RICCI, Matteo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 87 (2016)

RICCI, Matteo

Ronnie Po-chia Hsia

RICCI, Matteo. – Nacque a Macerata il 6 ottobre 1552 da Giovanni Battista, speziale, e da Giovanna Angiolelli. Primogenito di numerosi figli, studiò con i padri della Compagnia di Gesù. All’età di diciotto anni fu inviato dal padre a studiare diritto all’Università di Roma; tuttavia, un seme era stato piantato dai suoi precettori nella sua giovane mente e, dopo due anni di studi giuridici, Matteo abbandonò l’università per entrare nei gesuiti.

A giudicare dalle epistole da lui scritte in tarda età, i sei anni trascorsi a Roma (1571-77) come novizio gesuita furono probabilmente i più felici di cui serbasse memoria. In quel periodo piacevole, passato in compagnia dei confratelli e sotto la guida dei suoi maestri, nel corso degli studi di arti liberali e di filosofia conobbe due uomini eminenti: il gesuita di origini aristocratiche Alessandro Valignano (maestro dei novizi e più tardi visitatore di India e Giappone, due volte superiore di Ricci) e il tedesco Christoph Clavius ​​(professore di matematica al Collegio romano dei gesuiti), con i quali rimase legato per tutta la vita. Due tratti sembrano aver distinto il giovane gesuita negli anni della sua formazione: l’amore per il sapere scientifico – l’astronomia, la matematica, la geografia – e il fervore religioso. Quando nel 1576 il gesuita portoghese Martin da Silva venne a Roma alla ricerca di seguaci, Ricci chiese di partire come missionario.

Nel maggio del 1577, con altri aspiranti missionari, si recò in Portogallo, dove trascorse i successivi dieci mesi preparandosi alle sue missioni all’estero. Nel marzo dell’anno successivo intraprese un viaggio in mare insieme con altri missionari, tra i quali Michele Ruggieri, un connazionale di nove anni più anziano di Ricci e che sarebbe poi diventato il confratello a lui più vicino in Cina. Dopo un difficile viaggio di sei mesi, la nave arrivò a Goa, capitale dello Stato portoghese dell’India.

Rimase in India tra il settembre del 1578 e l’aprile del 1582. Le sue prime lettere risalgono a questo periodo e raccontano di una difficile fase di transizione: non riusciva ad adattarsi al caldo tropicale e fu spesso colto da febbri, una delle quali quasi lo uccise. Ordinato sacerdote, completò la sua formazione teologica in due anni, mentre insegnava greco nei collegi gesuitici di Goa e di Cochin. Le lettere suggeriscono una forte nostalgia della sua casa e dell’Italia, anche se trovò in India cose che lo interessarono, accanto ad altre che lo contrariarono profondamente. Nella prima categoria rientravano i progressi dei missionari gesuiti alla corte del potente imperatore mogul Akbar; nella seconda, l’esclusione dagli studi teologici, presso i collegi gesuiti, dei nativi convertiti e degli studenti indiani. A sottrarlo al languore del caldo tropicale fu una lettera di Valignano, che gli ordinò di partire per Macao e lì unirsi a Ruggieri, che aveva lasciato l’India nel 1579 per prepararsi a una nuova missione.

Con il forte sostegno di Valignano, questo pugno di gesuiti italiani di Macao – Ruggieri, Ricci e Francesco Pasio – partì per fondare una missione all’interno del vasto impero Ming. Nel 1582 Ruggieri, accompagnato da Pasio, si stabilì a Zhaoqing, sede del governo supremo delle due province del Guangdong e del Guangxi. Si trattò tuttavia di un successo di breve durata poiché il loro protettore, il mandarino Chen Rui, fu incriminato per corruzione. I due italiani dovettero a malincuore tornare a Macao, poi, mentre Pasio partì per il Giappone, Ruggieri fu richiamato a Zhaoqing entro l’anno, questa volta accompagnato da Ricci.

I gesuiti avevano trovato un nuovo protettore: il mandarino Wang Pan, che aveva ricevuto segnalazioni sulle virtù dei religiosi. In cambio della sua protezione, Wang, che avrebbe voluto avere un figlio maschio, chiese ai due missionari di indossare gli abiti dei buddisti cinesi, una conseguenza logica della presentazione di sé stessi che aveva fatto Ruggieri come di monaci provenienti dall’India. In quei primi anni a Zhaoqing (1583-86) questo equivoco sulla loro vera identità permise alla missione cristiana di sopravvivere. Vestiti come monaci buddisti, i gesuiti arrivarono armati di immagini, dottrine e devozioni che ricordavano ai cinesi alcuni elementi del buddismo: le immagini della Vergine Maria e di Gesù Bambino, la corona e le preghiere del rosario, gli insegnamenti sul paradiso e sull’inferno, sul peccato e sulla redenzione – di tutto questo si potevano trovare omologie nel buddismo. Questa sovrapposizione tra cristianesimo e buddismo fu il risultato tanto delle aspettative dei cinesi quanto di una cosciente politica missionaria di Ruggieri. Con il tempo, Ricci avrebbe invece sviluppato una profonda ostilità nei confronti del buddismo.

Nel 1588, aveva già trascorso sei anni in Cina, cinque dei quali a Zhaoqing. Da novizio missionario dell’inizio era divenuto un religioso esperto nella sua missione, tanto che la sua conoscenza della lingua e della cultura cinesi cominciò a eguagliare, e alla fine superò, quella del collega più anziano. Ricci stava costruendo il proprio percorso come missionario con modalità che erano profondamente diverse da quelle di Ruggieri in quanto Ricci poteva affascinare le élites cinesi con le sue conoscenze scientifiche. Molto prima di aver acquisito la competenza linguistica sufficiente per comporre il suo primo testo in cinese, aveva adattato, per poterla esibire, una carta planetaria universale fatta dal cartografo belga Abraham Ortelius, con i termini e le spiegazioni in latino tradotti in cinese; questo grande planisfero da parete era stato appeso in luogo ben visibile nella residenza dei gesuiti insieme a prismi, cristalli, orologi, libri occidentali e altri oggetti che avevano fatto della residenza di Ricci un gabinetto delle meraviglie per i molti mandarini che si recavano a trovarlo. Impressionava gli ospiti cinesi con la sua conoscenza della cartografia, della geografia, della meccanica e della matematica; manifestava il suo interesse per la cultura cinese, chiedendo copie delle poesie scritte dai visitatori e rivelando i suoi studi del canone confuciano, i Quattro libri e i Cinque classici, che tutti insieme costituivano la base per la selezione dei funzionari pubblici nella Cina tardoimperiale. Nel corso di questi anni Ricci aveva sviluppato una forte avversione per i metodi di conversione di Ruggieri, ritenendo che non ci fosse nulla in comune tra il cristianesimo e il buddismo e che, di fatto, quest’ultimo costituisse l’ostacolo principale all’evangelizzazione.

Frustrato dalla lentezza dei loro progressi in tal senso, Ruggieri decise nel 1588 di tornare a Roma per chiedere una missione diplomatica pontificia nella capitale Ming. A sua insaputa, Valignano e Ricci intrattennero una corrispondenza in cui esprimevano dubbi sul futuro di Ruggieri nella missione in Cina. Nel novembre del 1588 quest’ultimo lasciò Macao alla volta dell’Europa. La Curia, nonostante fosse interessata alla sua richiesta, era troppo assorbita negli affari europei per dare seguito alla proposta. Nel frattempo, Ricci aveva anche lui incontrato degli ostacoli. Nel maggio del 1589 il nuovo comandante supremo Liu Jiezhai aveva requisito la residenza dei gesuiti; costretto ad abbandonare la comunità cristiana di 80 fedeli a Zhaoqing, Ricci partì per Shaozhou, nel nord del Guangdong.

I sei anni a Shaozhou (1589-95) furono difficili, ma caratterizzati anche da successi che offrirono a Ricci la possibilità di una svolta. Fu di ostacolo il ritrovarsi in una zona isolata di provincia, anche se situata sulla principale linea di comunicazione tra il Guangdong e le province del Nord. La malattia e la sopravvenuta morte di due compagni gesuiti lo colpirono profondamente e le sue lettere di quegli anni riflettono una profonda solitudine, accentuata dalla notizia della morte della nonna che lo aveva cresciuto a Macerata. Alla depressione si aggiunse il logoramento nervoso quando i gesuiti entrarono in conflitto con alcuni giovani dei dintorni animati da sentimenti ostili che una notte fecero irruzione nella residenza, un incidente durante il quale Ricci si ferì gravemente a un piede. Fortunatamente per lui, godeva della protezione e del favore dei magistrati locali grazie alla vasta rete che si era pazientemente costruito a Zhaoqing e al proprio carisma, che gli attirò inoltre un nuovo discepolo, colui che sarebbe rimasto suo amico per tutto il resto della vita.

Qu Rukui (conosciuto con il nome onorifico di Taisu) era la pecora nera di una famiglia molto in vista di Changshu, nella provincia di Jiangsu. Durante i suoi vagabondaggi, Qu aveva incontrato Ricci per la prima volta a Zhaoqing ed era rimasto immediatamente colpito dalla personalità e dall’aspetto di quell’uomo venuto dall’Occidente. Credendolo per errore un maestro di arti occulte, tra le quali l’alchimia, Qu andò alla sua ricerca a Shaozhou e, una volta scoperta l’illusorietà delle sue prime convinzioni, divenne uno studente appassionato di matematica e dottrine cristiane. Utilizzando le conoscenze di Qu, Ricci fu ammesso nel circolo ristretto dei mandarini regionali. Abbandonando l’approccio buddista, respinse il Tianzhu shilu – il catechismo ideato da Ruggieri – e si apprestò a realizzare una nuova opera. Su consiglio di Qu, il quale gli aveva fatto intendere come il clero buddista appartenesse a un ceto sociale inferiore e, in generale, fosse caratterizzato da un basso livello intellettuale, decise di disfarsi dei panni buddisti e di indossare le vesti di studioso confuciano impegnato all’interno dell’Ordine dei gesuiti. Valignano approvò questo cambiamento di tattica. Vestito di seta nera, con i capelli e la barba lunghi, Ricci poteva allora presentarsi davanti alle classi dirigenti cinesi con l’apparenza di un uomo del loro stesso ceto sociale.

Ricci era ben consapevole del fatto che un mutamento di abiti da solo non sarebbe bastato a impressionare le élites cinesi: doveva studiarne i libri. Riprendendo lo studio intensivo dei classici del confucianesimo, cominciò a tradurli in latino, un progetto che giunse a buon fine solo due generazioni dopo la sua morte. La formazione classica di Ricci lo aveva adeguatamente preparato a questo compito e le sue capacità di analisi erano rafforzate da una memoria sorprendente. Ispirato dalla profonda conoscenza della storia e delle culture dell’antica Grecia e di Roma, mise a punto quella che divenne la sua visione dell’evangelizzazione della Cina: esattamente come il primo cristianesimo occidentale era nato dalla filosofia greca e aveva adottato il latino e il greco come sue lingue ecclesiastiche, così il cristianesimo in Cina avrebbe potuto svilupparsi all’interno di un dialogo con la filosofia confuciana.

Nella primavera del 1595, proprio nel momento in cui Ricci era intellettualmente e psicologicamente pronto per una nuova fase del suo impegno, gli fu improvvisamente offerta l’opportunità di accompagnare un mandarino di alto rango in un viaggio a Pechino. Questo mandarino si era rivolto ai gesuiti perché suo figlio era affetto da depressione, dovuta al mancato superamento di una recente selezione per diventare funzionario imperiale. A seguito dell’esperienza di Ruggieri, che era stato consigliere di un membro del clan familiare Wang nell’inverno del 1586, gli occidentali si erano guadagnati la reputazione di guaritori di malattie psicologiche. Dopo aver seguito la strada che Ruggieri aveva percorso in precedenza attraverso il passo delle colline Meiling e il fiume Gan nello Jiangxi, Ricci si separò dal suo patrono-mandarino a Nanchang, il capoluogo della provincia. Era stato deciso che non sarebbe andato a Pechino, ma che si sarebbe invece diretto a Nanchino.

Alla fine del maggio del 1595, pieno di aspettative, arrivò in quella magnifica città. Fece visita a Xu Daren, un mandarino che aveva conosciuto ai tempi del suo soggiorno a Zhaoqing. Sconcertato e sorpreso dalla comparsa di Ricci, Xu trattò il gesuita scortesemente e lo allontanò a causa del fatto che la Cina dei Ming era in guerra con il Giappone e Xu temeva di essere ritenuto colpevole di aver intrattenuto rapporti con uno straniero. Scoraggiato, Ricci tornò a Nanchang, dove nell’arco di soli due anni la sua carriera avrebbe fatto grandi progressi.

A Nanchang entrò in relazione non solo con mandarini, ma anche con principi di linea imperiale. A uno di questi ultimi dedicò la sua prima opera in cinese, Jiaoyou lun (Dell’amicizia), un breve testo che affiancava alcune massime sull’argomento tratte da testi greco-romani a citazioni dai classici di Confucio. Un secondo lavoro, Xiguo jifa (La mnemotecnica occidentale), deve la sua composizione alle reazioni incredule degli studiosi cinesi di fronte alla memoria prodigiosa di Ricci e alla loro richiesta incessante che egli insegnasse loro quell’arte arcana, che consideravano come la via segreta per superare l’esame di selezione per il servizio imperiale.

Nella sua qualità di capo dei gesuiti della missione in Cina, Ricci manteneva le comunicazioni con Shaozhou e Macao, facendo arrivare nuovi missionari e rifornimenti. Le brillanti dimostrazioni delle sue conoscenze matematiche, astronomiche e scientifiche continuarono ad amplificare la sua reputazione tra le élites cinesi. Mentre saliva i gradini della scala sociale nella società Ming, si sentì sempre più affascinato dal patrimonio culturale cinese. Intrattenne inoltre un intenso dialogo con Zhang Huang (1527-1608), il più importante studioso confuciano di Nanchang e direttore di una famosa accademia che risaliva ai tempi del neoconfucianesimo durante la dinastia Song. Sebbene avessero punti di vista diversi sull’esistenza del paradiso e dell’inferno (Zhang Huang era un agnostico), tutti e due concordavano sul fatto che la virtù fosse la meta più alta della vita pubblica e fonte di buon governo e di disciplina sociale. Attraverso Zhang Huang e la sua intensa riflessione sui testi confuciani, Ricci giunse a considerare come il confucianesimo, la scuola di pensiero dominante nella Cina tardoimperiale, promuovesse una visione del mondo simile a quella proposta dallo stoicismo; comprese che alcuni passaggi chiave dei Quattro libri e dei Cinque classici potevano armonizzarsi con l’etica sociale cristiana ed essere verosimilmente interpretati come conciliabili con un messaggio cristiano di rivelazione e di redenzione. Una strategia di conversione basata su una sintesi cristiano-confuciana stava lentamente prendendo forma nella sua mente.

Nel giugno del 1598 un’altra opportunità bussò alla sua porta. Il mandarino Wang Zhongming, che aveva in precedenza incontrato Ricci a Shaozhou, promise di portarlo a Pechino con sé. Dopo aver preso affrettatamente congedo dal gesuita italiano Lazzaro Cattaneo e da un confratello gesuita cinese, Ricci partì per la fase successiva della sua ricerca. Arrivò infine nella capitale imperiale nel mese di settembre del 1598. Incapace di stabilire relazioni con i potenti, andò via dopo due mesi; deluso ed esausto, tornò in Jiangnan a trovare il suo amico Qu Taisu, che gli consigliò di stabilirsi a Nanchino.

Ricci passò solo quindici mesi nella capitale del Sud dopo il suo arrivo nel febbraio del 1599 e tuttavia si trattò di un periodo cruciale per lui. In quanto epicentro della vita culturale durante la dinastia Ming, Nanchino offriva una cerchia più ampia di contatti altolocati. L’osservatorio imperiale della città con i suoi strumenti risalenti al XIV secolo lo colpì profondamente; egli trovò nuovi ammiratori e amici nel gran numero di mandarini e studiosi che abitavano in quella città e lì si impegnò per la prima volta in dispute teologiche gesuite con gli intellettuali buddisti, sia laici sia religiosi.

A Nanchino Ricci fece grandi progressi nella sua missione. Molti degli studiosi che lo incontrarono divennero suoi ammiratori e discepoli, uomini desiderosi di imparare i metodi di studio della matematica e dell’astronomia utilizzati in Occidente; anche coloro che disapprovavano i suoi discorsi contro il buddismo lo trovavano un uomo interessante e di grandi qualità, degno del loro tempo e della loro attenzione. Li Zhi (1527-1602), un buddista laico, ex mandarino, il più famoso anticonformista del tardo periodo Ming, fu tra i suoi ammiratori. Altri ancora erano rimasti affascinati dai libri stampati che Ricci aveva portato con sé, dai suoi dipinti, orologi e strumenti astronomici. Ricci si felicitava di tanta attenzione, che non faceva altro che rafforzare la sua bellicosità nei confronti del buddismo. Nel corso di un banchetto a Nanchino, si impegnò in un lungo e aspro dibattito con Xuelang Hongèn (morto nel 1607), il più importante dei monaci buddisti di Nanchino, il quale godeva di un’eccellente reputazione presso i letterati per la sua erudizione e la sua personalità. Questo confronto rappresentò per Ricci una catarsi: le prove e le tribolazioni di quei primi undici anni (1583-94) – quando il ruolo di monaco buddista gli aveva richiesto di radersi i capelli e la barba e di indossare abiti che indicavano un’inferiorità sociale – bruciavano ancora. Il fatto di indossare i panni di uno studioso di confucianesimo lo aveva affrancato e la profondità della sua conoscenza di quella dottrina formò nel missionario l’arsenale culturale di una nuova strategia di conversione. A partire da quel momento, avrebbe utilizzato alcuni aspetti degli insegnamenti di Confucio per confutare il buddismo; avrebbe promosso la causa del cristianesimo sostenendo l’armonia e la sinergia della fede occidentale e della filosofia cinese; inoltre, dimostrando la superiorità della scienza e della logica occidentali avrebbe portato le élites confuciane ad abbracciare i misteri della fede cristiana.

Incoraggiato dal successo, Ricci progettò una nuova visita a Pechino. Questa volta sarebbe andato in qualità di inviato non ufficiale recante doni dall’Europa – un clavicordo, alcuni orologi occidentali, e poi quadri, libri e prismi – portati in Cina da Macao nel marzo del 1600 dal gesuita spagnolo Diego de Pantoja. Con il sostegno di alcuni mandarini di cui godeva i favori, Ricci preparò quello che serviva per un’altra spedizione e iniziò nuovamente il suo viaggio sul Gran Canale nel mese di maggio, questa volta con Pantoja. Durante la tranquilla traversata, i gesuiti furono trattenuti dall’eunuco Ma Tang che li intercettò sperando di riscuotere un tributo. Quando il memoriale inviato da Ricci alla corte imperiale non ricevette risposta, i gesuiti furono a tutti gli effetti imprigionati nei loro alloggi. Dopo aver perquisito il loro bagaglio, Ma Tang interrogò Ricci a proposito di un crocifisso che vi aveva trovato, ritenendolo uno strumento di magia. Tra il luglio del 1600 e il gennaio del 1601 i gesuiti furono ‘ospiti’, contro la loro volontà, dell’avido eunuco prima che arrivasse un editto con il quale gli europei vennero infine convocati a corte.

Anche se non furono sufficienti a fare loro ottenere un incontro con l’imperatore, i doni dall’Occidente, in particolare il clavicordo e l’orologio, incuriosirono Ricci. I gesuiti vennero autorizzati a rimanere e fu loro accordato uno stipendio per il sostentamento. Pechino sarebbe divenuta l’ultima dimora di Ricci. Con il tempo, i missionari acquistarono una residenza al di fuori del centro cittadino, vicino alla porta di Xuanwu, dove costruirono una chiesa e alcuni alloggi. Ricci strinse amicizia con molte persone potenti, ma pochi di essi entrarono a far parte del novero dei convertiti, il cui numero crebbe in nove anni fino a raggiungere quasi la cifra di un migliaio. Tra i suoi amici e collaboratori cinesi, due furono particolarmente importanti: Xu Guangqi (1562-1633) e Li Zhizao (1565-1630). Erano entrambi mandarini di medio rango in quegli anni, anche se Xu sarebbe salito fino alla carica di mandarino di primo rango due decenni dopo la morte di Ricci. Grazie alla collaborazione con Xu e Li, gli anni passati a Pechino corrisposero al suo periodo più intenso di produzione intellettuale.

Già autore di successo a Nanchang, Ricci aggiunse a Pechino un’altra dozzina di testi al corpus delle sue opere, alcune delle quali furono pubblicate, mentre altre rimasero allo stato di manoscritto. Queste ultime possono essere suddivise in tre categorie. Alla prima appartengono due brevi trattati sulla cultura occidentale, alcune canzoni cinesi per clavicordo composte su temi cristiani che furono offerte all’imperatore e un libretto per il figlio di un amico, Xiji Qiji (Strani esempi di scrittura occidentale), con spiegazioni di alcune illustrazioni della Bibbia scritte in caratteri cinesi e annotate con i loro suoni in alfabeto latino. Una seconda categoria, la più vasta, annovera i suoi lavori scientifici: Ricci cooperò con Xu e Li per queste opere che comprendono una vasta gamma di testi, dalle traduzioni e dai manuali di astronomia ai testi sulla matematica teorica e applicata. Ricci dettava i testi mentre i suoi amici cinesi prendevano appunti e suggerivano i termini tecnici in cinese. Il gesuita tradusse in cinese tre opere di matematica: i primi due libri della Geometria di Euclide e due adattamenti di opere di Clavius, suo professore a Roma, l’Epitome Arithmeticae Practicae e un’opera sull’algebra lineare e sulla geometria piana. Il testo principale di Ricci sull’astronomia è Qiankun Tiyi (Spiegazioni essenziali di cielo e terra), comprendente l’illustrazione della cosmologia tolemaica, che poneva la Terra al centro di 9 sfere concentriche con le stelle fisse, e le dimostrazioni di misurazioni e calcolo che spiegano l’origine delle eclissi solari e lunari. L’astrolabio sferico, lo strumento principale per l’osservazione delle stelle, è descritto in quest’opera oltre che in un testo generale sugli strumenti astronomici; in ultimo vi è un manoscritto con mappe stellari, spiegazioni delle eclissi e figure geometriche. La terza e ultima categoria comprende alcuni scritti filosofici e teologici. Questi rappresentano la sua opera più originale e riassumono la sua carriera nella missione in Cina.

Tianzhu shiyi (Vero significato del Signore del Cielo) è l’opera più importante di Ricci. Sebbene avesse iniziato a lavorare al libro – con cui egli intendeva rimpiazzare l’introduzione al cristianesimo realizzata da Ruggieri stesso (il Tianzhu shilu) – mentre si trovava in Shaozhou, Ricci lo terminò più di un decennio dopo, nel 1603. Il lungo periodo di gestazione e di completamento riflette il dialogo in continua evoluzione di Ricci con la cultura cinese, in particolare con il confucianesimo e il buddismo, e il testo assunse la sua forma definitiva solo dopo l’adozione della strategia di un’alleanza confuciana-cristiana contro il buddismo.

In Tianzhu shiyi ci sono gli echi delle conversazioni tra Ricci e Zhang Huang a Nanchang e dei dialoghi avvenuti nel corso degli anni tra il gesuita e gli altri suoi amici cinesi, ma anche, è possibile, l’eco delle aspre discussioni avute con il capo dei monaci buddisti Xueliang Hongen a Nanchino. Elaborato nella forma di un dialogo tra uno studioso occidentale e uno cinese, il libro si compone di otto capitoli divisi in due parti. In particolare, nei capitoli da uno a quattro, Ricci utilizza la filosofia naturale per illustrare la teologia cristiana. Il Signore del Cielo, il Dio cristiano, è il creatore e il dispensatore di tutte le cose, ma non ha ricevuto il riconoscimento che avrebbe dovuto da tutti gli uomini. Nella sua creazione l’uomo si trova al vertice, perché solo gli esseri umani possiedono un’anima che li distingue dagli animali. La nobiltà dell’anima umana lo differenzia anche da demoni e angeli ed è un errore affermare che tutte le cose in natura costituiscono una sostanza unica. In questi capitoli, Ricci cita brani del canone confuciano, in particolare dal Libro della storia e dal Libro della poesia, che menzionano un imperatore supremo (Shangdi); Ricci equipara questo imperatore al Dio cristiano. Il vero Dio, di conseguenza, era già noto agli antichi cinesi, il che comportava che il cristianesimo non fosse affatto un’importazione culturale completamente estranea. Per sostenere la sua tesi, Ricci impiega la filosofia naturale per dimostrare la necessaria esistenza di un creatore, rivelandosi all’altezza della sua reputazione di grande matematico e astronomo. Nel sostenere l’unicità dell’anima umana in opposizione all’idea di una sostanza unitaria dell’universo, Ricci confuta gli insegnamenti fondamentali del buddismo e del neoconfucianesimo.

In quello che sembra quasi un attacco diretto, Ricci ridicolizza gli insegnamenti buddisti della reincarnazione e del karma e respinge l’idea del non uccidere e del vegetarianismo. Opponendosi alla filosofia materialistica del neoconfucianesimo, riafferma l’esistenza del paradiso e dell’inferno, della vita dopo la morte e di quelle che sono le ricompense della virtù e le punizioni del male. L’etica cristiana non è così diversa dal confucianesimo, in quanto essa sostiene la bontà originaria dell’uomo, in sintonia con gli insegnamenti del saggio confuciano Mencio. Come il confucianesimo, il cristianesimo – che egli tradusse come «gli insegnamenti del Cielo» in cinese – deve essere considerato l’ortodossia; dottrine giuste portano a convinzioni giuste e comportamenti corretti, spiega Ricci mentre descrive come i preti cattolici, abbracciando il celibato nella determinazione della loro ricerca di apprendimento del vero, portino il loro credo nel mondo intero. L’opera si conclude con una breve narrazione della nascita di Cristo in Giudea.

Jiren shipian (Dieci capitoli di un uomo strano), pubblicato nel 1608, è un lavoro che, se non per fama, almeno per importanza è pari a Tianzhu shiyi. In quest’opera, Ricci discorre sulla brevità della vita, l’imminenza della morte, i preparativi per avvicinarsi alla fine della vita serenamente, la virtù del silenzio, le ragioni corrette per il digiuno, la riflessione su se stessi e l’esame di coscienza, la ricompensa della virtù e la punizione del male dopo la morte, l’illusorietà della chiromanzia e il peso della ricchezza materiale. Il significato di questi discorsi non risiede nella loro originalità, in quanto trattano di temi convenzionali della filosofia cristiana, ma piuttosto nel loro contesto: essi fanno riferimento a interlocutori reali – tra cui Xu Guangqi, Li Zhizao e Merchant Guo, un anziano ma fervente convertito dei tempi in cui Ricci viveva a Shaozhou – e contengono l’essenza delle conversazioni reali che Ricci doveva aver intrattenuto con i suoi conoscenti cinesi. Nel libro, l’arte e la memoria concorrono a realizzare un’opera viva per l’immediatezza del dialogo tra il missionario occidentale e gli autentici personaggi cinesi.

Ershiwuyan (Venticinque sentenze), scritto probabilmente nel 1599 e pubblicato nel 1602, è invece un lavoro meno originale. Si compone di brani adattati dell’Enchiridion di Epitteto, ma trattandosi di un’introduzione della filosofia stoica nella Cina dei Ming, ebbe un immenso successo. La sua pubblicazione fu finanziata da Feng Yingjing, un illustre e virtuoso mandarino imprigionato per aver osato opporsi ai corrotti e violenti eunuchi servitori dell’imperatore Wanli. Come vivere con serenità in un’epoca di ingiustizia e di tirannia: tale era la lezione di Epitteto. I lettori cinesi di Ershiwuyan non conoscevano la vita di Epitteto (il cui nome non è menzionato nel libro), vissuto in un periodo durante il quale la maggior parte degli imperatori romani fu avvelenata o assassinata, e uno dei quali, Nerone, costrinse il suo precettore, il grande filosofo stoico Seneca, a suicidarsi. I lettori trovarono però nel libro il riflesso di molti di quegli stessi problemi che affliggevano il loro tempo: l’impotenza dell’imperatore, il suo trascurare gli affari di Stato, il prevalere della corruzione tra i funzionari dello Stato e la rapacità e crudeltà degli eunuchi di palazzo – servitori di fiducia di un uomo che non teneva in nessun conto né il benessere dei suoi sudditi né l’etica politica di un governante confuciano.

L’opera finale è una lunga lettera di risposta al mandarino Yu Chunxi, un convinto laico buddista. Yu fu infastidito dagli attacchi di Ricci nei confronti del buddismo e, in una prosa squisitamente elaborata ed elegante, scrisse una lettera aperta criticando il gesuita per la sua ignoranza e ristrettezza di vedute e invitandolo a uno studio più approfondito dei sutra buddisti. In risposta a questa sfida letteraria, Ricci (molto probabilmente con l’aiuto di Xu Guangqi) compose un’altrettanto elegante lettera che difendeva gli insegnamenti del cristianesimo e denigrava quelli del buddismo. Questo fu il primo tiro incrociato letterario nella guerra tra il cristianesimo e il buddismo, un conflitto che sarebbe durato altri cinquant’anni nella Cina del XVII secolo.

A Pechino, Ricci respinse l’approccio di un famoso monaco buddista rallegrandosi di qualunque difficoltà che questa presunta religione ‘rivale’ incontrasse. Se la Chiesa cattolica poteva combattere gli ‘eretici’ protestanti in Europa, i suoi figli nella missione in Cina avrebbero combattuto il buddismo. Verso un’altra comunità religiosa Ricci mostrò invece più curiosità che ostilità; gli era giunta voce della presenza di alcuni membri di una comunità ebraica, un tempo fiorente, a Kaifeng nella provincia di Henan, e inviò un confratello laico cinese per un incontro. Nei confronti dei musulmani e dei taoisti manifestò poco interesse; solo gli studiosi confuciani attiravano la sua attenzione, perché nella loro conversione, Ricci ragionava, si racchiudeva il futuro del cristianesimo in Cina, e fu in ragione della competizione per conquistarne la fedeltà spirituale che fu dichiarata guerra al buddismo.

Dopo molti anni di viaggi, Ricci finalmente si fermò a Pechino. Era il mondo ormai che veniva da lui: ospite frequente ai tavoli dei potenti e dei colti, mantenne una fittissima agenda di relazioni sociali e coltivò con cura una vasta rete di contatti nel mondo dei funzionari imperiali, molti dei quali al loro arrivo nella capitale visitavano la residenza dei gesuiti per vedere i libri, gli orologi e gli strumenti astronomici, per ammirare i dipinti e le statue della Vergine Maria e di Cristo, oltre che per dialogare con quest’uomo così importante, l’eminente studioso occidentale così intriso di cultura cinese che, a parte il volto, sembrava essere uno di loro. Oltre a proseguire nel suo inarrestabile programma sociale, Ricci dirigeva la sempre più numerosa comunità cristiana e il suo piccolo gruppo di gesuiti e servitori, teneva conferenze, officiava la messa, amministrava i sacramenti e rispondeva alla corrispondenza, producendo, nel contempo, il suo impressionante corpus di opere. Nel 1608, all’età di cinquantasei anni, si sentiva stanco e vecchio. Colto dalla nostalgia, cominciò a scrivere in dettaglio la propria storia, ambientata nel contesto dell’introduzione del cristianesimo in Cina e richiamando con la sua prodigiosa memoria eventi e persone passate e presenti.

Non aveva ancora finito il suo manoscritto quando si ammalò e morì a Pechino l’11 maggio 1610.

Al momento della sua morte, era diventato una celebrità. In Europa, la sua fama era divenuta leggendaria. Nel 1611 il gesuita belga Nicolas Trigault arrivò a Pechino; quattro anni più tardi, tornato in Europa per raccogliere fondi e trovare aspiranti missionari per la Cina, portò con sé il manoscritto incompiuto delle memorie di Ricci. Dopo averlo tradotto dall’italiano in latino e averlo adattato per renderlo un racconto senza discontinuità, pubblicò il De christiana expeditione apud Sinas nel 1615. Il testo fu ampiamente e positivamente accolto. Nell’opinione generale, Ricci venne posto allo stesso livello di Francesco Saverio, tra i primi compagni di Ignazio e considerato il primo missionario gesuita in Asia, canonizzato insieme con il fondatore della Società nel 1622 e venerato come patrono delle missioni cattoliche. La causa per la beatificazione di Ricci si è conclusa nel 2014.

Opere. De christiana expeditione apud Sinas: Suscepta ab Societate Jesu ex P. Matthaei Riccii eiusdem Societatis commentariis libri V ad S.D.N. Paulum V in quibus Sinensis Regni mores, leges, atque instituta, et novae illius Ecclesiae difficillima primordia accurate et summa fide describuntur. Auctore P. Nicolao Trigavtio Belga ex eadem societate, Augustae Vindelicorum 1615; Opere Storiche del P. M. R. S.I., a cura di P. Tacchi-Venturi, I, I Commantarj della Cina, Macerata 1911, II, Le lettere dalla Cina 1580-1610, Macerata 1913; Fonti Ricciane. Documenti originali concernenti M. R. e la storia delle prime relazioni tra l’Europa e la Cina. Storia dell’introduzione del Cristianesimo in Cina, I-III, a cura di P.M. D’Elia, Roma 1942-1949; M. Ricci - N. Trigault, Entrata nella China de’ Padri della Compagnia di Gesù (1582-1610), ed. della volgarizzazione italiana di A. Sozzini (1622), a cura di J. Shih - C. Laurenti, Cinisello Balsamo 1983; Li Madou Zhongguo Zhaji (Diario della Cina di M. R.), Beijing 1983; Lettere del manoscritto maceratese, a cura di C. Zeuli, Macerata 1985; Della entrata della Compagnia di Giesù e Christianità nella Cina, a cura di M. Del Gatto, Macerata 2000; Lettere (1580-1609), a cura di F. d’Arelli, Macerata 2001; Li Madou zhongwen zhu yi ji (Raccolta di scritti e traduzioni in cinese di M. R.), a cura di Zhu Weizheng, Shanghai 2001; M. Ruggieri - M. Ricci, Dicionario portugués-chines, a cura di J.J. Witek, Lisboa-Macao-San Francisco 2001; Il vero significato del ‘Signore del Cielo’, a cura di A. Chiricosta, Città del Vaticano 2006; Dell’amicizia, a cura di F. Mignini, Macerata 2010; Dieci capitoli di un uomo strano: seguito da otto canzoni per manicordo occidentale, a cura di Wang Suna - F. Mignini, Macerata 2010; Descrizione della Cina, a cura di F. Mignini, Macerata 2011.

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