MARXISMO

Enciclopedia Italiana - IV Appendice (1979)

MARXISMO

Lucio Colletti

. La conclusione della seconda guerra mondiale apre un capitolo nuovo nella storia del marxismo. L'area della sua influenza ideologica e culturale si dilata improvvisamente, in conseguenza dei mutamenti politici determinati dall'esito del conflitto. Già filosofia di stato in URSS, il m. assurge ora a dottrina ufficiale anche nei paesi dell'Europa dell'Est, dove s'insediano regimi di "democrazia popolare". Contemporaneamente, in Francia e in Italia, in cui rinascono o si consolidano forti partiti comunisti, il m. ha una diffusione mai conosciuta prima d'allora.

La dottrina trae visibilmente vantaggio dai successi politici e militari riportati dall'URSS. Ma ne subisce anche il condizionamento. Il m., che è ormai prodotto quasi esclusivamente all'interno dei partiti comunisti o nell'ambito degli stati da loro diretti, riproduce dovunque i caratteri e le forme che ha già assunto in Unione Sovietica, prima con Lenin e poi con Stalin. La forma filosofica generale in cui esso si presenta è quella del "materialismo dialettico", una sintesi di dialettica hegeliana e materialismo filosofico. Marx ed Engels hanno "rovesciato" la dialettica, che in Hegel era solo dialettica dei concetti, applicandola al mondo degli oggetti naturali e delle cose. La "dialettica della materia", che ne è risultata, è la chiave di tutto: essa contiene, al tempo stesso, il principio di movimento e la spiegazione di ogni processo o divenire. È dialettica infatti la formazione dell'universo dalla nebulosa primitiva. Dialettica, l'origine della vita e le forme della sua evoluzione. Dialettici, i processi del pensiero e le leggi che regolano il corso storico. Il modello della teoria è nella Dialettica della natura di Engels. Il compendio, che fa testo ovunque, è lo scritto di Stalin, del 1938, Del materialismo dialettico e del materialismo storico.

Tradotto in questa forma il m. è una "concezione del mondo", addirittura, una cosmologia. I filosofi del materialismo dialettico riespongono la dottrina in mille guise. Impegnano tra loro dispute e controversie scolastiche. Ma i lineamenti generali non subiscono alterazioni. Essi sono stati stabiliti una volta per tutte nelle opere dei "classici" (Marx, Engels, Lenin e Stalin). Le burocrazie dei partiti vigilano assiduamente a che non siano corrotti o inquinati da "deviazioni". Un esempio dà il clima di quegli anni. H. Lefebvre, allora un filosofo marxista francese tra i meno scolastici, vede interrotta dal suo partito, nel 1947, al primo volume, la stampa di una propria opera, dal titolo Logique formelle, Logique dialectique, per il sospetto che essa vìoli l'ortodossia.

Il m. è monolitico come il mondo che lo esprime. Il potere sovietico domina incontrastato dall'Elba a Vladivostok. Nel 1949, il compimento vittorioso della rivoluzione cinese aggiunge, a quello che di lì a qualche anno si sarebbe detto il "campo dei paesi socialisti", una superficie estesa quanto quella della luna.

L'impressione di solidità è accentuata dalla "guerra fredda", che subentra a partire dal 1947 nei rapporti internazionali. Si rinsalda, con la costituzione del Cominform, la dipendenza da Mosca di tutti i partiti comunisti europei, occidentali compresi. La cultura è interamente asservita alla politica. Sono gli anni dello "ždanovismo", gli anni cioè in cui A. danov impartisce, per conto di Stalin, le sue direttive politiche e culturali. Vengono in primo piano le campagne contro il "cosmopolitismo" e per la "partiticità" della cultura. Si propaga la tesi circa il carattere di classe delle scienze naturali. La fisica dei quanti e la teoria della relatività di Einstein sono tacciate di "idealismo". Alla genetica "borghese" di Mendel-Morgan vengono contrapposte le teorie biologiche di Miciurin e di Lysenko. Contro le scienze della natura "borghesi", che fanno uso della "logica formale", si propugna l'avvento di scienze della natura che siano influenzate dal m. e che impieghino perciò la "logica dialettica". Accanto a innumerevoli autori sovietici, si distinguono nella diffusione e propagazione di queste tesi non pochi marxisti francesi. Appaiono libri che danno esempi di dialettica nelle matematiche e nella fisica. Si auspicano nuove sistemazioni dei principi della biologia alla luce del materialismo dialettico.

In queste condizioni, impossibili analisi spregiudicate o ricerche effettive. Appaiono, naturalmente, miriadi di libri dedicati ai fondamenti teorici del m., ma di essi non si serba memoria. Il solo autore, la cui opera faccia spicco nel grigiore di quegli anni, è G. Lukács. A livello internazionale, è il solo pensatore marxista che conti veramente. Non si tratta più, ovviamente, del Lukács di Storia e coscienza di classe (1923). Le condanne pronunciate contro di lui dal Comintern nel 1924 lo hanno indotto ad allinearsi al "materialismo dialettico". E tuttavia la sua ricerca ha organicità, i suoi libri attingono alti livelli di cultura.

Nel 1947 vede la luce Goethe e il suo tempo, nel 1948 la monumentale ricerca su Il giovane Hegel; poi, in rapida successione, i Saggi sul realismo, gli studi dedicati a Il marxismo e la critica letteraria, i Contributi alla storia dell'estetica, ecc. Si tratta, per lo più, di scritti anteriori alla seconda guerra mondiale, composti tra il 1930 e il 1939, negli anni dell'esilio a Vienna e a Mosca, in condizioni di vita oscure e marginali. Quale che sia il giudizio di merito che se ne voglia dare, una considerazione s'impone al di là delle intenzioni stesse dell'autore: l'opera nel suo complesso esprime il disperato tentativo di tener vivo, in anni ottusi e feroci, dominati da semplificazioni terribili, il rapporto e il dialogo del m. con la grande tradizione culturale del passato e, in particolare, con la filosofia classica tedesca. Lukács tenta di raccogliere e trasbordare, in quello che egli ritiene, malgrado tutto, il nuovo mondo, il retaggio più alto della grande cultura borghese: da Goethe a Heine, da Balzac a Tolstoj, da Lessing a Hegel.

I suoi singoli libri sono le tessere di un solo grande mosaico. Il problema centrale è quello della storia della Germania moderna (e quindi, implicitamente, anche quello del fallimento della rivoluzione socialista in Occidente). La sconfitta della rivoluzione democratico-borghese ha trasformato la Germania nella potenza imperialistica più terribile e la sua cultura nel vivaio dei miti più minacciosi. Lukács discrimina, a partire dall'Aufklärung, le tendenze progressiste della grande cultura tedesca (che egli vede culminare nell'opera di Marx e di Engels) da quelle involutive e irrazionalistiche. Contende Goethe e Hegel a Dilthey, a Gundolf, a Kroner, a Glockner. Ricerca nel passato le lontane vestigia che porteranno un giorno la cultura tedesca (quasi con la sola eccezione del prediletto Thomas Mann) a confluire nel nazismo. Il disegno culmina nel 1953 nella Distruzione della ragione, cioè nella ricostruzione del cammino che ha condotto la Germania "da Schelling a Hitler". La dialettica di Hegel è assunta come il discrimine tra ragione e antiragione. Schopenhauer, Nietzsche, Dilthey, Heidegger e lo stesso Max Weber segnano le tappe sulla strada della perdizione.

L'opera complessiva di Lukács, come si è già detto, è di alto livello. Essa appare contesta di una cultura letteraria, storica e filosofica tra le più vaste. Non sfugge tuttavia ai limiti del m. del tempo. Anzi, contribuisce a renderli più percepibili e netti. Il valore storico-culturale dei materiali che essa elabora non riesce a nascondere la povertà e, a volte, addirittura la rozzezza, l'interna contraddittorietà delle categorie cui si ispira la sua analisi. Lukács, che a livello internazionale è indubbiamente il maggior filosofo marxista di quegli anni, è tuttavia un pensatore debole, di scarso rigore. Nelle questioni di principio, cioè nei problemi della logica o del materialismo stesso, la sua ricerca resta impigliata in tutti gli equivoci del "materialismo dialettico". Lukács non vede, non sospetta mai neppure una volta, l'interna incompatibilità tra il principio del materialismo, che è l'istanza della determinatezza e, quindi, della non-contraddittorietà, e il principio idealistico della contraddizione dialettica. Non intuisce che è un non-senso difendere la scienza, la conoscenza naturalistica, e pretendere d'imporle, al tempo stesso, i dialettismi della filosofia romantica della natura. Non avverte che è vano volersi attestare sul terreno del materialismo e dell'esperienza ed ereditare, al contempo, da Hegel la critica dell'"intelletto", fino al punto di ribadire (come se la Critica della Ragion pura non fosse mai stata scritta) l'identificazione già istituita da Engels, tra "intelletto" (in quanto distinto dalla "Ragione") e "metafisica".

Un'opera come la Distruzione della ragione deve la dura e repellente sommarietà dei suoi giudizi, non solo all'animo politico che vi si riflette, non solo alle molte concessioni allo stalinismo che essa contiene, ma, fondamentalmente, alle gravi confusioni che abbiamo illustrato. Innalzare la dialettica hegeliana a spartiacque tra ragione e non-ragione, significa contribuire all'unica, vera "distruzione" che sia stata compiuta, in filosofia, dal Romanticismo in poi: la "distruzione dell'intelletto"; e, dunque, lavorare, fianco a fianco, con tutte le filosofie anti-intellettualistiche moderne - da Bergson a Gentile, da Simmel a Jaspers, da Sartre a Heidegger.

Si poteva pensare, da alcuni e per un certo tempo, che molte, se non tutte, di tali ingenuità potessero dipendere da ragioni estrinseche, cioè dalla preoccupazione di non scalfire l'ortodossia e, quindi, da motivi di ordine tattico-politico. L'opera postuma sull'Ontologia dell'essere sociale (1976) ha dissolto queste illusioni (a dire il vero, fondate su nulla), confermando la sincerità dell'adesione data da Lukács al "materliaismo dialettico" fin dall'inizio degli anni Trenta. La vena ontologico-metafisica qui si dichiara apertamente (basti pensare al tributo di omaggio a un pensatore, d'altronde degnissimo, come N. Hartmann). È la conferma, in punto di morte, che ciò che Lukács aveva sempre cercato nel "materialismo dialettico" era appunto ciò che, solo, era dato trovarvi: una metafisica tardo-ottocentesca, forse meno edificante di tante altre, ma, certo, carica d'incongruenze e contraddizioni come poche.

Nei punti dove l'opera di Lukács lascia in asso, e cioè nel tentativo di ripensare con rigore i fondamienti teorici del m., soccorre, intorno all'inizio degli anni Cinquanta, l'opera di un oscuro filosofo italiano, confinato in una piccola università di provincia, allora tollerato con malcelata impazienza ai margini del PCI e intorno al quale, appena adesso, si sta levando un minimo di curiosità all'estero: G. della Volpe. La sua Logica come scienza positiva, che è del 1950, è il libro più severo e pensato (il che può anche voler dire che si è pensato poco) che sia stato prodotto in campo marxista dal secondo dopoguerra in poi. È un coraggioso tentativo d'introdurre rigore dove il marxismo fa più acqua. Il problema che viene al pettine nell'opera è quello del rapporto tra dialettica e materialismo. Si tratta, naturalmente, del materialismo in gnoseologia, cioè di quel tanto di realismo che è, di fatto, implicato dalla scienza; non del materialismo come "concezione del mondo" ("chi ha bisogno di visioni del mondo - diceva M. Weber - vada al cinema!"), non di uno dei tanti "monismi" alla Haeckel o alla Plechanov. Non a caso, per dar forma a questa istanza del "materialismo", Della Volpe ricorre alla critica aristotelica a Platone; ricorre all'istanza sperimentale fatta valere da Galilei contro i finalismi della fisica aristotelica di Simplicio; ricorre al Kant critico di Leibniz e della sua concezione "negativa" o "platonica" dell'empiria e dell'esperienza sensibile in genere. Il risultato a cui Della Volpe perviene per questa strada è, in un certo senso, ovvio: l'istanza della "materia" è l'istanza della particolarità, della determinatezza, dunque della non-contraddizione (la contraddizione dialettica infatti è il contrario: rappresenta il reale più tutto il possibile, è quindi la Totalità per eccellenza). Se il m., perciò, vuol essere materialismo e, più ancora, scienza, esso deve regolare i conti con la dialettica, che della non-contraddizione pretende di essere il superamento.

Nella sua critica della dialettica hegeliana, Della Volpe si avvale di alcuni scritti giovanili di Marx, pubblicati postumi intorno al 1930 ma entrati nel circuito della cultura europea solo nel secondo dopoguerra: i Manoscritii economico-filosofici e, soprattutto, la Critica del diritto statuale hegeliano (cui Della Volpe è stato forse l'unico studioso ad attribuire decisiva importanza). Si tratta, com'è noto, di scritti nei quali è ancora assai forte l'influenza di Feuerbach. Il secondo di essi in particolare, la Kritik del 1943, nel quale Marx accusa la dialettica hegeliana di "misticismo logico", segna il punto estremo del suo allontanamento da Hegel (dopo d'allora, egli ritornò sui suoi passi). Forte di questi argomenti, Della Volpe spinge la sua critica alle estreme conseguenze. Applicare la dialettica alla realtà è idealismo. La dialettica, infatti, è "negazione della negazione". Pretendere di dialettizzare i fatti, le cose, è ripristinare una concezione "negativa" o platonica della materia (la materia come "non essere"). Ma, allora, è assurdo richiamarsi al materialismo. Ciò è tanto vero che la "dialettica della materia", in cui dovrebbe consistere lo specifico del m., è già tutta elaborata nell'opera di Hegel (donde Engels l'ha ricavata e trascritta). Pensare di produrre una conoscenza scientifica della realtà attraverso la dialettica è un sogno da vecchi metafisici. La logica della scienza s'ispira al principio di non-contraddizione. È la logica delle "astrazioni determinate". La dialettica, al contrario, produce l'illusione della "totalità". Là dove è serio, come nelle analisi del Capitale, il m. è scienza. La sua logica è quella stessa delle scienze empiriche: il "ragionamento sperimentale".

Quale, allora, il significato dell'impresa tentata da Marx? Della Volpe non ha esitazioni: Marx è il Galilei del mondo storico-sociale. La sua analisi materialistico-storica ha esteso la logica della scienza all'indagine della società. Ma tutto sta in piedi a condizione che i contrasti e le antitesi, descritti nel Capitale, siano veramente "opposizioni reali" (nel senso di Kant), cioè opposizioni "senza contraddizione" e, quindi, tali da non violare il principio di non-contraddizione. Giacché, se fosse altrimenti, se esse dovessero rivelarsi invece "contraddizioni dialettiche", tutto tornerebbe in gioco: saremmo di nuovo di fronte al vano tentativo di produrre scienza attraverso la dialettica.

Ignota all'estero, l'opera di Della Volpe rimane pressoché emarginata anche in Italia per il contrasto di fondo in cui essa viene a trovarsi con la forma mentis dominante negli ambienti culturali comunisti. La cultura marxista italiana del tempo (Togliatti non escluso) ha, nella sua stragrande maggioranza, origine e formazione "storiciste". Essa è quindi indotta a ripensare il m. in termini compatibili con la tradizione culturale da cui procede; una tradizione in cui campeggiano Croce, De Sanctis e, sullo sfondo, Vico. Parlarle di una comprensione dei processi storici in termini di scienza o di una logica che adoperi Aristotele contro Hegel è come recarle offesa. Di più, proprio in quegli anni, tra il 1948 e il 1951, si viene compiendo in Italia la pubblicazione dei Quaderni del carcere di A. Gramsci, il cui primo volume, non a caso, ha per titolo Il materialismo storico e la filosofia di B. Croce. L'opera di Gramsci, che del resto in filosofia ha poco o nulla da dire, sopraggiunge a confermare la direzione in cui già ci si muove naturalmente. È il tronco dello storicismo, decapitato della "storia ideale eterna". L'identità di filosofia e storia vi è convertita in quella di filosofia e politica. La teoria dell'origine pratica dell'errore serve a introdurre il tema del condizionamento storico-sociale delle idee e, quindi, il discorso sulle ideologie, su "struttura" e "sovrastruttura", ecc.

Si aggiunga, infine, il senso del "relativo" così forte nello storicismo (il quale, in politica, è certo una filosofia che non lega le mani) e si avrà un motivo di più per intenderne anche le connessioni con la "duttilità" e il seriso della concretezza di Togliatti. Ciò non significa, naturalmente, che il pensiero di Gramsci venga presentato come un controaltare al "materialismo dialettico". Le due linee di pensiero - auspice la dialettica degl'interpreti - si fondono e si confondono, a conferma che tutto "è" e "non è". Ciò non toglie, tuttavia, che, almeno nei più avveduti, l'opera di Gramsci non cominci a contare, al di là delle solite vaghezze filosofiche, per concetti e problemi più consistenti: come quello, per es., del diverso rapporto che vi è tra stato e "società civile" in Occidente rispetto a quello esistente, a suo tempo, nella Russia zarista; oppure, per le considerazioni, certo assai significative, su "guerra di movimento" e "guerra di posizione"; o, infine, per l'insistenza, che emerge dalle sue pagine, a ricercare una strategia più articolata e complessa di quella dei bolscevichi.

All'inizio degli anni Cinquanta, cioè nel pieno dello stalinismo e della guerra fredda, la sostanza politica dei Quaderni - che è ciò che nel pensiero di Gramsci più conta - non è naturalmente ancora esplicitata.

Ciò non impedisce, tuttavia, che di lì a qualche anno, offrendosi l'occasione, essa non incominci a esser fatta valere. Ciò che era destinato a chiudere questa prima fase del dopoguerra, sia sul piano teorico che su quello politico, comincia a maturare proprio in quegli anni. Nel 1953 cade la morte di Stalin. Nello stesso anno ha luogo la prima rivolta operaia nell'Est, quella di Berlino. Seguono poi, in breve volger di tempo, le rivolte di Cracovia e di Poznan. La classe operaia, che da moltissimi anni non insorgeva in Occidente, si leva ora nei paesi dove si sta costruendo il socialismo. Si ha l'impressione che i conti non tornino. Nel 1956, il xx Congresso del PCUS, il rapporto segreto di Chruščëv con la denuncia dei crimini di Stalin, e, più ancora, l'insurrezione di Budapest, presto schiacciata dai carri armati sovietici, mettono definitivamente fine ai miti che hanno dominato la prima fase del dopoguerra. Tutto ora vacilla. La condanna dello stalinismo e l'inizio della politica della coesistenza pacifica tra Unione Sovietica e Stati Uniti d'America aprono gravi crepe nel blocco, fino allora apparso monolitico, degli stati comunisti. Il dissenso dell'Albania fa da spia ai ben più gravi dissensi tra Unione Sovietica e Cina.

L'inizio degli anni Sessanta vede i due colossi del mondo comunista avviati verso una rottura che tende ad aggravarsi sempre di più. Anche dal punto di vista teorico, siamo ormai entrati in una fase nuova. Il "materialismo dialettico" recede sullo sfondo. In Occidente, la sua influenza sembra spegnersi quasi definitivamente. In Oriente, dove pure la dottrina conserva il carattere di filosofia ufficiale di stato, affiorano, anche se spesso ai limiti dell'eterodossia, tendenze nuove. La denuncia dei crimini perpetrati da Stalin in Unione Sovietica e dai suoi proconsoli nelle democrazie popolari inducono a ripensare in modo nuovo i rapporti tra il m. e i problemi della persona umana. La tendenza è più evidente in Polonia, dove, prima L. Kolakowski e poi, in parte, anche A. Schaff elaborano i lineamenti di un "umanesimo" marxista aperto a motivi spiritualistici ed esistenzialistici. Ma essa è presente anche in altri paesi dell'Est, non esclusa l'Unione Sovietica, dove prende per lo più la forma di un maggiore interesse per gli scritti giovanili di Marx e, in particolare, per la concezione dell'uomo che trapela dai Manoscritti economico-filosofici. Al tempo stesso, in Cecoslovacchia, dove esiste una solida tradizione husserliana, il m. si combina con temi e motivi fenomenologici nell'opera di K. Kosik.

Condannate al silenzio o all'emigrazione dall'involuzione neo-staliniana che fa seguito alla caduta di Chruščëv (1964) e che culmina, nel 1968, nell'invasione della Cecoslovacchia, queste tendenze si affievoliscono o muoiono nei paesi dell'Est; proprio mentre, in Occidente, il m. sta per vivere, in quegli stessi anni, una nuova e turbinosa fioritura.

Il fenomeno comincia a delinearsi all'inizio degli anni Sessanta. Nella Germania occidentale ma anche in Francia e in Italia, si riscoprono Storia e coscienza di classe di Lukács e Marxismo e filosofia (1923) di K. Korsch: due opere su cui si erano scaricati, a suo tempo, i fulmini del Comintern e le condanne del "materialismo dialettico" ufficiale. Sulla loro scìa, rinasce anche l'interesse per gli scritti di R. Luxemburg. Si tratta di fermenti che si accendono a sinistra dei partiti comunisti, ad opera di piccoli gruppi intellettuali, i quali trovano nelle teorie "consiliari" di Korsch e nel gauchisme del primo Lukács anche gli strumenti per una critica antiburocratica. L'interpretazione del pensiero di Marx, che ne emerge, è incentrata sul tema dell'"alienazione" e del "feticismo" delle merci. Il m. non appare più come la rilevazione scientifica delle leggi oggettive che regolano il movimento e lo sviluppo del capitalismo moderno. Al contrario, la sfera dell'"oggettività sociale" appare come l'effetto di un rovesciamento che distorce e maschera i rapporti sociali tra gli uomini dando loro la forma (ecco il "feticismo") di rapporti materiali tra cose. Questo quid pro quo, che si estende a tutte le forme di vita della società capitalistica moderna, ha il suo luogo di nascita nel lavoro salariato o "alienato", che, pur essendo origine e causa del capitale, risulta in questa società stravolto e abbassato a effetto del suo effetto, finendo col dipendere da ciò che esso stesso ha prodotto.

In queste condizioni, intendere il m. come scienza della società, al modo della Seconda e in parte anche della Terza Internazionale, significa prendere per buona la falsa "oggettività" che è prodotta dal capitale e, quindi, restare all'interno di quei rapporti che si dovrebbe invece poter criticare. Il m. non è "economia politica", cioè rilevazione scientifica delle presunte leggi oggettive che regolano la produzione e riproduzione del capitale. È, al contrario, "critica dell'economia politica" (come suona, del resto, il sottotitolo del Capitale), cioè ritraduzione e riduzione della falsa oggettività, cui si è applicata l'economia politica classica, ai rapporti sociali tra le classi che le sono sottesi.

Ma questo processo di demistificazione teorica è inscindibile dalla presa di coscienza della classe operaia; giacché, nel momento in cui il lavoro salariato comprende che il capitale da cui dipende è un suo proprio prodotto, la classe operaia già si aderge ad antagonista del sistema.

Nel pieno degli anni Sessanta, la Germania occidentale soprattutto (ma in parte anche l'Italia) sembra ricapitolare velocemente la parabola percorsa, tra la fine degli anni Venti e l'avvento del nazismo, dal m. non sovietico (il cosiddetto "m. occidentale") e dai primi esordi della "teoria critica". Ai nomi di Lukács e Korsch, si aggiungono presto quelli degli esponenti della Scuola di Francoforte, da Horkheimer e Adorno fino a H. Marcuse. I loro scritti, che saranno gl'incunaboli della rivolta studentesca nel 1968, non sono quasi mai opere nuove. I due volumi della Teoria critica di Horkheimer raccolgono scritti del 1932-1941. La prima edizione di Ragione e rivoluzione di Marcuse è del 1941. La Dialettica dell'Illuminismo di Horkheimer e Adorno è del 1947. Quella che sembra essere, dunque, una nuova stagione del m. si rivela, al fondo e almeno in parte, una nostalgica rievocazione del passato.

È assai dubbio che Horkheimer, Adorno e Marcuse stesso si siano mai considerati veramente dei marxisti. E tuttavia la loro opera, per quel tanto che è la prosecuzione e lo sviluppo di Storia e coscienza di classe di Lukács, non solo ha un posto nella storia del m., ma serve a illuminarne una componente segreta.

Il m. è nato come materialismo storico. Introdurre il materialismo nella storia significa introdurvi il principio di "causa", bandire dalla storia finalismo e teleologia, respingere qualsiasi concezione e disegno del corso storico. Marx chiarisce bene questo punto nella prima parte dell'Ideologia tedesca. Egli critica Hegel per aver concepito ogni epoca della storia come un gradino o una tappa preparatoria per l'epoca successiva, e il corso storico, nel suo complesso, come un corso tendente a una mèta, a un fine, a uno stadio conclusivo. Che in Hegel le cose non possano stare altrimenti è evidente: il soggetto della storia è, per lui, l'Idea, il Logos; il fine della storia è che l'Idea pervenga alla piena coscienza di sé, cioè a farsi autocoscienza, Spirito assoluto. Il lungo travaglio storico, che deve preparare l'avvento di questo fine, sta, per Hegel, sotto il segno dell'alienazione. Per giungere all'autocoscienza, l'Idea deve sdoppiarsi, duplicarsi, scindere sé da sé, obiettivarsi a se medesima. È qui che sopravviene l'alienazione. L'Idea si aliena come Natura, si oggettiva, si fa "altro" da sé. Ma, come dimentica di sé, essa non si riconosce nel suo prodotto. Soggetto e oggetto, pensiero ed essere, si fronteggiano allora come esterni, estranei l'uno all'altro, ciascuno indipendente per sé. L'alienazione è questo. Il suo superamento si realizza quando, dopo lunga e travagliata peregrinazione, l'Idea arriva a riconoscere sé nell'"altro".

È chiaro che dire alienazione è dire dialettica. E che entrambe implicano un processo teleologico, finalistico. Infatti, come non c'è alienazione dove non è presupposta redenzione, emancipazione, così non c'è scissione o contraddizione dialettica, se non in vista della loro ricomposizione nell'unità. Ora, nel momento stesso in cui traccia i primi lineamenti del materialismo storico e, quindi, il programma che deve introdurre il principio di causa nella storia, Marx eredita la teoria dell'alienazione da Hegel. Essa, che è presente nei Manoscritti, trapassa nell'Ideologia tedesca e in tutta l'opera della maturità. E, com'è inevitabile, finisce con l'imporre, a poco a poco, quella ripresa del processo dialettico, fuori del quale l'alienazione stessa non avrebbe senso. Impiantato su questi principi, eterogenei e incompatibili tra loro, il m. non può giungere a interna coerenza. La teoria dell'alienazione, che implica finalismo e dialettica, è incompatibile con l'esigenza della spiegazione causale e scientifica. Quest'ultima, a sua volta, è incompatibile con dialettica e alienazione. In altre parole, il materialismo storico risulta dupé dall'escatologismo teleologico che colloca l'assoluto nel futuro, prospettando il comunismo come lo scioglimento di tutte le contraddizioni, la rigenerazione del rapporto tra uomo e natura, l'avvento dell'"uomo totale".

Il senso ultimo delle interpretazioni del m., che si affrontano dalla metà degli anni Sessanta fino a noi, è quello di esprimere e portare alla luce, di volta in volta, uno dei due corni del dilemma. La Scuola di Francoforte, che ripensa il m. alla luce della teoria dell'alienazione, si configura come critica romantica della scienza e della società industriale. Il suo utopismo escatologico culmina nel "gran rifiuto" di Marcuse. Viceversa, il pensiero di L. Althusser, che s'impegna nella ricostruzione del m. come scienza, deve cercare disperatamente di espungere dal m. qualsiasi traccia di teoria dell'alienazione, ben consapevole che, con una simile teoria, è impossibile produrre scienza.

Una chiara consapevolezza dell'impasse, tuttavia, tarda a imporsi, come ne è prova, tra l'altro, l'opera del filosofo francese. Il quale, mentre da una parte avversa come "ideologico" il tema dell'umanesimo e bandisce qualsiasi elemento di finalismo storico, fino al punto di attribuire a Marx una concezione della storia come "processo senza soggetto"; dall'altra, continua a considerare essenziale, in quest'opera, la dialettica come scienza delle contraddizioni.

Althusser può obiettare che la dialettica in Marx c'è veramente. E noi condividiamo la sua obiezione. Può aggiungere che per Marx, nella lotta di classe, non si tratta di un' "opposizione reale" di forze contrarie che si affrontano, ma di forze che sono saldate l'una all'altra nel loro conflitto in modo tale che il conflitto stesso, lungi dal distruggere l'una o dall'annullarle entrambe (come accadrebbe nell'"opposizione reale"), le riproduce costantemente nella loro stessa conflittualità: così che occorre che vi sia unità nella divisione e divisione nell'unità; che l'unità e la divisione siano una sola e medesima cosa. E, di nuovo, noi condividiamo l'obiezione.

Ciò, però, che egli non può negare, a questo punto, è che, proprio un processo come quello descritto, il quale giunto alla fine riproduce il punto d'inizio, è la definizione stessa di ciò che, in filosofia, si chiama il processo teleologico. In conclusione, l'obiezione che sembra debba muoversi ad Althusser è questa. Egli è nemico dell'alienazione perché nemico del finalismo; e nemico di entrambi perché ne sa giustamente l'incompatibilità con la scienza. Accetta invece la dialettica in Marx. Sembra doversene dedurre che egli non si rende conto che la teoria della dialettica e la teoria dell'alienazione sono la stessa cosa e, dunque, che prendere l'una credendo di respingere l'altra è impresa contraddittoria e vana.

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