Mare

Il Libro dell'Anno 2003

Norberto Della Croce
Mario Petrillo

Mare

Mare nostrum

Mediterraneo a rischio

di Norberto Della Croce e Mario Petrillo

9 gennaio

State of the World 2003, l'annuale rapporto del Worldwatch Institute, pone gli oceani e i mari fra gli ecosistemi maggiormente a rischio. I cambiamenti climatici provocati dall'effetto serra, l'inquinamento chimico e batteriologico derivante dagli scarichi civili e industriali, il depauperamento delle risorse ittiche a causa dello sfruttamento incontrollato costituiscono una minaccia crescente per l'ambiente marino. La situazione appare particolarmente critica nei bacini chiusi, come il Mediterraneo, dove un ulteriore elemento di preoccupazione è rappresentato dall'incremento della temperatura dell'acqua.

Minacce di diverso tipo

L'esame delle modificazioni subite dal Mare Mediterraneo, come da ogni altro ecosistema, deve tenere conto sia dell'intervento di fenomeni naturali sia delle minacce apportate dall'uomo. È noto che nel Miocene il Mediterraneo orientale venne a trovarsi isolato dal Mediterraneo occidentale. Di maggiore interesse in rapporto al quadro attuale, tuttavia, è la formazione nel Pliocene dello Stretto di Gibilterra, attraverso il quale questo mare interno comunica con l'Oceano Atlantico. Senza la continuità di flusso e di scambio assicurata da questo passaggio il Mediterraneo sarebbe stato destinato a diventare un lago salato in continua diminuzione. Quali determinanti effetti abbia comportato la formazione dello Stretto di Gibilterra può essere valutato considerando il bilancio tra evaporazione e precipitazioni: si osserva, infatti, come progredendo verso oriente a partire dallo Stretto di Gibilterra si passi dal bilancio a favore delle precipitazioni nel Mare di Alborán a quello a favore dell'evaporazione nel Mare Levantino, nel Mediterraneo orientale. Questa situazione climatica fa sì che la salinità delle acque passi gradualmente da circa il 36,25‰ a Gibilterra al 37,20‰ tra Tunisi e la Sicilia e superi il 39,00‰ a sud dell'Asia Minore, con valori termici che vanno aumentando a partire dalle acque dello Stretto. A questo evento naturale che ha caratterizzato la diversità delle forme di vita nel Mediterraneo, si sono aggiunte nel 19° e nel 20° secolo le modificazioni provocate dall'apertura del Canale di Suez e dalla costruzione della diga di Assuan. Ulteriori variazioni, tuttora in atto, sono quelle causate dall'inquinamento della fascia costiera.

Anche non tenendo conto del rapporto tra costi e benefici, la minaccia al Mediterraneo costituita dalla diga di Assuan, che ha dato origine al bacino artificiale Nasser con superficie di 500 km2, si sta manifestando per almeno due aspetti. Innanzitutto, la diga trattiene il limo che per secoli ha fertilizzato le terre adiacenti al Nilo nel corso delle inondazioni stagionali. Di conseguenza, non solo i contadini devono ricorrere all'uso di fertilizzanti che causano fenomeni di inquinamento delle falde nella bassa valle e nel delta del Nilo, ma quest'ultima zona, che misura circa 160 km di lunghezza e 250 di larghezza, è rimasta priva delle circa 5800 t di fosforo e 286.000 t di silice che riceveva annualmente con le inondazioni. L'area di influenza di queste acque, per effetto delle correnti superficiali mediterranee, si estendeva fino alle coste israeliane, libanesi e cipriote, causando una produzione massiva di fitoplancton con ricadute positive sulla pesca. In secondo luogo, con la costruzione della diga si è prodotto, a livello del delta, uno squilibrio tra mezzo marino e mezzo fluviale in quanto gli apporti di limo costituivano una difesa contro l'erosione marina. La quantità annuale di solidi scaricati era valutata in 57 milioni di t, mentre oggi tale apporto è ridotto a circa 2,1 milioni di t, insufficienti a contrastare l'azione delle correnti marine. L'erosione, pertanto, costituisce un serio problema in alcune zone del delta che oltretutto presentano un'elevata densità demografica.

Per quanto riguarda l'apertura del Canale di Suez, essa ha determinato una continuità artificiale tra Mare Mediterraneo e Mar Rosso, con flussi stagionali che procedono in direzioni opposte. I volumi di acqua e la quantità di sali che vengono trasportati attraverso il canale, tuttavia, sono troppo piccoli per influenzare in maniera significativa le condizioni chimico-fisiche di entrambi i mari. Considerando le minacce di natura diversa incombenti sul bacino del Mediterraneo, che comunque ancora oggi presenta per le sue caratteristiche morfologiche, chimico-fisiche e biologiche un'elevata ricchezza in numero di specie, bisogna tenere conto della ridotta quantità degli scambi tra acque mediterranee e acque oceaniche. Si calcola che, indipendentemente dal carico inquinante delle masse d'acqua e dal trasporto operato dalle correnti, il Mar Nero riceva 6100 m3/s di acqua dal Mediterraneo e il Mediterraneo ne riversi in Atlantico 1.680.000 m3/s, a parte quelli persi per evaporazione. Per contro l'Atlantico riversa in Mediterraneo 1.750.000 m3/s e il Mediterraneo ne riceve dal Mar Nero 12.600 m3/s, cui si aggiungono gli apporti fluviali e le precipitazioni. In altri termini, lo scambio idrico implica un 'dono' reciproco tra Mare Mediterraneo e Oceano Atlantico, e tra Mar Nero e Mare Mediterraneo, di quanto vi si trova in soluzione, ossigeno, sali nutritivi e inquinanti inclusi; sono esclusi da questa reciproca 'donazione' gli inquinanti che, adsorbiti da particelle, sedimentano sui fondali. Questi scambi, a prescindere dalle modalità con le quali avvengono, implicano l'esistenza di correnti simultanee e inverse a Gibilterra e al Bosforo, su scale di grandezza diverse. Si ritiene che il rinnovo delle acque mediterranee possa avvenire in 97 anni circa e quello delle acque del Mar Nero in un tempo molto più lungo (circa 2500 anni) a causa della particolare situazione idrologica. In termini generali, seppure teorici, ciò significa che una sostanza riversata nel Mediterraneo potrà esercitare la sua potenzialità di inquinante sugli organismi marini fino a quando non avrà esaurito tale potenzialità o avrà comunque varcato la soglia di Gibilterra. Per contro, l'inquinante adsorbito e destinato a sedimentare nel Mediterraneo potrà causare danni agli organismi bentonici e venire sepolto nel tempo dal materiale sedimentario.

Questa semplice e generica esposizione non tiene conto della qualità e della quantità degli inquinanti, e neppure dei molteplici aspetti delle dinamiche a livello delle masse d'acqua che compongono il Mediterraneo e dei fondi marini che lo costituiscono. Le conoscenze odierne sull'inquinamento chimico in mare aperto non sono tali da lasciare intravedere minacce diverse da quelle note e nelle quali l'uomo non ha, per così dire, voce in capitolo (maremoti, vulcani sottomarini). È certo che anche in mare aperto o negli oceani possono esplodere improvvise e pericolose minacce causate dall'uomo; tuttavia nel Mediterraneo, come negli altri mari cosiddetti mediterranei, cioè i grandi bacini contornati quasi completamente da terre (per es., Mare dei Caraibi, Mar Glaciale Artico), le minacce all'ambiente marino si verificano soprattutto lungo la fascia costiera. Dei 45.000 km di coste mediterranee appare in particolar modo a rischio il versante settentrionale, dove successivamente alla Seconda guerra mondiale si è assistito a una massiccia e spesso irrazionale colonizzazione.

Avvicinandosi alla costa, le minacce all'ambiente marino diventano sempre più tangibili, assumendo una diversa connotazione a seconda della fonte dalla quale provengono. È noto che, per quanto raffinate siano le metodologie della chimica analitica, il rilevamento di sostanze che costituiscono una minaccia per l'uomo e gli organismi viventi in aree marine a elevato indice di insediamenti urbani e industriali si esaurisce già a distanze dalla costa e a profondità relativamente modeste. Il destino degli inquinanti è quindi legato al regime dinamico dell'area in esame, alla morfologia, alla natura e all'inclinazione della piattaforma continentale a partire dalla battigia. La nocività delle sostanze inquinanti ha reso necessarie normative specifiche, emesse sia dai singoli paesi, sia da organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite e l'Unione Europea.

L'inquinamento chimico e batteriologico dovuto agli scarichi urbani e industriali è senz'altro grave, ma lo sono in misura pari se non superiore anche i danni dovuti alla continua modificazione e all'utilizzazione degli ambienti marini costieri. Infatti, circa il 44% della popolazione del pianeta vive sulle coste o nelle sue vicinanze (il 73% in Italia). Questa migrazione verso la costa è ancora in atto e l'incremento demografico è soprattutto concentrato nelle grandi città costiere. La crescita della popolazione e delle attività che da essa derivano aumenta l'inquinamento e modifica radicalmente la linea di costa. Lo sgombero del terreno, la bonifica del territorio, la canalizzazione delle inondazioni distruggono le paludi, gli stagni di acqua salmastra e le lagune collegate con il mare. Lo sviluppo portuale, la costruzione di strade e di immobili, l'uso delle sabbie degli arenili e dei letti dei fiumi concorrono ad aumentare l'erosione costiera e danneggiano, se non distruggono, le praterie marine. Il turismo, come del resto altre forme di sviluppo, porta con sé una notevole pressione antropica e l'impatto può essere grave quando i complessi turistici vengono costruiti troppo vicini al mare e il numero delle presenze supera, come spesso avviene, la capacità di accoglienza. Inoltre la crescita della popolazione costiera e lo sviluppo non determinano soltanto la distruzione fisica degli habitat marini ma esercitano anche una notevole pressione sulle risorse biologiche, fino a giungere a un livello critico di sfruttamento di quelle rinnovabili.

Un altro tipo di minaccia che è opportuno segnalare è rappresentato dall'arrivo nel Mediterraneo a partire dalla fine degli anni Settanta di specie alloctone. Due di queste sono lo ctenoforo Mnemiopsis leidyi e la Caulerpa taxifolia. Esamineremo poi in dettaglio i danni alla biodiversità causati da questa alga infestante. Per quanto riguarda l'organismo predatore Mnemiopsis leidyi (in passato ascritto ai Celenterati), si deve innanzitutto dire che esso è stato trasportato dall'uomo attraverso le acque di sentina delle navi dall'Atlantico fino al Mar Nero. Qui lo ctenoforo ha trovato condizioni ambientali così favorevoli da dare luogo a una vera e propria invasione (1988-90), che ha trasformato in modo significativo la struttura delle comunità planctoniche, riducendone la consistenza di almeno 2-2,5 volte e, per alcune specie, di 3-10 volte. L'azione predatrice di Mnemiopsis leidyi, rivolta anche a uova e larve che costituiscono una fonte di cibo per pesci allo stato larvale e adulto, ha provocato il crollo della produzione ittica, che è passata da 250.000 t a non più di 30.000 t annue, con serie conseguenze economiche e sociali. Nello stesso tempo, lo stock oggetto di pesca è risultato notevolmente impoverito nella sua biodiversità tanto da essere attualmente costituito solo da alici, spratti e sugherelli. Si può anche ricordare la comparsa di megafioriture algali (Exuviaella, Gymnodinium, Plectodinium e Cochlodinium) che provocano una colorazione delle acque a causa delle elevate concentrazioni che vengono raggiunte in tempi assai brevi. Tali fioriture sono state osservate con maggiore frequenza nel Mare Adriatico, ma non sono infrequenti anche in zone diverse delle coste italiane e degli altri paesi mediterranei, oltre che in determinate aree costiere oceaniche, con rilevanti danni al turismo e alla pesca. Esse determinano una minore trasparenza del mezzo ambientale, l'abbassamento del tenore di ossigeno in soluzione e uno stato anossico (o quasi) delle acque. La scarsa disponibilità di ossigeno sul fondo e lo scatenarsi di fioriture in superficie sono spesso accompagnati da rapide e imponenti morie, simili a quelle che in Giappone furono causate nel 1970 dall'alga euglenoide Hemieutreptia antiqua e che costarono la perdita di 280 t di pesce e una riduzione nella produzione di ostriche di circa 10.000 t. La causa principale di tali morie viene spesso identificata nel processo di demolizione delle masse algali: l'elevato consumo di ossigeno in tempi brevi e in aree circoscritte provoca nell'ambiente riducente la formazione di idrogeno solforato ritenuto responsabile in parte, se non del tutto, delle morie. Le megafioriture mediterranee vengono causate da una ricca disponibilità di nutrienti (fosfati, nitrati) provenienti dagli apporti fluviali a fine estate, nonché da scarichi di liquami domestici e industriali. A seconda dell'entità del fenomeno, le manifestazioni meteo-marine e il riattivarsi della piena circolazione delle acque riescono a ripristinare in tempi più o meno brevi la situazione iniziale.

L'intero Mediterraneo negli ultimi anni è anche stato interessato da una rapida e abnorme crescita (bloom) di Pelagia noctiluca, una scifomedusa urticante per l'uomo, con conseguenti danni per il turismo. Un tempo erano un fenomeno comune e regolare in Mediterraneo anche i blooms dell'idroide Velella velella, attualmente diffuso in primavera lungo le coste atlantiche dell'America Settentrionale. A partire dalla Seconda guerra mondiale sulle coste italiane si è registrata invece una rarefazione di Velella e solo da qualche anno si è assistito a una ricomparsa, anche se discontinua, dei blooms. Non è stato finora possibile chiarire se questa situazione debba essere interpretata come indice di uno stato di malessere ambientale. Dalla panoramica che abbiamo descritto si evince che il pericolo per l'ambiente può assumere significati e aspetti diversi in relazione sia alla natura e al tipo di rischio provocato dall'uomo, sia all'ambiente, oceanico o mediterraneo. Sotto questo profilo, sono da evidenziare in particolare fenomeni biologici quali le migrazioni e le invasioni, nonché le attività umane legate allo sfruttamento delle risorse ittiche quando si verifica un eccesso di cattura o di maricoltura. Tra i numerosi casi studiati, ne segnaliamo alcuni che costituiscono una minaccia concreta.

Il Canale di Suez

Lo scavo del Canale di Suez, portato a compimento nel 1869, ha determinato, dal punto di vista faunistico, la riunione di due province biogeografiche: quella indo-pacifica e quella atlantico-mediterranea. In conseguenza dell'apertura del confine fisico tra i due bacini, da oltre 130 anni si assiste alla massiccia introduzione di specie tropicali nel Mediterraneo di levante, nel quale queste ultime trovano un ambiente favorevole alla sopravvivenza. Il fenomeno migratorio è comunemente conosciuto con il termine di 'migrazione lessepsiana', dal nome di Ferdinand de Lesseps, l'ingegnere francese che diresse i lavori di costruzione del canale. L'opera fu decisa allo scopo di evitare la lunga e costosa circumnavigazione dell'Africa necessaria per raggiungere l'Oriente: oggi sono sufficienti appena 15 ore di navigazione per percorrere gli oltre 160 km da Porto Said, sul Mar Rosso, a Suez, nel Mediterraneo. Nel corso degli anni, in alcuni tratti il canale è stato raddoppiato, allargato e approfondito. Attualmente la larghezza sul fondo varia tra 60 e 100 m, mentre la profondità è stata portata a circa 22 m.

In realtà, l'intervento antropico ha ripristinato, almeno parzialmente, una precedente situazione naturale. Infatti, fino all'inizio del periodo miocenico (circa 23 milioni di anni fa) la parte orientale del Mediterraneo, residuo dell'antica Tetide, aveva mantenuto una continuità delle acque profonde con l'Oceano Indiano. Successivamente, circa 18 milioni d'anni fa, l'orogenesi alpina e la rotazione antioraria della zolla africana interruppero la connessione tra il Mediterraneo e l'Oceano Indiano, anche se durante il Messiniano, nella fase terminale del Miocene (circa 6 milioni di anni fa), vi era una comunicazione intermittente tra i due bacini. La migrazione degli organismi attraverso il Canale di Suez è stata inizialmente impedita dai cosiddetti 'laghi amari', aree depresse a elevata concentrazione salina che furono sfruttate dai costruttori per completare il percorso dello scavo. All'apertura del canale, il lento scioglimento dei sali depositati sul fondo determinò salinità superiori al 160‰, incompatibili con la vita anche per gli organismi più resistenti. Nel corso di alcune decine d'anni, il flusso d'acqua, con direzione prevalente verso il Mediterraneo, ha gradualmente ridotto la salinità facilitando così le migrazioni.

Attualmente la situazione è caratterizzata da un elevato dinamismo e la migrazione lessepsiana proseguirà probabilmente fino a modificare completamente il popolamento del settore sudorientale del Mediterraneo, dove ormai è accertata la presenza non sporadica di oltre 300 nuove specie, alcune delle quali hanno raggiunto le coste di Turchia, Cipro, Malta, Tunisia e Sicilia. La migrazione inversa, dal Mediterraneo verso l'Oceano Indiano, è limitata a pochissime specie e si è in ogni caso arrestata all'interno del canale, ostacolata sia dal flusso prevalente della corrente, sia dalle caratteristiche tropicali dell'ambiente del Mar Rosso. Infatti questo mare è inadatto alle specie temperate mediterranee, che hanno in prevalenza un'origine atlantica, essendosi introdotte nel Mediterraneo a seguito dell'ultimo riempimento miocenico.

Il ruolo ecologico dei nuovi arrivi è ancora poco conosciuto. L'effetto a breve termine del loro ingresso, che consiste nell'iniziale incremento del numero di specie, di per sé può essere considerato un evento vantaggioso. Vi è però il fondato timore che, in tempi più lunghi, l'invasione di queste specie possa determinare una complessiva diminuzione della biodiversità. Questo accadrebbe nel caso venisse a estinguersi, per effetto della competizione per le risorse, una delle specie che caratterizzano strutturalmente habitat particolari e dalle quali dipende l'esistenza di una numerosa coorte di altre specie accompagnatrici. Le specie che provengono da un ecosistema più maturo e complesso, com'è quello del Mar Rosso, sono più forti e aggressive dal punto di vista della competizione. Attualmente, non risulta che l'insediamento di nuove specie abbia determinato la scomparsa di forme endemiche del Mediterraneo, ma in ogni caso sono evidenti cambiamenti d'abbondanza, come nel caso del gambero Penaeus kerathurus, pescato attivamente fino agli anni Cinquanta e oggi quasi completamente sostituito dai lessepsiani Penaeus japonicus e Penaeus monoceros. In modo analogo, la medusa mediterranea Rhizostoma pulmo è gradualmente sostituita dall'immigrata Rophilema nomadica, presente sia durante l'inverno con esemplari di grandi dimensioni (anche più di 1 m di diametro) sia d'estate, quando raggiunge densità di oltre 10 individui al m3, anche se di taglia minore. L'enorme biomassa della specie introdotta depaupera le scarse risorse del bacino di levante, creando problemi significativi alla pesca, oltre che alle installazioni costiere, comprese quelle turistiche. Diverse specie lessepsiane, tra pesci, crostacei e molluschi, hanno conseguito adattamenti alle condizioni ambientali del bacino levantino tali da consentire il loro sfruttamento commerciale. Per il pesce lucertola (Saurida undosquamis) e il pesce capra (Upeneus moluccensis), questo è avvenuto a discapito rispettivamente del merluzzo (Merluccius merluccius) e della triglia rossa (Mullus barbatus), forme autoctone che sono state spinte dai competitori in acque più fredde e profonde.

La minaccia per l'ecosistema mediterraneo, legata al sovrapporsi di nuove forme su livelli trofici in parte già occupati da specie autoctone, consiste nella possibilità che la competizione raggiunga il nuovo punto di equilibrio solo in coincidenza dell'estinzione di specie locali considerate a rischio, oppure che la sostituzione di specie autoctone che possono essere sfruttate da un punto di vista commerciale avvenga a favore di immigranti poco utilizzabili come risorsa ittica, se non addirittura nocivi.

Il processo di colonizzazione delle specie migranti può essere stato amplificato dal sovrasfruttamento delle risorse ittiche autoctone, che produce ecosistemi popolati da specie indigene indebolite e forse incapaci di resistere alla competizione interspecifica. È probabile che al medesimo processo concorra poi l'evidente tropicalizzazione del Mediterraneo, determinata da cambiamenti climatici su scala globale e provata non solo dall'immigrazione delle specie lessepsiane indo-pacifiche, ma anche dall'incremento di quelle atlantico-mediterranee termofile.

Caulerpa taxifolia

Consistente, reale e di origine antropica è la minaccia all'ecosistema mediterraneo rappresentata da Caulerpa taxifolia, macroalga verde di origine tropicale. All'inizio degli anni Ottanta, utilizzando organismi selvatici prelevati dalle coste dell'Australia settentrionale, ambiente naturale di provenienza dell'alga, la forma infestante fu selezionata dal curatore dell'acquario tropicale di Stoccarda, in Germania: la bellezza e l'eleganza ne facevano un ideale complemento cromatico per ogni specie ittica allevata in acquari tropicali. La varietà, geneticamente modificata ed evolutasi in acquario, presenta caratteristiche particolari, assenti nella specie naturale: elevata densità di popolamento, maggiori dimensioni e resistenza a temperature inferiori. Inoltre, grazie alla secrezione di tossine che rappresentano un deterrente per pesci e invertebrati erbivori, questa varietà dell'alga è apparentemente priva di predatori naturali che possono essere in grado di limitarne l'espansione.

La forma utilizzata in acquariologia apparve nel Mediterraneo per la prima volta nel 1984. Si trattava di un popolamento di limitata estensione, lungo la fascia litorale sottostante al Museo Oceanografico del Principato di Monaco, che si era sviluppato in seguito a uno scarico accidentale in mare da parte dell'acquario tropicale del museo, in cui Caulerpa taxifolia era stata introdotta per valorizzare l'aspetto delle vasche dell'esposizione.

Da allora l'espansione dell'alga è stata rapidissima, giungendo a ricoprire migliaia di ettari nelle aree limitrofe al Principato e diffondendosi in numerose colonie, dalla Spagna alla Croazia, con ogni probabilità in seguito a dispersione di frammenti strappati dalle catene d'ancoraggio e dagli attrezzi da pesca. Più di recente, la forma infestante moltiplicatasi in Mediterraneo, come provato dall'identico corredo genetico dei nuovi popolamenti, si è introdotta lungo la costa meridionale dell'Australia e in California. La causa è sempre riconducibile all'attività umana: l'acqua di zavorra dei navigli mercantili ha contribuito a diffondere l'alga in questi siti così lontani e distinti.

L'apparente impossibilità di arrestare la diffusione dell'alga rappresenta la considerazione più importante nel valutare la pericolosità di tale minaccia. Le motivazioni di questa impressionante capacità invasiva risiedono nella provata adattabilità a ogni tipo di ambiente costiero che sia compreso tra la bassa marea e circa 40 m sotto il livello del mare, unita all'assenza di fattori limitanti di natura biologica, come consumatori o parassiti, che come si è detto vengono allontanati dalla secrezione di diverse tossine da parte dell'alga infestante. Inoltre, le limitate esigenze metaboliche consentono a Caulerpa taxifolia una costante produzione di biomassa, indipendente dalle cicliche variazioni stagionali di temperatura e di nutrienti: nella competizione per le risorse questa capacità porta la specie a prevalere rapidamente su altre forme vegetali, anche su quelle che si sono perfettamente adattate all'habitat costiero attraverso una lunga storia evolutiva.

Il pericolo maggiore è costituito proprio dal fatto che Caulerpa taxifolia si va rapidamente installando, sotto forma di tappeto denso e ininterrotto, nella fascia d'elezione di Posidonia oceanica, fanerogama marina endemica del Mediterraneo. Le praterie sottomarine di quest'ultima hanno rappresentato, almeno fino a oggi, la migliore protezione naturale contro l'erosione dei litorali sabbiosi: essendo saldamente ancorate al substrato incoerente, impediscono la sua asportazione e costituiscono un'ideale area di rifugio, di nutrimento e di riproduzione per il mantenimento di un'importante diversità biologica. Il rischio è che il ricco e complesso ecosistema caratterizzato da Posidonia oceanica possa andare perduto nel caso in cui Caulerpa taxifolia riesca a soppiantare la pianta superiore.

L'unica azione possibile per rallentare e contenere il dilagare di questa specie invasiva è rappresentata dalla completa e accurata estirpazione manuale in presenza di popolamenti pionieri di modesta estensione, mentre nulla si può fare per contrastare ricoprimenti già estesi, almeno fino a quando non sarà accertata la possibilità di introdurre nell'ambiente mediterraneo, con le dovute precauzioni, un possibile predatore specifico. È allo studio la possibilità di utilizzare l'echinoderma Paracentrotus lividus, in una forma adattata in laboratorio alle tossine dell'alga, oppure il mollusco erbivoro Lobiger serradifalci, che si ciba in natura solo di specie selvatiche di Caulerpa. Tuttavia, l'introduzione intenzionale di tali consumatori potrebbe favorire un'ulteriore diffusione di Caulerpa taxifolia, considerando che essi si nutrono frammentando il tallo delle alghe di cui ingeriscono minute porzioni e che, come si è già accennato, la propagazione dell'alga avviene essenzialmente per frammentazione. Un'altra difficoltà è rappresentata dal fatto che, dopo anni di prelievi, nel Mediterraneo è stata rinvenuta la sola forma maschile di Caulerpa taxifolia. Questo preclude la possibilità di intervenire in qualche stadio particolarmente vulnerabile della riproduzione sessuata. Lo sviluppo futuro di questa situazione è incerto, poiché non è possibile escludere né l'auspicabile intervento regolatore di predatori naturali ancora sconosciuti o di organismi selezionati con tecniche di lotta biologica, né, all'opposto, l'espansione incontrollata dell'alga verso il bacino orientale, oppure verso le coste africane o la regione atlantica oltre lo Stretto di Gibilterra.

La pesca

A seguito dell'incremento della domanda mondiale di alimenti e grazie all'introduzione di sofisticate tecnologie a supporto della navigazione e della localizzazione e cattura dei pesci, lo sforzo di pesca, a partire dal secondo dopoguerra, è cresciuto in maniera sensibilissima, in particolare nel Mediterraneo. Tuttavia l'aumento delle catture non è stato uniforme e molti stock di interesse alieutico sono stati messi a rischio da un prelievo eccessivo. Dati forniti dalla FAO relativi al totale delle catture nel Mediterraneo indicano, dopo un livello massimo di oltre 1.700.000 t nel 1995, una flessione significativa a partire dalla seconda metà degli anni Novanta. Un'ingente quantità di risorse pubbliche è destinata dai governi di tutto il mondo a sostenere l'ammodernamento dei battelli da pesca, nell'intento di migliorare le condizioni di lavoro dei pescatori e la qualità delle tecniche di conservazione del pescato. Questo si traduce in pratica nell'aumento della potenza dei motori e del numero di giornate di pesca e conseguentemente in un controproducente incremento dello sforzo di pesca, che aggrava la minaccia di sovrasfruttamento delle risorse ittiche. La sopravvivenza dell'attività alieutica nel mondo, e in particolare nel Mediterraneo, è legata all'opposto a una riduzione del numero di battelli, necessaria nonostante i risvolti negativi sull'occupazione. Tale riduzione, secondo l'ICES (International council for exploration of the seas), dovrebbe interessare almeno il 40% della flotta peschereccia europea.

Un'ulteriore minaccia alla conservazione della biodiversità marina nel Mediterraneo è rappresentata dalla scarsa selettività dei sistemi di cattura utilizzati, come le reti galleggianti lasciate alla deriva, lunghe anche 20 km (reti pelagiche derivanti) oppure gli attrezzi che strascicano sui fondali. La cattura accidentale che ne deriva, rappresentata da organismi di specie non commerciali o da individui sottotaglia di altre specie oggetto di sfruttamento, può raggiungere il 15-20% del pescato totale in termini di biomassa, percentuali consistenti anche se inferiori al 40% raggiunto in aree diverse del mondo. La pesca mediterranea, che ha prevalentemente carattere locale ed è effettuata con differenti tipi di attrezzi, ha per oggetto una grande varietà di specie diverse legate alla molteplicità degli ambienti; risultano quindi quasi impraticabili, come invece accade in altre zone di pesca nel mondo, sia il rispetto delle quote massime di prelievo ammissibili per ogni diverso stock, sia il controllo che queste quote siano rispettate. La gestione delle risorse da parte dell'Unione Europea è attuata mediante la verifica del numero e del tipo di licenze e dei sussidi governativi. Un altro problema di cui occorre tener conto è la relativa scarsità di conoscenze scientifiche e di dati di monitoraggio che potrebbero invece permettere una corretta valutazione dello stato degli stock sottoposti a sfruttamento. Una delle risorse alieutiche maggiormente sfruttate è quella rappresentata dai grandi pesci pelagici in generale e dai tonni in particolare. Il Mare Mediterraneo ha un ruolo marginale nella cattura mondiale di Tonnidi, a eccezione del pregiato tonno rosso (Thunnus thynnus). L'adesione dell'Unione Europea all'ICCAT (International commission for the conservation of the Atlantic tunas) ha stabilito dal 1998, per il Mediterraneo e per il solo tonno rosso, la corretta adozione del sistema di gestione tramite quote massime ammissibili di prelievo, o TAC (Total allowable catch), che tuttavia sono vincolanti solo per i paesi della Comunità Europea e lasciano liberi di operare i paesi nordafricani, quelli balcanici e gli Stati non mediterranei, come il Giappone. Negli anni precedenti il pescato totale di tonno rosso nel Mediterraneo aveva raggiunto la cifra di 40.000 t; in seguito all'adozione delle limitazioni imposte a livello internazionale, la cattura si è attestata su poco meno di 24.000 t, che in ogni caso rappresentano il 44% della produzione mondiale, una percentuale pur sempre molto elevata. In conseguenza dell'eccessivo sfruttamento della risorsa, la cattura di esemplari adulti di grandi dimensioni è divenuta un fatto sempre più raro e l'attenzione dei pescatori, stimolati dalle richieste del mercato giapponese, si è rivolta verso gli esemplari più giovani, mettendo così a rischio le potenzialità riproduttive dello stock. Flotte pescherecce di varie nazioni (più di 30 imbarcazioni soltanto di Malta nel 2002) stazionano nel Mediterraneo in prossimità dello Stretto di Gibilterra e nel Golfo della Sirte. Attraverso l'impiego di tecnologie avanzate, come l'avvistamento delle prede con aerei o elicotteri e l'utilizzo di enormi reti a circuizione, in primavera sono catturati vivi esemplari carichi di uova. I pesci sono tenuti in gabbie galleggianti a rimorchio, per essere trasferiti, in seguito, all'interno di gabbie sommerse e alimentati con ingenti quantità di sardine, per dar loro modo di ricostituire le riserve di grasso perdute nella fase riproduttiva. Le strutture di allevamento sono disposte principalmente lungo le coste della Croazia (dal 1996), della Spagna e della Sicilia e spesso sono state allestite con l'aiuto finanziario del Giappone in cambio dell'esclusiva del prezioso alimento. Questo accrescimento in cattività ha, in effetti, incrementato la produzione di tonno, ma rappresenta l'ennesima minaccia ambientale a causa del notevole e localizzato impatto inquinante che sempre accompagna un allevamento intensivo. Non va sottovalutata infine la maggiore pressione di pesca esercitata sui piccoli pelagici che vengono catturati in gran numero per fornire nutrimento ai tonni e sono sottratti, in questo modo, all'uso ecologicamente più corretto di una diretta alimentazione umana. In termini generali, la minaccia più grave per gli aspetti produttivi relativi al Mediterraneo è probabilmente costituita dalla mancanza di una comune politica per la pesca, attraverso la quale tutti i paesi costieri possano di comune accordo gestire lo sfruttamento della risorsa alieutica in modo sostenibile. Un chiaro esempio della mancanza di intenti di protezione del bacino mediterraneo a livello sovranazionale è dato dalla questione delle reti pelagiche derivanti. Una volta riconosciuto l'eccessivo impatto che questi attrezzi hanno sull'ecosistema marino, la Comunità Europea ha deciso di vietarne l'uso, dal 1° gennaio 2002, ai pescatori dei paesi membri, italiani in particolare. L'intento è stato quello di proteggere gli stock di tonno e di pescespada oggetto di pesca e nello stesso tempo di limitare la perdita di biodiversità causata dal consistente tributo rappresentato dalle forme catturate accidentalmente, come mammiferi, uccelli e rettili marini. Purtroppo, l'azione comunitaria è stata resa vana dall'aumento dello sforzo di pesca da parte delle flotte di paesi terzi.

L'acquacoltura

Con l'eccezione dei paesi dell'Estremo Oriente, in cui ebbe origine oltre 4000 anni fa, l'acquacoltura ha sempre avuto nei paesi sviluppati un ruolo marginale nei confronti delle tradizionali attività di pesca, anche in conseguenza di un'evoluzione tecnologica relativamente limitata in confronto a quella dell'agricoltura e dell'allevamento terrestre. Dalla seconda metà dell'Ottocento, alle pratiche empiriche di acquacoltura estensiva in lagune naturali sono stati sostituiti metodi scientifici per la produzione commerciale a scopo alimentare di organismi acquatici, in allevamenti intensivi all'interno di vasche appositamente costruite. In risposta alle crescenti difficoltà del settore alieutico, l'acquacoltura ha fatto registrare negli ultimi decenni elevatissimi tassi di sviluppo, trasformandosi anche in maricoltura, attività che prevede l'allevamento intensivo in gabbie immerse direttamente in mare. In un primo tempo l'incremento produttivo ha interessato in modo particolare due sole specie, la spigola e l'orata, ma in seguito si è verificata una rapida diversificazione delle specie (per es., il dentice, i pagelli, il sarago pizzuto, la ricciola).

La crescita incontrollata di queste nuove forme di allevamento basate, almeno per alcune delle specie considerate, su conoscenze ancora incomplete del ciclo biologico riproduttivo, rappresenta una delle più gravi minacce per l'ambiente marino, in modo particolare per il Mediterraneo date le sue caratteristiche di bacino quasi isolato.

In primo luogo, esiste un rischio reale di scadimento della qualità ambientale in seguito alla recente proliferazione di impianti intensivi, sia a terra sia in mare, in cui sono raggiunte elevate densità di allevamento con lo scopo di ottenere la massima redditività. Nel caso di impianti fissi a terra, l'indispensabile ricambio di acqua produce inevitabilmente un incremento di nutrienti nelle aree costiere di scarico, con conseguenze eutrofizzanti in acque poco profonde e calme. Un inquinamento localizzato deriva anche dalla maricoltura, specialmente quando le gabbie sono immerse in zone protette dal moto ondoso, caratterizzate da scarso idrodinamismo e fondali poco profondi, come accade, per es., negli allevamenti di salmoni nei fiordi della Norvegia e del Cile meridionale. L'apporto di quantità di mangime sufficienti a sostenere le elevate densità di allevamento è certamente causa di problematiche nell'ambito della gestione della fascia costiera. I rifiuti prodotti dalle specie allevate e il nutrimento non utilizzato si depositano sul fondale, creando significative alterazioni chimico-fisiche del substrato: la degradazione batterica della sostanza organica in eccesso determina il consumo dell'ossigeno disciolto in prossimità del fondo, instaurando condizioni riducenti che innescano modificazioni nella struttura e nell'abbondanza del popolamento degli organismi del benthos. Si assiste essenzialmente a un aumento percentuale delle forme opportuniste della fauna microscopica interstiziale nei confronti del più strutturato e diversificato popolamento degli organismi di maggiori dimensioni, con ripercussioni sulla rete alimentare da questi sostenuta.

Un altro pericolo - in questo caso soprattutto per l'uomo - che appare legato alle elevate densità di popolazione negli allevamenti intensivi è quello derivante dall'eccessivo impiego di farmaci in acquacoltura. Infatti la necessità di evitare la diffusione di epidemie di natura virale o batterica (come per es. la pasteurellosi ittica che nel 1990 provocò danni ingenti negli allevamenti mediterranei di dentici), che sono favorite dalle situazioni di estrema contiguità degli organismi, specie in monocoltura, amplifica i rischi sanitari derivanti dall'uso di medicinali e antibiotici pericolosi per i consumatori.

Un'ulteriore minaccia alla produttività dell'ambiente marino è causata dal prevalente utilizzo in acquacoltura di organismi carnivori. L'alimentazione dei tonni rossi allevati in Mediterraneo, per es., come si è visto, richiede un aumento della quota di piccoli pelagici catturati, con conseguenze negative sulla disponibilità di alimenti per le forme selvatiche di maggiori dimensioni. Infine, ricordiamo le possibili conseguenze di un'evoluzione non corretta delle ultime sperimentazioni su forme transgeniche, ottenute in laboratorio con microiniezioni di DNA ricombinante in uova di pesce fertilizzate. I recenti sviluppi commerciali dell'acquacoltura sono basati su organismi appositamente prodotti in laboratorio, selezionati per il rapido accrescimento corporeo e le aumentate capacità riproduttive. Le incertezze sul loro impiego sono legate agli effetti, a medio e lungo termine, che potrebbero derivare dalla dispersione accidentale di esemplari transgenici in mare aperto. A fronte di questa preoccupazione vengono selezionate forme per le quali sia inibita la possibilità di diffondersi, impedendo che si possano generare ibridi fertili con le popolazioni naturali: lo scambio di materiale genetico tra organismi modificati e naturali potrebbe infatti comportare mutazioni del pool genetico originario tali da determinare la diminuzione della biodiversità per scomparsa di più specie o sottospecie naturali a favore di un'unica nuova specie con corredo cromosomico uniforme. In determinate situazioni può prendere corpo l'ipotesi detta del 'gene di Troia', secondo la quale organismi transgenici di allevamento potrebbero, in un primo tempo, sostituirsi alla popolazione naturale in virtù del loro maggior potenziale ecologico, per scomparire in seguito, a causa della maggiore delicatezza organica. Una perdita netta nel numero di specie, che concorre a costituire la ricchezza dell'ecosistema di partenza, può verificarsi anche in seguito a introduzioni intenzionali di organismi non modificati ma comunque più aggressivi nei confronti delle risorse ambientali e più produttivi rispetto ad altri sottoposti a stress nel loro ambiente naturale. È stata questa probabilmente la considerazione alla base della scelta di introdurre per scopi commerciali la vongola delle Filippine (Tapes philippinarum) che ha quasi soppiantato in Adriatico la vongola verace (Tapes decussatus), già in declino per sovrasfruttamento da prelievo.

Conclusioni

Il Mediterraneo, punto di incontro di tre continenti e culla di civiltà tra le più antiche, ha subito nel corso dei tempi geologici e storici innumerevoli sconvolgimenti chimici, fisici e biologici di origine sia naturale sia antropica. L'aspetto che sembra caratterizzare questo mare, oggi quasi completamente isolato dal resto delle acque del pianeta, è la varietà degli ambienti nei diversi bacini che lo compongono; questa diversità potrebbe essere la chiave per comprendere la sorprendente capacità di adattamento che il Mediterraneo ha manifestato nel passato. Altri eventi si avvicenderanno nel tempo a venire e potranno essere repentini oppure prolungarsi nei secoli. In ogni caso le varie minacce cui si deve fare fronte oggi diventeranno la storia dell'evoluzione futura del nostro mare.

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Cenni di oceanografia

Il concetto di oceano era già presente nelle conoscenze geografiche degli antichi greci, che lo configuravano come l'elemento che circondava il disco piatto del mondo con la sua poderosa corrente d'acqua; così è descritto, per es., nella rappresentazione omerica dello scudo d'Achille (Iliade XVIII, 607). La conoscenza dell'oceano non subì sostanziali cambiamenti fino all'Alto Medioevo: nei mappamondi medievali appare ancora come una corona che circonda la Terra. Soltanto alla metà del 13° secolo viaggiatori italiani, tra cui in prima linea Marco Polo, recarono in Occidente notizie sull'esistenza di un oceano meridionale e uno orientale. Solo nel 18° secolo, però, con l'espandersi delle navigazioni in mare aperto, si fa strada il principio dell'assoluta prevalenza della massa acquea sul globo. L'insieme di oceani e mari, golfi e baie in cui sono articolati copre infatti più del 70% dell'intera superficie terrestre. In passato venivano distinti cinque oceani (Atlantico, Pacifico, Indiano, Artico e Antartico), mentre in seguito è diventato comune distinguerne solo tre (Atlantico, Pacifico e Indiano). In tempi recenti le acque dell'Atlantico settentrionale intorno al Polo Nord sono state considerate come un oceano a sé stante e a tutt'oggi gli oceani ufficialmente considerati dall'International hydrographic bureau sono l'Oceano Atlantico, l'Oceano Pacifico, l'Oceano Indiano e l'Oceano Artico (o Mar Glaciale Artico). Talvolta le parti meridionali dei tre oceani principali che circondano l'Antartide sono considerate come un'unica massa acquea, denominata Oceano Antartico. L'oceanografia è la scienza che studia gli oceani e i mari nel loro complesso e quindi le loro proprietà chimico-fisiche, i loro movimenti e lo scambio energetico tra oceano e atmosfera (oceanografia fisica), gli organismi che vi vivono e la loro ecologia (oceanografia biologica) e l'origine e la struttura geologica dei bacini oceanici, nonché le rocce che li costituiscono e i sedimenti che vi si depositano (oceanografia geologica).

L'oceanografia biologica, in particolare, può essere definita come la disciplina volta allo studio dei rapporti intercorrenti fra gli oceani, considerati come ambiente biologico, e gli organismi marini. Per il suo indirizzo più strettamente ecologico, che dedica grande attenzione allo studio dei fattori ambientali (temperatura, luce, chimismo e movimenti delle acque ecc.), si distingue dalla biologia marina, maggiormente orientata allo studio delle singole specie. La nascita dell'oceanografia biologica come scienza moderna si può far coincidere con le prime crociere talassografiche: famosa quella della nave britannica Challenger (1872-76), seguita da molte altre, particolarmente numerose dopo la Seconda guerra mondiale. L'esigenza di studi più approfonditi ha presto reso necessaria l'istituzione di stazioni di ricerca costiere; la prima è stata la Stazione zoologica di Napoli, fondata da Anton Dohrn nel 1872, seguita da molti altri laboratori negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, Francia, Giappone ecc. Gli studi di oceanografia biologica sono stati favoriti anche dal progressivo perfezionamento delle tecniche e dei mezzi di ricerca oceanografica, arrivando oggi a disporre di una grande varietà di strumenti usati per raccolte biologiche differenziate di organismi pelagici o, viceversa, di fondo. Particolari retini di forma conica, per es., permettono di eseguire raccolte di plancton differenziate a seconda del numero di maglie per centimetro quadrato. Altri sistemi e tecniche particolari vengono usati per raccolte specifiche, come quelle dedicate ai batteri, che prevedono l'uso di bottiglie sterili, o quelle per le misurazioni di produzione di sostanze organiche, con l'impiego di isotopi radioattivi del carbonio. Il fitoplancton, infine, può essere analizzato chimicamente estraendo i pigmenti e riportando la popolazione in valori di unità-pigmento. Per la raccolta del necton si impiegano generalmente gli stessi attrezzi utilizzati per la pesca. Il campionamento del benthos utilizza sistemi diversi secondo gli organismi e i tipi di fondale. L'osservazione diretta, svolta con l'ausilio di autorespiratori nelle regioni costiere, si avvale di tecniche di immersione che permettono ai subacquei di raggiungere profondità fino a 200 m, di speciali batiscafi e sommergibili, di apparecchi per la fotografia e le riprese subacquee; la diffusione dell'informatica e la disponibilità di particolari programmi di calcolo permettono inoltre un'efficiente gestione dei dati, che non interessano più esclusivamente l'area della ricerca scientifica, ma assumono una sempre maggiore importanza per poter affrontare questioni di interesse mondiale, come le problematiche relative all'inquinamento o alla razionale gestione delle risorse.

Concentrazione salina, temperatura, densità, proprietà ottiche, pressione e movimenti delle acque sono i più importanti fattori chimico-fisici che condizionano la vita degli organismi marini. Dal fattore termico e di salinità dipendono certamente le migrazioni di alcuni pesci o l'area di diffusione di alcune specie; la temperatura delle acque condiziona l'accrescimento degli organismi marini (che rallenta nei mesi invernali e accelera durante l'estate) e le migrazioni verticali degli animali pelagici. La trasparenza delle acque influisce grandemente sulla vegetazione: è noto che le radiazioni rosse e gialle dello spettro solare non penetrano oltre i 150-200 m di profondità e questo è appunto il limite per la vegetazione autotrofa e per gli animali fitofagi. Intorno ai 1500-1700 m l'oscurità è completa: in questo ambiente dominano i predatori e i detritivori. La luce e le sue variazioni d'intensità regolano molti altri comportamenti degli organismi come, per es., le migrazioni batimetriche del plancton. Anche la pressione, che aumenta di circa 1 bar ogni 10 m di profondità, è un fattore d'importanza biologica non trascurabile. I movimenti del mare, cioè le onde marine, le correnti e le maree, esercitano ugualmente notevoli effetti: gli organismi litoranei presentano una serie di adattamenti per resistere all'azione meccanica delle onde; una fauna particolare trova rifugio nelle fessure e nelle cavità delle rocce e nel cosiddetto ambiente interstiziale; le specie che popolano le zone di marea, quelle cioè che sono soggette a periodiche emersioni, hanno evoluto vari adattamenti per sopravvivere al prosciugamento e conservare una certa quantità d'acqua, indispensabile per la respirazione. Le correnti marine, infine, agiscono particolarmente sulla diffusione attiva e passiva di animali e vegetali.

La mole di studi sulla biologia marina si giustifica facilmente considerando che diversi tipi animali e i più antichi fossili noti sono esclusivamente marini; le ipotesi sull'origine della vita e le dottrine evoluzionistiche hanno ugualmente concorso al fiorire di studi e ricerche. Anche in questo campo, i progressi sono stati notevolmente influenzati dalle crociere oceanografiche, dagli istituti di ricerca specializzata e dall'evoluzione delle tecniche; si deve considerare inoltre che la biologia marina ha assunto sempre maggiore importanza, teorica e pratica, per la pesca e le attività correlate. Come già detto, alcuni tipi animali sono esclusivamente marini, mentre numerosi altri lo sono per la maggior parte della loro vita; la fauna marina, quindi, appare più varia e più ricca di quella terrestre e di acqua dolce. Nelle sue diverse regioni, l'ambiente marino offre condizioni varie (concentrazione salina, temperatura, luce, pressione, movimenti delle acque ecc.) per la vita degli animali, che si raggruppano e si distribuiscono in complessi ecologici (o biomi) diversi: la fauna litoranea (o litorale), propria delle acque costiere; la fauna pelagica, rappresentata da quei complessi faunistici che vivono liberi nell'acqua, indipendenti dal fondo marino e dalle rive; la fauna abissale, comprendente gli animali delle acque profonde. In ciascuna di queste regioni in cui l'ambiente marino può suddividersi, gli stessi fattori ambientali che condizionano le attività funzionali degli animali marini determinano condizioni diverse nelle varie zone o sottoambienti, cui corrispondono differenti formazioni faunistiche. Così, per es., la fauna litoranea si distribuisce dalla zona sopramarina (sino a un paio di metri al di sopra dell'alta marea) a quella sopralitorale raggiunta dai movimenti ondosi o da maree eccezionali (durante gli equinozi), alla zona di marea (cosiddetta intercotidale), alla regione sublitorale e della piattaforma continentale da 60-70 m fino a 200 m di profondità, con raggruppamenti faunistici che variano ai diversi livelli, in funzione della natura dei fondali e della vegetazione e secondo quella delle coste. Analoghe considerazioni si applicano alla fauna pelagica, distinta nel complesso faunistico che popola le acque sovrastanti la platea continentale (fauna neritica) e in quello, con caratteristiche ben diverse, delle acque oceaniche, lontano dalle coste: la zona oceanica. Quest'ultima si suddivide in zona epipelagica (fino a 200 m di profondità), zona batipelagica (da 200 m a 3000 m) e zona abissopelagica (oltre i 3000 m); alcuni autori chiamano zona adale quella le cui profondità superano i 6000 m. Tutto questo mondo pelagico di organismi che vivono sospesi e fluttuanti nelle acque, senza rapporti con il fondo, è stato denominato plancton. Si riserva il nome di necton agli abitatori della zona pelagica capaci di spostarsi attivamente con mezzi propri, come i grandi nuotatori (cefalopodi, pesci, cetacei). Anche la fauna abissale ha facies sue particolari, a seconda della natura e della profondità dei fondali: il benthos, cioè il complesso di animali che vivono in relazione con il fondo, è diversamente costituito nella zona archibentale, fra 200 e 500 m di profondità, fino al limite dei sedimenti terrigeni, e nella zona più propriamente abissale, da 500 m in giù, dove i fondi melmosi sono in prevalenza di origine planctogena, le acque sono assolutamente quiete, manca l'illuminazione solare e conseguentemente ogni possibilità di vegetazione autotrofa.

Recentemente, l'oceanografia biologica si è indirizzata verso ricerche sul divenire dei processi biologici inseriti nel contesto globale dell'ambiente marino, che permettono quindi di considerare il mare come un unico sistema. Molto importante è lo studio della produttività delle acque marine, che riveste interesse di base e applicativo. La produzione primaria marina dipende principalmente dalla componente fitoplanctonica della colonna d'acqua, sebbene anche macroalghe e macrofite intervengano nella produzione nelle zone costiere. Di grande importanza si è rivelata la scoperta di organismi di dimensioni estremamente piccole, il picoplancton (diametro 1 mm), che hanno dimostrato un uso insolitamente efficiente dell'energia luminosa disponibile e una rapida utilizzazione dei nutrienti: lo studio del picoplancton autotrofo permetterà la revisione delle stime di produzione vegetale su scala globale. Le stime di produttività sono principalmente basate su modelli empirici, strumenti importanti in oceanografia biologica in quanto permettono di valutare la produttività partendo dai dati su altre variabili più semplici da misurare. Oltre ai classici modelli lineari, sono stati saggiati con successo dalla metà degli anni Novanta modelli basati su reti neuronali artificiali, che costituiscono uno strumento molto promettente per lo studio della produttività fitoplanctonica. Il problema dell'equilibrio tra produzione e consumo, specialmente nelle zone costiere, è uno degli aspetti applicativi di maggiore interesse poiché coinvolge sia i problemi della pesca, sia quelli dell'eutrofizzazione. Strettamente connessi alla produttività sono i processi di demolizione batterica e di trasformazione della sostanza organica in sostanza inorganica disciolta: lo studio dei cicli biogeochimici in mare ha messo in evidenza la loro complessità negli ecosistemi marini, in cui i cicli di alcuni micronutrienti non sono così ben definibili come invece quelli di azoto o fosforo. Inoltre, alcuni elementi, come sodio, magnesio, potassio e calcio, si trovano in mare in quantità elevate, tali da non divenire mai, se non in casi specifici, fattori limitanti per la crescita degli organismi. Di grande interesse sono le ricerche sugli ecosistemi marini di alte latitudini, cioè quello artico e quello antartico. Nella regione antartica sono in atto studi su biomassa e produzione zooplanctonica, ancora non ben determinate. La biomassa, nonostante presenti un marcato ciclo stagionale nei primi 50 m di profondità, si può considerare praticamente costante fino a 1000 m. Una stima mediata di produzione superficiale, in termini di biomassa, è valutata intorno a 50 mg/m3 per un totale di circa 180 milioni di t per anno. Tale stima deve essere tuttavia accettata con riserva perché non include il krill, una componente importante della comunità zooplanctonica antartica che, per le sue dimensioni (nell'ordine dei centimetri), deve essere campionata con reti diverse da quelle da plancton. Circa le varie forme di inquinamento degli ecosistemi marini, la scarsità di serie spaziali e temporali di dati biologici lunghe e omogenee rendono ancora difficile discernere tra variazioni naturali del sistema e alterazioni antropiche registrate su vasta scala.

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Il Mare Mediterraneo

Il Mediterraneo (per i Romani Mare Internum, in contrapposizione all'oceano, Mare Externum, al di là delle colonne d'Ercole) è un mare intercontinentale, compreso fra le coste meridionali dell'Europa, quelle settentrionali dell'Africa e quelle occidentali dell'Asia Anteriore tra 30° e 47° di latitudine N e tra 5° di longitudine O e 35° di longitudine E. È un mare semichiuso, che comunica con l'Oceano Atlantico attraverso lo Stretto di Gibilterra e con l'Oceano Indiano attraverso il Mar Rosso mediante il canale artificiale di Suez. Ha inoltre uno scambio di acque con il Mar Nero attraverso lo Stretto dei Dardanelli, il Mare di Marmara e lo Stretto del Bosforo. Viene suddiviso in due settori: occidentale e orientale (a loro volta comprendenti una serie di mari secondari) con un limite posto lungo la congiungente Capo Bon-Capo Boeo, che attraversa in direzione OSO-ENE il Canale di Sicilia.

Si estende per circa 2.505.000 km2 (non considerando il Mar Nero e il Mare di Marmara), con una profondità media di 1430 m e una massima, presso le coste sudoccidentali del Peloponneso, di 5121 m. La sua forma e le sue dimensioni sono legate alle vicissitudini geologiche che hanno interessato l'intera area a partire dal Mesozoico. Le coste sono nella maggioranza alte e rocciose mentre si presentano basse e sabbiose in corrispondenza degli apparati deltizi dei fiumi principali (Ebro, Rodano, Po e Nilo) e secondari che sboccano nel Mediterraneo. Numerose sono le isole, alcune di notevole estensione come la Sicilia, la Sardegna, la Corsica, Cipro e Creta, altre di dimensioni molto più piccole, spesso di origine vulcanica.

La flora e la fauna del Mediterraneo hanno subito vari cambiamenti nel corso delle ere geologiche; gli eventi storici e le condizioni ecologiche sono alla base della attuale situazione biogeografica. Lo studio del benthos litorale porta a considerare il Mediterraneo come una sottoprovincia della provincia nordatlantica, confinante tramite lo Stretto di Gibilterra con le due sottoprovince lusitanica e mauritanica, che vengono in contatto all'altezza dello stretto. La presenza di organismi provenienti dalle due sottoprovince citate si giustifica con l'andamento di due correnti marine, una calda che sfiora le coste europee e l'altra fredda lungo le coste africane. A parte l'elemento nordatlantico, che è il più cospicuo, nel Mediterraneo si identificano altri tre gruppi biogeografici (endemico, senegalese e boreale), la cui presenza dipende dagli eventi geologici che si sono susseguiti nel corso del tempo. Si pensa che le specie esistenti diversi milioni di anni fa nella zona mediterranea della Tetide non siano sopravvissute come tali, ma si siano evolute in loco, originando così l'elemento endemico del Mediterraneo, rappresentato dagli stessi generi della regione indo-pacifica, ma con specie diverse. Successivamente, trascorso il Pliocene, nuovi cambiamenti climatici hanno trasformato il Mediterraneo in un mare temperato; gli elementi nordatlantici sono così potuti penetrare e il Mediterraneo ha iniziato ad assumere la sua attuale facies zoogeografica. Anche i periodi glaciali e interglaciali dal Quaternario hanno svolto un ruolo importante. Durante le fasi glaciali, dette anche fasi di regressione, le temperature erano basse e nel Mediterraneo sono penetrati elementi di faune settentrionali o boreali; alcuni rappresentanti di questi gruppi sono sopravvissuti fino a oggi in zone particolari, la maggior parte è però scomparsa durante i periodi interglaciali a causa della temperatura più mite e della maggiore salinità dovuta all'aumento dell'evaporazione. Nel corso dei periodi interglaciali pleistocenici il Mediterraneo ha invece visto la penetrazione di elementi della sottoprovincia senegalese, con forme tipiche di piccola profondità che preferiscono acque calde a elevata salinità. Il susseguirsi dei diversi complessi faunistici mediterranei e la comparsa di nuovi componenti potrebbero essere anche legati al regime delle correnti che attraversano lo Stretto di Gibilterra. Durante gli interglaciali la diminuita piovosità e la forte evaporazione hanno determinato la comparsa, sempre attraverso lo Stretto di Gibilterra, di una forte corrente superficiale dall'Atlantico verso il Mediterraneo, con conseguente spostamento a nord delle isoterme e comparsa di elementi senegalesi. In concomitanza con le fasi di glaciazione si sono verificate invece condizioni opposte; la scarsa evaporazione e l'aumento di livello delle acque del Mediterraneo hanno indotto la formazione di una corrente di superficie verso l'Atlantico; parallelamente si è stabilita una corrente profonda opposta che porta nel nostro mare, per lo spostamento a sud delle isoterme, specie boreali adattate a maggiori profondità e temperature più basse. La penetrazione attraverso lo Stretto di Gibilterra è tuttora in atto: gli organismi così giunti si installano soprattutto lungo le coste del Marocco; per questo, fra le coste marocchine e quelle spagnole è possibile distinguere un peculiare distretto biogeografico del Mediterraneo, il Mare di Alborán. Un'ultima immigrazione è da attribuire all'apertura del Canale di Suez: attraverso questa via d'acqua sono comparsi in Mediterraneo nuovi elementi della regione indo-pacifica; una ricerca compiuta negli anni Sessanta individuò sulle coste mediterranee di Israele circa 20 specie di pesci e quasi altrettante di crostacei provenienti dal Mar Rosso. Gli eventi paleogeografici e i fenomeni di immigrazione citati hanno permesso di caratterizzare nel bacino del Mediterraneo quattro distretti biogeografici: il Mare di Alborán; il Mediterraneo occidentale; il Mediterraneo orientale, il più ricco di endemismi e con le maggiori affinità indo-pacifiche; l'Adriatico, che nella sua porzione settentrionale rappresenta un'area di rifugio per gli ultimi elementi boreali finora sopravvissuti.

Aspetti giuridici

Il Mediterraneo corrisponde a quello che nell'art. 122 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, firmata a Montego Bay (Giamaica) nel 1982, viene definito mare semichiuso, cioè un "mare circondato da due o più Stati e collegato a un altro mare o all'oceano da uno stretto passaggio o costituito interamente o principalmente dai mari territoriali e dalle zone economiche esclusive di due o più Stati costieri". Gli stretti di accesso e interni al Mediterraneo sono sottoposti al regime di libero transito internazionale, previsto dal diritto consuetudinario e codificato nelle convenzioni sul diritto del mare: per gli stretti turchi è ancora vigente la convenzione di Montreux del 20 luglio 1936; la libertà di passaggio nello Stretto di Gibilterra è conforme alle norme del diritto marittimo consuetudinario. Situazione particolare è quella del Canale di Suez che, soggetto alla sovranità egiziana, dopo le vicende legate alle guerre arabo-israeliane, è stato riaperto dall'Egitto alla navigazione internazionale dal 15 giugno 1975.

Sulle coste del Mediterraneo si affacciano ben 20 Stati e questo crea complessi problemi di delimitazione delle aree soggette alla loro giurisdizione. La maggior parte degli Stati costieri del Mediterraneo (fra cui l'Italia: l. 24 agosto 1974, nr. 359, che ha modificato l'art. 2 del codice navale) ha adottato un mare territoriale di 12 miglia marine a partire dalle linee di base; fanno eccezione l'Albania (15 miglia), la Siria (35 miglia), Israele (6 miglia) e la Turchia, limitatamente al Mar Egeo (6 miglia). La definizione delle linee di base da parte degli Stati costieri del Mediterraneo ha posto il problema delle cosiddette baie storiche: il diritto internazionale consente agli Stati di considerare acque interne quelle baie che tradizionalmente vengono ritenute pertinenti al territorio nazionale. Qualche problema è posto dalla delimitazione della piattaforma continentale tra Stati mediterranei le cui coste si fronteggiano o sono adiacenti. Il diritto internazionale prevede, in questi casi, la conclusione di appositi accordi e tale principio è stato ribadito dalla Corte internazionale di giustizia nelle sentenze relative alla delimitazione della piattaforma continentale tra Grecia e Turchia (1978), Libia e Tunisia (1982), Libia e Malta (1985): nel primo caso la Corte si è dichiarata incompetente, demandando la soluzione della controversia all'accordo delle parti, mentre nelle due sentenze più recenti essa ha suggerito alle parti i criteri cui conformarsi nella conclusione dell'intesa. Libia e Malta hanno in effetti stipulato un accordo sui confini sottomarini nel 1986, che si è aggiunto agli altri già conclusi in materia, cinque dei quali riguardano l'Italia (con la Iugoslavia, 1968; la Tunisia, 1971; la Spagna, 1974; la Grecia, 1977; la Francia, 1986). Per quanto riguarda la pesca, alcuni Stati hanno provveduto, con leggi interne, all'istituzione di ampie zone esclusive al largo delle proprie coste (così la Tunisia, 1962, e Malta, 1971). L'esercizio dell'attività di sfruttamento delle risorse biologiche ha dato tuttavia luogo a numerosi contrasti tra gli Stati costieri del Mediterraneo, che sono stati risolti, in passato, attraverso una rete di accordi bilaterali ormai non più in vigore. Per gli Stati membri dell'Unione Europea, la competenza in materia di pesca è riservata agli organi comunitari, i quali hanno provveduto a esercitarla a partire dal 1970 attraverso l'emanazione di norme volte a regolamentare lo sfruttamento e la conservazione delle risorse biologiche. Anche la competenza a stipulare accordi di pesca con Stati terzi è sottratta agli Stati membri dell'Unione Europea; questa ha concluso un'intesa in materia, relativamente al Mediterraneo, con il Marocco (1988), seguita nel 1995 da un nuovo accordo sulla pesca e nel 1996 da un accordo di associazione. Le convenzioni di quest'ultimo tipo con paesi dell'area mediterranea sono numerose (si ricordano quelle del 1995 con la Tunisia e con Israele e quella del 1996 con l'OLP); esse introducono regimi preferenziali per i prodotti e i servizi provenienti dai paesi mediterranei, nel quadro di una complessiva politica mediterranea dell'Unione Europea. Quest'ultima, a partire dal 1992, ha notevolmente ampliato i propri obiettivi, mirando a realizzare una cooperazione globale in una prospettiva non limitata all'aiuto e allo sviluppo economico, ma tesa a coinvolgere temi quali la liberalizzazione politica, la tutela dei diritti umani, la protezione dell'ambiente. In aggiunta a quelle comunitarie, norme regolamentari per uno sfruttamento razionale delle risorse biologiche marine nel Mediterraneo e nel Mar Nero sono emanate dal Consiglio generale della pesca per il Mediterraneo, istituito nel 1949 nell'ambito della FAO. Per quanto riguarda più specificamente l'ambiente, è importante evidenziare che il ricambio molto lento delle acque del Mediterraneo rende questo mare particolarmente vulnerabile all'inquinamento dovuto ai fattori di origine antropica. Il problema della protezione delle sue acque è stato quindi affrontato in modo specifico a partire dagli anni Settanta, a seguito dell'iniziativa dell'UNEP (United Nations environment programme) che nel 1975, con il MAP (Mediterranean action plan), esortava gli Stati a creare una struttura internazionale per la cooperazione in materia di inquinamento; l'anno successivo fu convocata a Barcellona una conferenza degli Stati costieri del Mediterraneo che si concluse con l'adozione, il 16 febbraio 1976, della Convenzione per la protezione di questo mare contro l'inquinamento, ratificata da tutti gli Stati costieri del Mediterraneo e dalla Comunità Europea ed entrata in vigore nel 1978. Successivamente sono stati approvati vari protocolli, relativi a problemi specifici, finalizzati nel loro insieme ad affrontare in modo globale la complessa materia della conservazione dell'ambiente marino mediterraneo, basandosi su criteri e principi generali dettati dalla Convenzione. Nel novembre 1995 gli Stati membri dell'Unione Europea e tutti gli Stati della regione mediterranea tranne la Libia, riuniti a Barcellona, hanno sottoscritto un accordo che prevede la realizzazione, entro il 2010, di un'area economica euro-mediterranea attraverso la graduale liberalizzazione del commercio e l'instaurazione di un dialogo politico.

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