatta alla sua visione assolutamente plastica, tutta concentrata sull'uomo, e indifferente a ogni tratto esteriore alla psiche e alle forme umane. Dei modi della scultura M. apprezzò soprattutto il modellare in marmo: gli altri - il plasmare in creta, in cera, il gettare in bronzo - gli parevano fiacchi di fronte al lavoro del marmo. Nei marmi egli pensava virtualmente racchiuse le figure che doveva liberare dall'ingombro della materia, togliendone ogni "soverchio": nella sua mente s'intrecciava all'idea neoplatonica il senso laborioso dello scultore usato al lavoro degli scalpelli. E, sebbene pur si valesse di sbozzatori, era solito modellare egli stesso il marmo; ne aveva tanta passione, che fin negli ultimi suoi giorni dovettero procurargli marmi a soddisfarla; e vi fu chi vide lui, già sessantenne, martellare il marmo gagliardamente, tra nembi di schegge, a rischio d'intaccarlo oltre il giusto. Assaliva con tanto ardore il masso che qualche volta lo scalpello passò il segno e la materia gli venne a mancare: come nella Pietà del duomo di Firenze, e più ancora nell'ultima sua opera, nella Pietà di casa Rondanini. Sembra che sovente non abbia fatto che bozzetti assai piccoli (se ne mostrano in casa Buonarroti, e nel Victoria and Albert Museum di Londra, di contestata autenticità) prima di correre al marmo, ma per le delusioni derivategli da un procedere così impetuoso, egli poi usò (lo attesta il Cellini) fare modelli grandi quanto doveva essere la statua, e ricavarne un disegno della veduta principale, dalla quale poi, e non da ogni lato, egli prendeva a trar fuori dal masso la figura, come attestano i blocchi colossali dell'Accademia di Firenze.

Non poche delle sculture di M. rimasero non finite, per diverse ragioni, alcune esteriori, dipendenti da condizioni pratiche che troncarono il lavoro (Giganti e Prigioni per la tomba di Giulio II); altre forse volontarie, perciò più intrinseche, e da definire (Lotta dei Centauri, uno dei primi lavori; Bruto). Non è dubbio che sempre quelle sculture non finite esprimano al sommo l'arte e il concetto del maestro, e sovente sorpassino nel loro potere emotivo quelle condotte all'ultima finitura. Sembrano esse investite ancora dal potere creatore che le sprigioni dal marmo: e, poiché l'emozione dominante che M. v'impronta è appunto quella dello sforzo e dell'energia costretta, tanto più questo senso si esalta nelle forme che sembrano ancora lottare per essere entro la materia. M. questo sentì; e all'opera del marmo lo attraeva l'ardore di liberare quelle forme dal blocco della pietra più che il piacere di contemplarle in tutto sciolte dalla dura scorza. L'amore delle sculture antiche, grandi anche se frammentarie, spesso più poderose ed espressive se corrose e mozze, come il "torso di Belvedere", poté confermare in lui la pratica di non portare i marmi a finimento. E questo sovente lasciò compiere ad aiuti, procedendo in modo inverso degli altri maestri, che ritoccano da ultimo i marmi lavorati dagli allievi: onde l'ultima rifinitura, non sua, diminuì il vigore nativo del Cristo della Minerva, del Bruto, e forse quello della Vita attiva e della Vita contemplativa nella tomba di papa Giulio. Ma anche per un'altra causa interiore spesso Mi tralasciò di rifinire le sue sculture: per il suo spirito incontentabile, attestato dallo stesso Condivi, e tale che il maestro affermava non potersi giungere all'estremo dell'arte che con l'estremo della vita.

Alla pittura M. attese meno volentieri. Attribuiva ad essa, nella oziosa lunga controversia agitata allora sulla reciproca superiorità delle arti, minor pregio che alla scultura; diceva la scultura tanto meno buona quanto più andasse verso la pittura, e questa tanto migliore quanto più teneva del rilievo: e se finì per riconoscere col Varchi un'identità nelle due arti, fondate entrambe sul disegno, dipingendo espresse il suo senso esclusivamente plastico, non meno che nello scolpire.

Seguitava anche così le tradizioni della pittura fiorentina; ma le innovò a fondo col proprio temperamento di assoluto scultore, trovando nuovi rapporti tra forma e colore.

Coerenti a quel suo sentire, e pertanto veracemente raccolte da Francisco de Hollanda nei suoi artificiosi Dialoghi, sono altre opinioni di M. sulla pittura; il suo disdegno del dipingere a olio e delle minuzie fiamminghe. Abituato ai grandi spazî e alla franchezza dell'affresco, M. poco dipinse su tavola: molti dipinti ideò in cartoni, ma lasciò ad altri il compito di colorirli.

Nell'architettura, benché ricorresse a Vitruvio in una sua relazione a papa Paolo III, M. impresse il proprio carattere coerentemente a tutti gli altri aspetti della sua arte, anche quando da principio sembrò voler mantenere in parte la tradizione brunelleschiana; e nei suoi ultimi anni, tutto assorto nel costruire, innovò con crescente originalità le forme architettoniche, modellandole con tanta forza di membrature e di movimento da uguagliare il vigore plastico delle sue sculture.

Le opere di M. nelle tre arti formano la vera storia della sua vita, che tutta fu nell'operare; discoprono e dànno modo di seguire il suo spirito, al di sopra degli eventi esteriori. Molte di esse si rivelano non pure in sé compiute ma nella loro preparazione, spesso remota, entro l'animo e la mente dell'artista: nei disegni.

M. fu appassionato disegnatore, forse più d'ogni altro artista fiorentino, e pareggiato soltanto da Leonardo. Il disegno com'egli lo intese, era il mezzo più semplice e più spontaneo a esprimere le sue impressioni plastiche, a liberarle dalle accidentalità dell'ambiente, a ricercarne le ragioni interiori nella struttura e nei moti delle forme; era il modo più pronto non solo per fermare la prima ispirazione, ma per rielaborarla: e se ne valse così generosamente che, quantunque egli stesso molti ne abbia distrutti non volendo che nulla apparisse del laborioso concepimento delle opere, i suoi disegni restano in gran numero. Ben è vero che bisogna discernere con severità gli autografi dai disegni di Sebastiano del Piombo o di altri immediati imitatori come fu il discepolo Antonio Mini, su un foglio del quale M. scrisse: "disegna Antonio, disegna Antonio, e non perdere tempo".

Vi sono disegni di M. che attestano lo studio d'ogni particolare delle opere, sino a ricomporre lo scheletro e i fasci muscolari prima di fissare un atto, un movimento; molti altri rivelano concetti poi tralasciati nelle opere compiute (Firenze, casa Buonarroti: schizzo d'insieme per il Giudizio Universale); altri ricordano grandi idee che poi M. non attuò altrimenti (Ercole e Anteo, Resurrezione di Cristo, Resurrezione di Lazzaro, Sacrifizio d'Isacco, ecc.). Sono ora a penna, e, specie i primi, ora a matita o a carbone, varî di fattura, secondo lo scopo: a tratti sintetici per definire l'insieme, a tratteggio fitto, e molti quasi a sfumino, per seguire la modellazione, che sempre riesce a un vigore plastico tutto proprio.

Esordî (-1494). - Il primo fatto noto della vita interiore di M. è un atto di volontà: fanciullo ancora (1489), malgrado il contratto stabilito dal padre, lasciò dopo un anno il suo primo maestro, Domenico Ghirlandaio, verso il quale poi non riconobbe alcun suo debito spirituale. Intorno alla quieta onesta bottega dell'oggettivo Ghirlandaio, dove pur si potevano apprendere molte pratiche dell'arte e la prospettiva, Firenze vibrava dell'opera di altri artisti, il Pollaiolo, il Verrocchio, il Botticelli; era colma di capolavori formati con altre tempre, da Giotto da Masaccio da Donatello; altri giovani artisti crescevano nel giardino mediceo pieno di sculture antiche ponendosi sotto la guida di Bertoldo, discepolo di Donatello: e M. lasciò il Ghirlandaio per questa scuola e per i maestri di sua elezione, anche lontani di tempo. Nelle chiese della città lo trattenevano a lungo i grandi affreschi di Giotto e di Masaccio: e se prima aveva fatto pratica di contraffare disegni antichi (poi scomparsi, come quella Tentazione de S. Antonio, ch'egli aveva colorito da una stampa dello Schongauer), or dinnanzi a quei dipinti ne ritraeva l'essenza plastica e la grandiosità con un fare già tutto suo, come mostrano i suoi giovanili disegni dagli affreschi di Giotto in Santa Croce e di Masaccio al Carmine (Musei di Parigi, di Londra, di Monaco, di Vienna, di Haarlem). Nel giardino e nel palazzo di Lorenzo il Magnifico lo trattenevano le sculture antiche o quelle di Donatello, nonché gl'insegnamenti di Bertoldo: e presto fu tutto intento alla scultura. È scomparsa la testa di Fauno, ritratta dall'antico, che fu la sua prima prova di scultore, lodata dal Magnifico: né si può riconoscere in una testa di Polifemo (del Museo Nazionale di Firenze) o nella maschera faunina da fontana (ivi), che è un grottesco di qualche tardo seguace di M. Ma restano di quegli anni (1489-1494) due sculture piene di rivelazioni sul formarsi del giovane e già sulla piena presenza del suo genio: la Madonna della Scala, l'Ercole in lotta coi centauri (Firenze, casa Buonarroti). La Madonna della Scala, che Leonardo Buonarroti donò al duca Cosimo I come opera dello zio, non rammentata dal Condivi ma bene apprezzata nel suo donatellismo dal Vasari, è probabilmente anteriore all'altra scultura. Nulla ha del concentrato manierismo di Giovanni dall'Opera, a cui è pur stata attribuita; trae da Donatello il rilievo "a stiacciato", l'impressionistica fattura dei putti nello sfondo prospettico; ma ha già profondo il segno di M. nelle forme anatomiche eroizzate, energiche sino allo sforzo nello stesso Bambino, nell'assorto pensiero della Madonna, eroina in cui si possono intravedere le future Sibille della Cappella Sistina: come nei disegni di M., su tutti gli elementi pittorici, che giungono sino a sfumare le ombre, vi prevale la salda struttura plastica. Nell'altro rilievo, forse intrapreso nel 1491 , sono già così svolte tutte le qualità di M. da poterlo credere di tempo ben più maturo. Rotondeggiano le figure quasi in pieno ma in gran parte non condotte a finimento, anzi appena sbozzate, sì che nell'asprezza della materia, messa in vista con intimo compiacimento dello scultore, sembrano con più forza agitarsi nel marmo. Del mito che il Condivi afferma suggerito dal Poliziano - il ratto di Deianira e la zuffa coi centauri -, M. non immaginò che la lotta violenta d'Ercole e dei suoi compagni contro i centauri, senza altrimenti definire il soggetto, soppresso ogni particolare pittorico: ma nel viluppo delle membra ricercò in ogni figura, plasticamente isolata, una tensione di energia contenuta, armoniosa, ben diversa dai frenetici scomposti moti del Pollaiolo, riuscendo a una visione propria delle forme atletiche e dello spirito eroico (cui poté far seguito l'Ercole scolpito dopo il 1492, poi mandato e perduto in Francia) che dovette esser confermata in lui, insieme con quella pienezza plastica, da impressioni della scultura antica. E certamente da rilievi greco-romani, più che da opere di Donatello e di Bertoldo, l'artista derivò il concetto della composizione così folta di figure come in antichi sarcofagi.

Già la figura umana, ignuda, era per l'esordiente il supremo mezzo di espressione: e possedere il corpo umano nella sua struttura, nei legamenti e nella possibilità delle flessioni, fu studio di M. fin dai primi anni, esercitato anche sul cadavere, riflesso nei disegni e allora probabilmente in modo assai vivo in quello scomparso Crocifisso di legno, donato al priore della chiesa di S. Spirito perché procurava a M. i corpi per le sue anatomie.

Intermezzo (1494-1501). A Bologna, dove riparò fuggendo i torbidi fiorentini nella discesa di Carlo VIII, M. attese per un anno a seguitare i lavori che la morte aveva interrotto (1494) a Niccolò dell'Arca intorno alla tomba di S. Domenico. Di fronte all'Angelo delicatamente scolpito da Niccolò pose un altro Angelo, gagliardo negli atti e nella fermezza del volto, anche se la superficie del marmo vi sia levigata fino alla sfumatura; e al coronamento dell'arca aggiunse due piccole statue: S. Procolo, male a lui negato se pure il Condivi non lo rammenti, ché a paragone delle statue di Niccolò dell'Arca ha altra fierezza, un più robusto panneggiare, e nel volto e nella tortuosa persona un'energia da ricordare il Pollaiolo; S. Petronio, la cui grandezza spirituale e la potenza corporea richiama ancora Donatello, con lontani riflessi del S. Marco in Orsanmichele, ma ben meglio rivela che M. a Bologna guardò un altro antico maestro: Jacopo della Quercia. Più tardi, in un più lungo soggiorno a Bologna (1506-1508), M. riportò impressioni anche più profonde dalle sculture di Jacopo nel portale maggiore del S. Petronio, assorbendole nella sua più maturata individualità: su tutte, quel senso di contrasto tra la forza eroica e la gravità inerte che doveva essergli mezzo a esprimere l'angoscia e il dolore. Allora ne dovette ammirare specialmente la concentrazione sulla figura umana e il vigore plastico. Era in un periodo di classica serenità, hen rivelata dal suo Angelo dell'arca di S. Domenico; e se, tornato a Firenze (1495), vi udì la viva voce del Savonarola, che poi da vecchio ancora gli pareva risonargli dentro, appunto allora egli era più assorto in un suo opposto mondo interiore, in traccia dell'arte classica che il nuovo fervore religioso condannava e che a lui doveva apparire tramite dall'accidentale alla bellezza ideale. Mentre scolpiva un S. Giovannino (e non si può identificare con quello già attribuito a M. nel Museo di Berlino, opera leziosa e di tempo più tardo; né, sembra, con quello più michelangiolesco di Ubeda nella Spagna) imitava dall'antico un Cupido dormente, anch'esso poi perdutosi dopo essere stato nelle collezioni d'Isabella d'Este e dei Gonzaga.

La comprensione dei capolavori antichi, prima rivolta agli aspetti più esteriori, fino a contraffarli, nel suo primo soggiorno a Roma (1496-1501) M. la esercitò ben più largamente: l'arte classica gli rivelava sempre più il modo d'idealizzare con finezza, includendo ogni esperienza naturalistica ma superandola. E fu il Bacco.

La statua (Firenze, Museo Nazionale) fu scolpita per Jacopo Galli, raccoglitore romano di antichità, nel cortile della cui casa, tra molti frammenti antichi, essa stette confusa e ritenuta anche antica. M. volle evocare il dio cui il mito antico attribuiva femminee mollezze e malinconia anche nell'ebbrezza; rifuggì dall'abbassarne naturalisticamente l'aspetto, pur rappresentandolo preso dal vino; si conformò all'idealismo antico nell'accentuare i tratti che significassero l'essenza sensuale della sua figura: nel corpo torpido per natura, dal torso e dagli arti adiposi, nell'atto titubante per l'incipiente ebbrezza ma non scomposto, nel volto contratto piuttosto che sorridente. Dalla voluta oggettivazione del tema l'opera uscì fredda di emozione, rivelando nell'artista un momento in cui le facoltà creative, già così potenti nel rilievo dei Centauri, erano diminuite dalla riflessione dell'antico. Pure, si ritrova fresca l'ispirazione, non senza ricordi di Donatello, nella tortuosa figura del faunetto che accompagna Bacco; e nell'insieme, se pur sono troppo in mostra la bravura anatomica dello scultore e la levigatezza del marmo, non mancano semplificazioni che attestano il maturarsi di una maniera più larga. Soltanto assai più tardi, forse nel susseguente soggiorno a Roma, M. poté scolpire l'Amore (Londra, Victoria and Albert Museum) che non è certo sia quello eseguito per lo stesso Jacopo Galli, e che fu anche detto un Apollo. Ritrovando quasi una rara immagine greca, non ideò Amore fanciullo ma l'adolescente Eros saettatore, in atto di seguire sicuro e grave il suo aver fatto dubitare ch'essa piuttosto rappresenti Narciso), quella statua esprime assai più del Bacco l'individualità di M. nell'atteggiamento della figura, tutto a contrapposti di movimenti, che già include il suo grave e complesso sentire, altrimenti che nelle manierate versioni del michelangiolesco Vincenzo Danti a cui fu attribuita.

L'occasione, non la supposta influenza del Savonarola, richiamò M. da quelle immaginazioni classiche: il contratto (1498) per la Pietà, scultura cui egli attese per più che due anni, destinata alla cappella di S. Petronilla presso l'antico S. Pietro, e poi trasferita nella nuova basilica vaticana. Al tema che Donatello, nel pergamo di S. Lorenzo a Firenze, aveva portato a toni d'insostenibile veemenza, e ch'egli stesso doveva poi improntare a dolore più che umano, M. in quei suoi anni di classica serenità non poté dare che raccoglimento e dolcezza: compose la Madonna in ampî, e quasi oziosi, ravvolgimenti di pieghe per adagiare anche più delicatamente il Cristo nel grembo materno in atto di abbandono quasi infantile, come nel sonno; diede al suo volto - ancor giovane per significare, com' egli stesso commentava, la sua castità - non gemiti ma umiliata silente rassegnazione; e, tutto coordinando a quelle emozioni di dolore quieto e composto, ricercò in ogni finezza di piani e di giunture le membra del Redentore, accarezzò ogni superficie con delicatezza di fattura consona all'intimo.

A Firenze (1501-1505). L'insistente e sottile modellazione della Pietà ebbe seguito in sculture che M. dovette eseguire poco dopo, appena tornato a Firenze: nella Madonna portata a Bruges (chiesa di Notre-Dame) da mercanti fiamminghi nel 1506, e nelle quattro statuine - i Ss. Pietro, Paolo, Pio e Gregorio - che M. diede eseguite, su suoi disegni se non tutte di sua mano, tra il 1501 e il 1504 per l'altare Piccolomini nel duomo di Siena. Le quattro figure, cui si accompagna un San Francesco del Torrigiano (M. si era obbligato a ritoccarlo, ma non dovette lavorarvi mai) erano destinate alle nicchie di un altare architettato senza grandezza alcuna da Andrea Bregno: e, forse anche per questo, o perché diventava sempre più impaziente di opere minute, M. le ideò con pigra fantasia, e presto disamorato di quel lavoro che avrebbe richiesto ancora altre undici statue, lo tralasciò infine per sempre e non ne fece nemmeno tener ricordo dal Condivi.

Della statua di Bruges sembra invece ch'egli fosse molto geloso, se ad essa sono da riferire le raccomandazioni ch'egli da Roma (1506) faceva al padre perché non mostrasse a nessuno in Firenze una sua statua della Madonna: era nuova quella composizione col Bambino in atto di ritrarsi fra le ginocchia della madre; e in quegli anni a Firenze ogni motivo d'arte nuovo non soltanto trovava riflessi fra gli artisti secondarî, ma era ripreso e trasformato dagli emuli, quasi a gara (lo dimostrano i disegni di Leonardo e di M., con reciproci ricordi del David e della S. Anna). E Raffaello, appunto allora a Firenze, nella Madonna del cardellino rammentò in qualche modo quell'atto del Bambino, sebbene la soave familiarità del suo dipinto nulla abbia della grandezza e della lontananza che M. diede alla Madonna di Bruges.

In altre opere, nei quattro anni passati a Firenze, M. si volse a maniera più larga nella modellazione, più eroica nell'ispirazione, liberandovi sempre più la propria individualità. A Roma, mentre modellava con raffinatezza il Bacco, aveva pur riguardato le sculture antiche in cui la grandezza delle proporzioni trovava il conveniente rapporto plastico nella semplificazione dei particolari e un necessario rapporto interiore nell'assoluta idealizzazione: i colossi di Monte Cavallo, il "Marforio" e le altre gigantesche statue fluviali. E quelle impressioni esaltarono ora il suo senso e la fantasia "a far grande". Ottenuta, benché si fosse pensato anche a Leonardo e al Sansovino, la commissione di trarre un David da un blocco gigantesco che giaceva male sbozzato nel cantiere del duomo fiorentino, si pose così al lavoro che in sei mesi - dal 13 settembre 1501 - già lo aveva portato a metà, e lo dava finito sul principio del 1504. L'opera nuova commosse la città fervida d'arte; per consigliarsi sul luogo più adatto dove collocarla furono convocati molti dei suoi artisti, fra altri minori, anche orafi e intagliatori, Cosimo Rosselli e David Ghirlandaio, l'Attavante, Piero di Cosimo, Lorenzo di Credi, Filippino Lippi, Andrea della Robbia con Giuliano da Sangallo, col Botticelli, col Perugino e con lo stesso Leonardo: e mostrarono allora di non essere malevoli a M., nei loro ragionati pareri. Se Leonardo, col Sangallo, consigliò di provvedere a riparare la statua entro la Loggia della Signoria, il Botticelli fu d'avviso di collocarla, perché meglio si vedesse, presso il palazzo dei Signori, dove poi rimase finché in età recente (1874) non fu necessario metterla al coperto (Firenze, Galleria dell'Accademia).

Quando ideò il David, M. non era ancor lontano dal momento in cui si era perduto in sottile oggettivismo nel figurare l'ebbrezza di Bacco; ma già lo aveva quasi dimenticato. Più tardi, trattando lo stesso soggetto (David, nel Museo Nazionale di Firenze), lo piegò a esprimere soltanto il proprio intimo: allora, invece, la figura biblica gli fu altrimenti presente; la caratterizzò anche per sé stessa, quantunque intendesse soprattutto a imprimervi un valore ideale: e attuò il suo concetto in forma che ben rivela e assolve quella complessa intenzione, di non dimenticare il contingente ma di ascendere all'universale. Più che le proporzioni colossali, separa il David di M. da quello bronzeo di Donatello, o dall'altro del Verrocchio, l'idealizzazione che lo pone ad altra distanza da ogni accidentalità pur non rifiutando in tutto quei tratti individuali che per il Donatello e per il Verrocchio, anzi per l'arte di tutto il Quattrocento, erano stati coefficiente essenziale d'ogni creazione. È gigante il giovine pastore biblico, possente già a domare orsi e leoni, ma ha sproporzioni e sottigliezze di adolescente (le mani e i piedi, troppo grandi; la veduta di fianco troppo sottile secondo qualche critico, rivelano invece acutamente il suo non compiuto sviluppo); la sua struttura corporea, di tutta evidenza nell'ossatura degli arti e del torace, nelle giunture e nei fasci muscolari, è individuata dall'agilità pronta a lanciarsi, che si esprime nell'intiero atteggiamento (di certo non determinato, nemmeno negli arti inferiori, dal marmo che M. aveva trovato già sbozzato per altra figura) e dall'inerzia riflessa del vago gesto del braccio sinistro e del cadere del braccio destro il cui peso esprime la forza latente. Tutta la generosa vitalità dell'eroe è tesa nel volto, corrucciato nella fronte dall'offesa, aperto nello sguardo che misura il pericolo, energico e tagliente nel decidere di affrontarlo, contratto nelle labbra da un baldanzoso disdegno giovanile: espressioni improntate in tratti che trascendono gli aspetti accidentali della individualità altrimenti che nel S. Giorgio di Donatello, e nelle loro forme ideali, rammentanti l'arte classica, hanno una tensione nuova di energia fisica e morale.

Il David collocato nel luogo più in vista di Firenze, a simbolo della vindice coscienza cittadina, fu per M. venticinquenne la piena affermazione della sua individualità intesa a grandezza di concetto e di forme, nuova di fronte all'arte del Quattrocento, come di fronte all'arte antica.

Non sappiamo sino a qual punto M. si riavvicinasse al Donatello, al cui David di bronzo gli era stato imposto di attenersi, in un altro David di bronzo commessogli dalla Signoria (1502), rinettato da Benedetto da Rovezzano, e infine mandato in Francia dove nel sec. XVII scomparve; ma altre sue sculture in marmo mostrano sempre più quella larga maniera. Nel tondo in altorilievo che il Vasari vide in casa Taddei (Londra, Accademia) l'intaglio sottile della parte finita rammenta la Madonna di Bruges e la composizione è svolta quasi in superficie, ma vi è più forte che nelle opere precedenti il contrapposto di attitudini che M. aveva cercato anche prima e accentuato nel David: mezzo costante per lui a esprimere energia anche dalle forme più statiche, e condotto a quella intensità non senza riguardare il vicino Leonardo. Nell'altro altorilievo, anch'esso non finito (Firenze, Museo Nazionale), per Bartolomeo Pitti, la rappresentazione plastica altrimenti poderosa sorge anche da un'emozione più profonda: nel cerchio marmoreo, che lo concentra compatto, il gruppo della Vergine e del Bambino è composto con tanta complessità di piani e di atti, raccolti e contrapposti, da contenere ed esprimere ma vitalità atletica, serena nell'aperto maschio volto della Vergine, nel sorriso del Bambino al quale la modellazione non rifinita aggiunge fremiti di luci e d'ombre e così allo sfondo, leggiero quasi alone, mentre sotto la superficie apparentemente pittorica sono saldissimi il volume e la struttura plastica.

Quei due tondi marmorei dovettero precedere il tondo per Agnolo Doni (Firenze, Uffizi; v. italia, XIX, tav. a colori), di composizione più serrata e pur di maggiore ampiezza, dipinto probabilmente nel 1505.

Sono scomparse altre precedenti pitture di M.: la Tentazione di S. Antonio, ch'egli giovinetto aveva ripreso da una stampa di Martino Schongauer, una tavola con le Stimmate di San Francesco, forse non tutta colorita di sua mano, già a Roma in S. Pietro in Montorio; non persuade l'attribuzione a lui di un dipinto ghirlandaiesco del Museo di Dublino, né quella del tondo dell'Accademia di Vienna opera di un minore seguace. Soltanto l'incompiuta tavola della Galleria Nazionale di Londra ("Madonna di Manchester"), ora quasi unanimemente negata a M. e attribuita anche al manieratissimo michelangiolesco Jacopino del Conte, rivela M. pittore, poco prima del tondo degli Uffizî.

Ancora quattrocentesco ne è il tema (la Madonna tra gli angeli), ma il gruppo centrale pareggia per novità di composizione la Madonna di Bruges superandola in larghezza di fattura; la modellazione è scultoria pur dove il pittore, nel volto della Vergine e altrove, ricerchi sfumata morbidezza - così in disegni a sfumino di M. -; i meravigliosi Angeli apteri son già compagni, per effetto di luce, alle figure degli ignudi nel tondo di A. Doni, di cui la tavola di Londra precorre anche il marmoreo cangiante colore. Domina maggiormente nel tondo degli Uffizî il senso dei corpi in una loro immutabile entità, o in rapporto dello spazio, nella conclusa armonia della composizione, o in sé stessi, sottratti quasi a ogni accidentalità esteriore dai contorni che li circoscrivono e ne interpretano l'interna natura: e a quel senso sono più rigorosamente coordinati luce e colore. Tal modo di vedere era nella tradizione della pittura fiorentina, se pur variamente, sempre confermato dai maggiori maestri del Quattrocento; ma nel tondo degli Uffizî si fa così assoluto, ed ha tale novità di mezzi, da sembrar creato da M. In piena coerenza di tutti gli elementi pittorici si esprime la visione di M.: il colore è del tutto spoglio del suo dono più particolare, d'instabilità nella luce: sottile e teso come superficie metallica, non assorbe ma riflette la luce, con toni prima inusati - di giallo, di roseo -, con cangianti, con riverberi limpidi e freddi entro la fissa chiarità quasi senz'ombre; non modifica, esalta la plastica immanenza dei corpi ch'esso riveste. Ma l'impressione plastica, così purificata e dominante, è estremamente complessa: il senso della massa è del tutto oscurato da quello dell'energia e del moto che sviluppano i corpi; e tale qualità, che discende dalla grande arte fiorentina del Quattrocento, è portata a incomparata potenza: investe tutta la composizione, dal gruppo principale tutto in continua contrapposizione di atti, alle figure degl'ignudi e all'esedra che s'incurva nel fondo. Energia e moti esprimono fisicamente l'intimo, com'era dell'arte fiorentina, ma con la profondità di M.: e già nel tondo degli Uffizî egli svela il proprio animo. Nel gruppo centrale, disposto con quell'ordine piramidale che allora anche Leonardo vagheggiava, sorge dall'azione così semplice un che di doloroso e di amaro, nella lentezza d'ogni gesto e nello sguardo delle figure le cui forme atletiche e l'animo eroico si compongono in grave armonia. Gl'ignudi dello sfondo - quasi richiamo a vita primordiale, per cui troppo si suol rievocare il tondo del Signorelli aglì Uffizi - dipinti a macchie d'ombra e di luce per vederli in distanza, ma non per ciò meno saldi di struttura, già fanno prevedere gl'Ignudi della Cappella Sistina: e rendono probabile che il tondo sia del tempo in cui M. disegnava il cartone della Battaglia di Cascina (v. cartone, IX, p. 252).

Nell'agosto del 1504 M. aveva assunto di eseguire un grande affresco per la sala del Maggior Consiglio - la "Sala dei Cinquecento" - in Palazzo Vecchio di fronte a un dipinto murale che Leonardo allora già vi aveva incominciato: ne aveva preparato almeno in gran parte i cartoni, che dovette riprendere e finire nel 1506 ritornando da Roma. Ma come rimase interrotta e poi scomparve l'opera di Leonardo, così quella di M.: occupato in altro, il maestro non la condusse oltre il cartone (di certo non a colori ma a disegno e chiaroscuro) che, prima gelosamente custodito, poi esposto a tutti e "scuola al mondo", come disse il Cellini, a Raffaello, ad Andrea del Sarto, a J. Sansovino, quale già era stata la cappella Brancacci e lasciato con troppa larghezza allo studio, venne presto deteriorato, smembrato in molti pezzi, che poi andarono dispersi e scomparvero, non restandone che una piccola copia dell'insieme (attribuita ad Aristotele da Sangallo nella collezione Leicester a Holkham Hall), riproduzioni parziali in copie e in incisioni di Marcantonio e di Agostino Veneziano, e qualche raggio vivo in alcuni disegni di particolari che servirono a M. per preparare il cartone.

Quasi a gara con Leonardo, che rappresentava l'episodio di Anghiari in cui Niccolò Piccinino aveva invano cercato di sorprendere l'esercito fiorentino, M. rappresentò un soggetto che gli diede di esaltare ogni violenza di moti col suo sovrano mezzo di espressione, il nudo: nella guerra di Pisa (1364), l'improvviso allarme dei fiorentini, accampati a Cascina, sorpresi dai Pisani mentre meriggiavano, chi disarmato, chi ignudo al bagno in Arno; e se Leonardo nella zuffa per lo stendardo aveva composto grovigli di cavalli e di uomini sembra che anche M. avesse introdotto, almeno in lontananza, scontri di cavalieri. Movimenti impetuosi, potente vita fisica negl'ignudi, raggruppamenti insoliti s'intravvedono in quelle antiche copie, ma l'intensità a cui M. li aveva portati non si può intendere che dai pochi disegni parziali ancora superstiti, nei quali egli studiò acutamente la struttura e il moto di alcune di quelle figure (disegni nelle raccolte di Firenze, di Londra, di Oxford, di Haarlem ecc.). Pure, se Leonardo e M. avessero compiuto nella sala del Maggior Consiglio i loro dipinti, si può credere che nella Battaglia di Anghiari il primo sarebbe riuscito con la sua visione pittorica a una più veemente espressione del movimento tra luci e ombre della fumosa zuffa, mentre M. avrebbe trovato entro luce meridiana e fissa una rappresentazione più netta ma più statica delle forze.

L'amore di M. per i corpi atletici doveva improntare anche un'altra grande opera allora assunta (1504), e poi tralasciata: le dodici grandi statue degli apostoli per S. Maria del Fiore di cui il maestro abbozzò solo il S. Matteo (Firenze, Accademia).

Per certo la figura dell'apostolo fu ideata dopo il tondo Doni, tanto in essa è più forte il contrasto degli atteggiamenti; anzi, vi è già così formato il tema principale di un periodo più tardo che si vorrebbe crederla poste riore anche ai primi concetti della tomba di Giulio II, se M. stesso non affermasse di averla sbozzata prima di andare a Roma. Veduta da un solo lato - di fronte - la figura gigantesca sembra liberarsi a fatica dalla materia che ancora la ingombra, e nondimeno ha intiera pienezza plastica. Nel suo atteggiamento contorto, la cui energia sembra piegarsi stanca, nessuna oggettiva individuazione dell'apostolo; non si esprime che l'animo di M.: e remoti ricordi di sculture antiche, come il "Pasquino", reminiscenze di Donatello sono sopraffatti da un profondo tragico spirito che nel complesso ritmo delle membra, entro il marmo pur incompiuto ha un'espressione plastica precisa e il potere di destare infinite risonanze negli animi.

Con Giulio II (1505-1513). - M. era trentenne: e innanzi che il motivo già così formato nel S. Matteo, dopo i suoi primi accenni nel tondo di A. Doni, si spiegasse largamente diventando infine travolgente, esso doveva a lungo intrecciarsi con altri in cui si magnificavano il vigore e la felice vitalità inclusi nelle opere più giovanili, e ora esaltati nel maestro dalla certezza di maggiori imprese. Per queste egli, interrotto ogni lavoro a Firenze, si recò a Roma (1505). Conosciuti i propositi di Giulio II, fu quasi immediata nell'artista la prima concezione del mausoleo, rimasta poi inattuata e oggi nota soltanto per le descrizioni del Condivi e del Vasari.

M. disegnò un'edicola rettangolare (circa m. 10,80 × 7,20) ornata torno torno da grandi "termini" che ne reggevano la cornice, frammezzati di nicchie con statue, forse di Virtù; a ogni "termine" era legato un prigione (codeste statue dovevano sporgere su un dado) in allegoria delle arti liberali, private del pontefice, loro patrono: in alto, al di sopra della cornice dovevano essere quattro statue, fra cui il Mosè; e, rastremandosi la copertura dell'edicola a gradi, questi sarebbero pur stati adorni di rilievi in bronzo: al sommo, sul piano, il Cielo e la Terra dovevano sostenere l'arca funebre, ma il papa avrebbe riposato nell'interno ovale dell'edicola, aperta in due porte sui lati minori. Se dai monumenti del Pollaiolo a Sisto IV e a Innocenzo VIII gli era stato suggerito di adunare intorno alla tomba le Arti e le Virtù, M. aveva trasformato del tutto il vecchio tema iconografico improntandovi un senso di abbandono e di morte; ma più ancora egli aveva innovato l'insieme del mausoleo, isolandone la struttura, formando delle sue animate membra architettoniche il piedistallo a quaranta statue. Certo di sé, e di compiere il grande progetto, il maestro andò a Carrara a procurare i marmi; e in quella solitudine, dove poté maturare sempre meglio il suo concetto, si moltiplicò la sua forza: vagheggiò allora, come abbiamo già detto, di dar forma di colosso, che apparisse di lontano ai naviganti, a un grande masso sulle cime marmoree delle Apuane. Son noti la sua disillusione al ritorno a Roma, la rottura con Giulio II, il perdono del papa per la lunga opera a Bologna (1506-1508) nella sua statua bronzea, presto distrutta senza lasciare traccia, le vane riluttanze dell'artista a tralasciare i lavori della tomba per affrescare la vòlta della cappella Sistina.

Era questa un'opera immensa; ma M., che l'aveva accettata a malincuore, presto se ne infervorò: dinnanzi a quella vastità di spazio sentì moltiplicato in sé il potere di esprimere nella pittura il suo mondo interiore; volle egli stesso moltiplicare la vastità del lavoro. Quando il maestro (1508) aveva assunto di dipingere la vòlta della Sistina, era convenuto che all'intorno, sui peducci, rappresentasse gli Apostoli, e che tutto il vano della vòlta fosse spartito di ornati; ma presto tale progetto parve a M. troppo povera cosa: ne persuase Giulio II, ebbe da lui facoltà di comporre il tutto a suo talento; ed egli stesso maturò un ben diverso concetto, immensamente più arduo e più vasto. Al di sopra degli affreschi delle pareti su cui grandi maestri del Quattrocento avevano composto a riscontro le storie di Mosè e quelle del Redentore, seguendo l'antichissima tradizione della continuità e della rispondenza fra l'Antica e la Nuova Legge, M. pensò di evocare l'origine del creato, dell'umanità e del suo destino - la Creazione; il Peccato; il Diluvio; - i presagi della Redenzione, nei profeti e nelle sibille; la lunga attesa del Cristo dalla stirpe di David, nelle figure dei suoi ascendenti. Trent'anni dopo egli doveva compiere il poema sacro con il concludersi dei fati nel Giudizio. Erano concetti e figure familiari da secoli all'arte e alla coscienza religiosa, e perciò a tutti intelligibili: la novità, pur ammirevole nell'organica composizione, e quella grandezza che sgomenta, sono nello spirito e nella forma ch'essi ebbero dall'artista.

Nel cielo della Sistina, sulla lieve curva della vòlta su lunette, M. immaginò un'altra architettura: finse arcate marmoree a unire da una parte all'altra gli attici, distinti in profondi seggi, che sembrano coronare in alto, pesanti ed energici insieme, le pareti della cappella; compose una costruzione prospettica le cui irrazionalità son tutte coperte dall'effetto complessivo delle sue possenti membrature, e del suo subordinarsi alle figure. Del resto, le ragioni dell'arte e il risultato giustificano altre "irrazionalità" dell'insieme degli affreschi della vòlta. Se tra i finti archi marmorei, nei vani, appariscono in modo arbitrario alla vista, su sfondi differenti, le storie della Genesi - il Creatore che separa la luce dalle tenebre; la Creazione degli astri; la Separazione delle acque; la Creazione di Adamo; la Creazione d'Eva; il Peccato e la Cacciata dal Paradiso; il Sacrifizio di Noè; il Diluvio; l'Ebbrezza di Noè -, ciò serve a concentrare e a isolare ciascuna delle rappresentazioni. Se possono sembrare intrusi nell'accolta dei sette Profeti e delle cinque Sibille gl'Ignudi sulla cornice dei loro grandi seggi, quelle figure hanno la necessaria funzione di diminuire il rigido spiccarsi degli archi della finzione prospettica, più che di reggere con ghirlande e fasce i clipei di bronzo istoriati a chiaroscuro: servono a collegare il movimento dell'intiera composizione. Con meditato accorgimento, M. pensò di accrescere le proporzioni delle figure, e in particolare quelle dei Profeti e delle Sibille, procedendo dalla porta della Sistina verso il fondo, per correggere il loro diminuire alla vista in distanza e, in senso inverso, per dare illusione di spazio più profondo: ma nell'insieme questo divisamento, anche troppo razionale, passa quasi inavvertito. Compiono il concetto e la composizione i quattro scomparti triangolari a capo della vòlta - Ammano crocifisso; il Serpente di bronzo; David e Golia; Giuditta e Oloferne -, e le figure della stirpe di Abramo e di David nei triangoli e nelle lunette sulle finestre della cappella, mentre altre figure in chiaroscuro bronzeo, stipate nelle riquadrature, accrescono la folta compattezza del tutto.

Formato il nuovo progetto, già a mezzo il 1508, M., dinnanzi all'immensità dell'opera, pensò a provvedersi di aiuti chiamando da Firenze alcuni modesti pittori - come Francesco Granacci, il Bugiardini, Jacopo l'Indaco, Bastiano da Sangallo, e altri -; ma presto avvedutosi che gli aiuti male lo avrebbero servito, si chiuse sui ponti della Sistina, escludendone tutti; e rimase solo a fronte dell'opera immane. Incominciò dalla parte della porta, come afferma il Condivi (e lo comprova la fattura delle storie di Noè meno larga di quella delle prime storie della Genesi, dipinte da ultimo); già nell'agosto del 1510 aveva quasi compiuta una metà dell'opera, che non è ben certo comprendesse l'intiero campo della prima metà della vòlta; riprese nel 1511 il lavoro e se ne staccò soltanto per le impazienze di Giulio II nell'ottobre del 1512, sì che tutta la vòlta fu scoperta per la messa papale d'Ognissanti. L'opera immensa era stata compiuta, con un forzato intervallo, in venti mesi soltanto. Il maestro non solo l'aveva concepita e attuata in disegni e in cartoni, l'aveva eseguita egli stesso ad affresco lavorandovi in condizioni torturanti; sovente era disceso dai ponti con la persona contratta, con la vista stravolta, col viso stillante di tinte per aver dipinto quasi supino, ma in ogni parte vi aveva lasciato, invece del segno della fatica, quello della volontà e del suo potere di creare.

Al disopra delle rappresentazioni composte dai pittori del Quattrocento entro i quieti spartimenti delle pareti, erompe nella vòlta della Sistina la visione di M., esaltazione di forze titaniche, di atti atletici, di forme sovrumane: e sgomenta, al primo vederla, per quella "terribilità" che gli antichi dissero di M.; sembra inaccessibile, mentre ancora la mente ricorre alla serena contemplazione dei sottostanti affreschi, così a fondo differenti; ma presto afferra e trasporta in quell'esaltazione, per virtù d'arte che tutto ha converso al suo fine. Il colore non cerca di attrarre, chiaro, leggiero, con cangianti anche striduli nelle ombre: più ancora che pel tondo degli Uffizi, è spogliato d'ogni sua qualità particolare per servire soltanto ad accentuare la solidità dei corpi. In questi, siano pur membrature architettoniche, non v'è riposo: ogni parte è contrapposta ad altra in continua varietà di piani e di movimenti che concentra o sviluppa energia; sola, libera quasi da ogni accessorio all'intorno, e spesso ignuda, campeggia la figura umana, gigantesca meno per le proporzioni che per il vigore eroico delle membra, fatto a contenere nella riflessione, o in atteggiamenti che di rado si risolvono in azioni definite, oscure profondità e forze. Un solo spirito dà al tutto e ad ogni parte vitalità generosa; e per tutto sembra trascorrere più possente perché or si quieta, or sale veemente, per sedarsi e crescere più impetuoso. Ci sono, nella immensa sinfonia, zone di riposo e d'ombra, clamorosi richiami, e motivi che riecheggiano insistenti più forti suggellando per sempre nell'animo la loro emozione: penombre in cui si torcono e si abbandonano i bronzei Schiavi, si atteggiano pigramente le figure della stirpe davidica; clamori degli Ignudi; il crescendo di forza dal Diluvio alla Creazione; il motivo replicato sempre più alto, nelle Sibille e nei Profeti, da Ezechia a Giona.

Nelle parti secondarie (gli Schiavi, nell'ombra, sulle lunette; le figure della stirpe di David) dipinte a chiaroscuro, oppure quasi velate ad arte per la luce irradiata dalle finestre, è la stessa fermezza plastica che distingue i disegni di M. anche se sfumati a chiaroscuro. Le figure della progenie davidica, negli atti incerti, oppure stranamente definiti (una giovine si pettina; un'altra dorme; un giovine sta oziosamente al leggio, ecc.), hanno grandezza e significato ideale dall'armonia dei movimenti e dei contrasti, dalla gravità dei gesti che rivela già l'intimo peso del pensiero e della vita: sono tra le composizioni più singolari e più spontanee di M., libere da ogni vincolo di soggetto, quasi riprese da impressioni dal vero che nondimeno nel suo animo subito si nobilitavano. Il sedarsi in esse della tensione dei movimenti, la maggior semplicità di fattura, e quella intima oppressione suggeriscono che siano state le ultime parti dipinte da M., anche affrettatamente, prima di togliere i ponti.

Gl'Ignudi, che con pesanti ghirlande di quercia - emblema di Giulio II e di Sisto IV - o con fasce sostengono i clipei di bronzo istoriati, sono anch'essi frenati e composti non da un'azione esteriore, ma soltanto dal senso ritmico di M. che nell'atteggiarsi del nudo umano trova ogni espressione dell'intimo e ogni armonia. Li compose il maestro ricorrendo a modelli e più ancora alla illimitata sua scienza anatomica, ricordando qualche volta immagini classiche (Diomede col palladio, ben noto a lui anche dalla gemma di Lorenzo il Magnifico, ecc.); ne rese più forte la struttura atletica con la sua assoluta visione plastica ritrovando dentro fermi contorni, per sé intensamente rivelatori della forma interna, la modellazione semplice del tondo degli Uffizî, la cui marmorea consistenza è accresciuta dalla luce e dal colore; li animò di potente vitalità. Erompe questa con impeto dionisiaco in alcuni degl'Ignudi, nei moti quasi inconsci, nel riso e nell'ebbrezza; in altri è agitata da un'ansia; in altri si reclina, come stanca, in una invincibile oppressione interiore: e queste sono incrinature preziose nel blocco poderoso di forze, ché da esse sgorgheranno le ispirazioni future. Nelle rappresentazioni bibliche, al sommo della vòlta, tra i finti archi, e nei quattro scomparti triangolari ai due capi, l'arte di M. trasfigurò oppure rimosse ogni tradizione iconografica; dal Diluvio al primo atto della Creazione, riuscì a dare forma assoluta anche ai concetti maggiormente trascendenti ogni definizione plastica.

Nel Diluvio la varietà dei particolari ricorda la drammaturgia aneddotica della pittura fiorentina del Quattrocento: in coloro che salgono portando con sé ancora le masserizie anche più umili; negli episodî lontani, intorno all'arca che altri tenta di scalare, altri di rompere con l'ascia; nell'inadatta zattera, dove è disperata e demoniaca la furia dei perduti; nei raccolti sotto la tenda percossa dalla bufera. Dove non è perduta ogni speranza, prima che l'istinto li soffochi, gli affetti sorgono più possenti negli umani: sotto il cielo fosco, mentre la tempesta torce anche i tronchi e cresce la distesa uguale delle acque, dove ancora emerge qualche greppo di terra, un padre mette in salvo il corpo del figlio, forse già morto; un ignudo porta a fatica sulle spalle la sua donna che si volge atterrita; sull'altura ultima, la madre fa riparo di sé ai figli e ancora ne cerca coi baci il sorriso; a un richiamo si volgono oziosamente due giovani amanti pur felici di essere stretti insieme. Ma la fantasia di M. traspone ogni tratto di quelle rappresentazioni episodiche in una idealizzazione delle forme corporee e degli affetti che crea un'umanità più grande, come nei vicini riquadri dell'Ebbrezza e del Sacrifizio di Noè, che son tutto un armonico e complesso contrasto di movimenti.

Risalendo dal Diluvio alle prime storie della Creazione, con le quali M. terminò d'istoriare la sua Bibbia, meglio si vede quanto nel breve termine, dal principio della vòlta alla fine, egli abbia accresciuto il suo potere d'idealizzare che lo trae del tutto lontano dall'accidentale realtà a forme che esprimono ai sensi i concetti più trascendenti, trovandole non per sforzo d'intelligenza, bensì per impeto d'ispirazione. Nella Divisione della luce dalle tenebre, l'Eterno, antropomorfo, è oltre l'umano: occupa lo spazio scindendo il caos come una forza che vi si avvolga e lo agiti in turbine; cerca con una mano il profondo, e con l'altra stabilisce i limiti. Nella Creazione degli astri maggiori e della terra egli si libra, massa enorme sostenuta dalla volontà e non dagli angioli che ne sembrano sgomenti: con irrevocabile imperio misura gli spazî del creato; poi si profonda, portato dal suo volere, e sotto la sua destra la terra germoglia, mentre nel vicino riquadro - la Separazione delle acque - egli rende immobili col gesto gli oceani.

Il Dio antropomorfo, vivente nella coscienza cristiana, consueto all'arte, da M. ha figura che magnifica le folze dello spirito e della materia: immenso occupa lo spazio; in ogni aspetto è sovrumano, nel volume corporeo, e nella tensione della volontà e del pensiero: la sua forma visibile è intesa soltanto a esprimere peso, forza e movimento e li esalta, purificandoli da ogni estranea contingenza.

Nella Creazione dell'uomo sembra M. avere presente la tradizione iconografica, dal rilievo di ugual soggetto nel campanile di S. Maria del Fiore a quello di Iacopo della Quercia nel S. Petronio di Bologna, ma ne trasforma a fondo tutti i dati. Non più torvo nello sforzo della volontà sulla materia bruta come negli atti precedenti, ora, mentre partecipa lo spirito, l'Eterno si libra sorridente alla sua propria immagine, nella felicità di destare in un attimo la vita nell'uomo, col contatto dell'indice: da lui trascinati, guardano con ammirazione la sua creatura gli angioli; Adamo già sorge, e pur ancora aderisce alla terra come se le membra possenti non si sciogliessero prontamente dall'inerzia: si volge egli al Creatore, ma nell'atto lento, nell'incerto sorriso, è già in lui al primo destarsi una inerte stanchezza. E se dinnanzi alla sua figura si può rievocare quella giacente dell'"Ilisso" del frontone occidentale del Partenone (Londra, British Museum), dalla plastica armonia dei suoi atti, dal contrasto di forza e d'inerzia, tra le risonanze classiche, sorgono nuovi sensi, si manifesta una diversa coscienza, più profonda, spossante.

Nella Creazione di Eva l'immaginazione di M. è in tutta la sua "terribilità": l'Eterno, oscuro nel gran manto, guarda nel profondo il destino, e pur incuora la donna che sorge e prega - possente generatrice - mentre Adamo è in un sonno simile alla morte; squallida è la terra, il mare senza moto, disseccato il tronco su cui pesa il corpo dell'uomo; il futuro si sente incombere su tutto. Se Iacopo della Quercia, di cui certamente M. portava vivo il ricordo, aveva tragicamente improntata la Creazione d'Eva, qui M. porta ad altra potenza lo stesso cupo sentimento del fato.

Il Peccato originale, la Cacciata dal Paradiso mostrano al massimo quanto M. si concentri nella figura umana, per esaltarne le energie ed esprimerne gli affetti, come ne cerchi aspetti semplici universalì e ne componga gli atteggiamenti in armonie di forme e di ritmi che sono nell'arte il suo risultato più astratto e più alto, pur strettamente congiunto all'individuazione dell'intimo e del soggetto. Sullo sfondo brullo, rimossi tutti i particolari, non campeggiano che le figure: Adamo trae risoluto il ramo, Eva volgendosi oziosamente, ma con lo sguardo grave di desiderio, prende il frutto dalla mano del Tentatore: uno stretto gruppo, di moti e di contrasti, formano insieme le due figure; poi vanno, gigantesche, cacciate sulla terra deserta, e negli atti rivelano quella diversa coscienza del male che anche Masaccio (v.) aveva impressa nella sua Cacciata dal Paradiso, in atti intimamente affini a quelli di M. pur nella differenza dei mezzi pittorici.

Gli affreschi nei quattro pennacchi triangolari ai due capi della vòlta poterono essere eseguiti anch'essi in due riprese, e forse con intervallo tra la prima e la seconda.

Più prossimo al Diluvio, per forme meno eroizzate che negli altri, l'affresco di Giuditta e Oloferne ha tanta semplicità di composizione nello scenario, nelle figure, nei moti, da rammentare Giotto: nella dominante originalità di M. risuona l'eco dei suoi maestri. Pochi tratti architettonici definiscono lo spazio nella cui ombra sono il viluppo di un dormiente, il pollaiolesco tronco del decapitato; sono scolpite entro un chiarore di rigidi colori le due donne: né mai l'arte fiorentina mostrò la sua volontà di definire i moti interiori quanto nell'atto di Giuditta che copre il capo troncato e pur si volge a guardare l'ucciso. Nel secondo pennacchio, l'affresco di David e Golia è una visione di forza mostruosa e di violenza; nella Crocifissione di Ammano e, ancor più, nel Serpente di bronzo, entro i due ultimi scomparti, sono torturanti gli scorci e gli atti: il cumulo dei corpi sembra preparare il forsennato tumulto del Giudizio universale.

Meglio libero dai vincoli del soggetto, ch'egli pur seppe superare sempre, nel tema generico dei profeti e delle sibille M. manifestò anche più il suo animo e il suo potere di esaltare e di definire la vita interiore, pur in un atto, in un gesto solo, non determinati da alcuna esterna necessità. Le forze dell'intelletto e del sentimento, la riflessione, il pensiero, l'ispirazione che isola dal mondo, e quella che erompe nella visione, sono impersonate nelle figure gigantesche dei profeti e delle sibille, grandeggianti su tutto nella vòlta della Cappella Sistina, nel risalto e nella massa plastica, nel movimento. Sono figure fortemente individuate in ogni aspetto fisico, ma così mosse dall'interno spirito che questo solo sembra generarne anche le parvenze caduche, il vigore erompente della giovinezza, la decrepita tenace vecchiezza; più grandi nelle membra e nell'animo, da Ezechia al Giona, dalla Sibilla delfica alla Libica, con l'infervorarsi dell'ispirazione e della foga del maestro dalle prime parti alle ultime della sua creazione. La Sibilla delfica fissa lo sguardo estatico, agitata dalla profezia, fremente nelle labbra: il suo atteggiamento sta per risolversi; nel suo aspetto ogni tratto dei contorni e della modellazione contiene virtualmente il movimento. La Eritrea, al cui leggio un genio riaccende la lampada, sfoglia il libro, chiarita a fondo nell'attenzione mentale come nella sua statica gravità; ma la Libica, nella complicazione degli atti - è estremo il contrapposto delle membra - sembra assente col pensiero riponendo il libro, presa dalla meditazione delle parole che vi ha letto; la Persica e la Cumana, intente a leggere, sono ideali figure di riflessione e di energia nella decrepita vecchiezza che curvandole sembra farle più forti. Nelle figure dei profeti, che i libri sacri e la tradizione determinavano più di quelle delle sibille, M. non fu meno libero nell'immaginare, benché non sempre ne trascurasse il carattere storico: in alcune - in Zaccaria, nel Gioele e nello stesso Isaia, pur concitato dal richiamo dei geni - egli intese soprattutto alla robustezza plastica e all'energica composizione; in altre, col procedere del lavoro, trovò i più alti toni dell'ispirazione. Ezechiele proclama le sue visioni, impetuoso, potente a suscitare le genti. Geremia, il profeta delle Lamentazioni, s'immerge nella riflessione, gigante, dominato e oppresso dal pensiero, inquieto nel suo raccoglimento e pur lontano dall'operare, mentre con la mano possente preme sulle labbra la voce - compagno del Mosè che M. in quel tempo ideava. Giona si torce atterrito quasi uno dei risorti del Giudizio, ché forse nella mente del maestro già era il pensiero di concludere la grande epopea delle origini con l'affresco ch'egli doveva eseguire venti anni dopo.

Come la Commedia di Dante, il cielo della Cappella Sistina può essere indagato sotto molti aspetti, né mai si può credere del tutto esplorato in ogni parte: ma i sensi arcani che gli esegeti con varia fortuna vi hanno cercato, fino a supporre tra gli angioli intorno all'Eterno nella Creazione di Adamo la figura di Eva - già esistente nell'idea divina prima ancora di essere creata -, oppure i rapporti che vi si possono trovare con la cultura e con la coscienza religiosa del Cinquecento, anziché chiarirlo, possono distrarre la mente dal suo valore più alto, universale, e che pur sempre chiaramente si vede, come ben lo videro i contemporanei (e Raffaello lavorava allora nelle Stanze vaticane) quando esso fu scoperto, e trovarono a definirlo una parola nuova: "terribilità", cioè misteriosa grandezza che nell'arte centuplica la capacità dei sensi e dell'animo, trasportando in un mondo superiore, dove le forme corporee svelano a fondo il loro essere, la vita si esalta in quel vigore, la mente ha quelle profondità, i moti si compongono con quei ritmi armoniosi e potenti.

Al tempo dei primi affreschi nella vòlta della Sistina può appartenere, almeno in parte, la tavola del Seppellimento di Cristo (Londra, National Gallery), documento del non interrotto esercizio di M. nella pittura, onde ebbe animo di affrontare la vastissima opera. Forse egli aveva incominciato prima a Firenze quella tavola nella quale sono i segni d'uno studio quasi quattrocentesco del caratteristico, o nella donna accosciata a sinistra, il cui gesto, di contemplare la corona di spine, è compiuto in un disegno di M. per la stessa figura ignuda, oppure nell'individuale aspetto della figura che regge il Cristo a destra; ma nel Redentore e nel giovane a sinistra vi tenne un fare più largo, perché probabilmente il dipinto rimase a lungo nel suo studio, ed egli poté riprenderlo a intervalli, prima di lasciarlo incompiuto e di ammettervi forse la mano di un aiuto.

A Firenze e a Roma (1813-1534). - Pochi mesi dopo lo scoprimento della Cappella Sistina, la morte di Giulio II obbligò a pensare al sepolcro che il papa aveva raccomandato di compiere. Ne fu rifatto il contratto con M. per un nuovo suo progetto (1513) che riprendeva e mutava il precedente: su un alto basamento a forma d'edicola, spartito da pilastri e da nicchie con statue e con rilievi di bronzo o di marmo, doveva il papa sul feretro esser sostenuto da tre figure, circondato intorno da sei grandi statue sedute: cinque altre statue, di proporzioni anche maggiori, entro un partito architettonico, avrebbero formato sfondo al tutto, ché il mausoleo doveva avere un lato addossato alla parete. Idea già concepita fin dal 1505, marmi fin d'allora preparati e forse in parte lavorati o sbozzati dovevano trovar luogo nel nuovo progetto; ma a questo. non sembra anteriore la concezione del Mosè - una delle sei statue sedute da collocare nel piano del mausoleo -, tanto essa è congiunta alle figure della vòlta della Sistina: e poté M. modellare la statua intorno al 1513, pur lasciandone incompiuto qualche tratto, poi finito circa il 1545 quando essa fu posta nel mezzo della tomba in S. Pietro in Vincoli.

Dinnanzi al colosso l'emozione è immediata: sorge oscuramente dalla stabilità della massa gigantesca, e dall'enorme energia ch'essa racchiude ed esprime nei suoi addentramenti; è guidata da ogni tratto - sia atteggiamento totale, sia piccola parte delle membra: le giunture; le mani; le labbra protese per fermezza e per sdegno; le orbite incavate dal pensiero e dalla volontà - a sentir la presenza d'una forza dominatrice, e di un incoercibile imperio. S'impersonano questi nella figura sovrumana per vigore corporeo e spirituale, per certezza morale; nell'atto incrollabile l'energia e il movimento virtuale sono alla massima potenza, espressi dal contrapposto delle membra, dal volgersi del capo, dalle incavate profondità dei panni; nel volto la tensione spirituale, a cui tutto è rivolto, prende aspetto definito, esprime l'animo risoluto, potente a punire se qualche cosa offenda il diritto sguardo, che giudica. È una rivelazione sensibile della forza del giusto e della legge morale: e domina e soggioga l'animo. Bene essa risponde al biblico Mosè, alla cui figura - come già al David gigante e ai profeti della Sistina - M. diede aspetto che storicamente la individua, pur esaltandola col proprio animo oltre ogni tradizione iconografica; ma il suo significato e potere sorpassano in tutti i sensi la rappresentazione storica: sono universali; e nessuna conoscenza del soggetto è necessaria a sentirli perché tutti si manifestano nella forma avuta dall'arte. Più che nel David, più che nei Profeti, M. trascende nel Mosè ogni aspetto contingente: osservazioni oggettive e particolari - di struttura anatomica, di moti e di espressione fisionomica - non sono che un mezzo remoto a dar corpo alla sua idea, se pur così implicite in ogni parte che per esse il Mosè va tanto distinto dalle vicine statue allegoriche; e l'idea, che in M. genera l'espressione plastica, intendendo all'universale, trova una forma che a questo soltanto intende: semplifica i tratti inutili, ingigantisce gli espressivi, crea l'eroe sovrumano. Seguitava così M. i modi già nettamente segnati nel David gigante: e ancora nel Mosè si vede quanto a formarli avesse contribuito l'arte classica, coi suoi capolavori d'idealizzazione, soprattutto con le sue statue gigantesche; sebbene non abbia pari il colosso di S. Pietro in Vincoli nella esaltazione ideale dell'energia fisica e morale.

Nel tempo stesso lo scultore preparava altri marmi per la tomba di Giulio II, poi non collocati nella tomba di S. Pietro in Vincoli: i due Prigioni (Parigi, Louvre), ch'egli donò non finiti a Roberto Strozzi, da cui passarono a Francesco I; e al Prigione legato lavorava appunto nel 1513 o nel 1514. Volevano essere personificazioni delle arti, finite con la morte del loro patrono Giulio II: lo accenna un attributo, sbozzato quasi indistintamente, presso il Prigione sfinito. Dovevano quasi perdersi nel coro di statue intorno al mausoleo, e sono delle più alte creazioni in cui M. abbia esaltato eterni sensi umani.

Il Prigione legato si ribella alla forza che lo trattiene; più che il dolore lo sdegno torce il suo corpo possente, e nell'atto nobilmente composto, nello sguardo volto in alto, nuovo Prometeo, ben dimostra egli, più che il tormento fisico, la rivolta dell'animo. Ma nell'altro Prigione - che dovette essere ideato nel medesimo periodo - la volontà è fiaccata: ritorte non legano le giovani membra atletiche; ma l'intimo si è piegato alla vanità d'ogni sforzo e il corpo si abbandona, il capo è riverso, chiuso nel sonno angoscioso. Nelle due figure i diversi affetti hanno forma così ideale che non consente di sentirli come accidentali: una forma che li rivela profondi universali sensi dell'anima umana, e li compone in nobiltà di atti, in armonia di ritmi, traendo dolcezza dal tragico dolore.

M., sul primo limite della sua età matura, nei due Prigioni mostra di esser giunto a quella sua profonda concezione della vita e del dolore da cui trarrà i capolavori futuri. Ma nel Cristo risorto ebbe ancora una delle ultime serene visioni. La statua commessa al maestro nel 1514, e allora da lui concepita e in gran parte condotta, era stata tralasciata per un difetto del marmo (né, poi donata dal maestro a uno dei committenti romani, si è più rintracciata); fu ripresa, in un altro esemplare, probabilmente fedele al primo concetto, molti anni più tardi, ma venne finita (1521) da aiuti - Pietro Urbano e Federico Frizzi - che raffreddarono nella forma la prima elevata ispirazione (Roma, S. Maria della Minerva)

Un nuovo contratto (1516) modificò ancora una volta il progetto per la tomba di Gíulio II: riduceva di molto, sui fianchi, le dimensioni del mausoleo, ma ne sviluppava in alto l'architettura in un secondo ordine con pilastri, con nicchie e statue, con rilievi di bronzo. Esso consentiva al maestro di attendere all'opera anche fuori di Roma: e M. poco dopo assumeva a Firenze di costruire la facciata della chiesa di S. Lorenzo. Era la sua prima grande opera d' architettura: ed egli, nel formarne diversi disegni e modelli (da cui fu derivato il modello di legno in casa Buonarroti), si mostrò sempre più indifferente all'interna struttura della basilica laurenziana, ideando la facciata su forti linee orizzontali in due serrati ordini di colonne e di spartimenti nei quali avrebbe trionfato la scultura con rilievi di bronzo e con statue; ma presto tralasciata da Leone X quell'impresa (1520), ritornò a lavorare in Firenze alla tomba di Giulio II.

Meglio a quegli anni (1520-1522), che ad un periodo più tardo, convengono i quattro colossi marmorei, probabilmente destinati a quella tomba, che rimasero sbozzati soltanto in parte nello studio dell'artista fino alla sua morte. Donati poi dal nipote di M. a Cosimo I e adattati dal Buontalenti nella grotta di "tartari" del giardino di Boboli, infine tolti da quella geniale scenografia che li opprimeva, riapparvero tanto maggiori (Firenze, Galleria dell'Acacademia), legati e oppressi solo dai proprî blocchi marmorei. Uno stesso sentimento li unisce al S. Matteo ideato nel 1505, e ai due Prigioni (1513), ma in essi diventa ancor più potente esaltandosi in forme più eroiche nel tormento nella ribellione e nell'ultimo abbandono.

Né mai il divino furore dell'ispirazione di M. appare così in atto come nelle enormi forme che prendono figura entro il marmo, ancora involute in parte nella materia dove lo spirito le crea: lo sforzo e il vigore dell'artista, impresso nel lavoro incompiuto del mamo, è così consono all'animo che muove dall'informe quei corpi, e che li opprime, che i grandi blocchi rudi e sbozzati sono nell'arte di M. il suo più finito capolavoro. Uno dei colossi smuove lentamente le grandi masse muscolari, già quasi tutto libero dall'ingombro del macigno nella veduta di fronte, da cui l'artista l'aveva ricercato, ma ancora oscuro in volto: e sembra prossimo a cessare ogni sforzo; un altro cede e resiste insieme al gran peso che l'opprime, difendendosi col braccio il capo, inarcando il torso e la gamba, raccolto tutto nel travaglio a cui soggiace; il più giovane appunta forte il braccio contro il peso, e nei tratti vagamente accennati del volto, tra i mobili segni della prima sbozzatura, sembra inconscio sorridere alla propria fiorente forza; ma l'ultimo si divincola entro il marmo che più degli altri lo stringe, racchiusa ancora la testa nel blocco informe: e ciecamente lotta contro l'oscuro destino.

Sempre più dominatore della profonda coscienza di M. era il senso dell'umano travaglio; e lo scultore stava per trarne altri canti, trasmutandolo in poesia: le statue delle tombe medicee.

Sciolto dai lavori per la facciata di S. Lorenzo, M. s'impegnò nel 1520 col cardinale Giulio de' Medici, che poi fu Clemente VII, a costruire la "sagrestia nuova" della stessa chiesa, e a comporvi i sepolcri di Giuliano e di Lorenzo il Magnifico, di Lorenzo duca d'Urbino, di Giuliano di Nemours, e dello stesso cardinale. Trovava già murato l'ambiente sino alla cornice esterna; ne rimodellò tutto l'interno e lo coprì di cupola emisferica che già nel 1525 era compiuta anche nella complessa lanterna. Così nella struttura quadrangolare a cupola, con sacrario anch'esso quadrato, come nello spartirne gli spazî con le membrature di bruno macigno profilate sulle chiare superficie, e in semplice funzione di cornici, seguitò M. la tradizione fiorentina derivata dal Brunellesco. Contrasta a questa la compatta forma a cassettoni della cupola, ma nelle lunette è raccordata alle leggiere membrature di macigno da quelle finestre rastremate (riprese da M. su moduli di porte classiche) che nella loro novità mostrano quanto il maestro fosse intento a innovare i particolari architettonici, egli che nei progetti per la tomba di Giulio II aveva introdotto pilastri in forma di "termini" e per gli archi chiusi della loggia del palazzo mediceo aveva trovato le inusate finestre "inginocchiate" su alti mensoloni. Ed ecco dentro le timide cornici tradizionali, che prime risaltano alla vista, erompere in tutto nuove le forme altrimenti plastiche del rivestimento marmoreo dell'ordine inferiore: sulle porte, cui sono collegate da mensole, quasi finestre "inginocchiate", edicole premono con la curva dei loro frontoni spezzati quelle cornici; nelle due pareti laterali, il vano maggiore è spartito da pilastri, da nicchie profonde, da frontoni che recidono il chiarore dei marmi, ed è coronato di un fregio leggiero, mosso in ghirlande e in balaustri. Si direbbe che M. abbia voluto rievocare nell'insieme delle riquadrature di macigno la tradizione brunelleschiana soltanto perché in antitesi risaltassero il complesso movimento e la novità d'ogni tratto di quelle parti marmoree; ma nulla v'è di retorico nel suo concetto, guidato da un senso dei rapporti nell'effetto totale che dà assoluta unità d'impressione all'insieme apparentemente discorde. Tutta l'architettura della cappella forma piedestallo alle tombe, alle sculture, che sembrano modellate con quella: nelle sculture il movimento è più alto; esso si distende, meno complesso, nel rivestimento marmoreo dell'ordine inferiore; è limitato, come in ultima onda, dalle lievi cornici quattrocentesche: tutto è coordinato così da raccogliere l'animo verso le tombe. Da principio (1520) M. dubitò se unire i sepolcri nel mezzo della cappella in un'edicola quadrifronte, o addossarli alle pareti accoppiando in ognuno due sarcofagi; ma presto, ridotte le tombe a due sole - di Lorenzo duca d'Urbino e di Giuliano di Nemours - formò il progetto definitivo della decorazione e delle sculture: e già nel 1521 dava a Carrara le misure dei marmi per alcune statue, tra cui la Madonna, poi collocata sul loculo, di fronte all'altare, dove vennero poste le spoglie di Lorenzo il Magnifico e di Giuliano suo fratello.

I lavori dei due mausolei, già in corso nel 1524, furono condotti con molta lentezza, anche per i casi politici che durante la cacciata dei Medici consigliarono M. ad attendervi "segretamente": nel 1533, poco prima di lasciare per sempre Firenze e l'opera della cappella medicea, M. chiamava il Montorsoli a finire la statua del duca Giuliano; al Montorsoli e a Raffaello di Montelupo lasciò di condurre - su suoi modelli, a detta del Vasari - le statue dei Ss. Cosma e Damiano che vennero poste a lato della sua Madonna: altre statue, tra cui quelle dei Fiumi (ne resta un modello in creta all'Accademia di Firenze), che dovevano completare i mausolei e l'intiera decorazione, non furono mai eseguite, come pur le decorazioni di stucchi e di affreschi progettate per la cupola e per le pareti; e sono in parte non finite le stesse statue giacenti sui sarcofagi, alle quali M. aveva lavorato di sua mano.

Simili di forma, i due mausolei sono legati strettamente alla decorazione architettonica dello sfondo marmoreo, preparata per le loro sculture (altre statue dovevano trovar posto nelle nicchie vuote, a lato dei due "capitani"), ma se ne spiccano forte. Le urne, su un plinto poliedrico di cristallina semplicità, profilate recisamente, tendono le due ali delle volute, anch'esse concetto nuovo del maestro, e consono all'animato movimento dell'insieme, pur nelle geometriche loro linee; entro la calma riquadratura delle cornici di macigno si appunta la piramide delle figure; e in ognuna di queste, pur nei lenti gesti, acuto preme l'animo inquieto. Sui curvi coperchi dei sarcofagi, male atti al riposo, si volgono le quattro figure giacenti, cui nessuna industriosa interpretazione di moderni esegeti mai potrà dare nome piû appropriato né altro senso di quello voluto da M. stesso: la Notte e il Giorno, con le ore diverse - l'Aurora, il Vespero - "a significare il Tempo che tutto consuma". Era questo un concetto comune già nella scultura funeraria antica, che nei sarcofagi aveva moltiplicato le immagini del Tempo - il Sole e la Luna, le Stagioni -; ma nessun precedente ha la grandezza e la profondità ch'esso assume nel pensiero e nell'arte di M. Sull'urna di Lorenzo, la Notte - cui non mancano gli attributi del gufo e della vana larva - nel sopore profondo abbandona il maturo corpo possente, ma non ha requie, nel tormentato atto, piegando grave il capo per togliere agli occhi ogni luce; il Giorno, nella sua atletica virilità, giace ozioso e alla forzata postura del sinistro braccio e delle gambe ben dimostra di non intendere ad azione alcuna. Né altro animo ha, sull'urna di Giuliano di Nemovrs, il Vespero volgendo il capo, nella meditazione della lunga giornata inerte; ma più triste è l'Aurora, giovane come la prima ora del mattino: quando lo spirito rinasce dall'ombra del sonno, e si rischiara al canto dei viventi, ella si stende dolente, febbrile, e a fatica si alza sul cubito: la luce l'ha ridestata; l'animo ha perduto i sogni, e lo sguardo si turba rivedendo la vita, e le labbra hanno un gemito. Vanità delle cose e dell'essere; dolore, inutile ogni sforzo. La voce che giungeva a M. dalle Scritture sacre, che echeggiava nei suoi poeti, rinvigorita dal suo spirito cristiano e dall'amara coscienza, risuona alta nella cappella medicea, e nella fortezza di lui assume toni più potenti e universali, mentre l'arte la trasfigura in bellezza consolatrice. Non fiacchezza né fragilità di natura nelle figure giacenti sulle urne: la loro vitalità fisica è oltre l'umano nelle possenti membra; ma la volontà non le regge e le loro forze ricadono inerti. Nel contrasto tra l'energia corporea e l'inerzia spirituale più forte è il dramma; ma l'alta poesia di M. lo compone in armonie - indicibili ritmi, contrapposti di forme e di gesti - che rasserenano e confortano: nell'atto stesso di pronunciare l'inutilità del vivere, dell'operare, e l'infinita vanità del tutto, M. crea, riaffermando nel modo più alto il potere dello spirito. Nelle statue dei due "capitani", al vertice delle tombe, dicevano i Fiorentini di non riconoscere né Lorenzo né Giuliano de' Medici: e non erano invero ritratti quelle ideali figure in cui M. esaltò l'energia interiore, pronta all'azione ma ponderata - Giuliano di Nemours -, oppure chiusa in profonda riflessione, nel "pensieroso" Lorenzo, che nell'atteggiamento non è meno atto all'operare. Nel "Pensieroso", la cui potenza plastica e psichica è moltiplicata dalle ombre, cercate nell'elmo e nei profondi sottosquadri, la modellazione è condotta con quel semplificare, per far grande, che M. accentuò sempre più dal David gigante in poi, improntato in ogni scultura delle tombe medicee, ma ha maggior larghezza che nella statua di Giuliano, cui la rifinitura del Montorsoli diede precisione ma certo diminuì calore. La Madonna, che M. aveva ideata già nel 1521, potrebbe dirsi piena applicazione del precetto di M., riportato dal Lomazzo, che le figure dovessero essere "piramidali e serpentinate", se ogni astratta norma di arte non fosse soverchiata dall'emozione che sorge viva da quel tormentoso atteggiamento: avido si torce il Bambino a suggere il seno della Madre; e questa si volge in sé nell'inquieto pensiero. Per contrario, nel Genio vittorioso (non è certa la sua destinazione alla tomba di Giulio II, ma bene fu ricollocato a simbolo della vittoria nel maggior salone di Palazzo Vecchio, a Firenze), pur nella nobiltà d'ogni tratto che lo riavvicina alla Madonna, è troppo visibile quella formula d'arte, ed imminente la fredda astrazione di opere più tarde.

Il David, già creduto un Apollo (Firenze, Museo Nazionale), cui M. lavorava nel 1531, è spiritualmente compagno alle figure giacenti delle tombe medicee, ma nell'incompiuta modellazione sembra anche più grande e richiama i Prigioni: rappresenta così altamente la rinuncia e la coscienza della vanità dell'azione - più opprimente nell'atto stesso della vittoria - da esaltarne il valore morale, perché sembrano generate dalla riflessione che scopra il profondo. La figura del Giovine accasciato (Leningrado, Eremitage), destinata forse a cariatide per la cappella medicea, e appena sbozzata, nell'atto che non risponde a nessun movente superiore, meglio dimostra il potere di M. che esprime in modo ossessionante l'angoscia e lo scoramento nel materiale viluppo degli arti. Compagna alla Notte era la Leda dipinta da M. per Alfonso d'Este durante l'assedio di Firenze, poi da lui donata, con molti suoi disegni, allo scolaro Antonio Mini che la portò in Francia (1532), dove andò perduta. Ne ripeteva quasi l'atteggiamento, e, benché non senza rapporto di composizione con gemme e con sarcofagi antichi, doveva esprimere un affannoso incubo. La fantasia del maestro trasfigurava in sè anche il mito classico: come la Leda, lo attestano i disegni per Tommaso Cavalieri (1532 circa), tra cui uno di quelli per la Caduta di Fetonte (Windsor, Bibblioteca Reale) nella levigata modellazione richiama le statue delle tombe medicee e precede nei moti il Giudizio.

Anche altri lavori, non portati oltre i primi progetti, oppure eseguiti da altri, avevano occupato M. in questo periodo: cartoni per dipinti dati a colorire al Pontormo (la Venere baciata da Cupido, anch'essa affine alle statue delle tombe medicee); disegni e composizioni che servirono a Sebastiano del Piombo per la Pietà di Viterbo, per la Flagellazione di S. Pietro in Montorio a Roma, per la Resurrezione di Lazzaro (Londra, National Gallery); progetti per le tombe di Leone X e di Clemente VII, per un ciborio nel S. Lorenzo di Firenze, per un gruppo colossale che la Signoria gli affidò (1528), da far riscontro al suo David (Ercole e Anteo; Ercole e Caco; Sansone e i Filistei). Nello stesso tempo il maestro aveva atteso a fortificare Firenze assediata, a costruire (1531) il sacrario per le reliquie sulla porta maggiore di S. Lorenzo e soprattutto la Biblioteca Laurenziana. Questa gli era stata commessa (1524) da Clemente VII con molte esigenze per la bellezza e la sicurezza dell'edifizio che doveva custodire il tesoro dei manoscritti medicei: e, per certo stabilitone l'intero progetto, già nel 1526 ne erano messe in opera alcune colonne dell'atrioi o "ricetto"; nel 1533 si pensava ai suoi banchi, che dovevano essere disegnati da M. come il soffitto. Ma, benché il maestro avesse dato (1533) modelli anche per la scala dell'atrio, rallentatisi i lavori dopo ch'egli ebbe lasciata per sempre Firenze (1534), la scala non fu costruita che molto più tardi (1560) da B. Ammannati attenendosi alle lettere e a un modello mandati (1558) da M. (che cercava di richiamarsi alla mente il progetto formato tanti anni innanzi), ma senza seguirne il consiglio di farla piuttosto di legname che di macigno. E soltanto modernamente fu completata, sui concetti del maestro, l'architettura interna del ricetto.

È questa, che dovette esser concepita subito dopo l'architettura della cappella medicea, una creazione in tutto nuova, nella quale, entro l'apparente stabilità, accentuata dal consueto contrasto fiorentino delle brune membrature e delle chiare superficie, il movimento delle forme e del chiaroscuro è portato a tale intensità da preparare le bizzarre contrastanti curve della scala, ch'è già un pieno capriccio barocco, e dei primi. Sull'alto imbasamento, appena distinto da mensoloni, due ordini cingono all'intorno lo stretto alto ricetto in un serrato insieme di cornici, di colonne a lor volta chiuse entro profonde incassature, di finestre e di edicole. E se altri non trova alcuna necessità di statica a molte di quelle membrature, né alle colonne accoppiate e incassate, sufficiente ragione fu il comporre forme architettoniche, quasi astratte da ogni pratica necessità, in quel ritmo alto e solenne che si eleva nel vestibolo della biblioteca come alla soglia di un tempio. La porta, a frontone spezzato, le finestre a stipiti rastremati, il riquadrarsi delle cornicette sui vani al di sopra delle finestre furono modellati da M. trovando quella robustezza raccolta che lo portò a semplificare capitelli e sagome con sottile astrazione geometrica. Dall'atrio si schiude la profonda sala: il concluso ritmo del fitto ordine di finestre, di cornici, vi ripete i temi fiorentini del Quattrocento in variazioni nuove; il soffitto intagliato riprende gli spartimenti inferiori (e così lo vagheggiava Clemente VII) ma nei vasti cassettoni si alleggerisce in curve e in ornati nei quali M. si mostra innovatore anche della decorazione.

A Roma (1534-1564). - Stabilitosi per sempre a Roma (1534) il maestro dovette subito riprendere gli studî e i cartoni del Giudizio universale che Clemente VII gli aveva ordinato nel 1533; e nel 1536, distrutti i dipinti del Perugino e i suoi proprî che già occupavano la parete di fondo della Sistina, intraprese l'affresco, che fu finito e scoperto soltanto nella vigilia di Ognissanti del 1541. Subito, fra l'ammirazione universale, non mancarono le voci discordi dei moraleggianti, a cui si unì Pietro Aretino: e poco dopo Daniele da Volterra ebbe incarico di coprire in parte le nudità di molte figure del Giudizio; in seguito, l'oscuramento prodotto dai ceri (M. bene aveva provveduto a riparare l'affresco dalla polvere rifoderando la parete con un forte spiombo), e forse i ritocchi per schiarire lo sfondo, resero fosco il dipinto che mai, a detta del Vasari, non ebbe "vaghezza di colore", sebbene Marcello Venusti nella sua copia del 1549 (Napoli, Museo nazionale) lo ritraesse in chiari striduli toni. Pure, anche offuscato, l'affresco conserva tutto il suo potere. Nel cielo nubiloso soltanto qualche plaga di più vivo azzurro e di luce; tenebrore sulla terra brulla e sulla livida palude; ogni cosa scompare, lo spazio stesso è limitato: tutto si concentra sulla moltitudine umana, or trascinata in irresistibile caduta, or volgentesi in massa intorno al Redentore. Entro il tumulto ogni forma umana risalta, ha evidenza di struttura e di movimenti anche nei gruppi più folti e scuri dove sembra confondersi in cumuli di corpi: a esprimerne l'energia e il moto converge ogni mezzo pittorico. E con chiarezza la turbinante visione si scinde e si ordina in gruppi. A intenderne i sensi non occorrono faticate interpretazioni; bastano la dottrina religiosa, la comune cultura letteraria, le tradizioni dell'iconografia artistica ch'erano presenti a tutti, e non consentivano oscurità mentre così chiaro parlava la forma dell'arte. Bene M. avrà sorriso delle lambiccate allegorie che Pietro Aretino gli proponeva (1537) per il suo Giudizio, mentre egli già ne aveva fissato così chiaramente lo schema, disposto in grandi zone come nelle figurazioni tradizionali. Accorrono dall'alto gli angioli portando i simboli della Passione a testimoniare la redenzione e la giustizia del castigo; intorno al Cristo giudice, cui si accosta pietosa Maria, si accalcano gli apostoli, le miriadi dei santi; angioli destano con le trombe i morti che risorgono e riprendono carne dalla terra; e dei risorti, altri si libra o è portato verso l'alto, altri precipita o è trascinato in basso dove già Caronte nocchiero sfolla dalla sua barca i dannati, e il demoniaco Minosse, avvolto dal serpe, li giudica al limitare dell'inferno.

Ma così semplice contenuto non a tutti parve sufficiente alla grandezza dell'opera: non si pensò che il genio dell'artista più che nelle complicazioni mentali del soggetto poteva dimostrarsi nel trasfigurare la materia più comune, nell'attuarla in nuovi modi; e come la Commedia di Dante il Giudizio di M. attrasse in oscure profondità le menti degli esegeti. Le figure dantesche di Minosse e di Caronte furono facile tramite a supporre in ogni parte l'ispirazione dantesca: si trovò nella composizione, divisa in tre zone, un rapporto coi tre regni di Dante; nel cerchio dei santi intorno al Redentore, la mistica rosa dell'empireo dantesco; tra gli eletti, Beatrice, Rachele, S. Bernardo; tra i dannati, Niccolò III, Paolo e Francesca; tra i risorgenti, Dante medesimo a cui Virgilio si avvicini. Il gruppo degli angioli con le trombe fu chiave ad altri per cercare nel Giudizio un'illustrazione del Dies irae; ad altri le Sacre Scritture, dai Profeti all'Apocalisse, parvero commentate da diversi episodî, e ispiratrici del senso di vendetta e di dannazione che impronta il tutto. Meglio delle forzate e parziali interpretazioni è tener presente le tradizioni iconografiche del Giudizio universale, di certo conosciute da M.: in esse - dal Medioevo a Giotto - la composizione era distribuita chiaramente in larga superficie ma in poca profondità, a zone sovrapposte; gli angioli portavano i simboli della Passione; la Madonna stava accanto al Cristo tra gli apostoli (e sola, senza il Battista, è nel Camposanto di Pisa); eletti e reprobi occupavano separatamente i due lati inferiori; dal Trecento, erano sovente introdotti nel Giudizio la figura di Dante e ricordi danteschi, a cui il Signorelli - ben noto a M. - aveva dato tanta parte negli affreschi di Orvieto. La tradizione iconografica; la lettura delle Scritture, familiare al maestro profondamente religioso; e quella di Dante; il tremendo canto del Dies irae; e la voce del Savonarola che M. credeva riudire sempre dentro di sé; ma anche la sua pagana ammirazione della forma umana, furono condizioni variamente importanti alla creazione dell'artista che tutto trasformò in un baleno d'ispirazione, poi in un diuturno lavoro di preparazione e di meditazione dei particolari e dell'insieme (disegni in casa Buonarroti e altrove).

E fu la gigantesca visione in cui l'umanità tumultua per trovare un nuovo ordine intorno al Giudice. Grandeggia l'umanità nei corpi ignudi, di possanza atletica anche se una forza misteriosa li attragga verso l'alto, o li precipiti in basso; ma non ha requie nel tormentoso avvolgimento delle membra, non luce né sorriso negli atti, sul cielo smorto. Non vi sono beati: è il giorno dell'ira, il giorno della vendetta. Tutto è scosso dallo spavento sotto l'atto irrompente del Cristo. In gruppo, come atterriti, si stringono gli angioli chiamando i morti, che dolorosamente si staccano dalla terra. Non sono assorti i giusti nella contemplazione della Divinità, come nell'empireo di Dante: si accalcano, come nell'Apocalisse, invocando vendetta; portano i segni del loro martirio, li mostrano al Redentore, ne minacciano i reprobi (S. Sebastiano). Altri è tutto proteso nell'ansia del Giudizio, mentre un'eroina - forse Eva - qual Niobe, raccoglie a sé per proteggerla la figlia. Più prossimo al Cristo, qualcuno si volge quasi a frenare l'irrompente tumulto dei lontani; ma è incontenibile la massa degli accorrenti, nel cui cumulo oscuro qualche gesto, qualche lampo rivela l'impeto, mentre dall'alto sopraggiungono vorticosi gli angioli coi segni della Passione. È al centro del turbine e lo domina il figlio dell'Uomo. La sua umanità è esaltata nelle forme eroiche, nella giovinezza di cui si è rivestito; ma il suo gesto lo libera dall'umano e dal male. Non più a placarlo si volge la madre, come in una prima idea del maestro (disegno in casa Buonarroti), ma accostandosi a lui ancor sembra volerlo mitigare: e il suo sguardo è velato di pietà. Si compie all'intorno il destino. Da un lato, sopra la terra che restituisce i morti, ascendono, gravitano, sono aiutati a salire (fin col rosario, simbolo della preghiera dei giusti) gli eletti, mentre la sinistra mano del Redentore ne fissa le sorti: e gli atteggiamenti, mirabili dove più esprimano le forze interiori (come nelle due figure avvolte in sudario, lontane, quasi incerte di sé), sono quasi urtanti, invece, quando sembrano ridotti a un duro sforzo fisico. Dall'altro lato piombano i reprobi, cacciati dagli angioli, trascinati dai demonî, viluppo di forze sfrenate e impotenti tra cui si rannicchia un dannato afferrato da tre diavoli, folle di disperata coscienza; e nella barca di Caronte il ribrezzo dei corpi nerastri, ammassati e convulsi entro la tenebra, è accresciuto dagli atti orrendi di disperazione e di terrore.

È per tutto lo stesso spirito tragico che non ha requie, e tortura ogni propria immagine. La mente non vede che il male e la sua condanna: e se in questo le anime pavide trovano ragione di turbamento e di manchevole effetto della visione di M., per contrario le cause dell'innegabile difetto sono là dove la tragedia langue volgendosi a esercizi di abilità prodigiosa oppure dove l'artista, volendola più commuovere, nei groppi di figure, non libera linee e forme con quel nitore plastico che in un sol atto - come nel Buon ladrone, nel S. Sebastiano, nel S. Lorenzo, ecc. - gli dava di giungere alla più certa definizione dell'animo.

I difetti, nascosti nel Giudizio universale dalle travolgenti qualità, infestano i due affreschi della Cappella Paolina in Vaticano - la Conversione di Saulo, la Crocifissione di S. Pietro - dipinti dal 1542 al 1550, già danneggiati in parte da un incendio (1545), poi anche più guasti, e di recente rinettati.

Forzata ne è anche l'esecuzione tecnica che sembra voler gareggiare con la pittura a olio e cerca fusioni di toni che non accrescono la fermezza delle forme, pur sempre quasi marmorea: né vorremmo escluderne il concorso di aiuti. L'attenzione è tutta rivolta sullo sforzo fisico, né ciò formerebbe difetto se non contrastasse con l'astratta idealizzazione d'ogni parte; non è convincente nemmeno la rappresentazione del movimento, nell'incerto scorcio del cavallo di Saulo (ispirato a quello dell'arazzo di Raffaello, d'ugual soggetto) o nell'incomposto impeto delle figure; sono ampollose le composizioni in cui già sembrerebbe di trovar tutto il manierismo dei michelangioleschi, se non vi apparissero impronte vive del genio del maestro, o ricordi di passate ispirazioni: il turbinoso librarsi delle figure intorno al Cristo nella Conversione di Saulo (che dovette essere l'affresco eseguito per primo, sì che sembra mostrar tracce dell'incendio del 1545); brani di stragrande solidità plastica nella Crocifissione di S. Pietro, e l'insolita chiarità atmosferica.

Furono le ultime pitture condotte da M. ed è forza riconoscervi i segni della stanchezza del pittore, che s'intravvedono anche nella composizione dell'Orazione nell'orto, più volte riprodotta da altri su cartone del maestro e da Marcello Venusti (Roma, Galleria Corsini), mentre il cartone dell'Epifania (Londra, British Museum) può risalire a un periodo più vigoroso.

La fosca immaginazione del Giudizio universale rivela anche quanto il temperamento di M. fosse divenuto sempre più amaro: e illustra il racconto del Vasari che il maestro, feritosi nel cadere dal ponte mentre vi lavorava, si rinchiudesse in casa, rifiutando ogni cura, sdegnoso pur di sé stesso. Molte cause avevano potuto inasprire l'animo di lui: e su tutte la trentennale "tragedia" della tomba di Giulio II. Preso dai lavori per Leone X e per Clemente VII, e soprattutto per le tombe medicee, M. da tempo aveva quasi tralasciato quelli del mausoleo di papa Giulio quando, nel 1532, ne rinnovò il contratto con Francesco Maria della Rovere, duca di Urbino. Lasciati i precedenti progetti, egli si obbligò allora a fare un nuovo modello per il monumento (che doveva essere collocato a muro, in S. Pietro in Vincoli, come già prima si era pensato) con sei statue di sua propria mano; ma, occupato poi tutto nel Giudizio universale e nella Cappella Paolina, ottenne (1542) di commettere a Raffaello di Montelupo tre di quelle statue già da lui incominciate - la Madonna, un Profeta, una Sibilla - mentre egli stesso finì il Mosè e le due statue della Vita attiva e della Vita contemplativa, che aveva voluto sostituire ai due Prigioni (Parigi, Louvre) non più adatti alla nuova forma del monumento. Finalmente, nel 1545, compiuta da aiuti anche l'architettura del mausoleo su disegni di M., vi venivano collocate quelle statue e il sarcofago con la figura del papa, modellata da Tommaso Boscoli.

Uscito da così complicate vicende, il mausoleo di Giulio II manca di unità architettonica: l'ordine inferiore, composto quasi tutto di marmi sottilmente ornati dagli aiuti di M. molto tempo innanzi, e in parte forse fin dal 1506, non ha sufficiente raccordo con l'altro, cui M. disegnò nude membrature e "termini", non bene intesi dagli esecutori. In alto, delle tre statue di Raffaello da Montelupo, soltanto il Profeta e la Sibilla lasciano sospettare che M. avesse già improntato qualcosa nel marmo. In basso, non grandeggia che il Mosè (v. sopra), cui l'ultima rifinitura nulla tolse del primo empito; e accanto a lui sono scialbe allegorie la Vita attiva e la Vita contemplativa, che converrebbe credere terminate da altri più che dal maestro, del quale nondimeno rispecchiano il volgersi a idealizzare in modi sempre più astratti intimo e forma.

Pure, quando l'ispirazione sorgeva dal profondo, si dileguavano le formule intellettuali, l'ardore di esprimerla riprendeva l'artista dinnanzi al marmo, su cui irrompevano vigorosi la sua mano e il suo spirito. L'animo di M. si figgeva sempre più nella contemplazione della morte del Redentore, ne traeva forza, aneliti di doloroso amore; e la sua arte ritrovava, fuori d'ogni meditato concetto, per esaltare il sacrificio e la redenzione l'appassionato sentimento da cui erano sorti i capolavori che avevano esaltato l'umano dolore. Nella incompiuta Pietà, ora nella chiesa di S. Rosalia a Palestrina, che poniamo, pur tra molti avversi pareri, tra le opere certe di M. per la composizione, per la fattura larghissima e per la stessa tecnica del marmo, nasce la commozione dall'inesprimibile dolcezza del ritmo in cui si abbandona il Cristo. Nella Pietà (Firenze, S. Maria del Fiore) cui M. lavorava nel 1553, ritornandovi ogni giorno a scalpellare, il marmo non resse alla furia dell'artista ed egli, spezzatolo, lo lasciò non finito e rotto (le braccia del Cristo furono in parte rifatte da Tiberio Calcagni, che forse ritoccò altri tratti), ma tutto improntato dalla sua ispirazione. Il gruppo, nella forma piramidale, ricercata sempre da M., è tutto un contrapposto di parti; ogni atteggiamento vi è mosso da affettí profondi che si compongono in conclusa armonia di gesti: e la tormentata figura di Nicodemo, avvolta in un sudario, raccoglie l'animo nella meditazione e nel dolore come lo stesso maestro.

Altro marmo, in cui già era stata abbozzata una Pietà, dovette essere provvisto al maestro, impaziente di non modellare: e sei dì prima di sua morte egli passò la giornata a scolpirlo. Era forse la Pietà di casa Rondanini (Roma, palazzo Sanseverino), in cui il vegliardo, non curante della materia che mancava per il precedente abbozzo, andò cercando nel marmo un'immagine del Cristo più estenuata e più commovente, che soltanto la morte gl'impedì di trovare varcando ogni limite di realtà.

M., che si sentiva soprattutto scultore, in quelle ultime opere affermò infaticato e intero il suo potere creativo che intanto in altri modi aveva manifestato altamente nell'arte. Dopo gli ultimi affreschi, compiuta anche la tomba di Giulio II, si era volto sempre più all'architettura. Morto Antonio da Sangallo, che aveva lungamente diretto i lavori del nuovo S. Pietro, egli aveva accettato (1547) di essere a vita architetto della fabbrica, rifiutando ogni compenso ma ottenendo facoltà di disfare il già fatto e di riformare il tutto secondo il suo nuovo modello. Diede allora bando, con giuste ragioni, al progetto del Sangallo, per ritornare alla pianta "chiara e schietta, luminosa e isolata" di Bramante, che il Sangallo avrebbe voluto circondare di aggiunte esterne e prolungare con un atrio; ma, se mantenne il concetto bramantesco della costruzione concentrica, già attuato nei piloni e negli archi della cupola, lo riplasmò in tutto, semplificandolo, imprimendovi tanta energia da farne una delle maggiori espressioni del proprio spirito e della sua arte.

In sue precedenti opere di architettura egli aveva provveduto soprattutto a formare l'ambiente delle proprie sculture; col ritegno voluto da codesto scopo che non consentiva forti urti di masse, aveva cercato nondimeno contrasti di forme, usando quella sottigliezza di rilievi e di sagome già tenuta nella Biblioteca Laurenziana. L'immane costruzione vaticana gl'impose altri problemi che gli risolse con mirabile pratica (quantunque non sempre i suoi disegni, lui assente dai lavori, fossero bene eseguiti, onde fu necessario rifare qualche parte), mentre la sua arte ne traeva partito per trovare forme nuove, sempre più grandi. In contrasto con la struttura complessa e raccolta del modello di Bramante, in cui l'elevazione ultima era diminuita dalla serrata corona di colonne intorno al tamburo della cupola, ideò un insieme, meno complicato in pianta, su cui doveva elevarsi altrimenti la cupola dominando di slancio le gigantesche ma semplici membrature inferiori e la facciata leggiera per l'atrio a colonne. Aveva subito pensato (1547) alla cupola di S. Maria del Fiore; e se ne derivò nella tecnica della costruzione la struttura a doppio guscio, ne trasse per l'arte un suggerimento essenziale: di esprimervi più alla vista con le nervature esteriori l'energia ch'egli improntò per tutto. In nuovo modo M. subordinò alla cupola ogni parte. Il tamburo della cupola non fu più un raccordo inerte: si alleggerì; si ostentò altrimenti robusto nella cerchia dei potenti contrafforti, animati a loro volta dalle doppie colonne; e dal suo attico si slanciarono le nervature a sostenere in vista la complessa lanterna. Come nelle sue sculture, M. nella cupola di S. Pietro modellò fermamente i tratti che esaltano l'impressione della struttura energica e dello sforzo. E, come nella scultura, complesso e semplice, mentre nell'interno rendeva meno complicata della bramantesca la pianta della chiesa, e più unicamente coordinata al vano centrale, all'esterno compose tutto il corpo inferiore con tale semplicità da ridurlo a gigantesco imbasamento della cupola, dandogli insieme una nuova grandezza di forme. Rifiutata la tradizionale sovrapposizione di ordini, che Antonio da Sangallo aveva spinto fino al grottesco nel suo modello, cinse tutto l'esterno - come l'interno - di un solo colossale ordine corinzio. Di questo trasse concetto e proporzioni da antichi monumenti romani, ma li trasformò adattando, libero da ogni canone classico, pilastri e trabeazioni al vario perimetro della costruzione; e moltiplicò ancora il movimento e il contrasto di chiari e di scuri fra le enormi e animate membrature e superficie di travertino, con nicchie, con nicchioni a tabernacolo, con profonde finestre. In questi particolari permane la composizione quasi geometrica di contrasti di linee e di risalti, già cara al maestro nelle sue antecedenti architetture, ma acquista altro calore dagli ornati, dalla materia, da forme altrimenti complesse che si accompagnano ai moti più accentuati dell'insieme. Per attuare il suo modello, M. cominciò dal rinforzare i quattro pilastri principali già eretti dal Bramante, prima di costruire la cornice tonda della cupola sugli archi; condusse i bracci della croce con le finestre "di forma varia e terribile grandezza"; attaccò in punti diversi la costruzione, come ricorda il Vasari, per porvi dei capisaldi che poi, lui scomparso, altri non potesse mutare, mentre si sentiva circondato dagli intrighi della setta sangallesca". Nel 1555 già era costruito in parte il tamburo, ma ancora non era in tutto compiuto nel 1564. Morto M., la direzione dei lavori passò al Ligorio, e da lui al Vignola con stretta ingiunzione di nulla mutare nel progetto del maestro (lo afferma il Vasari), e infine a G. della Porta; che con D. Fontana eresse la cupola e la lanterna (1588-1590), mentre si compiva la parte absidale.

Della cupola M. aveva provveduto a lasciare un modello grandissimo, eseguito tra il 1558 e il 1561: ed è probabile ch'esso sia quello ancora conservato nel Museo Petriano, sebbene restaurato, ridipinto, arricchito di bozzetti di statue (sec. XVII) sugli sproni, e modificato nel guscio esterno con un sesto più acuto, che fu quello seguito da G. Della Porta e da D. Fontana dando maggior slancio all'insieme, minor volume alle nervature, pur senza nuocere troppo all'effetto ideato dal maestro.

Nella costruzione della basilica vaticana, lo stesso progetto primo di Bramante aveva portato M. ad una concezione dello spazio altrimenti grandiosa che nelle sue precedenti opere architettoniche egli la attuò in modo suo, coordinandola a quella esaltazione della energia che gli fu propria in tutte le arti. E, nel suo ultimo ventennio, trovò nell'architettura il mezzo più adatto a "far grande", come sempre aveva voluto, ma in modi più astratti (di questi è singolare saggio il disegno del mausoleo di Cecchino Bracci - 1545 - in S. Maria in Aracoeli), come allora voleva la sua mente sempre più rivolta a idealizzare. Lo incitava anche la grandiosità dei monumenti di Roma antica: e con essa si misurò, adattando a chiesa - S. Maria degli Angioli (poi molto alterata) - una parte delle terme diocleziane (1561); ma sentiva in sé la forza di creazioni originali e, disegnando progetti di costruzione concentrica per la chiesa romana di S. Giovanni dei Fiorentini (1559), poi non eseguiti, affermava ch'essa non avrebbe avuto pari né a Roma né nella Grecia antica.

Nel palazzo Farnese ch'egli ebbe da condurre innanzi dopo la morte di Antonio da Sangallo (1546), da lui aspramente criticato anche in quella costruzione, non si spiega ancor tutto l'ultimo suo stile nell'architettura: né nel troppo vantato cornicione, scelto (1546) a concorrenza di molti altri architetti e dello stesso Sangallo, né in quelle parti che il Vasari ricorda da lui disegnate: il balcone con lo scudo, capricciosamente modellato, di Paolo III; i due ordini superiori del cortile dove, nel primo piano, si possono con più certezza credere su disegno di M. soltanto le finestre e gli ornati del fregio. Si manifesta, invece, pienamente, nella Piazza del Campidoglio che il maestro, creato cittadino romano (1546), ideò degna del luogo più augusto nella vita civile di Roma. Già nel 1538 era stata trasportata dal Laterano sullo spiazzo capitolino la statua di Marco Aurelio, cui M. disegnò quella base che dà tanto rilievo alla figura dell'imperatore; e fu essa l'ideale centro del nuovo foro il cui breve spazio M. rese grande nell'impressione, e tanto da giganteggiare nei ricordi, con lo studiato accesso, con l'effetto scenico, coi rapporti di proporzione e con la nobiltà degli edifici che lo cingono e lo isolano. Lentamente procedettero la trasformazione della piazza e la costruzione dei nuovi edifici. Ancora assai lontana dal compiersi alla morte di M., nel 1568 - quando era diretta, con altri, dall'amico di M., Tommaso Cavalieri - non era avviata che nel loggiato del palazzo dei Conservatori, a destra; nel palazzo senatorio, dello sfondo, era giunta soltanto alle scale esteriori, onde poi Giacomo Della Porta, e altri che seguitò l'opera, poterono modificare il disegno di M., soprattutto riducendo ad ammezzato il piano superiore e alzando più alta la torre. Ma dal progetto di M., ritratto con fedeltà in antica stampa (1569), ebbero impronta l'intera piazza col suo ornamento di statue fluviali e dei Dioscuri, lo stesso palazzo senatorio nei lineamenti principali, i palazzi laterali il cui largo organamento formato dal colossale ordine corinzio è raffermato dai vani dei loggiati e delle finestre, con colonne, capitelli, frontoni modellati a forza di risalti e di curve. Forma coronamento al tutto una balaustrata a statue (di balaustre M. pensava di finire torno torno anche S. Pietro); ed è ripresa dalla balaustra dei Dioscuri a capo della "cordonata", ideata anch'essa da M. come lenta ascesa al recinto che la sua arte ha reso più sacro.

Idee, progetti, consigli di architettura M. prodigò fino all'ultimo insieme con le opere: tra altro, per la "vigna" di papa Giulio III, al quale aveva fatto anche un modello (1551) di palazzo da erigere presso il mausoleo di Augusto; per il "Gesù", ch'egli si proponeva di dirigere per sua devozione; per il ponte di S. Trinità a Firenze; per le fortificazioni di Roma; per la cappella di A. Sforza in S. Maria Maggiore. E nel 1561 attendeva a disegnare porte alle mura aureliane, tra cui la Porta Pia che nella geometrica composizione del portale a contrasti di quadrangoli, di curve, di frontoni triangolari, e nei particolari della decorazione intesi a profondi distacchi di cavità e d'ombre, è un'ultima prova della sempre poderosa originalità del maestro e del suo coerente procedere fino all'estremo dalle composte, ma energiche forme primitive ad altre sempre più forti nella modellazione delle masse e del movimento.

Alle opere certe di M. altre ne furono aggiunte, da malsicure tradizioni e dalla critica, ma spurie e molto dubbie, mentre non trovava universale consenso qualcuna delle autentiche, attestata da antiche notizie e soprattutto da intrinseche qualità di stile (la Madonna con angioli della National Gallery di Londra; la Pietà di Palestrina; una parte del cortile di palazzo Farnese). Ricordiamo tra quelle, con le altre già rammentate, l'Apollo e Marsia della raccolta E. von Liphart; l'Apollo del museo di Berlino; il Cupido dormente del Museo archeologico di Torino; il Martirio di S. Andrea del Museo nazionale di Firenze; e ivi l'Adone morente, di V. De Rossi; un bronzo del Louvre; un abbozzo di figura muliebre, in raccolta privata a Monaco, probabile derivazione recente da un disegno di M.

Le opere di M., viste in complesso e in tutte le arti, mostrano, con strettissima unità e coerenza la perenne attività creatrice del maestro, in sé costante ma in continuo sviluppo dei suoi caratteri. Domina fra questi, fin dalle origini costitutiva dell'arte di M., e insieme suo continuo stimolo a modificarsi, l'aspirazione a idealizzare, che in lui divenne volontà sempre più assoluta - confortata dai concetti che imperavano nella sua intelligenza - di trascendere dal contingente alla forma universale, di sublimare l'essenza di ogni cosa e di ogni senso. Segnano, a distanza, alcuni momenti principali, ognuno in sé conchiuso, dell'ascendere verso quella idealizzazione, il Bacco, il David gigante, la vòlta della Sistina, le tombe medicee, il Giudizio: e lo manifestano non in vaghe tendenze concettuali, bensì definito nella forma plastica, come poi gli affreschi della Cappella Paolina e la Vita attiva e la Vita contemplativa con l'inoltrarsi di M. sui limiti di aride astrazioni intelletuali. L'architettura consentì a M. di procedere da ultimo anche oltre: di trasporre ed elevare nell'arte in forme più astratte, e più generiche, le forze tumultuose, contrastanti, piegate nello sforzo e infine vittoriose che già nella giovanile Lotta di Ercole coi Centauri egli aveva esaltate e composte in compiuta armonia.

Dalle opere l'umanità stessa di M. sorge con altro rilievo e con altra potenza che dagli incidenti della sua vita e dagli aneddoti che mostrano il suo animo nelle reazioni all'esterno, più che nel profondo segreto. Questo è rotto da singulti nelle più forti appassionate poesie di lui, ma tutto si rivela nei suoi disegni, nelle sculture, nei dipinti e nelle architetture, capolavori che inducono negli animi gli stessi sensi da cui furono generati: la prima giovanile esaltazione d'ogni forza, oltre il reale; la riflessione sull'essere e sulla vita, con quell'infinito sentimento di dolore e di rinuncia che pur ritrova forza in sé stesso perché diventa arte, e armonia; la inestinguibile energia che vince ogni accidioso sconforto, e si rasserena, e si moltiplica nell'operare.

Quanto nell'intimo M. sia congiunto al Rinascimento appare nella sua quasi pagana adorazione della bellezza e insieme nel suo profondo spirito cristiano, nel suo creare l'Eroe e nel magnificare il dolore: cose discordanti, e per contrario così conciliate in lui che le sue opere sono anche perciò supreme rivelazioni dei contrastanti e armonici aspetti della cultura italiana, né soltanto di quella del Cinquecento, mentre nel loro valore più intrinseco, libere da ogni rapporto contingente, esse esaltano sotto specie universali il molteplice spirito umano. Quanto nell'arte M. sia unito ai precedenti fiorentini appare nel contenuto psicologico e nella forma delle sue opere; ma in ogni senso egli li trascese per altre altezze spirituali e per nuovi modi adatti a rivelarle. Seguirlo, fu impossibile a tutti. La sua arte affascinò innumerevoli imitatori, ma imitarla non si poteva senza degradarla, da troppo profondo e personale atto di creazione essa era sorta: e come nei pittori e negli scultori "michelangioleschi" del Cinquecento diventò manierismo, nelle risonanze moderne è vana eco. Soltanto nell'architettura l'opera di M. fu generosa d'impulso creativo ad altri, affermando la libertà della fantasia da ogni restrizione; e bene si può riconoscere iniziatrice dell'architettura barocca.

Ma le svariate conseguenze nelle arti lasciano indifferenti, come i giudizî mutevoli delle diverse età, il genio e l'opera di M., superiori in sé ad ogni esterna fortuna.

V. tavv. XVII-LVI e tav. non numerata.

Bibl.: Della copiosissima bibl. su M., raccolta da E. Steinmann e R. Wittkower (M.-Bibliographie, 1510-1526, Lipsia 1927; M. im Spiegel seiner Zeit, Lipsia (1930), indichiamo ordinatamente soltanto gli scritti di maggiore importanza, e più originali, aggiungendo anche i più recenti.

Biografia: La biografia di M., accanto a molte notizie documentarie che permettono di seguire abbastanza continuamente l'artista, si presenta già composta per gran parte in tre testi d'importanza singolarissima, perché in vario grado ispirati da M. stesso, e in gara di esattezza fra loro: la Vita pubblicata dal Vasari nel 1550; quella subito dopo (1553) data fuori da Ascanio Condivi (v.) col dichiarato proposito di correggere e ampliare la prima; la redazione definitiva (1568), del Vasari. Cfr. per il Vasari l'ediz. con commenti di G. Milanesi (VII, pp. 135-404), per il Condivi l'ed. fiorentina del 1746, e le recenti con note di A. Maraini e di P. D'Ancona. Vedi inoltre: B. Varchi, Orazione funerale nell'esequie di M., Firenze 1564; H. Grimm, Leben M.s, Hannover 1860 (12ª ed., 1922); A. Gotti, Vita di M., Firenze 1875; J.A. Symonds, The Life of M., Londra 1893; H. Thode, M. und das Ende der Renaissance, Berlino 1902-1913; R. Rolland, La vie de M.A., Parigi 1907; K. Justi, M., Berlino 1909; H. Mackowski, M., 4ª ed., Berlino 1925. Hanno importanza biografica: G. Milanesi, Les correspondants de M.-A. Sebastiano del Piombo, Parigi 1892; K. Frey, Sammlung ausgewählter Briefe an M., Berlino 1899; i regesti pubblicati dallo stesso nei supplementi del Jahrbuch der königl. preuss. Kunstsamml. (1909, 1910, 1913, 1916); E. Steinmann, Die Porträrst. des M., Lipsia 1913; id., M. e Luigi Del Riccio, Firenze 1932.

Gli scritti: Le rime di M. pubbl. da C. Guasti, Firenze 1863 (cfr., per la cronologia e per il testo, l'ediz. di K. Frey, Berlino 1897, e quella di A. Foratti, Milano 1921); Le lettere di M. coi ricordi ed i contratti artistici, per cura di G. Milanesi, Firenze 1875 (cfr. anche l'ediz. di G. Papini, Lanciano 1910); J. Klaczko, Causeries florentines, Parigi 1880; A. Farinelli, M. poeta, in Racc. di studi critici dedicata ad A. D'Ancona, Firenze 1901, pp. 305-334; id., M. e Dante e altri brevi saggi, Torino 1918 (con fervida interpret. delle poesie e delle opere).

I disegni: B. Berenson, The Drawings of the Florentine Painters, Londra 1903; T. Ashby, in Papers of the British School at Rome, II, Londra 1904, pagine 1-96; K. Frey, Die Handzeichnungen M.s, Berlino 1909-1911 (ricchissima, ma incompleta raccolta di riproduzioni proseguita da F. Knapp, Die Handz. M.s, Berlino 1925); A.-E. Brinckmann, M.-Handzeichnungen, Monaco 1925; K. Tolnai, Die Handzeichn. M.s im Archivio Buonarroti, in Münchner Jahrbuch der bildenden Kunst, 1928, pp. 377-476.

Le altre opere d'arte: Sulla loro varia esegesi: M. Spahn, M. und die Sixtinische Kapelle, Berlino 1907; E. Steinmann, Das Geheimnis der Medicigräber M.s, Lipsia 1907; K. Borinski, Die Rätsel M.s M. und Dante, Monaco 1908; H. Brockhaus, M. und die Medici-Kapelle, Lipsia 1909; A. Farinelli, M. e Dante, Torino 1918; id., Le tombe di M. e l'ispirazione dantesca, in Nuova Antologia, 1918. Sullo stile, oltre le già citate opere del Symonds, del Justi, la fondamentale del Thode, e le trattazioni generali di A. Riegl (Die Entstehung der Barockkunst in Rom, Vienna 1908), di H. Wölfflin (Die klassische Kunst, 7ª ed., Monaco 1924), di M. Dvořák (Geschichte der italienischen Kunst, Monaco 19298), vedi: E. Steinmann, Die Sixtinische Kapelle, II, Monaco 1905; F. Knapp, M. Des Meisters Werke (ripr.), Stoccarda 1910; A. Venturi, M., Roma 1926; id., Storia dell'arte italiana, IX, i, Milano 1925, pp. 627-914; A.E. Popp, Die Medici-Kapelle M.s, Monaco 1922; M. Gómez-Moreno, Obras de M. A. en España, in Archivo Español de Arte y Arqueologia, 1930, pp. 189-203; G. Fiocco, La data di nascita di F. Granacci e un'ipotesi michelangiolesca, in Riv. d'arte, 1931, pp. 109-121; L. Dorez, l'achevement de la chapelle Sixtine, in Rev. d. Deux Mondes, CII (1932), pp. 915-26; A. Michaelis, M.s Plan zum Capitol und seine Ausführung, in Zeitschrift für bildenden Kunst, II (1891), pp. 184-194; H. von Geymüller, M. als Architekt (Die Archit. der Renaissance in Toscana, VIII), Monaco 1904; D. Frey, M.-Studien, Vienna 1920; L. Beltrami, La cupola Vaticana, Città del Vaticano 1929; K. Tolnai, Beiträge zu den späten architektonischen Projekten M.s, in Jahrbuch der preuss. Kunstsamml., 1930, pp. 1-48; id., in Thieme-Becker, Künstler-Lexikon, XXIV (1930), pp. 515-526; id., M.-A. et la façade de S. Lorenzo, in Gazette des Beaux-Arts, 1934, I, pp. 24-42; id., Studî sulla cappella medicea, in L'Arte, 1934, pp. 5-44; L. Hagelberg, Die Architektur M.s in ihren Beziehungen zumManierismus und Barok, in Münchner Jahrbuch der bildenden Kunst, 1931; W. Körte, Zur Peterskuppel des M., in Jahrbuch der preuss. Kunstsamml., 1932, pp. 90-112; R. Wittkower, Zur Peterskuppel M.s, in Zeitschrift für Kunstgeschichte, 1933, pp. 348-270.

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