Memorie di guerra sul confine italo-jugoslavo: narrazioni individuali, pubbliche, politiche

L'Italia e le sue Regioni (2015)

Memorie di guerra sul confine italo-jugoslavo: narrazioni individuali, pubbliche, politiche

Alessandro Cattunar

Memorie ‘lunghe’

Divisa, antagonista, plurima, segmentata, anomica: la parola memoria – in relazione al periodo della Seconda guerra mondiale – è stata associata, nel corso degli anni, a un’ampia gamma di aggettivi che rispecchia gli articolati processi di interpretazione e rielaborazione delle esperienze vissute dai singoli e dalle collettività. Si tratta di varianti che mettono in luce non solo i diversi punti di vista attraverso cui gli attori sociali percepirono il conflitto, ma anche i differenti percorsi di acquisizione di tali memorie all’interno del dibattito pubblico e, quindi, dei meccanismi di definizione identitaria fino ai giorni nostri.

Non si tratta certo di una peculiarità italiana: il secondo conflitto mondiale ha creato memorie ‘diverse’ e frammentate in tutta Europa poiché quasi tutti gli Stati del vecchio continente furono soggetti a pulsioni e dinamiche di segno opposto. Divisioni evidenti si produssero non solo fra i sostenitori dei regimi totalitari e i loro avversari (in modo più o meno dichiarato), ma anche all’interno delle due opposte compagini: le scelte fatte e le motivazioni che spinsero, di volta in volta, all’azione (o alla non azione) furono infatti le più varie. Chiare e consolidate convinzioni politiche, sentimenti patriottici, paura, volontà di cambiamento o, semplicemente, l’esasperazione per le condizioni di vita insostenibili indussero le popolazioni europee a interpretare gli avvenimenti in corso da diverse prospettive e a vivere le fasi del conflitto con idealità, speranze e aspettative per il futuro spesso contrastanti. Anche all’interno del fronte resistenziale, del resto, si possono individuare durante e dopo il conflitto tante

diverse etiche, spesso non comunicanti o decisamente opposte, come le ricorrenti tensioni fra formazioni armate di diversa configurazione ideologica avevano lasciato intravedere nel corso della lotta armata (Pezzino 2002, p. 106).

Nel dopoguerra, tali percezioni dell’accaduto e predisposizioni verso il futuro si rispecchiarono nelle modalità di formulazione e trasmissione della memoria, interagendo con il nuovo contesto politico e sociale, segnato dall’urgenza della ricostruzione fisica e istituzionale e dalla rapida affermazione delle logiche bipolari lungo la cortina di ferro. La guerra si era caratterizzata come un periodo di profonde lacerazioni e aveva assunto le dimensioni di «una sorta di big bang, almeno per quel che riguarda suggestioni ideologiche e immaginario simbolico» (R. Chiarini, 25 aprile. La competizione politica sulla memoria, 2005, p. 8): elementi che si prolungarono nel dopoguerra, creando memorie non conciliate, incapaci di accettarsi reciprocamente e, anzi, piuttosto propense ad affrontarsi in campo aperto, creando una vera e propria ‘guerra della memoria’. Nella sfera pubblica, tali contrasti vennero gestiti per lo più attraverso il tentativo di costruire narrazioni che – tramite l’individuazione di tratti comuni e la rimozione degli aspetti maggiormente divisivi – agissero da fondamento indiscusso per la ricostruzione di una comunità (e quindi un’identità) nazionale.

In Italia, questo meccanismo di definizione di una memoria comune risultò particolarmente difficoltoso, proprio perché fu quasi impossibile individuare esperienze, comportamenti e interpretazioni che fossero effettivamente comuni o quantomeno ritenuti condivisibili da un’ampia fetta della popolazione. Con la crisi del regime fascista, che era riuscito a incidere in modo radicale nella società a tutti i livelli, vennero messe in discussione non solo pratiche politiche, modi di vita e prospettive diplomatico-militari, ma un intero immaginario, fatto di aspettative verso il futuro, visioni del mondo e comportamenti sociali che avevano sorretto la società italiana per oltre un ventennio. L’evoluzione del conflitto e in particolare il ribalton dell’8 settembre (come viene definito in dialetto a Trieste l’armistizio) misero in discussione tutti i punti di riferimento e le categorie attraverso cui fondare i comportamenti individuali e collettivi. Per questo motivo, sia a livello nazionale che sul piano locale fu quasi impossibile creare consenso attorno a un’interpretazione complessiva della guerra, così come dei tanti singoli episodi – per lo più traumatici – che avevano segnato le vicende belliche dell’intera penisola: «raramente lo Stato o altri enti pubblici hanno istituito pratiche commemorative durature e comunemente accettate. Non c’è stata nessuna conclusione, nessuna “verità”, poca riconciliazione» (Foot 2009, p. 7).

Nonostante queste difficoltà, nell’immediato dopoguerra le istituzioni italiane cercarono di «inventare» e promuovere un «paradigma antifascista» quale principio condiviso della «memoria della Repubblica» e polo di riferimento per la rinascita dello Stato e della società (cfr. Le memorie della Repubblica, 1999). Questa operazione – che, come vedremo, rivelò rapidamente i suoi limiti e le sue fragilità alimentando polemiche e contrapposti usi politici della storia – ebbe il merito di elevare l’antifascismo ad assunto fondante della Costituzione repubblicana sebbene, nei decenni a venire, furono numerose le fratture che resero poco lineari i ‘percorsi della memoria’.

È all’interno di queste complesse dinamiche che bisogna inserire l’analisi dei meccanismi di rielaborazione delle memorie nell’area di confine tra Italia e Jugoslavia (poi Slovenia) nella seconda metà del Novecento, senza dimenticare che le interconnessioni tra ciò che accade in questa zona periferica e le politiche nazionali si articolano su più livelli e si manifestano in diversi momenti. Analizzare un territorio liminare rende necessario adottare punti di vista differenti: una prima direttrice da considerare è quella che va dal centro alla periferia e che permette di capire come le decisioni assunte dai governi e dai partiti a Roma vengano recepite a livello locale. Ribaltando il punto d’osservazione, invece, si può constatare come i ricordi di coloro che vissero lungo la frontiera vennero accolti, rielaborati e riproposti (o non accolti, non rielaborati e non riproposti) dalla retorica pubblica nazionale. Altri sguardi possibili su quest’area sono, da un lato, quelli specifici delle diverse persone e comunità etniche, nazionali e linguistiche (sguardi che si ricollegano a processi individuali e collettivi di sedimentazione della memoria e rinegoziazione delle identità) e, dall’altro, quello delle istituzioni e delle forze partitiche interessate principalmente alle ricadute politico-istituzionali che ogni ‘affermazione di memoria’ porta con sé. Queste diverse prospettive contribuiscono a tracciare delle ‘memorie lunghe’, memorie che si dimostrano attive per un lungo periodo (modificandosi costantemente) e che rivestono un ruolo centrale in diverse fasi della storia italiana, attraversando la caduta del Muro di Berlino, la svolta del millennio e l’ingresso della Slovenia nell’Unione Europea. Come vedremo, infatti, gli usi politici dei processi di ‘rimemorazione’ e commemorazione hanno contraddistinto i principali e più critici momenti di cambiamento negli assetti istituzionali dello Stato, interagendo, e spesso scontrandosi, con il ‘paradigma antifascista’ ufficiale. Si tratta, inoltre, di memorie che creano attorno all’evento bellico un ampio spazio di rimembranza: l’arco cronologico preso in esame diviene molto più esteso, includendo una grande varietà di episodi – precedenti e successivi – che spesso prendono il sopravvento, rubando la scena alle vicende più strettamente riferibili al periodo 1940-1945.

Se, da un lato, una parte della popolazione assume come punto d’avvio delle proprie narrazioni relative alla guerra l’ascesa del fascismo e, più nello specifico, la progressiva adozione da parte del regime delle misure di italianizzazione della popolazione slovena e di quella croata, dall’altro, per un’ampia fascia di cittadini, soprattutto italiani, parlare della guerra significa fondamentalmente raccontare ciò che avvenne dopo la guerra, a conflitto ormai ufficialmente concluso. Significa, cioè, affrontare il tema delle deportazioni, delle foibe e dell’esodo della popolazione istriano-fiumano-dalmata. Non si registra dunque un accordo sugli estremi temporali dell’evento in questione: le cronologie e le topografie mentali e ideali appaiono spesso conflittuali e, parimenti, il valore simbolico assegnato a date o avvenimenti specifici varia profondamente a seconda delle persone e delle «comunità ricordanti» (cfr. Ballinger 2003; trad. it. 2010, p. 162). Non a caso, i principali ‘campi di battaglia’ su cui si sono affrontate le diverse memorie della guerra sul confine sono proprio quelli della definizione delle date e della costruzione dei monumenti, due ambiti in cui hanno proliferato, fino ai nostri giorni, scontri e violente polemiche.

Per gettare uno sguardo complessivo, per quanto sintetico, su questi temi non bisogna dimenticare che ogni confine si struttura su due lati che si influenzano a vicenda. Sebbene il campo d’osservazione privilegiato per questa analisi sia rappresentato dalle province di Gorizia e Trieste, sarà quindi utile osservare cosa succede ‘dall’altra parte’, accennando alle principali dinamiche della memoria in territorio jugoslavo (e poi sloveno). Si tratta di un’operazione particolarmente complessa che presuppone una serie di domande preliminari. Innanzitutto: come definire la zona di cui ci stiamo occupando? Le ‘etichette’ Venezia Giulia, Litorale adriatico, Litorale sloveno, Adriatico nord-orientale, fanno riferimento ad aree non perfettamente coincidenti che rispecchiano differenti fasi storiche e incarnano i punti di vista, per lo più nazionali, che le hanno originate. Si pone poi il problema di come nominare le persone e i diversi gruppi presenti sul territorio: lungo il confine, infatti, non è sempre facile identificare la popolazione come italiana o slovena perchè i cognomi sono ingannevoli, le lingue usate quasi sempre molteplici e le autopercezioni identitarie sul piano etnico, nazionale o culturale appaiono spesso discordanti tra di loro (cfr. V. D’Alessio, L’Adriatico nord-orientale tra litorale austriaco, Marca giuliana e Venezia Giulia, «Quaderni storici», 2004, 117, 3, p. 840). Nei paragrafi che seguono capiterà di distinguere tra ‘memorie italiane’ e ‘memorie slovene’ individuando, in alcuni casi, le memorie pubbliche promosse all’interno dei due contesti nazionali mentre, in altri, i ricordi di coloro che si riconoscono in queste categorie nazionali indipendentemente dallo stato in cui vivono.

Memorie di confine e contesto nazionale

La memoria è al contempo frutto di processi di selezione e fondamento delle dinamiche identitarie: proprio per questo non può essere disgiunta dal suo opposto, l’oblio, che è un «elemento fisiologico della dinamica del ricordare» (A. Tarpino, Geografie della memoria. Case, rovine, oggetti quotidiani, 2008, pp. 10-11). Ogni processo pubblico di rielaborazione e trasmissione della memoria si struttura attorno ad alcuni semplici ma fondamentali quesiti: cosa ricordare, in che modo e perché? Ma anche: cosa dimenticare? Queste domande testimoniano quanto la creazione di una memoria pubblica segua dinamiche tutt’altro che spontanee, frutto di scelte consapevoli, di mediazione e confronto, e come esse rappresentino spesso uno strumento utile per raggiungere specifici obiettivi politici e sociali. In questo senso, nell’Italia del secondo dopoguerra, si palesò presto la necessità di superare quell’ampio e frastagliato panorama di memorie divise su cui già ci siamo soffermati, un’esigenza da cui nacque il tentativo – tutt’altro che semplice e privo di contrasti – da parte delle forze costituzionali di proporre agli italiani un’interpretazione condivisa della guerra, fondata sull’idea che fosse esistito un fronte antifascista sostenuto dall’intero popolo (o almeno da una maggioranza di esso) e sul mito dell’«insurrezione vittoriosa» capace di riscattare la nazione portandola fuori da un conflitto non voluto (Pezzino 2002, p. 97). Si costruì così una narrazione in cui gli italiani venivano descritti come vittime del fascismo e della guerra ma anche come un popolo che riuscì a ribellarsi e a rialzarsi, in un impeto patriottico, mosso dalla volontà di portare a compimento il «secondo Risorgimento» lottando per la libertà e la democrazia (Focardi 2005, pp. 4-8). Si trattava di una memoria ‘breve’ e selettiva, che nel raccontare la guerra si concentrava unicamente sulla sua fase finale – il periodo 8 settembre 1943-25 aprile 1945 – nel tentativo di focalizzare l’attenzione sul valore della lotta comune conto l’invasore germanico (cfr. Gribaudi 2004, p. 209).

Se, da un lato, il ‘paradigma antifascista’ riuscì effettivamente a imporsi, almeno per un periodo, come main narrative nazionale ottenendo alcuni dei risultati sperati – tanto da rendere condivisa l’idea dell’Italia postbellica come ‘Repubblica nata dalla Resistenza’ – è altrettanto evidente come questo mito fallì nel tentativo di assumere realmente i connotati di «religione civile» degli italiani (A. Ballone, La Resistenza, in I luoghi della memoria, 1997, p. 412). Troppo oblio, infatti, copriva le motivazioni e le idealità che avevano mosso una buona parte dei gruppi partigiani; troppo evidente il tentativo di minimizzare i contrasti e le contrapposizioni interni al fronte resistenziale; poco lungimirante l’esclusione, da questa narrazione collettiva, della fascia più ampia della popolazione che aveva vissuto quei tragici mesi senza schierarsi o rischiare la vita in modo esplicito.

Le memorie della guerra nell’area di confine si rivelarono presto in contrasto con questo paradigma ufficiale. In primo luogo, il fatto di focalizzarsi sul periodo 1943-45 aveva consentito di liquidare piuttosto rapidamente la ‘questione del fascismo’, relegando l’azione del regime all’interno di una parentesi, come se la dittatura non avesse segnato in profondità il tessuto sociale. Un’interpretazione, questa, che risultò senz’altro intollerabile a molti tra quanti si erano impegnati nella lotta partigiana, ma che apparve ancor più inaccettabile agli sloveni della Venezia Giulia e del Litorale. Il fascismo, nella sua declinazione ‘di confine’, aveva infatti inciso in quest’area in modo ancora più radicale che nel resto del Paese (cfr. Vinci 2011): le misure di italianizzazione degli allogeni avevano sconvolto gli equilibri tra le diverse componenti della popolazione, operando sui meccanismi di definizione identitaria e creando ampie fratture innanzitutto tra centri urbani (a maggioranza italiana) e zone di campagna (popolate prevalentemente da sloveni) ma anche all’interno delle principali città, radicalizzando gli schieramenti politici e nazionali. Una memoria ‘breve’ della guerra, focalizzata sugli ultimi due anni e volta a minimizzare le responsabilità dell’esercito italiano sui vari fronti di guerra, stendeva un ampio velo di oblio anche sull’invasione e l’occupazione della Jugoslavia da parte delle truppe nazifasciste nel 1941, ignorando le feroci politiche di repressione del dissenso che ne seguirono. Così, uno degli episodi più rilevanti nelle vicende belliche a livello locale, che si era fissato come un trauma nella memoria di molti, veniva accantonato, non ottenendo mai un reale riscontro negli apparati simbolici e commemorativi ufficiali in ragione del suo potenziale dirompente: esso avrebbe potuto infatti mettere seriamente in discussione il mito degli ‘italiani brava gente’. Se il 1941 non si configurò come una data paradigmatica nelle memorie d’Italia, ricoprì invece un ruolo centrale nelle cronologie della memoria slovena anche perché fu l’anno di nascita del Fronte di liberazione jugoslavo (Osvobodilna Fronta, OF): i primi gruppi partigiani iniziarono infatti a operare nei Balcani e nella Venezia Giulia con due anni d’anticipo rispetto al resto d’Italia, coinvolgendo vasti settori della popolazione locale, non solo slovena.

Uno dei principali punti di frattura tra il discorso nazionale e quello locale sulla guerra è da individuarsi proprio nell’affermazione, nel Friuli e nella Venezia Giulia, di due diversi movimenti resistenziali che mostrarono profonde differenze sia dal punto di vista organizzativo sia sul piano degli obiettivi politici e nazionali. L’OF, infatti, fin dal principio cercò di ricompattare le diverse forze politiche jugoslave sotto la guida comunista, collegando la guerra contro il nazifascismo a quella per la libertà nazionale. Tale obiettivo si rese ancora più esplicito a partire dal 1944, quando i massimi esponenti del Fronte dichiararono apertamente la volontà di annettere, dopo la liberazione, un’ampia parte della Venezia Giulia (comprese le città di Gorizia e Trieste) alla Jugoslavia socialista. Queste dinamiche ebbero profonde influenze sugli assetti del movimento resistenziale italiano, diviso tra partigiani garibaldini – per lo più disposti a collaborare con la Resistenza slovena, privilegiando il comune obiettivo della vittoria contro il nazifascismo e rimandando a un secondo momento la discussione sull’assetto territoriale postbellico – e le formazioni autonome Osoppo che, al contrario, percepivano come prioritaria la ‘questione nazionale’. Se la lotta contro ‘l’invasore tedesco’ appariva a tutti gli effetti come il tratto comune e unificante, opposte erano invece le prospettive per il futuro: da un lato chi vedeva con favore il passaggio della Venezia Giulia alla Jugoslavia e dall’altro coloro che ritenevano questa prospettiva inaccettabile. Tale spaccatura, sul piano ideologico e nazionale, all’interno del fronte resistenziale, ebbe chiari riflessi sulle dinamiche politiche del dopoguerra e sui meccanismi di rielaborazione della memoria.

Il 1° maggio 1945 – a conclusione della cosiddetta corsa per Trieste – i partigiani jugoslavi entrarono a Gorizia e Trieste (con un giorno di anticipo rispetto alle forze alleate) mettendo in atto una politica del ‘fatto compiuto’ che permise loro di mantenere il controllo sull’area per circa quaranta giorni. Dopo lunghe trattative tra gli Alleati e Tito, il 12 giugno 1945 la Venezia Giulia venne divisa in una Zona A controllata dal Governo militare alleato e una Zona B sotto l’amministrazione dell’esercito jugoslavo. Se per buona parte della popolazione slovena il 1° maggio rappresentò effettivamente il momento della «liberazione» e della gioia per la conclusione di un ventennio di soprusi, nella memoria di molti italiani i «quaranta giorni di occupazione jugoslava» si fissarono invece come «l’ora più buia» (Pupo 2010, p. 197), segnata dalle deportazioni e uccisioni di chi venne ritenuto responsabile dei crimini fascisti e di coloro che potevano rappresentare un pericolo per l’instaurazione del nuovo corso socialista.

Ciò che avvenne lungo il «confine orientale» si rivelò determinante nel far vacillare quell’«immagine patriottica dell’antifascismo di sinistra (e del PCI in particolare)» che rappresentava uno dei tratti fondanti del paradigma resistenziale (Ridolfi 2003, p. 223). Tra le fila dello stesso Partito Comunista Italiano, a partire dall’immediato dopoguerra, ma soprattutto dopo la rottura tra Tito e Stalin del 1948, si diedero interpretazioni profondamente divergenti delle motivazioni che avevano spinto alla militanza partigiana, della decisione di far passare la Brigata Garibaldi-Natisone alle dipendenze del IX Korpus, delle misure adottate dai partigiani nel maggio del ’45 e della società che si stava configurando oltre confine. Ad andare in frantumi fu il consenso attorno al mito fondativo che vedeva nel Movimento di liberazione jugoslavo «un esempio per tutti i movimenti resistenziali europei» (Spazzali, Pupo 2003, p. 109), un mito che, a livello locale, fu contestato proprio da una parte di quegli stessi comunisti che avevano combattuto a fianco delle forze partigiane jugoslave ma erano rimasti scottati e delusi di fronte ai metodi violenti e totalitari attuati dai ‘liberatori’.

Si possono quindi comprendere i motivi per cui gli eventi che segnarono l’immediato dopoguerra – le deportazioni e le foibe, i ‘quaranta giorni’, gli anni successivi caratterizzati dagli scontri per l’appartenenza nazionale dell’area e, infine, le ondate di emigrazione dall’Istria e dalla Dalmazia – rappresentarono e rappresentano ancora oggi, per molte persone, il vero nucleo della memoria della guerra nella Venezia Giulia. I ricordi delle foibe e dell’esodo si sono ‘allungati’ e riconfigurati più volte nel corso del cinquantennio postbellico – alternando, a livello nazionale, momenti di sovraesposizione con lunghe fasi di oblio – dimostrandosi un’utile cartina di tornasole per valutare le più ampie dinamiche non solo della memoria ma anche della politica. Come ricordano Raoul Pupo e Roberto Spazzali, infatti,

la posizione assunta sul problema delle foibe ha costituito uno strumento di legittimazione per le forze politiche che nel corso della storia repubblicana hanno interpretato un ruolo di governo locale, ma anche nazionale (Spazzali, Pupo 2003, p. 201).

In realtà, se nell’immediato dopoguerra fu la Democrazia cristiana (DC) ad appropriarsi di queste memorie per ergersi a difensore degli interessi nazionali – sia a Roma, sotto la guida di Alcide De Gasperi, sia a Trieste grazie all’opera del sindaco Gianni Bartoli – successivamente, i morti nelle cavità carsiche e le persone costrette a emigrare dall’Istria e dalla Dalmazia vennero posti al centro delle politiche della rimembranza quasi esclusivamente dalle forze di (estrema) destra che, principali escluse dalla narrativa resistenziale dominante, erano in cerca di legittimazione e consenso. Venne così a costituirsi una memoria d’‘opposizione’ che provò ad affermarsi attraverso l’esacerbazione dei toni e la costruzione di un immaginario in cui gli ‘slavi’ apparivano come barbari sanguinari e gli italiani come vittime innocenti.

Altre memorie non allineate con le interpretazioni ufficiali della guerra e della Resistenza proposte in Italia si formarono sul territorio jugoslavo e all’interno della minoranza slovena rimasta in Italia (cfr. Verginella 2008). In questi casi, la decisione di collaborare con il Fronte di liberazione venne interpretata realmente e diffusamente come una scelta esistenziale che aveva profonde radici non solo politiche ma anche nazionali e fu vissuta generalmente con molta consapevolezza e convinzione. Una scelta che trovava radicamento, da un lato, nel passato – nei tentativi da parte del regime mussoliniano di annullare l’identità di un popolo considerato ‘non civile’ e non degno di una nazione – e, dall’altro, in una visione del futuro in cui il desiderio di libertà politico-culturale si fondeva con la prospettiva di (ri)conquistare proprio un’indipendenza nazionale. In queste narrazioni, le violenze che avevano segnato i ‘quaranta giorni’ furono spesso relegate a spazi di nicchia, dandone una lettura edulcorata che, in alcuni casi, rifletteva le effettive esperienze vissute da singole famiglie e individui, ma in altri – soprattutto nella rielaborazione della memoria pubblica nella Jugoslavia di Tito – rivelava un preciso intento politico.

Presero così corpo memorie diverse e divergenti, esplicitamente militanti e polemiche nei confronti dell’avversario. In Italia, a partire dagli anni Sessanta, questi discorsi ‘d’opposizione’ rimasero radicati quasi unicamente a livello locale e al di fuori delle istituzioni, in quanto l’uscita della Jugoslavia dal blocco comunista e il progressivo disgelo portarono all’affermarsi di politiche di collaborazione e dialogo tra i due Stati confinanti. All’inizio degli anni Novanta – a seguito degli sconvolgimenti internazionali seguiti al crollo del Muro di Berlino e alla fine della guerra fredda – nonostante i grandi progressi che la storiografia locale aveva nel frattempo compiuto nell’accertamento dei fatti, delle dinamiche e delle responsabilità, queste memorie contrapposte trovarono nuove occasioni di visibilità. In molti casi, anzi, rafforzarono il loro carattere radicale prestandosi a un uso politico che si rivelò fondamentale per l’affermazione di nuove forze di governo su entrambi i lati del confine.

Già da questi primi spunti di riflessione si può osservare l’emergere di forti contrasti tra dimensione locale e ambito nazionale. Il reiterato uso politico delle vicende del confine orientale d’Italia e del confine occidentale jugoslavo, così cariche di significati simbolici e valenze emotive, ha comportato un notevole scollamento fra la rielaborazione pubblica e individuale della memoria. I governi nazionali sono stati accusati, a fasi alterne, di essere troppo presenti o del tutto assenti, di proporre letture distorte degli avvenimenti o di voler nascondere, attraverso l’imposizione di una memoria ufficiale, le molteplici e differenti prospettive di cui diversi gruppi si sono resi portatori (cfr. Ballinger 2003; trad. it. 2010, p. 10). La versione pubblica degli avvenimenti «spesso non soddisfaceva i desideri di riconoscimento, né poneva fine alle divisioni» (Foot 2009, p. 10), alimentando un clima di contrapposizione che si è protratto fino a tempi molto recenti.

Forme della memoria pubblica

Cercheremo adesso di capire come queste memorie abbiano trovato una visibilità e un ascolto all’interno della sfera pubblica, come si siano articolate in un complesso di apparati retorici, monumentali e cerimoniali che, da un lato, consentono di delineare una vera e propria ‘storia della memoria’ e dall’altro evidenziano il ruolo centrale che monumenti, celebrazioni e discorsi hanno ricoperto nelle «battaglie della memoria» (Foot 2009, p. 9). I modi in cui lo Stato, gli enti locali e le diverse comunità e forze politiche presenti sul territorio hanno allestito i simboli necessari ad affermare la validità della propria memoria e a legittimare la propria esistenza culturale e politica sono stati molteplici. Si tratta allora di analizzare una serie di pratiche disperse e mutevoli, spesso in contrasto tra loro, che lasciano emergere la profonda interconnessione fra tre fenomeni: la definizione di differenti calendari rituali; l’edificazione di monumenti riconosciuti pubblicamente; la creazione di universi discorsivi coerenti da proporre durante le celebrazioni ufficiali ma anche nel discorso politico quotidiano.

L’immediato dopoguerra. La guerra dei quotidiani e la definizione dei calendari rituali

Come si è accennato, a partire dal 12 giugno 1945 la Zona A della Venezia Giulia, che comprendeva Gorizia e Trieste, si trovò sotto il controllo del Governo militare alleato. Si trattò di una complessa fase di passaggio, segnata dalle difficoltà che contraddistinguono ogni dopoguerra, cui però si aggiunse l’incertezza per il destino nazionale dell’area. Fu un periodo di attese e di speranze, di ricostruzione paziente e solidale, ma anche di spinte ideali verso una nuova società che appariva a portata di mano; un periodo in cui gli assetti politici, istituzionali e identitari si ridefinirono e si strutturarono attorno a una contrapposizione sempre più netta tra coloro che erano a favore dell’annessione all’Italia e chi, al contrario, lottava affinché la Venezia Giulia entrasse a far parte della Jugoslavia di Tito come ‘Settima federativa’. Tutti questi fattori e, più in generale, la condizione di formale separazione sia dal contesto statuale italiano che da quello jugoslavo misero in moto meccanismi particolari dal punto di vista dell’elaborazione della memoria. Inoltre, sul piano simbolico, emersero presto evidenti linee di tensione con le azioni promosse, in particolare, dal governo di Roma.

Il periodo che va dal 1945 alla definizione del confine (il 1947 per Gorizia, il 1954 per Trieste) si rivelò determinante per gettare le basi della costruzione di due universi discorsivi capaci di fornire diverse visioni del passato strutturate a partire da opposte prospettive per l’avvenire. Tutte le forze e gli esponenti politici, le associazioni e i gruppi più o meno formalizzati si trovarono coinvolti in uno scontro propagandistico, condotto principalmente sui numerosi quotidiani diffusi sul territorio, in cui l’oggetto del contendere era proprio la memoria della guerra.

Dai complessi e articolati apparati retorici costruiti in quei mesi emerge innanzitutto il tentativo, sia da parte filoitaliana che filojugoslava, di appropriarsi di alcune parole chiave, alcuni concetti fondamentali capaci di descrivere il sé in contrapposizione all’altro, evidenziando i motivi per cui il proprio popolo aveva combattuto e si era sacrificato: la libertà, la democrazia, la fratellanza, l’antifascismo. Se, da un lato, entrambi gli schieramenti descrivevano i propri membri come antifascisti e democratici, affratellati dalla causa comune della libertà, dall’altro, tutti coloro che si ponevano nello schieramento avversario non potevano che essere visti come dei traditori, antidemocratici, portatori di nuove forme di fascismo. Tali immagini venivano proposte con cadenza quotidiana da tutte le principali testate in articoli di cronaca politica o in pezzi che ricostruivano le più recenti vicissitudini della guerra e della lotta di liberazione. Articoli in cui la vis polemica prendeva spesso il sopravvento rispetto alla narrazione dei fatti accaduti.

A partire dal giugno del 1945 le pagine di due dei giornali filoitaliani maggiormente diffusi – «La voce libera» e «L’informatore» – furono dominate dalle ricostruzioni delle battaglie per l’abbattimento del regime ma, ancor di più, dagli appelli a schierarsi contro l’affermazione di un nuovo fascismo, non più nero ma rosso. Sebbene si riconoscesse il ruolo avuto nella lotta antifascista dalla Resistenza jugoslava, quest’ultima veniva accusata di aver rinnegato i valori della democrazia e della libertà per assecondare le proprie mire annessionistiche. Il nuovo nemico divenne così lo ‘slavo-comunista’, propugnatore di una Jugoslavia in cui si potevano riconoscere gli stessi caratteri totalitari del nazismo appena sconfitto. Gli episodi ricordati con maggior frequenza erano, non a caso, proprio quelli che avevano segnato i giorni successivi alla liberazione: il clima di paura, le deportazioni e le foibe. Ma l’attenzione dei giornalisti si focalizzò spesso anche sulle condizioni di vita precarie e sull’atmosfera illiberale che si respirava nella Zona B. Nelle cronache delle numerose manifestazioni e scontri di piazza, organizzati con cadenza quasi giornaliera, le due controparti venivano descritte in modo manicheo: gli italiani, pacifici e rispettosi, mossi da sincero amore per la propria patria, contro gli ‘slavo-comunisti’ violenti e sanguinari, spinti da bieco nazionalismo e volontà di vendetta. Se si parlava poi del ventennio fascista e delle motivazioni che avevano portato allo scoppio della guerra era principalmente per ricordare come tutti, italiani e sloveni, erano stati vittime del regime e di un conflitto non voluto, riproponendo l’immagine degli italiani ‘brava gente’ e del fascismo come parentesi.

Nell’altro campo, i giornali filojugoslavi sia in lingua slovena (il «Primorski dnevnik») sia, soprattutto, in lingua italiana («Il nostro avvenire» e «Il lavoratore») offrivano chiavi di lettura uguali e contrarie. I partigiani venivano descritti come eroi, che si erano sacrificati per la libertà in nome della fratellanza dei popoli e, anche in questo caso, venivano delineati due campi radicalmente divisi nei caratteri e nelle intenzioni: da una parte c’erano coloro che sostenevano i «rapporti di parità, di uguaglianza e fratellanza» fra italiani e popoli jugoslavi attraverso una «solidale e fraterna amicizia» (Quanta più democrazia tanta più libertà nazionale, «Il nostro avvenire», 9 maggio 1945); dall’altra, il «freddo calcolo», la negazione dei diritti, la sete di dominio che aveva portato i popoli al massacro. Se il primo ambito veniva associato alla nuova Jugoslavia di Tito, il secondo appariva assai più indefinito. All’interno di quest’ultimo venivano inserite le «vecchie cricche egemoniche» italiane dell’anteguerra ma anche tanti «sedicenti» antifascisti che avevano tradito gli ideali della libertà per calcoli nazionalistici (Quanta più democrazia tanta più libertà nazionale, «Il nostro avvenire», cit.). Su questi giornali ampio spazio era dedicato anche al ricordo delle dure misure di snazionalizzazione messe in campo dal regime mussoliniano e del comportamento tenuto dall’esercito italiano durante la guerra.

Particolarmente indicativa dei complessi meccanismi identitari messi in moto in quel periodo e delle forzature a cui spesso si assistette è la tesi, ampiamente proposta da «Il lavoratore», secondo cui l’annessione di Gorizia e Trieste alla Jugoslavia non avrebbe messo in discussione l’identità nazionale di coloro che si sentivano italiani. Infatti, il sincero sentimento nazionale italiano sarebbe stato tutelato – nelle sue radici storiche e culturali – all’interno del nuovo Stato federativo grazie alla concessione di ampie autonomie alle minoranze. È una strategia discorsiva importante, che testimonia dei tentativi di attirare verso le posizioni filojugoslave soprattutto quella parte di italiani di orientamento comunista che guardavano con attenzione e grande speranza ai processi di ‘costruzione del socialismo’ al di là della Linea Morgan.

Un altro binomio che, in questo complesso dopoguerra, si ritagliò uno spazio privilegiato sulle pagine dei giornali, nei discorsi pubblici, nelle manifestazioni, nei comizi, fu quello composto dai termini ‘patria’ e ‘nazione’. Attorno a queste parole si può notare il riemergere – con le dovute riformulazioni e calibrature collegate al nuovo contesto – di quelle che Alberto Banti ha definito «figure profonde» (cfr. A.M. Banti, Sublime madre nostra. La nazione italiana dal Risorgimento al fascismo, 2011), quegli elementi fondativi che avevano strutturato le narrazioni nazional-patriottiche nel Risorgimento e avevano poi impregnato la retorica fascista. In particolare sulla stampa filoitaliana si trovano riferimenti specifici a una concezione di nazione in cui a prevalere erano i legami di sangue e di suolo, in cui la patria si configurava espressamente come una comunità parentale:

No: lo straniero, anche con le migliori intenzioni, non può che portare se stesso: la libertà noi e soltanto noi possiamo darcela, soltanto in quella espressione spirituale di noi stessi che è la Patria, noi possiamo trovarla. Tutta la somma di dolori e di sofferenze che abbiamo patito ci porta ad affermare questo (Diritto alla libertà. Un ordine del giorno votato dall’Università di Trieste, «La voce libera», 2 ottobre 1945).

Una retorica esplicitamente connessa a quella religiosa presentava l’immagine della patria come un’entità sacra che aveva richiesto enormi sacrifici in passato e ne avrebbe richiesti ancora nell’immediato futuro:

Di fronte all’eccitato lavorio degli agenti di Tito che nulla hanno da perdere in questa lotta contro l’italianità di Gorizia e per la quale è usata ogni arma disonesta, gli italiani della città si ergono compatti, sicuri della propria causa e certi che un solo verdetto sarà pronunciato a rigor di raziocinio e di giustizia: la riconferma dell’appartenenza del nostro centro alla Gran Madre (Per l’italianità di Gorizia, «La voce libera», 8 marzo 1946).

Si crearono così due opposti paradigmi che descrivevano il sé e l’altro in modo radicalmente antitetico interpretando «le due realtà limitrofe come entità geografiche e sociali per secoli conflittuali, perché etnicamente diverse e culturalmente estranee l’una all’altra» (Il perturbante nella storia. Le foibe. Uno studio di psicopatologia della ricezione storica, a cura di L. Accati, R. Cogoy, 2010, p. 45). Il passato veniva accuratamente riletto, selezionato, interpretato e fornito ‘in pillole’ con lo scopo di affermare l’esistenza di lunghe e gloriose tradizioni capaci di avallare determinate tesi e confermare innanzitutto l’esistenza, e poi anche la superiorità, di una comunità identificabile in termini nazionali.

Gli slavi ci presentano il conto di ottomila morti: la rivalsa sarebbe il distacco di cinquecentomila italiani dalla grande madre patria, ricca di millenaria civiltà, con una delle sue maggiori città (Messa a punto, «La voce libera», 26 luglio 1945).

All’interno di queste opposte riletture del passato è interessante notare il ruolo fondamentale assunto dalla contesa per il riconoscimento, la legittimazione e l’interpretazione dei ‘giorni da ricordare’. Le celebrazioni svolte negli anni in cui la definizione del confine era ancora incerta rappresentano una tappa fondamentale di quei processi di negoziazione della verità storica (cfr. Ballinger 2003; trad. it. 2010, p. 86) e di invenzione della tradizione che iniziarono a palesarsi già pochi mesi dopo la fine della guerra. Le commemorazioni, in quanto processi «di istituzionalizzazione di un ricordo» (P. Jedlowski, Memoria, esperienza, modernità. Memorie e società nel XX secolo, 2002, p. 99) che stabiliscono e fissano nella sfera pubblica le ‘corrette’ rappresentazioni di eventi ritenuti significativi da e per un determinato gruppo, divennero centrali soprattutto nel momento di massima tensione fra gli schieramenti filoitaliano e filojugoslavo, quando cioè, nella primavera del 1946, giunse nella Zona A la Commissione interalleata che aveva l’obiettivo di studiare la composizione etnica del territorio e proporre una nuova linea di demarcazione. I ‘giorni della memoria’ al centro della contesa furono molti, alcuni dei quali strettamente legati a eventi che avevano caratterizzato il periodo della guerra e dell’immediato dopoguerra (cfr. Cattunar 2012). Quelli che più ci interessano sono tre: il 25 aprile, il 1° maggio e il 27 aprile.

In Italia, i primi provvedimenti volti a una ridefinizione del calendario civile furono presi dal governo De Gasperi con il decreto luogotenenziale del 22 aprile 1946: il 25 aprile venne dichiarato festa nazionale mentre il 1° maggio fu riconosciuto come festa internazionale del lavoro. In particolare, la prima venne assunta dalle forze antifasciste come data simbolo non solo della conclusione del conflitto, ma più in generale della rinascita della nazione democratica, e fu trasformata in un «mito attraverso cui poter ridefinire i codici della retorica politica e i contenuti della memoria pubblica» (Ridolfi 2003, p. 201). Se a livello nazionale non passò molto tempo prima che questa data diventasse un aperto campo di battaglia per la definizione e il controllo delle pratiche rituali fra forze comuniste e democristiane, nella Zona A della Venezia Giulia i contrasti emersero in modo ancora più evidente, rapido ed esplosivo.

Il fronte filoitaliano accolse immediatamente il 25 aprile nel suo apparato simbolico, dandone però una lettura decisamente ‘allargata’ in cui si celebrava «lo spirito di sacrificio oltre i limiti della vita» che aveva mosso i partigiani italiani nella guerra contro il nazifascismo (Anniversario dell’insurrezione italiana. Gloria ai caduti bandiere al vento, «La voce libera», 24 aprile 1946), ma al contempo si richiamavano le battaglie contro i comunisti jugoslavi per l’appartenenza nazionale di Trieste e Gorizia all’Italia. In questa prospettiva, il 25 aprile non rappresentava un punto d’arrivo, ma un auspicio rivolto al futuro affinché anche la Venezia Giulia potesse avere presto il suo ‘Giorno della liberazione’ con il ricongiungimento dei territori contesi all’Italia.

La componente comunista e filojugoslava, al contrario, si oppose con forza alla decisione di celebrare anche nella Zona A il 25 aprile evidenziando come la liberazione, a Trieste e Gorizia, fosse avvenuta solo il 1° maggio, grazie all’intervento dell’Esercito jugoslavo. «Il lavoratore» e il «Primorski dnevnik» cercarono di sottolineare quelli che, a loro parere, erano gli evidenti fini propagandistici alla base delle celebrazioni, ma allo stesso tempo dimostrarono di non voler rinunciare alla forte carica simbolica di matrice antifascista legata a tale data. Cercarono così di costruire una narrazione che lasciasse emergere la natura politico-ideologica dell’insurrezione ribadendo il ruolo centrale ricoperto dai partigiani jugoslavi.

Attraverso queste ‘battaglie retoriche’ entrambi i fronti intendevano rivendicare l’importanza del proprio contributo alla liberazione della Venezia Giulia dal nazifascismo. Ai sostenitori della soluzione italiana le celebrazioni del 25 aprile consentirono di creare una continuità e un legame con l’insurrezione generale che aveva posto fine alla guerra nel resto d’Italia, mentre i gruppi in lotta per l’annessione del litorale alla Jugoslavia preferirono adottare come giorno di festa ufficiale il 1° maggio. Esso appariva doppiamente paradigmatico: era la festa dei lavoratori (ricorrenza molto cara ai comunisti abolita sotto il fascismo), ma ricordava anche il ‘vero’ giorno della liberazione per mano dei partigiani di Tito. Il 1° maggio rappresentava l’elemento fondativo di una narrativa al contempo politica e nazionale il cui impatto sull’opinione pubblica poteva essere forte e immediato: si individuavano, infatti, due momenti cruciali della storia dei lavoratori e degli antifascisti in cui ognuno poteva congiungere il proprio percorso di vita individuale alla storia della propria collettività. Già a partire dall’aprile del 1946, le descrizioni dei preparativi per i festeggiamenti del 1° maggio iniziarono a occupare le pagine di «Il lavoratore». La mobilitazione fu massiccia: si creò un’aspettativa sempre crescente annunciando con ampio anticipo il programma delle celebrazioni, fornendo di giorno in giorno nuovi particolari e dichiarando che sarebbero state migliaia le persone coinvolte.

Per quei segmenti della popolazione che si riconoscevano nell’esperienza resistenziale jugoslava, una seconda giornata particolarmente significativa, sia per gli eventi a cui si ricollegava sia per le forti valenze simboliche, venne individuata nel 27 aprile 1941. Il «Primorski dnevnik» ricordava come

alla vigilia del 5° anniversario della fondazione del Fronte di liberazione del popolo sloveno fiammeggiavano in segno di saluto, sulle cime sopra Trieste ed in tutto il Litorale, innumerevoli falò che annunciavano ai fratelli e sorelle in libertà, la fede incrollabile delle masse democratiche slave e italiane della Venezia Giulia nel comune felice futuro dei popoli jugoslavi (Dan praznovanja 5. Obletnice OF množic v svobodi pri nas dan nenehne borbe za priključitev k FLRJ, Giorno della celebrazione del 5° anniversario del fronte di liberazione delle masse libere da noi giorno di lotta costante per l’annessione alla repubblica popolare federativa, «Primorski dnevnik», 27 aprile 1946).

Quella cominciata il 27 aprile si configurava non solo come una lotta di liberazione dal nazifascismo, ma anche come il primo passo verso l’annessione del Litorale alla Jugoslavia. Ricordare il giorno di fondazione del Fronte antimperialistico significava sottolineare come, al di fuori dei confini italiani, la Resistenza si fosse organizzata e formalizzata con due anni di anticipo rispetto alla penisola, ribadendo la forte fede antifascista che aveva mosso i partigiani jugoslavi e giustificando il processo che aveva portato le brigate garibaldine a essere assoggettate al diretto comando del IX Korpus negli ultimi mesi di guerra. In questo caso, la stampa filoitaliana reagì per lo più ignorando la ricorrenza ed evitando di alimentare nuove polemiche.

Il 4 novembre e Porzûs

Il decreto luogotenenziale varato da De Gasperi confermò il rango di festa nazionale anche al 4 novembre, giorno che ricordava la vittoria nel primo conflitto mondiale e celebrava l’unità del Paese. A tale data era stato riconosciuto un ruolo cruciale già dalla retorica fascista ma, a partire dal 1943, attraverso un processo di rilettura e risemantizzazione avviato dalle forze antifasciste, il suo significato iniziò ad assumere sfumature differenti: gli eventi della Grande guerra furono reinterpretati in chiave patriottico-democratica e la ricorrenza divenne presto un collante del senso d’identità nazionale e un simbolo di amore per l’Italia. Tale meccanismo venne rinforzato anche dal progressivo stringersi di un doppio collegamento tra 4 novembre e 25 aprile: sul piano retorico e rituale la Festa della liberazione mutuò molti elementi dalle celebrazioni per l’Unità nazionale; sul piano dei contenuti e dei valori simbolici, le due date venivano accomunate dal sacrificio di coloro che si batterono per la patria (cfr. Ridolfi 2003, p. 126).

Negli anni Cinquanta questa ricorrenza assunse ulteriori valenze sul piano politico e nazionale, venendo ‘utilizzata’ dalla DC come un’opportunità per porre all’ordine del giorno del dibattito pubblico la questione dell’appartenenza nazionale di Trieste. Infatti, se a Gorizia la questione confinaria era stata risolta con i trattati di Parigi del 1947 – che avevano assegnato il centro urbano all’Italia ma alcune aree periferiche e gran parte della provincia alla Jugoslavia –, l’appartenenza nazionale di Trieste venne sancita solo nel 1954. Le celebrazioni del 4 novembre rappresentarono quindi, in quegli anni d’incertezza, un’occasione importante di rivendicazione e di definizione identitaria per tutti coloro che lottavano per l’annessione del capoluogo giuliano all’Italia. I ‘registi’ delle commemorazioni individuarono come luogo della memoria primario il Sacrario di Redipuglia, «l’opera forse più compiuta di appropriazione del culto della Grande guerra da parte del fascismo» (P. Dogliani, Redipuglia, in I luoghi della memoria, 1998, p. 379) che, tuttavia, a partire dal dopoguerra, venne reinterpretato e vissuto sotto la lente del patriottismo democratico, diventando simbolo di riconciliazione e, da un certo punto di vista, addirittura di pace (Foot 2009, pp. 89-90). Nel novembre del 1954, il ritorno di Trieste all’Italia venne celebrato proprio ai piedi dell’enorme scalinata con incisi i nomi di più di 60.000 soldati caduti durante la Prima guerra mondiale e, negli anni successivi, le cerimonie a Redipuglia divennero, a più riprese, scenario privilegiato delle manifestazioni soprattutto dei partiti di destra e delle associazioni degli esuli. Il Sacrario ritornò prepotentemente agli onori della cronaca (anche nazionale) ospitando le contestazioni legate alla firma e alla ratifica dei trattati di Osimo che, alla metà degli anni Settanta, «stabilizzarono» una linea di confine rimasta «ufficialmente provvisoria» per quasi vent’anni (Dogliani, cit., p. 389).

A partire dagli anni Cinquanta, nelle riconfigurazioni della memoria pubblica si ritagliò un ruolo di rilievo anche l’eccidio di Porzûs, forse uno dei più drammatici e sanguinosi episodi di contrapposizione tra le diverse anime della Resistenza operanti nei territori contesi (cfr. A. Buvoli, L’eccidio di Porzûs: ipotesi interpretative, «Storia contemporanea in Friuli», 32, 2001, p. 10). I fatti apparvero chiari fin da subito: il 7 febbraio 1945, presso le malghe Topli Uork nelle vicinanze di Porzûs, un gruppo di gappisti garibaldini uccise venti partigiani delle formazioni autonome Osoppo. Ben più difficile, però, fu acclarare le reali motivazioni e le responsabilità di tale gesto, innanzitutto per la pluralità di fattori che contribuirono a creare il particolare clima di tensione in cui l’eccidio si consumò. In primo piano va posta la ‘questione nazionale’: come abbiamo visto, da un lato, il Partito comunista italiano si era dovuto piegare alle tesi annessionistiche jugoslave ordinando al Comando della Garibaldi-Natisone di porsi alle dipendenze del IX Korpus che la fece allontanare dal Friuli orientale per avere mano libera nei territori rivendicati; dall’altro, le forze osovane promossero forme di dialogo e collaborazione con tedeschi e fascisti finalizzate sia a calmierare la durezza dello scontro sia a gettare le basi di una eventuale lotta contro gli ‘slavi’ e i loro alleati comunisti italiani accusati di tradimento della patria. Sebbene nel dopoguerra, dopo un lungo e faticoso iter, si siano svolti due processi (a Lucca a partire dal 1951 e a Firenze dal 1954), non si riuscì mai a definire con certezza se la responsabilità dell’episodio fosse da imputare unicamente al comandante delle formazioni GAP (Gruppi di Azione Patriottica) Mario Toffanin «Giacca» – che operò presumibilmente con l’avallo della Federazione comunista di Udine – o piuttosto fosse da attribuire ai vertici delle brigate Garibaldi su indicazione del IX Korpus, che poteva avere interesse a eliminare una delle forze che maggiormente si opponeva alle loro pretese annessionistiche (cfr. P. Pezzino, introduzione a D. Franceschini, Porzûs. La Resistenza lacerata, 1998, p. V).

A ogni modo, la strage di Porzûs rappresentò un evento carico di significati che si prestò a essere ampiamente utilizzato a fini politici nei processi di costruzione della memoria pubblica della guerra. La rilevanza dell’eccidio venne sottolineata soprattutto da coloro che intendevano mettere in discussione l’immagine di compattezza del movimento resistenziale, accusando di tradimento le formazioni garibaldine e interpretando in chiave patriottica l’operato e il sacrificio degli osovani. Il PCI, dal canto suo, cercò di minimizzare la rilevanza generale di quei fatti stendendo un velo d’oblio su un episodio che – indipendentemente dalle conclusioni processuali – metteva in luce alcune evidenti contraddizioni all’interno della Resistenza e difficilmente avrebbe potuto trovare un posto all’interno dell’immagine mitica della lotta di liberazione (p. I). Tali contrapposizioni trovarono riscontro durante le commemorazioni della tragedia organizzate dall’Associazione partigiani Osoppo (APO) a cui l’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia) si rifiutò sempre di partecipare, accusando gli osovani di volerne fare un uso politico (cfr. Aga Rossi 2012, p. 97).

Dopo l’amnistia del 1958 che pose fine alla fase processuale, la memoria di Porzûs venne presto relegata a un contesto prettamente locale tornando a occupare un ruolo di rilievo nel dibattito pubblico solo in un periodo molto successivo, in parte anche a seguito della proiezione al Festival di Venezia nel 1997 del contestatissimo film di Renzo Martinelli.

La Risiera di San Sabba e la foiba di Basovizza

La battaglia per le commemorazioni nella Venezia Giulia assume una dimensione nazionale in due luoghi-simbolo di opposta valenza: la Risiera di San Sabba e la foiba di Basovizza, le cui ‘vicende memorialistiche’ si sono incrociate più volte fino a tempi molto recenti. Negli spazi una volta adibiti a centro per la pilatura del riso, a pochi chilometri dal centro di Trieste, i nazisti allestirono l’unico campo di concentramento in Italia dotato di forno crematorio; un campo dove furono detenuti, torturati e uccisi molti partigiani e antifascisti italiani e sloveni e da cui migliaia di ebrei furono deportati verso Auschwitz e gli altri lager dell’Europa centrale. Alle porte di Basovizza/Bazovica, piccolo paese del Carso triestino, si trova invece un pozzo minerario costruito a inizio secolo che, dopo la sua chiusura, venne utilizzato – in fasi diverse e a più riprese – come discarica per rifiuti e come fossa comune. Questa cavità, che ospita al suo interno un numero ancora imprecisato di cadaveri, alcuni dei quali legati ai fatti di sangue del maggio 1945, pur non essendo una vera e propria foiba, venne eletta a luogo emblema di tutte le deportazioni e uccisioni avvenute per mano dei partigiani jugoslavi sia nel 1943 in Istria sia nel 1945 in tutta l’area della Venezia Giulia e del Litorale.

In questa sede proveremo a delineare alcuni dei momenti salienti che posero i due siti al centro delle dinamiche di costruzione di opposte memorie pubbliche sulla Seconda guerra mondiale. Si potrebbe dire che tra i due memoriali si instaurò una vera e propria ‘guerra della rimembranza’ che ebbe il suo inizio ufficiale tra la fine degli anni Sessanta e la metà del decennio successivo. Sono anni in cui agli accertamenti storici sui fatti realmente accaduti si alternarono diversi momenti commemorativi volti a conquistare visibilità presso l’opinione pubblica. Il 15 aprile 1965 la Risiera venne dichiarata monumento nazionale con un decreto del presidente della Repubblica Giuseppe Saragat. Da quel momento si avviò una nuova fase che portò alla trasformazione dell’ex campo di concentramento in museo-monumento, favorendo per questa via una diffusa e progressiva presa di coscienza su ciò che era avvenuto all’interno della vecchia fabbrica e, più in generale, sull’operato di nazisti e collaborazionisti nella Zona d’operazioni Litorale adriatico.

Un primo momento di scontro aperto tra le memorie relative a San Sabba e Basovizza coincise proprio con l’inaugurazione del museo-monumento della Risiera (1975): durante le celebrazioni svoltesi alla presenza del presidente della Repubblica Giovanni Leone, fu pronunciato anche un discorso in sloveno per ricordare le numerose vittime slovene che trovarono la morte all’interno del campo. Diversi gruppi, tra cui la Lega nazionale e alcune associazioni degli esuli, videro in questo gesto, e nell’incremento di visibilità pubblica che le celebrazioni avevano dato alla Risiera, un tentativo di imporre una memoria ‘orientata’ sui fatti della guerra – una memoria che privilegiava le vittime del nazismo e poneva in ombra le vicende legate alle foibe – oltre che

una mossa architettata dagli sloveni per creare una sorta di imperativo morale alla ratifica di quello che sarebbe divenuto il Trattato di Osimo, che rendeva definitivo l’accordo territoriale già di fatto delineato dal Memoriale di Londra nel 1954 (Ballinger 2003; trad. it. 2010, p. 230).

Tali polemiche proseguirono e si rinvigorirono nel 1976 con l’inizio del processo contro i crimini compiuti nel campo di concentramento triestino. Il procedimento ebbe inizio dopo una lunga fase istruttoria conclusa con una sentenza molto criticata perchè escludeva dal giudizio i crimini compiuti contro partigiani e membri politici della Resistenza nel tentativo di «chiudere il processo in limiti così angusti da non toccare o risvegliare la suscettibilità di ambienti triestini che non [erano] certo scevri da macchie di complicità e collaborazione» (San Sabba. Istruttoria e processo per il lager della Risiera, a cura di A. Scalpelli, 1988, p. XXVII).

Si fece sentire in modo particolare la voce contraria di Enzo Collotti che, oltre ad aver studiato approfonditamente quegli avvenimenti già nel corso degli anni precedenti, venne chiamato a testimoniare in quanto storico durante la fase dibattimentale (cfr. E. Collotti, Impegno civile e passione critica, a cura di M. Salvati, 2010, p. 62). In ogni caso l’avvio del processo diede, da un lato, una certa veste istituzionale alla presa di coscienza collettiva sulle vicende dell’Adriatsche Kustenland, ma dall’altro fomentò le richieste di una ‘giustizia equivalente’ per i responsabili delle foibe. Tale tentativo di equiparazione degli eventi e delle memorie – che provocò un ampio dibattito e venne fortemente contestato e contrastato da storici e intellettuali sia a livello locale che nazionale – pose le basi per una strategia retorica che si ripropose, sostanzialmente immutata, quando la foiba di Basovizza fu dichiarata prima monumento di interesse nazionale (1980) e poi monumento nazionale a tutti gli effetti, raggiungendo così lo stesso ‘rango’ della Risiera (1992).

Attorno a Basovizza si assistette al progressivo inasprirsi delle polemiche «per il prolungato silenzio e il mancato omaggio delle più alte cariche dello Stato» (Spazzali, Pupo 2003, p. 235): iniziò così a prendere corpo il mito della «memoria dimenticata» o della «congiura del silenzio» (R. Pupo, Le foibe fra storiografia e uso pubblico, «Passato e presente», 84, 2011, p. 145), un costrutto discorsivo che – ignorando il grande lavoro di ricerca storica, di ricostruzione dei fatti e di mantenimento della memoria svolto da molti ricercatori che operavano soprattutto in Friuli-Venezia Giulia – metteva in evidenza la mancanza di attenzione sul tema delle foibe e dell’esodo da parte delle istituzioni pubbliche e delle forze di sinistra, accusate di fare un uso politico dell’oblio.

A partire dalla fine degli anni Cinquanta i governi nazionali e le principali formazioni politiche mantennero un atteggiamento evidentemente ambiguo, ma fu in particolar modo il PCI a dimostrarsi reticente, senza riuscire a dissimulare un certo imbarazzo per le posizioni assunte in passato e sorvolando sulle proprie responsabilità per riaffermare quel «sentimento patriottico, percepito come indispensabile per stornare il sospetto di ‘nichilismo nazionale’» (p. 152). Se a partire dalla fine degli anni Ottanta si assiste al tentativo di appropriazione strumentale della memoria delle foibe e dell’esodo da parte delle forze di destra post-fasciste, un reale punto di svolta si può individuare in quella fase di rapido mutamento degli equilibri politici segnata dalla caduta del Muro di Berlino, dallo scoppio delle guerre in Jugoslavia e dalla fine della prima repubblica in Italia. Nel panorama nazionale, la ‘fine delle ideologie’, la disgregazione dei vecchi partiti e la nascita di nuove formazioni politiche sia a destra sia a sinistra, innescò processi di ricerca di legittimazione che trovarono uno strumento efficace proprio nella riproposizione della memoria delle foibe. I partiti di destra, accreditati in questa operazione da ricerche di dubbia validità scientifica e da una stampa particolarmente ricettiva e interessata a riproporre numeri e immagini di grandi massacri (cfr. J. Pirjevec, Foibe. Una storia d’Italia, 2009, pp. 201 e segg.), riuscirono a imporre all’attenzione nazionale un’interpretazione delle foibe come forma di violenza perpetrata nei confronti degli «italiani in quanto italiani»: una violenza sistematica, scaturita dalle brame annessionistiche dei partigiani jugoslavi, che ben rifletteva il consolidato «stereotipo razziale della ‘brutalità slava’» (Foot 2009, p. 141). Tale tesi trovò terreno fertile nell’esplosione del conflitto jugoslavo negli anni Novanta, un contesto da cui venne mutuato anche il concetto di ‘pulizia etnica’, presto adottato per descrivere in modo sintetico ed efficace, ma decisamente fuorviante, ciò che era accaduto in Istria e nella Venezia Giulia nell’ultima fase della guerra. Sul fronte opposto, i partiti nati dalla disgregazione del PCI trovarono conveniente procedere a una sostanziale assunzione di responsabilità per gli errori commessi nel passato, senza però riuscire a formulare un discorso autonomo sul tema, dimostrandosi particolarmente disponibili a condividere le argomentazioni proposte dagli avversari. Un atteggiamento che si concretizzò nei numerosi discorsi degli esponenti politici di sinistra in cui si sosteneva la necessità di comprendere le ragioni di chi aveva comunque combattuto per un ideale dando adito, in questo modo, ad accese polemiche. Un caso paradigmatico, rivelatore di tali posizioni ‘convergenti’ fu l’incontro del 1998 a Trieste tra Gianfranco Fini e Luciano Violante, i due leader che meglio incarnavano, in quel momento storico, il ‘nuovo corso’ della politica italiana. Ancora più sintomatiche dell’avanzamento di questo processo di costruzione di una memoria collettiva e di consolidamento di interpretazioni proposte dalla destra anche all’interno degli apparati interpretativi delle altre forze politiche, oltre che delle massime cariche istituzionali, sono le parole pronunciate il 10 febbraio 2007 dal presidente della Repubblica (ex comunista), Giorgio Napolitano, in occasione del Giorno del ricordo:

Vi fu dunque un moto di odio e di furia sanguinaria che assunse i sinistri contorni di una ‘pulizia etnica’. [...] Non dobbiamo tacere. Dobbiamo assumerci la responsabilità di aver negato o teso ad ignorare la verità, per pregiudiziali ideologiche e cecità politica (Napolitano: foibe, congiura del silenzio, «Il piccolo», 11 febbraio 2007).

Proprio il Giorno del ricordo in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata e delle più ampie vicende del confine orientale, istituito con voto quasi unanime dal Parlamento nel 2004, può essere analizzato come uno dei campi di battaglia privilegiati di questa ‘guerra delle memorie’. La nuova ricorrenza rappresentò sicuramente un’importante occasione di dibattito nazionale e di ampia promozione di quelle ricerche rigorose e documentate che nei decenni precedenti erano state spesso relegate al contesto locale, ma favorì anche la diffusione di iniziative divulgative, didattiche e commemorative in cui spesso prevalsero i toni retorici e gli intenti propagandistici. In questo modo, come ricorda Filippo Focardi,

accanto alla memoria della Resistenza e in competizione con essa è stata intrapresa la costruzione di un’altra memoria pubblica, incentrata sul ricordo delle foibe e delle vicende del confine orientale (Focardi 2005, p. 75).

Un processo assecondato anche dal fin troppo evidente tentativo di «olocaustizzazione della memoria delle foibe» (G. Franzinetti, Le riscoperte delle «foibe», in J. Pirjevec, Foibe, cit., p. 323). Il lessico e gli apparati commemorativi e retorici che hanno spesso contraddistinto il Giorno del ricordo riflettono in modo piuttosto marcato quelli del Giorno della memoria delle vittime della Shoah – riconosciuta dal Parlamento italiano nel 2000 – smascherando il tentativo di equiparare i due avvenimenti e di mettere sullo stesso piano entrambe le memorie. In tal senso il lapsus che portò nel 2003 il sindaco di Trieste Roberto Di Piazza a onorare i «martiri delle foibe» durante una commemorazione alla Risiera appare molto significativo e rappresenta solo una delle più ricordate occasioni di scontro e di polemica attorno alle ‘forme pubbliche’ della memoria della guerra.

Luoghi della memoria slovena

La Risiera di San Sabba e la foiba di Basovizza si ritagliano uno spazio sicuramente privilegiato all’interno del panorama della memoria pubblica dell’area di confine e sono fra i pochi monumenti della Venezia Giulia a essere conosciuti anche a livello nazionale in quanto scenari per celebrazioni e visite ufficiali e mete per i viaggi d’istruzione. Focalizzare l’attenzione unicamente su questi due spazi ormai istituzionalizzati, però, porta a escludere dal panorama della memoria pubblica un’ampia gamma di avvenimenti e punti di vista alternativi. Molte esperienze e ricordi che non rientrano all’interno delle main narratives nazionali si sono tramandate comunque attraverso quelle che potrebbero essere definite ‘memorie d’opposizione’, memorie, individuali e collettive, che si sono focalizzate su esperienze ‘altre’ rispetto a quelle assurte a simboli ufficiali della guerra nella Venezia Giulia. Memorie che assumono una loro visibilità sul territorio attraverso la creazione di segni fisici e la riproposizione, nel corso degli anni, di cerimonie e commemorazioni. La ‘guerra dei monumenti’ nell’area di confine, dunque, appare estremamente articolata e coinvolge un ampio numero di ‘luoghi della memoria’, di dimensioni e importanza differenti, ma accomunati da pratiche di rivendicazione/negazione della legittimità che si configurano come un vero e proprio iter comune: un percorso che inizia con la lotta per il riconoscimento di una memoria ‘negata’, si rafforza grazie al sostegno da parte di un ente locale o di una realtà associativa e prosegue con contestazioni, commemorazioni, atti di vandalismo, ricostruzioni e risemantizzazioni.

Tra queste ‘memorie dell’opposizione’, quelle che più a lungo e con maggior vigore hanno rivendicato e richiedono ancora oggi un riconoscimento pubblico sono le memorie della popolazione slovena del Litorale. Particolarmente sentita appare la necessità di dare, da un lato, visibilità e ufficialità al ricordo delle violenze subite dagli sloveni durante il ventennio fascista – un ricordo che non può appoggiarsi al potere simbolico di un unico luogo o evento in quanto si trattò di persecuzioni diffuse in un’ampia area e prolungate nel tempo – e, dall’altro, riconoscimento a coloro che si sono sacrificati lottando «per la libertà e i diritti del popolo sloveno» (cfr. Verginella 2008). A Gorizia, l’assenza di luoghi di commemorazione capaci di ottenere una reale risonanza pubblica risulta particolarmente evidente mentre a Trieste e nei paesi limitrofi alcuni segni di queste memorie sono presenti. Nel capoluogo giuliano, infatti, nel 2004 è stata affissa una targa bilingue sulla facciata dell’ex Narodni Dom, la «Casa nazionale» slovena che ospitava alcune delle più importanti associazioni culturali, politiche ed economiche degli sloveni di Trieste e che può essere considerata il vero emblema del tentativo di snazionalizzazione della popolazione ‘allogena’ in quanto venne data alle fiamme dai fascisti il 13 luglio 1920. L’evento rimase impresso in modo indelebile nella memoria di tanti testimoni:

esistevano vari circoli nei diversi rioni della città, ma solo il Narodni dom sorgeva in pieno centro e con la sua imponenza feriva ogni giorno l’orgoglio dei nazionalisti italiani. Per tanti l’attentato fu un segno inequivocabile: il fascismo aveva distrutto il simbolo della nostra cultura (B. Pahor, M. Olić, Tre volte no, 2009, p. 21).

Anche a Gorizia, pochi anni dopo (1927), le camicie nere assaltarono e vandalizzarono il Trgovski dom (Casa del commercio) un grande edificio in pieno centro che svolgeva le medesime funzioni del suo ‘gemello’ triestino: a differenza di quest’ultimo, tuttavia, l’edificio del capoluogo isontino non reca alcun segno a ricordo di quegli accadimenti, che rimangono così relegati nelle narrazioni familiari.

Ancora più paradigmatica appare la storia della memoria dei fucilati di Basovizza. I protagonisti sono quattro antifascisti sloveni, membri dell’organizzazione TIGR (Trst, Istra, Gorica, Reka, Trieste, Istria, Gorizia, Fiume), condannati a morte dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato che li ritenne responsabili di numerosi attentati e sabotaggi, tra cui l’attacco al Faro della Vittoria, simbolo dell’identità italiana di Trieste. I quattro giovani, fucilati il 6 settembre 1930 presso il campo di tiro di Basovizza, vennero subito considerati come martiri dalla popolazione slovena antifascista che iniziò a commemorarli già dal novembre dello stesso anno a Kranj dove, in segno di sfida verso il regime, venne eretta una piccola piramide di legno, con la punta spezzata, avvolta dal filo spinato. A guerra conclusa, il 9 settembre 1945, nell’area dell’esecuzione venne realizzata una semplice colonna quadrangolare con l’indicazione dei nomi dei quattro «eroi di Basovizza», i giovani che, secondo il comitato organizzatore delle manifestazioni, furono «i primi ad innalzare la bandiera della lotta armata contro il fascismo oppressore delle classi lavoratrici slovene, croate e italiane del Litorale sloveno e dell’Istria» (G. Dato, Le celebrazioni per gli eroi di Bazovica (1945-1948), «Acta Histriae», 2010, 3, pp. 471-98). Il monumento e le celebrazioni a esso collegate diventarono presto un ‘luogo della memoria’ privilegiato per i numerosi sloveni che continuarono ad abitare i paesi del Carso anche dopo la definizione del confine nel 1954, uno spazio della rimembranza tutt’altro che pacificato che nel corso degli anni si trovò più volte al centro di proteste, azioni di vandalismo e sabotaggi. Se le celebrazioni che si svolsero nel 1945 coinvolsero non solo le organizzazioni slovene ma anche i partiti del Comitato di liberazione nazionale (CLN) e le autorità alleate, già a partire dall’anno seguente gli anniversari della fucilazione iniziarono a risentire delle tensioni politiche e nazionali che si andavano addensando nella Zona A. Nel 1946, il Governo militare alleato (GMA) non autorizzò un corteo a Trieste, temendo tafferugli, mentre dal 1947 il significato simbolico dell’azione degli «eroi» venne rivendicato anche dai gruppi di «sloveni bianchi» fuoriusciti dalla Jugoslavia socialista che ne fornivano un’interpretazione unicamente nazionale negandone la matrice politica (pp. 484-89). Nei decenni seguenti, il monumento venne ripetutamente deturpato da formazioni neofasciste mettendo in evidenza quanto la questione delle memorie slovene fosse ancora viva nella società triestina. A seguito di questi episodi, il significato simbolico del monumento venne ‘raddoppiato’ da un’altra targa, apposta sulla struttura principale, in memoria degli atti vandalici subiti, denunciando così il proseguire dell’intolleranza e segnalando una sorta di continuità nelle azioni subite dagli sloveni per mano fascista. Significativa, in questo senso, anche la protesta avanzata dal vice sindaco di Trieste Paris Lippi nel 2005 dopo il ‘tour della memoria’ che portò Walter Veltroni a visitare la Risiera, la foiba di Basovizza e il memoriale ai fucilati del 1930: nelle parole della seconda carica cittadina i quattro antifascisti venivano descritti semplicemente come «terroristi che volevano separare Trieste dall’Italia» («Il piccolo», 1° febbraio 2005; cfr. Foot 2009, p. 124).

A pochi chilometri di distanza da Basovizza si trova un’altra area memoriale cara alla comunità slovena di Trieste: il poligono di tiro di Opicina/Opčine, che ospitò in più di un’occasione le esecuzioni di antifascisti sloveni da parte del regime. Quindici ‘terroristi’ furono fucilati il 15 dicembre 1941, mentre settantuno oppositori vennero uccisi nel 1944 subito fuori dalle mura del campo. A ricordo di questi eventi, dopo numerose battaglie portate avanti per ottenere un riconoscimento istituzionale, è stato eretto solo un piccolo monumento che, pur versando in stato di semiabbandono, negli ultimi anni ha iniziato a essere inserito con sempre maggior frequenza anche nei pellegrinaggi commemorativi che alcuni rappresentati delle istituzioni locali svolgono in occasione del 25 aprile per ricordare le «vittime della guerra» («Il piccolo», 24 aprile 2012).

Ancor più dimenticati o quantomeno messi in ombra dalle ‘memorie forti’ delle foibe e della Risiera sono i tanti piccoli monumenti costruiti in quasi tutti i paesi del Carso triestino, del Collio goriziano e dell’Istria a ricordo dei caduti della Resistenza slovena e comunista. Si tratta di memoriali, spesso molto sentiti dalla popolazione locale, su cui spiccano scritte bilingui, stelle rosse e bandiere jugoslave e che s’inseriscono «in una narrativa più ampia, che esalta i partigiani comunisti dell’ex Jugoslavia e quelli italiani, narrative che dagli anni Ottanta sono esposte a tendenze revisioniste in entrambi i contesti» (Ballinger 2003; trad. it. 2010, pp. 45-46).

Memorie individuali

Sui campi di battaglia della memoria pubblica – giornali, monumenti, commemorazioni – la ‘questione nazionale’ appare spesso come il problema centrale attorno a cui si strutturano le pratiche della rimembranza, l’azione dei partiti e le rivendicazioni delle associazioni. In pratica, le letture che nella sfera pubblica vengono date della guerra e del dopoguerra sottolineano prevalentemente le divisioni sul piano nazionale e politico, facendo per lo più coincidere queste due dimensioni e disegnando due fronti della memoria fra loro quasi del tutto opposti e inconciliabili. Le memorie pubbliche risultano spesso radicalmente contrapposte, tese a rafforzare i legami identitari assumendo come elementi paradigmatici e fondanti gli atti eroici o gli eventi traumatici, interpretandoli come sofferenze patite dalla «propria» comunità e ignorando, quando non addirittura negando, le violenze patite dall’«altro» (Crainz 2005, p. 5 e segg.). Si tende così a escludere dalle rievocazioni del passato tutti quegli eventi, quelle dinamiche, quelle relazioni che rientrano nella sfera della quotidianità; a ignorare le tendenze, in realtà molto diffuse, all’ibridismo e alla creolizzazione (Ballinger 2003; trad. it. 2010, p. 421); a dimenticare l’impatto devastante che ebbe, sulla popolazione e sul suo modo di operare, il susseguirsi in meno di cinque anni di cinque diversi regimi che favorirono l’instaurarsi di una vera e propria «società dell’incertezza» (Z. Bauman, La società dell’incertezza, 1999) dove gli attori sociali non erano spesso in grado di adattare le proprie configurazioni mentali e ideali alle nuove condizioni politiche. In questo modo si rischia di sminuire «il carico di sogni e, talvolta, di illusioni che era inestricabilmente legato alle richieste di mutamento politico e sociale di quel particolare periodo» (Di Gianantonio et al. 2005, p. 15).

Per comprendere e analizzare questa condizione appare allora utile soffermarsi sulle memorie individuali, sui racconti di vita dei testimoni, che ci informano innanzitutto sull’impatto che la guerra ebbe all’interno della società civile, delle singole famiglie e dei rapporti interpersonali ma anche «su ciò che i fatti hanno voluto dire per chi li ha vissuti e per chi li racconta; non solo su ciò che le persone hanno fatto, ma su ciò che volevano fare, che credevano di fare, che credono di aver fatto; sulle motivazioni, sui ripensamenti, sui giudizi e le razionalizzazioni» (A. Portelli, Storie orali, 2007, p. 12).

In questa analisi faremo riferimento in particolare a un corpus di 50 interviste a testimoni italiani e sloveni del Goriziano raccolte da chi scrive (in alcuni casi in collaborazione con Kaja Širok) tra il 2008 e il 2011, ma anche alle ricerche compiute tra gli anni Novanta e il primo decennio degli anni Duemila soprattutto da Anna Di Gianantonio, Gloria Nemec e Marta Verginella.

È proprio nella sfera individuale che le memorie della guerra sul confine appaiono particolarmente «lunghe». I testimoni raramente si soffermano sugli anni e sugli eventi specifici del conflitto ma tendono a spiegare e a giustificare quei fatti inserendoli in una narrazione che parte spesso da molto lontano e si prolunga fino ai giorni nostri, trovando un punto d’arrivo nell’ingresso della Slovenia nell’Unione europea.

Nati prevalentemente fra gli anni Venti e gli anni Trenta, i testimoni da noi intervistati delineano i tratti salienti della propria famiglia e della comunità locale a cui appartengono, ne sottolineano i caratteri di ibridismo e mettono in luce quelle dimensioni di tolleranza e «mescolanza» che trovavano riscontro innanzitutto nei modi di vivere gli spazi e nelle complesse pratiche linguistiche. Le famiglie erano spesso miste dal punto di vista nazionale ed erano frequenti i casi di persone che parlavano più di una lingua (italiano, sloveno, tedesco, friulano), alternando gli idiomi a seconda del contesto e dell’interlocutore: questo plurilinguismo è considerato da molti come la vera «essenza» del goriziano. I testimoni ci offrono delle descrizioni quasi «idilliache» di questi rapporti, ribadendo spesso in modo esplicito che «fra italiani e sloveni non c’erano problemi», «si era tutti parte di una stessa realtà», poliedrica ma sostanzialmente unita e pacifica (cfr. Cattunar 2013, pp. 226-29). Sono narrazioni estremamente ricorrenti, che riflettono per lo più lo sguardo e le percezioni di persone che al tempo del fascismo erano poco più che bambini, e che si pongono in aperto contrasto con la tendenza, evidente invece nella sfera pubblica, a proporre l’immagine di una società divisa tra italiani e sloveni, tra fascisti e antifascisti, tra comunisti e democratici. Le memorie individuali sembrano quindi non riconoscersi nella retorica contrastiva prevalente nelle pratiche commemorative ufficiali.

Se gli abitanti di Gorizia appaiono sostanzialmente concordi nel definire e descrivere questa «condizione originaria», le memorie si fanno decisamente più diversificate e contrastanti in relazione agli anni del fascismo. I testimoni italiani appaiono spesso evasivi su questa fase mentre gli sloveni se ne appropriano rendendola un momento fondante del proprio racconto, un punto di frattura segnato in particolare dal ricordo delle politiche di snazionalizzazione e del drammatico effetto di lacerazione che ebbero all’interno del tessuto sociale. Le memorie slovene si soffermano a lungo sul trauma rappresentato dal divieto di parlare in pubblico, soprattutto a scuola, la propria lingua madre, ma anche sulla chiusura delle associazioni culturali slovene, sull’italianizzazione dei nomi e dei cognomi e sull’obbligo a iscriversi agli organi di partito: se nei più giovani queste misure comportarono soprattutto difficoltà nell’apprendimento e imbarazzo nei rapporti con insegnanti e compagni di classe, negli adulti emergono con più evidenza la rabbia e la frustrazione legate all’obbligo di rinunciare ai principali canali espressivi della propria identità.

I diversi modi di impostare la narrazione sul periodo fascista da parte di italiani e sloveni evidenziano in modo chiaro la profonda frattura identitaria che tali politiche segnarono in una parte consistente della popolazione ma anche la sostanziale indifferenza con cui vennero accolte da coloro che non ne furono diretti destinatari e che spesso non ne percepirono la radicalità e il reale impatto sociale. A ogni modo, nelle memorie slovene non sembrano prevalere sentimenti di odio o di recriminazione verso la popolazione italiana nel suo insieme, ma vengono piuttosto evidenziate le responsabilità dei fascisti e gli atteggiamenti antislavi mostrati da una parte della cittadinanza – soprattutto insegnanti, pubblici ufficiali e forze dell’ordine – senza però sottovalutare anche i numerosi episodi di tolleranza e di aiuto reciproco, sia in ambito scolastico e lavorativo sia a livello familiare e di vicinato.

Arrivando agli anni della guerra e dell’occupazione nazista della Venezia Giulia, i racconti di vita convergono su alcuni eventi ma si distanziano nettamente su altri. Un caso paradigmatico è sicuramente quello dell’8 settembre. Che si tratti di un punto di svolta fondamentale lo si intuisce immediatamente dal modo in cui i testimoni ne parlano, dai nomi con cui tale data viene ricordata e tramandata: per qualcuno è «il giorno dell’armistizio», per altri «la capitolazione dell’Italia». Sono definizioni che sottintendono opposte interpretazioni degli avvenimenti e che mettono in luce il ruolo, anche simbolico, che questi assunsero nei singoli percorsi di vita e, più in generale, nei rapporti tra le diverse anime della popolazione. Appena appresa la notizia, in molti s’illusero che la guerra stesse volgendo al termine ma, se da un lato gli sloveni videro nell’8 settembre sostanzialmente la fine, ingloriosa, del fascismo sempre avversato e della sua politica imperialistica, dall’altro molti italiani antifascisti si approcciarono all’evento con un carico di speranza che venne rapidamente disatteso: la speranza nel riscatto dell’Italia dopo il buio del ventennio mussoliniano. Coloro che il regime l’avevano sostenuto con convinzione, invece, si sentirono traditi e smarriti.

Dopo l’armistizio/capitolazione, l’occupazione nazista e i bombardamenti assunsero i tratti di un trauma comune a tutta la popolazione, uno shock che si riflette in immagini e ricordi condivisi: le ordinate truppe germaniche che s’impadronivano dei palazzi del potere e sfilavano per la città; i piccoli e grandi soprusi messi in atto dalle autorità di occupazione e dai collaborazionisti italiani e sloveni; il reclutamento sotto l’impresa di costruzioni Todt per evitare l’arruolamento o la prigionia; la paura delle bombe che, sebbene non cadessero incessanti, costringevano i goriziani a nascondersi nei rifugi sotto la collina del Castello o lungo l’Isonzo. La prefettura e la Camera di commercio occupate dai gerarchi, le «grandi buche» scavate durante il lavoro coatto e i rifugi antiaerei sono diventati così «luoghi comuni del ricordo» articolati in topografie della memoria radicate nei racconti famigliari ma del tutto assenti dalle commemorazioni pubbliche; luoghi che testimoniano dell’impatto che la guerra ebbe sui civili e sulla comunità goriziana nel suo insieme.

I ricordi si fanno decisamente più frammentari e contrastanti, invece, in merito ai movimenti resistenziali e all’operato dei partigiani. La lotta di liberazione ha occupato, soprattutto in passato, un ruolo di grande rilievo nelle memorie della popolazione slovena del Litorale, come dimostrano le testimonianze raccolte tra anni Cinquanta e anni Ottanta e analizzate da Marta Verginella (I vincitori sconfitti. Testimonianze slovene sul movimento di liberazione a Trieste, in Storia e memoria degli sloveni del Litorale, a cura di M. Verginella, A. Volk, K. Colja, 1994, p. 7). In questo caso, i racconti assumono un sapore quasi mitico, esaltando i valori della militanza antifascista e l’importanza che la lotta contro il nazifascismo aveva ricoperto nei processi di presa di coscienza identitaria sul piano sia politico che, soprattutto, nazionale. La Resistenza slovena viene descritta come una «spinta» che partiva dal basso, dall’interno dei nuclei familiari e amicali, coinvolgendo non solo gli «uomini combattenti» ma anche donne e giovani. Le interviste analizzate da Verginella appaiono segnate «da una complicità che si stabilisce tra l’intervistato e l’intervistatore. Entrambi sono uniti dallo stesso obbligo morale di mantenere viva nella memoria collettiva la lotta antifascista. I testimoni filtrano i loro racconti, evitando quegli elementi atti a compromettere un’immagine positiva dell’antifascismo sloveno» (p. 9). Questi aspetti appaiono meno evidenti nelle interviste raccolte dopo la svolta degli anni Novanta quando, anche in Slovenia, sul piano della rielaborazione pubblica della memoria, ebbe inizio un processo di revisione delle narrative dominanti che fino a quel momento si erano focalizzate quasi unicamente sull’esperienza resistenziale e sui crimini fascisti, sostanzialmente ignorando il periodo dei ‘quaranta giorni’, l’esperienza delle foibe e l’esodo.

Nelle interviste che abbiamo raccolto nell’ultimo decennio, l’immagine prevalentemente positiva del movimento di liberazione jugoslavo non viene meno, ma emergono con forza anche la delusione e, a volte, la rabbia dovute ai comportamenti assunti da molti partigiani nel periodo di amministrazione jugoslava sulla Venezia Giulia. Violenze spesso immotivate e toni apertamente nazionalistici, infatti, apparivano in contrasto con gli ideali e le visioni del futuro in nome dei quali tanti avevano combattuto. Da questi racconti iniziano a emergere anche alcuni «lati oscuri» della lotta di liberazione, gli atti di violenza, la diffidenza dimostrata da una parte della popolazione e i numerosi tentativi, da parte dei partigiani, di mobilitare il maggior numero di uomini servendosi anche di metodi coercitivi verso coloro che apparivano maggiormente restii a schierarsi.

Se ci soffermiamo invece sulle memorie di quei partigiani italiani, per lo più comunisti, che combatterono nelle brigate garibaldine, ai ricordi della vita in montagna e delle gesta, più o meno eroiche, compiute nel biennio 1943-45, si affiancano molto spesso lunghe e articolate considerazioni relative alla «questione nazionale», argomentazioni tese a giustificare, o quanto meno motivare, l’adesione alle tesi annessionistiche jugoslave. Le fratture identitarie appaiono molteplici e rispecchiano i percorsi politici e nazionali tutt’altro che lineari compiuti dai testimoni: dopo il crollo del nazifascismo, la liberazione del 1° maggio, il rovesciamento di fronte del 12 giugno 1945 e la definizione del confine nel settembre del 1947, a incidere in profondità nei ricordi, segnando l’ennesimo momento di svolta, giunse la rottura fra Stalin e Tito del 1948, un evento che rappresentò un vero e proprio trauma all’interno del fronte comunista, che ne uscì diviso sia politicamente che nei processi di costruzione di una memoria collettiva (cfr. Di Gianantonio et al. 2005, pp. 234-39).

Per coloro che non presero parte attiva nella lotta di liberazione, il ricordo della Resistenza assume oggi tinte decisamente più chiaroscurali: i racconti si presentano frammentari, spesso confusi, e non nascondono il disagio crescente con cui molte persone vissero una situazione sempre più esplosiva, in cui risultava difficile rimanere estranei alle azioni guidate dagli opposti schieramenti. Le violenze partigiane e quelle nazifasciste frequentemente si confondono nei racconti delle donne più anziane e meno schierate politicamente, racconti in cui i riflettori appaiono puntati sugli sforzi compiuti per svolgere le attività quotidiane mantenendo buoni rapporti sia con i resistenti sia con gli occupatori tedeschi e le truppe collaborazioniste italiane, slovene, serbe e cosacche. La scelta da parte di molti giovani di entrare in contatto con le formazioni armate nascoste in montagna non veniva accolta positivamente da madri consapevoli dei pericoli che questa avrebbe comportato per il mantenimento di quella sicurezza familiare che in molti casi si era cercato di conservare proprio attraverso faticose pratiche di dialogo e negoziazione con ‘il nemico’. L’ambiguità della posizione che le forze della Resistenza rivestono nell’immaginario attuale di una parte della popolazione italiana si rende esplicita nelle risposte che alcuni testimoni danno quando gli viene richiesto un parere sull’azione dei partigiani. Le descrizioni si focalizzano molto spesso sul periodo dei quaranta giorni, sulle violenze e sulle deportazioni. I partigiani, cioè, vengono associati innanzitutto ai soldati dell’esercito di Tito – per lo più provenienti dalla Serbia e dalla Bosnia – che occuparono Gorizia e Trieste dopo la cacciata dei tedeschi e non tanto a quel movimento di popolo che aveva coinvolto ampie porzioni della popolazione locale consentendo, sebbene in modi diversi, di giungere alla liberazione dal nazifascismo.

Le ‘memorie lunghe della guerra’ nel territorio goriziano trovano un ultimo importante punto di convergenza nella rievocazione della fuga delle formazioni cetniche dalla Venezia Giulia fra il 30 aprile e il 1° maggio 1945, dopo che per molti mesi avevano affiancato i nazisti nelle operazioni di repressione della guerriglia partigiana. I collaborazionisti serbi vengono descritti secondo gli stereotipi comunemente riferiti all’immagine dei barbari invasori – senza scrupoli, mossi unicamente da odio e brame nazionalistiche – in una rappresentazione che appare unitaria e condivisa a livello collettivo da uomini e donne, italiani e sloveni di ogni orientamento politico (A. Di Gianantonio, G. Nemec, Gorizia operaia: i lavoratori e le lavoratrici isontini tra storia e memoria, 1920-1947, 2000, p. 171). La questione del collaborazionismo è un tema centrale per comprendere le dinamiche del conflitto nella Zona d’operazioni Litorale adriatico. Oltre ai cetnici e alle nutrite formazioni fasciste, infatti, accanto ai tedeschi si schierarono anche gruppi armati sloveni – come i belogardisti e i domobranci, accomunati principalmente dal nazionalismo e dall’anticomunismo – e i cosacchi, arruolati durante la ritirata nazista dalla Russia. Se l’immagine dei cetnici e dei cosacchi appare ampiamente condivisa, poiché fondata principalmente sulla paura suscitata dal diverso e dal pericolo improvviso rappresentato da queste truppe, i ricordi dei collaborazionisti sloveni sono assai più sfaccettati e, alle volte, ambigui. Infatti, se da un lato i domobranci vengono criticati dai testimoni sloveni per essere scesi a patti con l’occupatore e aver contribuito a numerosi episodi di violenza, dall’altro, queste formazioni sono descritte con una certa accondiscendenza per il loro impegno a favore della riaffermazione dell’identità slovena durante l’occupazione nazista. Bisogna anche ricordare che pochi giorni dopo la fine della guerra i collaborazionisti sloveni si arresero e si consegnarono agli inglesi per non finire prigionieri di Tito ma furono poi consegnati proprio ai partigiani del Maresciallo che ne ordinò l’eliminazione in massa. Si tratta di un episodio che, fino alla svolta degli anni Novanta, non trovò sostanzialmente alcun riscontro nella memoria pubblica jugoslava, rimanendo relegato nell’oblio ufficiale e riemergendo con forza solo negli ultimi anni, generando ampi dibattiti e accese polemiche.

La ritirata dei cetnici da Gorizia, invece, è rimasta impressa nella memoria locale come l’ultimo episodio di violenza che coinvolse la comunità cittadina nel suo insieme, l’ultimo trauma subito collettivamente: un’immagine che si fonda sulla percezione del nemico come un’entità terza, estranea alle dinamiche politiche e nazionali della zona. Dopo questa fase, a partire dal 1° maggio 1945, nelle interpretazioni degli eventi (a partire innanzitutto dalla ‘doppia liberazione’ della città), nell’accertamento dei meriti e delle responsabilità, nella definizione dei ruoli e delle parti in causa, non si riuscì più a raggiungere tale convergenza nella rielaborazione individuale e collettiva degli avvenimenti del recente passato.

Soprattutto sul piano della memoria pubblica, dei discorsi ufficiali e delle cerimonie si può dire che i ‘quaranta giorni’ e le foibe abbiano effettivamente rappresentato un solco fra due memorie contrapposte. Tale spaccatura appare evidente anche dalle testimonianze orali raccolte fino agli anni Ottanta: per quanto riguarda i testimoni sloveni, infatti, «è ben evidente il vuoto che coincide nei loro racconti con tale periodo», un vuoto di memoria in cui «potremmo riconoscere la rimozione operata da un’intera generazione di combattenti, di fronte ad un evento divenuto a tutti gli effetti una ‘vittoria mutilata’» (I vincitori sconfitti, cit., p. 7). Da parte italiana, al contrario, la questione delle foibe viene spesso posta in primo piano e resa il fulcro delle analisi e delle interpretazioni relative all’intero periodo della guerra.

Se ci soffermiamo sulle fonti orali raccolte a partire dagli anni Novanta, il panorama appare più frastagliato e meno nettamente polarizzato. Il modo di strutturare i racconti di vita da parte dei testimoni e le scelte dei temi su cui soffermare l’attenzione continuano a risentire dell’influenza delle main narratives nazionali, ma eccessi e mancanze di memorie sul periodo dei ‘quaranta giorni’ sembrano configurarsi in maniera diversa, evidenziando legami più complessi tra l’effettivo svolgimento degli eventi, le dinamiche emozionali dei singoli e gli usi pubblici e politici della storia e della memoria. Al di là delle esperienze traumatiche che segnarono le vite di molte famiglie, ad apparire piuttosto condivisa è la descrizione generale di un clima in cui, come abbiamo visto, si fondevano grandi entusiasmi e paure ataviche, generate dal rapido succedersi degli eventi e dall’incertezza su cosa sarebbe avvenuto nell’immediato futuro. Singoli episodi di catture e interrogatori vengono descritti con precisione, ma da questi non sembrano derivare facili polarizzazioni, né sul piano nazionale né sul piano ideologico: il dualismo slavo-comunista-barbaro contro italiano-antifascista-vittima appare molto meno rilevante di quanto non lo sia nel discorso pubblico. Anche il fatto di non utilizzare, per descrivere questi episodi, il generico termine di ‘foibe’ bensì i più precisi ‘arresto’ o ‘deportazione’ può essere ricondotto a una volontà – probabilmente influenzata dal clima politico-culturale di oggi – di ricostruire eventi precisi senza caricarli di valenze allegoriche o di significati politici e ideologici.

Più che il contrasto tra due anime della città, le testimonianze orali mettono in luce soprattutto gli episodi di lealtà dimostrata da molte persone verso i propri concittadini, indipendentemente dalle convinzioni politiche e nazionali: numerose vite furono salvate grazie all’intervento di un amico, di un conoscente, di un vicino di casa, di una persona che – nonostante i pericoli che poteva comportare lo schierarsi apertamente a favore di qualcuno considerato ‘nemico del popolo’ – era disposta a intercedere presso i comandi partigiani. Non furono rari i casi di coloro che testimoniarono e si mobilitarono a favore di arrestati considerati innocenti, che non potevano essere definiti fascisti per il semplice fatto di avere la tessera del pane oppure che potevano anche essere stati inquadrati nel regime, «ma in realtà non avevano mai fatto del male a nessuno». Al contempo, da questi racconti emerge la sostanziale arbitrarietà con cui erano portate avanti le operazioni di epurazione da parte dei partigiani di Tito, operazioni basate per lo più su liste compilate durante la guerra, su indicazioni dell’OZNA (Odeljenje za Zaštitu NAroda, «Dipartimento per la sicurezza del popolo»), ma anche su delazioni la cui attendibilità era tutt’altro che verificata e che in genere nascondevano rancori e vendette di carattere personale. La delusione che questi provvedimenti di giustizia sommaria causarono nella popolazione slovena locale e in coloro che avevano militato nelle formazioni garibaldine mette in luce le profonde contraddizioni che segnarono quella complessa fase di passaggio. Il futuro che queste persone si erano immaginate non contemplava certo il prolungarsi delle violenze anche a conflitto concluso e, anzi, prevedeva un sostanziale ripristino dell’equilibrio tra le diverse componenti di quella comunità multietnica e plurilinguistica descritta da molti intervistati come la vera essenza dell’area di confine. La discrepanza tra tali speranze e le delusioni che seguirono dal constatare che gli assetti internazionali stavano assumendo caratteri ben differenti da quelli attesi, appare ancora più evidente nei ricordi dei giorni in cui venne definita la nuova linea di confine. Anche se, dopo un lungo periodo di scontri per l’appartenenza nazionale (due anni nel Goriziano, quasi nove a Trieste), alcuni segmenti della popolazione poterono effettivamente tirare un sospiro di sollievo – in quanto finalmente annessi a quella che consideravano la propria madrepatria – il nuovo assetto statale andò a incidere profondamente nelle dinamiche sociali dell’intera area della Venezia Giulia e del Litorale. A Gorizia, il contado e il centro cittadino, che rappresentavano due realtà profondamente legate, furono divisi dalla rete che per molti anni rappresentò il tratto conclusivo della cortina di ferro: tale separazione fu vissuta da buona parte della popolazione come una sconfitta, indipendentemente dalle convinzioni politiche e dal sentimento di appartenenza nazionale. Molte famiglie si disgregarono: gli anziani rimasero per lo più legati alla propria casa mentre i figli poterono decidere di seguire le proprie convinzioni politiche o anche semplicemente le prospettive lavorative; in tanti dovettero rinunciare al posto di lavoro per seguire le proprie aspirazioni nazionali o abbandonare la propria abitazione per rimanere insieme ai familiari.

A segnare ancor più in profondità le memorie di questo finale ‘posticipato’ della guerra è il Memorandum di Londra del 1954 che pose fine alla questione di Trieste cedendo anche la Zona B del Territorio libero di Trieste (TLT) alla Jugoslavia e dando avvio a un’altra ondata di profuganze dalle principali città della costa istriana verso l’Italia. Le memorie dell’esodo sono rimaste a lungo confinate nella sfera individuale, favorendo la costruzione di una narrazione collettiva che si è posta, anche in questo caso, in contrasto con la memoria dominante a livello nazionale riuscendo a ritagliarsi solamente in anni recenti spazi autonomi di visibilità e di trasmissione alle nuove generazioni.

In conclusione, l’analisi delle fonti orali permette di evidenziare come la contrapposizione tra ‘memorie divise’ – piuttosto evidente nella sfera pubblica – in realtà lasci spesso spazio a processi di rielaborazione e narrazione del passato più ibridi e sfumati. Le testimonianze orali difficilmente ci portano a individuare gruppi omogenei e chiaramente contrapposti ma ci aiutano a capire le diverse percezioni degli eventi da parte del singolo, evidenziando «cosa egli ha capito, e dunque come ha reagito e come ciò […] si riflette nella sua memoria e nella sua testimonianza» (D. Bidussa, Dopo l’ultimo testimone, 2009, p. 86). Emerge così l’importanza del quotidiano e della scelte individuali, delle percezioni e dell’immaginario, ambiti fondamentali per comprendere meglio un periodo storico e un contesto geografico complessi come quelli presi in esame.

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