MANTOVA

Enciclopedia Italiana (1934)

MANTOVA (A. T., 24-25-26)

Clinio COTTAFAVI
Arturo SOLARI
Romolo QUAZZA
Adelmo DAMERINI
Leone Andrea MAGGIOROTTO
Tammaro DE MARINIS
Manfredo VANNI

Importante città della Lombardia, capoluogo di provincia, situata a 20 m. s. m., nella bassa Pianura Padana, in singolare posizione, poiché da tre lati è circondata dal Mincio, il quale forma, in questo punto, un vasto lago, diviso in tre sezioni da due ponti-dighe, sui quali passano strada e ferrovia. Le dette sezioni prendono il nome di Lago Superiore quello che si apre a nord-ovest della città, Lago di Mezzo, che a forma di arco da nord a est circonda la città, e Lago Inferiore quello posto a sud-est della città e che si restringe di nuovo a formare il fiume. La città, nel suo aspetto complessivo, per la ricchezza di palazzi e di monumenti artistici, ricordo del suo glorioso passato, si presenta severa e grandiosa. Il centro cittadino, dove si trovano le più belle vie e i più sontuosi palazzi, e dove più intensa si svolge la vita commerciale, è compreso nella parte più interna dell'arco concavo formato dai tre laghi in corrispondenza delle due dighe-ponti. Si nota qui il grandioso Corso Vittorio Emanuele, già un tempo Corso Pradella, che dalla stazione conduce nel cuore della città e termina nella Piazza Cavallotti. Da questa piazza il Corso Umberto I conduce proprio nella parte monumentale della città, dove sì aprono, nel dedalo delle vecchie vie, le varie piazze fiancheggiate da porticati. Dapprima troviamo la Piazza Mantegna; segue la Piazza delle Erbe, dall'aspetto medievale, destinata fino dal 1300 al mercato della frutta e degli erbaggi. Dietro l'antico Broletto, si apre l'altra piazza, detta Broletto. Pure assai bella è la Piazza Sordello, vasta e severa nella sua regolarità. Notevole è infine la Piazza Virgiliana, vastissima e aperta a NE., verso il Lago di Mezzo, in località una volta occupata da una palude, detta di S. Agnese. La città moderna si estende sempre più a S., dove, abbattute le vecchie fortezze che le impedivano di espandersi, Mantova ora può liberamente aprire le sue vie e costruire le sue case moderne.

La popolazione del comune era, nel 1931, di 42.939 ab. L'aumento demografico per questa città non è stato, in quest'ultimo cinquantennio, molto notevole, specie nei confronti di altre città lombarde, dove l'industria richiamò e accentrò la popolazione. Mantova, centro prettamente agricolo, ebbe ritmo più lento. Nel 1887, contava 28.048 ab.; alla fine del 1894 la popolazione era salita a 30.630 ab., nel 1911 a 32.692 e, nel 1921, a 39.245, quasi tutti nella città, essendo Mantova un comune urbano la cui superficie attuale è di 7,71 kmq. La maggiore popolazione Mantova la raggiunse nel sec. XVI con oltre 70.000 abitanti (secondo altri con 55.000).

Attiva è la vita di questa città; fra le industrie più notevoli vanno ricordate quelle della ceramica e dei laterizî, i cui prodotti si vendono sui mercati nazionali ed esteri; seguono, poi, per importanza, le industrie della carta, dello zucchero e dei concimi chimici. L'agricoltura nel territorio comunale non può avere sviluppo, essendo detto territorio occupato dalla città stessa e dai laghi. In questi si pratica largamente la pesca. La posizione geografica, per cui Mantova, oltre a essere sul Mincio, viene a trovarsi all'incrocio delle strade che scendono dal Trentino per raggiungere l'Appennino con quelle che traversano longitudinalmente la Pianura Padana, favorisce lo sviluppo dei traffici, i quali certo trarranno grande vantaggio da un più vasto sfruttamento delle linee di navigazione interna della Valle Padana.

Mantova non è, poi, seconda a nessuna città della Lombardia nel campo della cultura; ha scuole secondarie, fra cui un istituto tecnico, un liceo classico e un liceo scientifico, una ricca biblioteca, un museo di scultura antica e l'Accademia Virgiliana.

Monumenti. - Molti frammenti di materiale costruttivo e musivo, lastricati e utensili varî emersi in scavi antichi e recenti e a profondità rilevanti, assodano la romanità di Mantova. Dell' accresciuta potenza della città e della sua estensione, intorno al sec. X, verso mezzodì e verso ponente, restano ancora i campanili di S. Gervasio, di S. Maria della Carità, della cattedrale nella sua parte mediana almeno, la Rotonda di S. Lorenzo. Dicono ancora del nuovo periodo, iniziatosi col sec. XI-XII, le torri degli Acerbi, dei Rivalta, dei Poltroni, dei Gambulini, dominanti anche i palazzi del C0mune, l'antico e il nuovo (1222), che sono congiunti dal magnifico arengario, il quale porta, murato presso la porta del cortile, un singolare monumento a Virgilio, detto comunemente "la Vecchia". Si afferma poco appresso la potenza dei Bonacolsi coi loro palazzi imponenti, che ancora rendono, fiancheggiandola da due lati, Piazza Sordello una delle più caratteristiche d'Italia.

E si chiude il periodo romanico e gotico con le chiese del Gradaro, di S. Francesco, ora magazzini militari, col duomo dedicato a S. Pietro; col tempio e col campanile di S. Andrea, mentre poco lontano dalla città per volere di Francesco Gonzaga sorge il tempio della Madonna delle Grazie e poco appresso la chiesa degli Angeli, deturpato quello da logge (1820), nelle quali sono collocate statue informi entro nicchie, fra colonne, capitelli, cornici e busti in legno e cera fusa. Interessante il monumento di Baldassare Castiglioni disegnato da Giulio Romano.

Bartolino da Novara, nel 1380, afferma e rinsalda la signoria dei Gonzaga, nel castello di S. Giorgio, una fortezza che, non compiuta ancora, il Rinascimento già pieno di luce, trasforma presto in una dimora signorile e doviziosa con gli affreschi di Andrea Mantegna, con il loggiato di Luca Fancelli e le decorazioni del Leonbruno. E poco appresso si sviluppa quel singolarissimo gruppo di costruzioni - detto il palazzo ducale - le quali legano il castello alle fabbriche bonacolsiane del capitano e della "Magna Domus". Vi attesero Giulio Romano, G. B. Bertani, Nicola Sebregondi, Antonio Maria Viani, e Isabella d'Este, che lo arricchisce di quei gabinetti che poeti e artisti celebrano e rendono famosi nel mondo. È una delle regge più vaste d'Italia (14 mila mq. di tetti) e delle più artistiche per varietà e bellezza di linee architettoniche e d'arte decorativa. Francesco Traballese v'innalzò un giardino pensile chiuso su tre lati da un portico sostenuto da colonne abbinate, al quale diede nuovo ornamento un chiosco cui Antonio Bibbiena darà una bizzarra vòlta a due cieli e il basamento in preziosi marmi tolti a Sabbioneta. Due secoli di abbandono e di occupazioni militari avevano ridotto questo monumento a rovina; ma il primo decennale fascista gli ha ridato decoro e vita, raccogliendovi anche preziosi dipinti, statue e sculture greco-romane, mobili, arazzi, collezioni storiche e popolando di sacre reliquie patriottiche le stanze che furono carcere ai martiri di Belfiore.

E durante il bellissimo Cinquecento mantovano anche fuori, ma poco lontano, della città vengono costruiti il parco della Fontana con il suo castello, le ville di Marmirolo e della Favorita e quel palazzo del Te nel quale Giulio Romano afferma più che altrove la potenza del suo fantasioso ingegno. E sono pure suoi il palazzo Colloredo (ora Palazzo di giustizia), la sua casa, la pescheria.

Dalla metà del sec. XV agl'inizî del XVI Mantova si rinnova, si stende verso mezzodî in contrade spaziose e regolari; mentre poderose mura e bastioni la cingono d'ogni parte, pure mantenendo al centro quasi integro il suo carattere medievale, raddrizza molte sue strade, che si abbelliscono di superbe chiese, di palazzi e di case alle quali attendono Giulio Romano, il Fancelli, il Bertani e il Viani. Gl'interni e le facciate delle case s'illuminano di decorazioni pittoriche. Sono le case di Giovanni Boniforte, dei Valenti, degli Aromatari, degli Andreasi, dei Capilupi, dei Benzoni, dei Cadenazzi, degli Aliprandi, l'università dei mercanti, e sono soprattutto le chiese di S. Andrea, di S. Sebastiano, nonché la cappella dell'Incoronata (nel duomo), che Lodovico Gonzaga fa erigere intorno al 1470 da Luca Fancelli su disegni di Leon Battista Alberti. La cappella dell'Incoronata è presto compiuta; non così le due chiese. S. Sebastiano viene aperta al culto solo nel 1530, e, dopo una bisecolare occupazione militare, ritorna nel 1925 all'arte, in memoria dei caduti in guerra. S. Andrea sorge sulla demolita chiesa gotica e al suo compimento occorrono due secoli. Il Fancelli compie la navata fino alla crociera: Antonio Maria Viani sul finire del Cinquecento riprende il lavoro ed erige i due bracci della croce latina che Filippo Juvara corona nel 1732 con la maestosa cupola, e finalmente compie l'opera Paolo Pozzo nella seconda metà del 1700. Qui volle la sua tomba Andrea Mantegna, nella prima cappella a sinistra, decorata dai figli e dal nipote e ne ricorda le sembianze un bel busto in bronzo attribuito ad Andrea Cavalli. La chiesa ha sculture dei fratelli Mola e tombe sepolcrali di Prospero Spani detto il Clementi, di Giulio Romano e affreschi e tele del Costa, del Viani, di Domenico Fetti e di Giorgio Anselmi.

Alla gotica costruzione del duomo dà nuovo carattere nell'interno Giulio Romano, che nel vano antico ricava cinque navate segnate da snelle colonne scannellate, finché il vescovo Di Bagno alla metà del 1700 lo priva della h, bella facciata dei fratelli Delle Masegne - che il Morone ritrasse nel celebre quadro della Cacciata dei Bonacolsi - per sostituirla con l'attuale, disegnata dal romano Nicolò Baschiera. È chiesa ricca d'insigni opere d'arte.

Il risorgere della città dopo il sacco (1630) e la peste è lento e si svolge attraverso al barocco che ha lasciato testimonianze non volgari nelle chiese di S. Maurizio, di S. Barnaba, di S. Filippo, nei palazzi e nelle case dei Sordi, dei Bianchi, ora vescovado, dei Canossa, dei Siliprandi, dei Nerli (ora Martignoni), nel teatro scientifico dell'Accademia virgiliana, benché, purtroppo, a tale periodo appunto si debba imputare il deturpamento di parte del palazzo della Ragione e di non pochi altri edifici sacri e profani.

A un freddo neoclassicismo s'ispirano i palazzi e le case dei marchesi Cavriani, dei conti D'Arco, della Finanza, dovute agli architetti Torreggiani, Colonna e Paolo Pozzo, ai quali seguono poi, attraverso alla prima metà dell'Ottocento, Luigi Canonica (Teatro Sociale), Cherubini (palazzo Di Bagno) e altri minori.

Demolite nel primo ventennio del secolo ventesimo le fortificazioni, che Napoleone prima e l'Austria poi costruirono presso la vecchia cinta gonzaghesca, risorge ora l'architettura a Mantova in nuove forme e nuovi orientamenti (l'ospedale civile di Giulio Marcovigi, il cimitero di Ernesto Pirovano ecc.).

Storia. - Di origine etrusca, a cui dovette pure il toponimo, dalla mitica divinità infernale Mantus (che poi una leggenda italica confuse con Manto figlia di Tiresia, facendone la fondatrice eponima della città: cfr. il noto episodio di Dante, Inferno, XX, vv. 52-99), l'antica Mantua fece parte della dodecapoli padana, conservando dell'antica nazionalità la lingua e le istituzioni ancora sul principio dell'età imperiale, e, conquistata poi dai Galli, fu compresa nel territorio dei Cenomani. Munita dalla natura, quasi un'isola circondata dalle acque di ramificazioni del Mincio e dal loro impaludamento, e congiunta a terraferma con lunghi ponti lignei, nonostante la conseguente insalubrità dell'aria e la difficoltà itineraria, subì l'influsso di Roma, restandole fedele durante l'insurrezione celtica. Municipio, ebbe con la regione transpadana la cittadinanza romana, fu inscritta nella tribù Sabatina e attribuita, con la Venetia e l'Histria, alla regione X dell'Italia. Nel periodo delle guerre civili, ebbe parte del territorio confiscato a profitto dei veterani di Cesare (41 a. C.). La parva Mantua, a detta di Catullo, confermato da Strabone, non ebbe importanza di territorio, che probabilmente si estendeva dalle mura non oltre 15 miglia. Esso includeva, entro tre miglia, il borgo di Andes, l'odierna Pietole, probabile patria di Virgilio, correggendosi così (30 in 3) la notizia di Probo che pone a 30 miglia il vicus Andicus virgiliano.

Saccheggiata nel 401 da Alarico, invasa probabilmente dagli Unni, fortificata dagli esarchi bizantini, presa, perduta e ripresa dai Longobardi, Mantova attraversa un lungo periodo di oscurità, del quale si hanno pochissime notizie: il carattere agricolo della sua attività e la formazione dell'episcopato mantovano, il cui primo capo storicamente certo fu Laiulfo, vivente nell'827.

Si esce finalmente dall'incertezza, quando città e territorio entrano a far parte dei possedimenti feudali dei Canossa, dei quali Atto Adalberto è designato come conte di Mantova in un documento del 977. Bonifacio la prescelse lungo tempo a sua dimora. Passati i Canossa al partito antimperiale, Mantova ospitò nel 1064 il solenne sinodo di Alessandro II e in quell'occasione fu ufficialmente venerata la reliquia del Preziosissimo Sangue, che si vuole recata da S. Longino ed è tuttora conservata nella basilica di S. Andrea. Nel conflitto tra Enrico IV e la contessa Matilde, Mantova fu tra le città più infide per Matilde. Arresasi l'11 aprile 1091 a Enrico IV, ne ebbe ampliati i privilegi; e la tendenza alla libertà comunale, tra l'urto delle fazioni, il susseguirsi di rivolte aperte e di brevi conciliazioni, andò accentuandosi dopo la morte di Matilde (1115). Un documento del 1126 reca per la prima volta l'indicazione di cinque consoli deliberanti con 26 arimanni; tuttavia fino alla pace di Costanza (1183) la classe dirigente è ancora tutta nell'orbita dell'autontà vescovile. Sotto l'influenza del vescovo Garsedonio, devotissimo all'impero, Mantova tenne fino al 1162 contegno quasi sempre favorevole al Barbarossa. Ma dopo la formazione della Lega veronese, anch'essa partecipò all'alleanza dell'8 marzo 1167, e fu presente ad Alessandria e a Legnano. Dopo Costanza, le cariche di episcopus et potestas Mantue sono ancora per qualche anno raccolte nella stessa persona, ma si va facendo innanzi la classe più forte degli antichi vassalli del vescovo, che s'inurba dopo essersi formato con le vaste proprietà terriere della campagna un saldo appoggio economico. Verso il 1200 gareggiavano in città i Grossolani e i Bonacolsi, i Casaloldi e i Rivali Poltroni e gli Arlotti, i Gaffari e gli Zanicalli. Nello stesso tempo si spostavano alleanze e rapporti con le città lombarde, venete, emiliane, a seconda del prevalere in esse dell'una o dell'altra fazione. L'uccisione del vescovo Guidotto (14 maggio 1235) compiuta da Uguccione degli Avvocati, famiglia cresciuta all'ombra della chiesa vescovile, segnò il definitivo abbandono dell'autorità politica da parte del vescovato. Sotto la guida di Rizzardo di San Bonifacio, i Mantovani, al tempo di Federico II, tennero testa a Ezzelino, resistendo al violento assedio del 1246; dieci anni dopo aderirono alla grande lega, che assicurava il predominio guelfo nell'Italia settentrionale.

Nel 1268 i Casaloldi, aiutati da Pinamonte Bonacolsi, fecero esiliare gli Zanicalli, che ricorsero a Obizzo d'Este. Cogliendo il momento opportuno, offertogli dal desiderio di pace del popolo esausto, Pinamonte accordatosi con Federico, conte di Morearia, cacciò da Mantova il 4 luglio 1272 il podestà Guido da Correggio, espulse i San Bonifacio, con i quali uscirono i Casaloldi, loro amici. Il rivolgimento interno ebbe immediata ripercussione nelle relazioni esterne, conducendo Mantova all'alleanza con Verona.

La politica di Pinamonte, che nel cuore della città possedeva un vero fortilizio, fu diretta a soddisfare l'aspirazione popolare alla pace, con un insieme di trattati e di compromessi stretti con le città vicine e con un reggimento interno privo, dopo le prime espulsioni, di ulteriori scosse violenta. Tanto Pinamonte quanto il figlio Bardellone, pure avendo l'effettiva signoria, mantennero le vecchie forme comunali. La trasformazione del regime diviene invece evidente con Guido e nel 1308 è riconosciuta l'ereditarietà del potere. Assorbito nelle lotte combattute in Italia in favore dei ghibellini, Passerino, vicario imperiale dal 1311, non si avvide delle trame ordite contro la sua signoria, per gelosie economiche e per odî privati. Dopo la sua uccisione (16 agosto 1328), il passaggio del potere nelle mani di Luigi Gonzaga confermò la solidità del governo signorile.

Con i Gonzaga (v.), la partecipazione di Mantova alla vita politica, militare, letteraria dell'Italia settentrionale è Sempre più attiva. Nel 1348 la città sfugge a mala pena, grazie all'ardimento di Filippino Gonzaga, all'assalto delle forze collegate di Luchino Visconti, di Obizzo d'Este, degli Scaligeri. Pure soffrendo il continuo contraccolpo delle guerre dei Gonzaga, ora alleati ora forzatamente vassalli ora nemici dei Visconti, Mantova si abbellisce, si avvia a un traffico più intenso per l'escavazione di Porto Catena. Accanto alle terribili minacce subite nel 1368 da parte di Bernabò e nel 1395 e '98 da parte di Gian Galeazzo, si deve ricordare un fervido fiorire di opere in tutti i campi: l'erezione del castello di S. Giorgio, di chiese e di santuari, la riforma degli statuti bonacolsiani. I secoli XV e XVI sono un periodo di gran fiore per Mantova.

Con Gian Francesco, creato marchese nel 1433, le cospicue alleanze familiari della dinastia regnante, l'intelligenza e il gusto della marchesa Paola attirano personaggi celebri, artisti e santi.

Fra le attrattive principali e le maggiori ragioni di fama è la celeberrima scuola umanistica di Vittorino da Feltre, fermamente voluta dai Gonzaga e fondata nel 1423. Scelta a sede del concilio tenuto da Pio II nel 1459, Mantova, sotto il governo di Ludovico e di Barbara di Brandeburgo, diviene una delle corti più splendide d'Italia; al nome di essa si associano durevolmente quelli di Luca Fancelli, di Andrea Mantegna, di Leon Battista Alberti. Il tempo più fulgido del Rinascimento è rappresentato dal governo di Francesco, quarto marchese, accanto al quale troneggia Isabella d'Este. Illuminata dal radioso riflesso della corte isabelliana, incantevole richiamo per tutte le arti e per tutte le forme letterarie, Mantova agli albori del Cinquecento saluta spesso nelle sue vie, tra i suoi palazzi, i più illustri letterati e artisti italiani. Continua e si accresce lo splendore sotto Federico. Per il vasto rinnovamento operato da Giulio Romano, prefetto delle acque e degli edifici, la cittȧ non doveva ormai più chiamarsi Mantova, scrisse il Vasari, ma nuova Roma.

Con il governo personale di Guglielmo (1559-1587), si ebbe la maggiore floridezza. Un numero considerevole di cospicue famiglie circondava, i principi, animava la città, della quale il Folengo aveva descritto l'ambiente popolare; e le attive missioni diplomatiche ne mantenevano le relazioni con tutto il vasto mondo della grande e piccola politica. L'energia e l'ordinata amministrazione di Guglielmo permettevano nei bilanci avanzi considerevoli. Più di 50 erano le fabbriche; 43.000 gli abitanti. L'Inquisizione, più severa dal 1567 al 1572, aveva trovato nel governo un certo freno; la colonia israelita numerosa versava volentieri notevoli tributi, prezzo della ducale tolleranza; e la zecca locale coniava monete apprezzatissime. La mania del fasto toccò l'iperbole con Vincenzo I (1587-1610); le rappresentazioni del Pastor fido del Guarino, della Dafne di Marco da Gagliano, dell'Orjeo e dell'Arianna del Monteverdi, l'allestimento delle compagnie dei comici, chiamati a gara in Francia e presso le altre corti, eternano il nome della città nella storia del teatro. Il gran pubblico prendeva parte alle feste grandiose e a sua volta si concedeva spassi di carattere popolare. Affluivano i visitatori, e venivano anche dall'estero artisti, come Rubens e poi il Van Dyck, alla mirabile scuola d'arte rappresentata dalle Gallerie del palazzo. L'ultimo guizzo di splendore arrise a Mantova sotto Ferdinando, che, nonostante il peso delle prodigalità paterne e la guerra del Monferrato, riprese il ritmo vertiginoso degli acquisti d'arte. Per avere uno Studio universitario spese somme enormi, e l'affidò nel 1624 ai gesuiti, stabilitisi in Mantova dal 1584. Ma la rovina economica indusse lo stesso Ferdinando a trattare e Vincenzo II a concludere la vendita della parte più preziosa della Galleria.

Con l'estinzione del ceppo italiano dei Gonzaga (Vincenzo II morì il 26 dicembre 1627) comincia la fase più tragica della storia mantovana: la guerra per la successione. Il risultato si riassume nella rovina totale di ogni ricchezza. Carlo I Gonzaga Nevers, rientrando il 20 settembre 1631 in Mantova, trovò la popolazione ridotta a un quarto, le terre incolte, ogni cosa distrutta. Tutti i generi alimentari si dovevano fare venire dagli stati vicini. Le terre svilite finivano nelle mani dei pochi che possedevano un po' di denaro liquido. Molte furono le iniziative e provvido l'intervento del governo; ma solo sotto la reggenza di Maria Gonzaga (1637-47) andarono sanandosi i mali. Durante la guerra di successione spagnola il duca Ferdinando Carlo aprì le porte ai Galloispani, abbandonò la città nei momenti di maggiore pericolo; e mentre egli era imputato di fellonia e spogliato di tutti i diritti, con i patti di Milano il 13 marzo 1707 veniva stipulato il passaggio del ducato di Mantova, come quello di Milano, all'Impero. Tre anni dopo lo si dichiarò ereditario nella casa d'Austria. Il governo austriaco promosse opere importanti, come la restaurazione delle fortezze e l'espurgo dell'alveo di Porto Catena; nel 1712 abolì i privilegi nobiliari; dieci anni dopo, quelli del clero. Nel settembre 1735, Mantova evitò a stento la resa ai Gallo-sardi. Tre anni dopo, stabilito un unico governo per la Lombardia, ottenne un rappresentante nel Consiglio d'Italia a Vienna. Abolito nel 1744 il vecchio senato, lo stato di Mantova, separato nel 1748 da quello di Milano, ebbe un proprio supremo consiglio di giustizia, un maestrato camerale, una congregazione civica di reggenza, un maestrato della sanità pubblica, un podestà per le cause civili.

In armonia con il movimento generale di riforma, furono soppresse le giudicature, sostituita all'università dei mercanti la Camera mercantile (I786), erede di tutti i beni dei soppressi Paratici (1787). Vivissimo fu il risveglio nel campo della cultura. La Colonia virgiliana fondata dal marchese Carlo Valenti (1752), l'Accademia teresiana di belle arti (fondatore Giov. Cadioli, 1752) e l'Accademia filarmonica (fondatore Leopoldo Micheli, 1767) si fusero via via con le vecchie accademie degl'Invaghiti e dei Timidi e con la Colonia medico-chirurgica e nel 1768 si costituirono in un corpo solo: la R. Accademia di scienze, lettere e arti, che ebbe sede nel palazzo del Piermarini e del Pozzo, vantò presto il teatro del Bibbiena e godette eccezionali dotazioni annue da Maria Teresa, gareggiando nell'ultimo quarto del sec. XVIII con i maggiori istituti europei.

Durante la prima campagna napoleonica, Mantova subì uno dei più duri assedî, durato dal giugno alla fine del luglio 1796, e, dopo breve intervallo, ripreso sino alla capitolazione (i febbraio 1797). Gravissime furono le contribuzioni imposte dalla Commissione amministrativa francese; spesso intollerabili le forme dell'esazione. Durante l'assedio, che la città subì nel 1799 da parte degli Austro-russi, il generale Latour-Foissac permise ogni privata violenza contro cittadini sospetti di sentimenti non francofili. Gli Austriaci, entrati dopo la resa del 28 luglio 1799, istruirono processi e condannarono molti dei giacobini. I cosiddetti deportati cisalpini, internati a Sebenico e a Petervaradino, subirono durissime prove e non tutti poterono salutare la liberazione avvenuta per la pace di Lunéville (26 febbraio 1801), che ridava Mantova ai Francesi. La seconda fase della dominazione francese, durata fino al 28 aprile 1814, non ebbe, più il carattere fiscale della fase precedente; nella Repubblica Cisalpina e poi nel regno d'Italia, Mantova fu il capoluogo del dipartimento del Mincio.

Annessa al Regno Lombardo-Veneto nell'aprile 1815, la città partecipò attivamente all'opera di rigenerazione dell'infanzia, additata da Ferrante Aporti, ed ebbe nel marchese Giuseppe Valenti Gonzaga il fondatore del suo primo asilo infantile (1837), in don Enrico Tazzoli e in mons. Luigi Martini fervidi apostoli d'umanità; e già la fondazione delle scuole di mutuo insegnamento e l'attività di Giovanni Arrivabene provavano la partecipazione di Mantova al movimento liberale. Specialmente la Federazione italiana vi era sviluppata; ma la polizia austriaca non riuscì a penetrame le file. Nei processi del '21 gl'inquisiti mantovani Giuseppe Ferrari, Luigi Manfredini, Cesare Albertini, Antonio Magotti e G. B. Battasini furono compresi nella denominazione di processo bresciano.

Dopo i vani tentativi per la liberazione di Ciro Menotti, la diffusione crescente delle idee liberali e il contegno dei governanti allontanarono sempre più dall'Austria l'animo della popolazione. Tuttavia molta parte della classe dirigente della cittadinanza si sarebbe contentata di una riforma amministrativa, che assicurasse la legalità. Fu appunto questa pavida e insieme ingenua mentalità legalitaria, che, aborrendo dai disordini, mandò a vuoto l'entusiasmo cittadino del 1848 e permise alle autorità austriache di riempire la città di soldati prima che si sferrasse l'insurrezione. Mentre gli ardimentosi uniti il 31 marzo 1848 formavano la colonna mantovana di gloriosa memoria, il gen. C. Gorzkowski teneva la città in rigoroso stato d'assedio e riusciva a frustrare le estreme speranze liberali di un'intesa con l'esercito di Carlo Alberto.

Da quel momento, tra le grossolane provocazioni dei capi austriaci, andò maturando la fede liberale, che dalla prima riunione del comitato rivoluzionario mantovano (2 novembre 1850) condusse al sacrificio di Belfiore (5 novembre 1851; 7 dicembre 1852; 3 e 19 marzo 1853; 4 luglio 1855), concepito dai migliori come desiderato riscatto dalla taccia di freddezza gravante, per l'indecisione di alcuni, su tutta la massa cittadina.

Mentre sulla città, ricetto di carcerati politici, pesava la reazione, i Mantovani esuli prendevano parte attiva a tutte le guerre del Risorgimento; e all'interno, di tanto in tanto, episodî commoventi di omaggio alla fossa di Belfiore rivelavano l'intimo legame tra la folla e le vittime invendicate. Fu di questa natura il primo rito che la popolazione celebrò spontaneamente, quando, in seguito alla pace di Vienna e all'annessione, uscì dalla città l'11 ottobre 1866. il presidio austriaco.

Vita musicale. - Mantova entra nella storia musicale con il ricordo dantesco del trovatore "Sordello mantovano" e poi con l'istituzione della celebre scuola di Vittorino da Feltre, chiamato a Mantova da Gianfrancesco Gonzaga per l'educazione dei suoi figli. In quella scuola ebbe gran parte la musica e vi fu infatti allievo un Giovanni certosino, autore di un trattato di musica conservato alla Vaticana (n. 5904).

Ma i Gonzaga coltivarono la musica fin dai primi anni della loro signoria in Mantova. Gli archivî dànno notizia, fin dal 1340, che vi si facevano alla corte esecuzioni di musiche varie e che vi esistevano compagnie di piffari e trombetti, tanto celebrate da meritare di essere invitate nel 1470 a Napoli e a Milano, dove apparvero "cosa nuova". Sono nominati un Marco piffaro, un Gianfrancesco e un Mariotti trombetti, un Giovanni dal trombone, che si reputano mantovani, perché al nome degli stranieri si apponeva l'indicazione della patria o nazione d'origine: un Cieco difatti detto da Monaco, capace di suonare varî strumenti, vi è celebrato nel 1470.

La famiglia dei Gonzaga, di cui alcuni, come il marchese Francesco e la marchesa Isabella, erano anche musicisti (il Trissino nei suoi Ritratti fa alte lodi d'Isabella quale cantante e suonatrice) cercò sempre di avere al suo servizio i maestri più famosi ed ebbe contatti diversi con quelli che non potè chiamare in Mantova: J. Obrecht, G. Busnois, Josquin des Prés inviarono e dedicarono ai Gonzaga alcune loro opere, e il Palestrina scrisse una messa per il duca Guglielmo e gli dedicò un libro di mottetti. Per il card. Francesco fu composto l'Orfeo del Poliziano, che fu rappresentato con musica di un tal Germi l'anno 1471 (o 1472 secondo il Bettinelli). Nel 1486 Giampietro della Viola fece le musiche per la Rappresentazione di Febo e Pitone o di Dafne (pubblicata dal Solerti, 1902), esempio notevole, con l'Orfeo, di primi drammi con musica.

La corte dei Gonzaga ebbe una predilezione per le composizioni frottolistiche (v. frorrola). Il. celebre frottolista Marchetto Cara, alla corte di Francesco, soggiornò dal 1491 al 1502 e con lui vi furono i frotiolisti Filippo mantovano, Dionisio detto Papin da Mantova, Rossino mantovano, Giacomo di Sansecondo, Roberto da Rimini, e il celebre Alessandro Agricola fiammingo. Anche Bartolomeo Tromboncino, altro famoso frottolista, stette alla corte d'Isabella dal 1494, eccetto una breve dimora a Vicenza nel 1499, fino al 1501: sposò una mantovana, certa Antonia, che egli poi uccise per infedeltà. I liutisti altresì furono accolti e onorati, tra cui un Federico mantovano, Marco dell'Aquila, Nicolò dal liuto, milanese ma onorato dalla cittadinanza mantovana, Alessandro Folengo, ecc. Anche il celebre Alberto De Ripa fu mantovano di origine, ma visse quasi sempre in Francia a servizio del re.

I musicisti servivano così a corte come alla Cappella, che (sebbene i Gonzaga avessero tentato di costituirla fino dal 1489) poté praticamente esser fondata solo nel 1510 in parte sulla ruina di quella estense; e il primo esperimento fu fatto il 12 gennaio 1511 la mattina in S. Pietro e la sera in S. Francesco. La cappella di S. Barbera fu îstituita nel 1562 e fu arricchita di un organo degli Antegnati, costruito sotto la sorveglianza di Girolamo da Urbino Ne fu primo maestro il fiammingo Jacob de Wert, a cui successe nel 1582 G. G. Gastoldi.

Sotto il duca Guglielmo, che fu anche musicista e pubblicò un libro di Madrigali, troviamo a servizio della corte e della cappella il fiammingo Jaches de Berchem, detto il Mantovano, F. Suriano, Ippolito Baccusi mantovano, maestro del teorico L. Zacconi, Girolamo Belli, Padre Giulio Bruschi, B. Pallavicino, Nicola Parma mantovano, Filippo M. Parabovi, A. Striggio mantovano autore del Cicalamento delle donne al bucato, ecc.

Sotto il duca Vincenzo la musica ebbe il momento più fiorente. Egli ebbe al servizio musicisti importanti come P. Teodoro Bacchino, Girolamo Borchetti mantovano, Marcantonio Ingegneri, Paolo Marni, Marco da Gagliano, Claudio Monteverdi, Stefano Nascimbeni, A. Taroni mantovano, Lodovico Grossi da Viadana, ecc. Di Monteverdî fu eseguito per la prima volta nel 1607 l'Orfeo su parole di Alessandro Striggio Iuniore, la più importante opera delle origini del melodramma. Nel 1608, in occasione delle nozze del principe Francesco con Margherita di Savoia, si ebbe l'esecuzione della Dafne di Marco da Gagliano su poesia del Rinuccini, che fu chiamato appositamente a Mantova. Del Monteverdi fu rappresentata altresì, il 24 maggio dello stesso anno, l'Arianna, di cui non resta che il celebre Lamento, e il 4 giugno il Ballo delle Ingrate su versi dello stesso Rinuccini. Ebbero in quel tempo onori trionfali i virtuosi Gianvincenzo d'Angeli, Sabina Rasi, Caterina Martinelli e Adriana Basile-Baroni "la bella Adriana". Dopo la morte del duca Vincenzo (1612) a cui successe il figlio Francesco II, Monteverdi passò a Venezia (1613) e occupò il suo posto Sante Orlandi, autore della musica per la Galatea del Chiabrera. Con la morte del fratello di Francesco, Vincenzo II (1627) ebbe termine la linea primogenita dei Gonzaga, e tramontò l'età più splendida della musica in Mantova.

Nel '700 la musica ebbe un culto speciale in seno alla R. Accademia Virgiliana, che nacque dalla fusione della Colonia arcadica Virgiliana, dell'Accademia teresiana e dell'Accademia filarmonica nel 1767 per decreto di Maria Teresa. L'accademia ebbe un teatro proprio costruito su disegno del Bibbiena e inaugurato nel 1769 (Teatro Scientifico, tuttora esistente). Primi maestri della Colonia filarmonica furono i mantovani G. B. Pattoni e don Luigi Gatti, buoni compositori e maestri altresì di S. Barbera. La Colonia organizzava rappresentazioni al teatro e grandi concerti, a uno dei quali prese parte il 16 gennaio 1770 W. A. Mozart, durante il suo quinto viaggio in Italia. Altri maestri notevoli furono A. Bonazza e A. Antoldi, pure mantovani. La classe filarmonica ebbe fine nel 1865 sviluppandosi solo come scuola, dopo avere incorporato quella istituita già da Maria Teresa fin dal 1777 sotto la guida del maestro Mattia Milani, allievo di padre Martini. Intanto sorsero altre scuole: la scuola di canto corale istituita nel 1843, nella quale insegnarono il Facci, il Franchetti, il Comencini e il Finzi; la scuola gratuita popolare di canto istituita nel 1844 e cessata nel 1861; la scuola di canto corale del seminario, che, fondata nel 1846, ebbe breve vita; e la scuola di canto gratuita aperta nel 1850 dal maestro Provaglio. Un'altra scuola, tuttora esistente, fu istituita dal comune nel 1865. Il Teatro Sociale, ancora in vita, fu costruito, di fronte alle contrade di corso Pradella, nel 1822.

Le fortimazioni di Mantova. - Quando Mantova fu assediata da Ezzelino da Romano, la città, accessibile solo da mezzodì, aveva le sue mura turrite, ed Ezzelino, fattavi breccia, vi dette l'assalto; però i suoi armigeri trovarono nell'interno delle mura un fosso acqueo scavato dai difensori, e dovettero ritirarsi. A rendere più forte questo lato della città, poco dopo, si costruirono altre dighe con le quali si formò un lungo lago, detto di Paiolo, salvando, con un argine preparato a difesa, il terreno del Te. I Mantovani, mancando però, in tal modo, di terreno coltivabile per il bestiame, costituirono il cosiddetto "Campo trincerato" che spingeva il suo margine contro il fosso Paiolo.

Le mura della città subirono tutte le vicende delle molte guerre che si succedettero nei primi secoli del nostro millennio; e alla metà del secolo XIII vi portarono importanti miglioramenti prima Guido da Correggio, poi Rinaldo Bonacolsi, uno dei potenti capitani del popolo.

Francesco Gonzaga fece erigere il castello dall'architetto Bartolino da Novara, che già aveva costruiti quelli di Ferrara e di Pavia. Esso ha pianta quadrata, con torri agli angoli; è di aspetto semplice, severo, coronato da grande merlatura sporgente, con caditoie. Il secondo marchese, Ludovico (fine sec. XV), fece erigere le mura turrite e merlate dei due borghi S. Giorgio e Porto come teste dei due ponti, che vi mettevano capo, nonché il lungo tratto di mura che costeggia i laghi di Mezzo e Inferiore, traendo i materiali dalle torri Assandri, dei Cremaschi e di Visconti Sordello, e ricavando al loro posto l'attuale Piazza del Duomo. A maggior rinforzo, poi, delle teste dei due ponti egli vi fece erigere due rocchette come ridotti dei due borghi (1470).

Il quarto marchese, Francesco, fece ampliare la testata del ponte Molino con l'erigervi un'ampia fortificazione, che si disse Cittadella di Porto. Ma in questo tempo l'arte difensiva già introduceva i tipi bastionati, e prima il duca Federico, poscia Guglielmo I, iniziarono e continuarono la trasformazione delle mura con l'aggiunta di bastionetti alle facce e di falsebraghe alla gola della cittadella, per battere di rovescio gli specchi d'acqua del lago. Tale cittadella fu uno dei primi esempî di opere bastionate secondo le forme italiane, e si vuole che fosse progettata dal pittore Leonbruno (1531), ma costruita dagli architetti Capino e Beccaguto; il quale ultimo, morto, fu sostituito da Nuvolari.

Il duca Vincenzo I (1587) non tralasciò di perfezionare le fortificazioni; e, passato il ducato ai Gonzaga di Francia, si accesero le guerre del 1629 e 30, durante le quali i lavori di difesa furono intensificati: si aggiunsero cioè, numerose opere avanzate a coprimento delle porte, l'opera a corno di Porta Pradella e la lunetta di Porta Ceresa distruggendovi borghi e chiese, e si costruirono due fortini per coprire la località Miglioretto. Sulla fine del 1629 Mantova fu assediata dagl'Imperiali che battevano a S. la Porta Pradella e il Miglioretto, a N. la cittadella di Porto e il castello; e l'anno dopo, la città, devastata da una terribile peste, si arrese e fu orrendamente saccheggiata.

Ritornati i duchi, questi vi chiamarono, a restaurare le fortificazioni, varî ingegneri di Francia, tra cui il Du Plessis, che vi costruì la cinta del Te e completò il Miglioretto con forme bastionate più moderne. La piazza fu poi implicata più o meno direttamente nelle guerre del sec. XVIII e XIX. Nelle guerre napoleoniche essa vi sostenne una parte molto importante, anzi fu il periodo nel quale da un semplice compito tattico, passò a sostenere un compito strategico, e perciò fu molto contesa tra i due combattenti. Nel 1797, assediata dai Francesi, capitolò, e lo Chasseloup, celebre generale del Genio napoleonico, che aveva diretto l'attacco, v'iniziò il riattamento delle difese, con criterî modernissimi, seguito in ciò dal generale Latour-Foissac, che poi lo sostituì. Questi coprì la testa di ponte di S. Giorgio con robuste opere a fosso acqueo, protesse il Miglioretto con un'ampia "opera a corona", costruì a Pietole un forte con batterie e portò l'armamento totale della piazza. a 300 pezzi. Pure egli non seppe difenderla l.. anno successivo e dopo un breve assedio si arrese; ma la vittoria di Marengo fece ritornare la fortezza ai Francesi (1801). Vi tornò allora lo Chasseloup, che fece in tale occasione un completo nuovo progetto difensivo, fondandosi molto sul più largo impiego delle inondazioni, e quindi sulle manovre delle acque. Così le opere formarono quattro distinti gruppi: quello di Porta Pradella e di Belfiore, quello di Miglioretto e Pietole col Campo trincerato, quello di Porta S. Giorgio e Casa Zanetto (però il forte di Casa Zanetto non fu costruito), infine quello della Cittadella; tali gruppi si appoggiavano tutti vicendevolmente con i fuochi. Essi esistono ancora attualmente.

Gli Austriaci trascurarono Mantova per sviluppare, invece, le difese di Verona: le sue opere perdettero le loro forme nella lenta distruzione del tempo e si coprirono di sterpaglie. Ciò non ostante nelle successive guerre del 1848 e 1859, la piazza assunse nuovamente l'importanza di un perno di manovra, e allora gli Austriaci v'iniziarono lavori per rimodernarla secondo il tipo da essi studiato e applicato ovunque: cioè, ogni opera era chiusa alla gola per garantirla da colpi di mano, in essa si costruiva una caserma difensiva come ridotto, i fossi erano muniti di muro staccato difensivo (alla Carnot) e caponiere, gli spalti coperti da buche da lupo, reticolati, fogate; tali lavori però non alterarono la fisionomia generale impressa alle difese dallo Chasseloup. Nel 1848 e nel 1866 la piazza di Mantova attrasse una parte delle forze italiane in guerra contro l'Austria, conseguendone una dispersione che pesò gravemente a danno loro nelle due infauste battaglie di Custoza.

Arte della stampa. - Pietro Adamo De Micheli mantovano, dottore in legge, condusse nella sua città sul finire del 1471 "certi maestri per far stampare principalmente libri di lege... et volendo nel principio far qualche operetta grata universalmente ad molte et di varie condition persone" ristampò il Decameron del Boccaccio, che era apparso appunto in quell'anno a Venezia. Di questo prezioso volume, che reca il nome del De Micheli e la data 1472, si conoscono i soli esemplari di Manchester, Norimberga, del British Museum e della Bibliothèque Nationale di Parigi. Mantova fu anche, con Foligno e Iesi, una delle tre città in cui apparve nello stesso anno 1472 il poema di Dante: lo stamparono i tedeschi Giorgio e Paolo (Butschbach?) in una bellissima edizione in-folio (Milano, principe Trivulzio). Anche la tipografia ebraica fu presto attiva a Mantova: Abramo Conath vi pubhlicò, prima solo, l'opera di Jacob ben Ascher Semita vitae, del maggio 1476, e altri volumi senza data; poi in società con Abramo Jedidiah di Colonia il Commento al Pentateucho di I. Lēwī ben Gērĕshōn (v.). Altri tipografi stabiliti a Mantova nel sec. XV furono Thomas v. Siebenbürger di Hermannstadt (Sibiu in Transilvania), Joh. Wurster di Kempten, Joh. Schallus, Luigi Siliprandi e per ultimo (1498) Vincenzo Bertocchi di Reggio.

L'unico esempio noto di un'edizione mantovana quattrocentesca con silografia è un frammento di un libretto religioso, stampato, forse da Schallus, nel 1486, conservato nella parrocchia di Nuvolato.

V. tavv. XXXIII-XXXVIII.

Per il concilio di Mantova: v. trento: Concilio di Trento.

Bibl.: G. B. Visi, Notizie storiche della città e dello stato di Mantova, I-II, Mantova 1781-82; L. Volta, Saggio storico sulla tipogr. mantovana del sec. XV, Venezia 1786; G. Filiassi, Delle strade romane che passavano anticamente nel Mantovano, Guastalla 1792; Bottoni, Mantova numerizzata, Mantova 1840; Guida per la città di Mantova per l'anno 1844, anno II, Mantova 1844; M. Mortara, Cenni sulla tipogr. ebraica in Mantova, in Giorn. d. Biblioteche, II (1868); A. Mainardi, Storia di Mantova dalla sua origine fino all'anno 1840, compendiosamente narratra al popolo, Mantova 1865; P. Canal, Della musica in Mantova, in Memorie del R. Ist. veneto di scienze, lett. e arti, XXI (1881); G. B. Intra, Mantova nei suoi monumenti, Mantova 1883; S. Davari, La musica in Mantova, in Riv. storica mantovana, I, fasc. 1-2 (1884); A. Adamollo, I Basile alla corte di Mantova, Genova 1885; id., La bella Adriana e altre virtuose del suo tempo alla corte di Mantova, Città di Castello 1888; A. D'Ancona, Il teatro mantovano nel sec. XV, Torino 1885; M. Bertolotti, Musici alla corte dei Gonzaga a Mantova dal sec. XV al XVIII, Milano 1890; id., Prime notizie d. tipografie in Mantova, in Il Bibliofilo, XI (1890); R. Renier, Il primo tipografo mantovano, Torino 1890; G. B. Intra, Nozze e funerali alla corte dei Gonzaga 1549-50, in Arch. stor. lomb., XXIII (1896); P. Arnaullet, Les associations d'imprimeurs à Mantoue, in La bibliographie moderne, Parigi 1898; S. Davari, Notizie storiche topografiche della città di Mantova, Mantova 1903; G. Fumagalli, in Lexicon typograph., Firenze 1905, s.v.; H. Nissen, Italische Landeskunde, II, Berlino 1909, p. 202; V. Restori, Mantova e dintorni. Notizie storico-topografiche, Mantova 1915; G. G. Bernardi, La musica nella R. Acc. Virgiliana di M., Mantova 1923; E. Lui e A. Ottolenghi, I cento anni del Teatro sociale di Mantova 1822-1922, Mantova 1923; K. Haebler, Die deutschen Buchdrucker des XV. Jahrh. im Auslande, Monaco 1924; U. Ruberti, L'abside d. vecchia chiesa di Nuvolato, Quistello 1925; V. Restori, Mantova e suoi dintorni, Mantova 1925; A. Dal Zotto, Vicus Andicus, Mantova 1930; R. Quazza, Mantova attraverso i secoli, Mantova 1933; G. e A. Pacchioni, Mantova, Bergamo 1930; Corpus Inscr. Lat., V, p. 406; Philipp, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., XIV, col. 1359.

La provincia di Mantova.

Con una superficie di kmq. 2339,28 la provincia di Mantova si estende nella sezione sud-orientale della bassa pianura lombarda; il Po la divide in due parti, transpadana e cispadana; la Secchia ne percorre la prima parte da sud a nord, mentre il Mincio percorre, dividendola in due sezioni, la parte cispadana. A nord la provincia di Mantova si eleva nelle ondulate colline moreniche che chiudono a S. il lago di Garda e ove sorgono i centri di Solferino, Cavriana e Castiglione delle Stiviere. I comuni della provincia sono 70 con una popolazione complessiva di 397.686 ab. Numerosi, ma di poca importanza sono i centri; la popolazione appare assai sparsa, poiché la mancanza delle industrie non favorisce lo sviluppo dell'urbanesimo. Il movimento demografico non è molto intenso: sia l'emigrazione sia l'immigrazione sono poco notevoli.

Del territorio, circa il 93% è adibito a colture e il 6,6% improduttivo. La superficie agraria e forestale è calcolata di 218.291 ettari, di cui 186.909 a seminativi, 18.724 a prati e a pascoli permanenti, 3709 a vigneti, frutteti, gelseti; di 3331 ettari è la superficie del terreno improduttivo (canneti). I terreni occupati da fabbricati, da strade e da acque si calcolano di ettari 15.449.

Le produzioni agricole nella zona a nord, collinosa, sono caratratterizzate dalla vite e dal gelso; nella pianura si coltivano cereali (frumento e granoturco), praterie (marcite), gelsi, barbabietole. Queste ultime sono specialmente localizzate nella zona oltre il Po, di recente bonifica. Sono poi diffuse varie colture minori: patate, ortaggi e frutta. Fiorente è l'allevamento del bestiame, specie dei bovini (200.000 capi; equini 30.000; suini 90.000), e la bachicoltura.

L'agricoltura alimenta le varie attività industriali e commerciali: mulini, zuccherifici, salumifici, filande, ecc. Il sottosuolo offre poi ghiaie, torba, calci, materiale che alimenta l'industria dei laterizî. Le industrie nel 1923 occupavano 34.000 persone, di cui 15.600 lavoranti in opifici e 18.600 lavoranti a domicilio.

Il commercio è intenso e si svolge per vie navigabili, per strade ordinarie e strade ferrate, le quali tutte tendono ad accentrarsi nel capoluogo. Il Mincio è navigabile per tutto il percorso in provincia di Mantova (km. 112) da natanti di 150 e di 200 tonn.

Bibl.: Guida statistica della città e provincia di Mantova per l'anno 1855, Mantova [1855]; E. Paglia, Brevi notizie geografiche, storiche, statistiche sul Mantovano, ivi 1886; A. Cartalupi, Le carte topografiche del Ducato di Mantova alla fine del sec. XVI e al principio di quello successivo, ivi 1893; Cenni illustrativi sulla bonifica dell'Agro Mantovano-Reggiano, ivi 1900; Relazione sull'andamento delle industrie e del commercio nella provincia di Mantova (art. 2 legge 6 luglio 1896, n. 680) anno 1904. Parte 1ª: Relazione amministrativa. Parte 2ª: Relazione statistica, ivi 1905; Dati statistici relativi alla navigazione interna in provincia di Mantova, ivi 1906; Relazione della Camera di commercio sull'andamento dell'agricoltura, industria e commercio della provincia di Mantova, Mondovì 1910.

Marchesato e ducato di Mantova.

Abbattuta la signoria dei Bonacolsi per l'insurrezione capitanata da Luigi Gonzaga e dai figli suoi Guido, Filippino e Feltrino (16 agosto 1328), intesisi prima con gli Scaligeri, il Consiglio generale del comune, raccoltosi il 28 agosto, conferì il capitanato generale al magnifico signore Luigi Gonzaga; e lo statuto emanato ripeté l'elenco delle attribuzioni, simili a quelle già enunciate per il vicariato di Passerino Bonacolsi, con l'esplicito diritto di scegliere il successore e di associarsi in vita chi volesse. Prima di governare con piena indipendenza, i Gonzaga dovettero regolare la loro posizione rispetto agli Scaligeri, che non avevano dato certo aiuto disinteressato. Mentre Luigi Gonzaga subito aveva avuto titolo di capitano, la nomina di vicario imperiale per Mantova e la concessione di tutti i beni e i diritti dei Bonacolsi furono date da Ludovico il Bavaro a Cangrande. La morte di quest'ultimo semplificò le cose. Il 17 agosto 1329 Luigi strinse lega con Alberto e Martino della Scala a condizioni perfettamente pari; l'11 novembre 1329 ottenne il vicariato imperiale; invece solo 15 anni dopo ebbe i beni bonacolsiani. Al titolo di vicario imperiale per Mantova si unì quello di vicario per Cremona, Reggiolo e Asola. Dalla chiesa di Mantova Luigi ebbe poi l'investitura di molte altre terre, alcune delle quali erano militarmente importanti. Padrone, così, di un vasto territorio, fu per qualche tempo alleato degli Scaligeri; partecipando nel 1331 alla lega contro Brescia, aiutata da Giovanni di Boemia e Bertrando del Poggetto, ne trasse il dominio di Reggio. Crescendo intando le fortune dei Visconti, i Gonzaga ne furono qualche tempo alleati contro gli stessi Scaligeri e, partecipando alle guerre da un capo all'altro d'Italia, conservarono l'amicizia viscontea fino al 1348. Ma in quell'anno la coalizione formata da Luchino Visconti, da Obizzo d'Este e dagli Scaligeri strinse in una morsa i dominî dei Gonzaga, che videro Casalmaggiore, Sabbioneta, Pomporasco, Roccaforte, Asola, i castelli del Reggiano invasi dalle forze di Luchino, mentre quelle di Mastino si spingevano fino a Curtatone e una flottiglia estense si spingeva fino a Governolo. L'arditezza militare di Filippino Visconti liberò per il momento lo stato gonzaghesco; ma dopo breve periodo di pace, i Gonzaga tornarono a partecipare con varia fortuna all'azione antiviscontea. Borgoforte e Governolo rimasero per parecchio tempo ai Visconti, i quali aspiravano specialmente a Reggio. Il vecchio Luigi Gonzaga sarebbe stato disposto a cederla; invece Feltrino vi si asserragliò e la tenne fino al 1371. Fu firmato il trattato di pace tra Visconti e Gonzaga l'8 giugno 1358 a condizioni, che appena velavano una specie di vassallaggio dei Gonzaga verso i signori di Milano, e contro le quali i Gonzaga facevano segreta protesta di nullità.

Nonostante patti e alleanze familiari, la tendenza espansionistica della signoria viscontea determinò altre guerre, di cui lo stato mantovano soffrì acerbamente tanto sotto Guido, secondo capitano (1360-69), quanto sotto Ludovico, terzo capitano (1369-1382). Quest'ultimo, per una congiura fra suoi stretti congiunti, per poco non perdette il potere. La fase più saliente della storia dello stato gonzaghesco nel sec. XIV è rappresentata dal governo del quarto capitano, Francesco, il quale, dopo la tragedia familiare, che condusse alla decapitazione della prima moglie di lui, Agnese Visconti, s'impegnò a fondo nello sforzo di scuotere il peso della supremazia viscontea; e dal 1392, aderendo alla lega contro Gian Galeazzo, condusse una guerra violentissima, controbattuta con altrettanto accanimento. Il caposaldo della politica del quarto capitano fu di appoggiarsi, contro i Visconti, preferibilmente a Venezia. Egli fu anche capo dell'esercito veneziano nel 1405 contro Francesco da Carrara; e ne ritrasse in compenso il possesso di Peschiera e di Ostiglia. Il governo di Francesco è particolarmente notevole per la storia dello stato gonzaghesco per la riforma, da lui ordinata al principio del secolo XV, degli statuti bonacolsiani. Questi statuti riformati segnavano un punto importante nella storia giuridica italiana in generale; e davano allo stato con una compiuta organizzazione amministrativa una definitiva fisionomia. Sotto Francesco il governo si concentrò sempre più nelle mani del principe, il quale si riservò in perpetuo il diritto di eleggere i consoli e tutti i capi delle corporazioni e da esse richiese annuale omaggio di doni. Mentre tentava di liberarsi dal vassallaġgio dei Visconti, Francesco tentava pure, e a questo riuscì, di disfarsi di ogni dipendenza dal monastero di S. Benedetto nelle investiture di beni. Bonifacio IX eresse per lui in contra il feudo di Gonzaga in modo che l'investitura provenisse al signore di Mantova direttamente dal papa e lo esonerò da ogni, anche solo formale, tributo.

Ormai la potenza dinastica era così saldamente fissata che la minore età del figlio di Francesco, appena dodicenne, e il conseguente periodo di tutela non cagionarono scosse nel pubblico ordinamento e fu pacificamente riconosciuto nella famiglia Gonzaga il diritto ereditario alla successione.

Come in altri casi (Visconti), così anche la formazione e costitizione di un dominio territoriale, con centro a Mantova, iniziate e condotte innanzi nel sec. XIV finì col ricevere la consacrazione imperiale, che ne assicurò la legittimità e stabilità attraverso la concessione di un titolo che equiparava in certo modo gli antichi signori italiani ai principi territoriali tedeschi. Il titolo fu dapprima, per i Gonzaga, quello marchionale, concesso nel 1403 da Venceslao a Francesco Gonzaga, che non se ne servì, rifiutato una prima volta da Gianfrancesco nel 1413, e invece comprato per 12.000 fiorini d'oro dallo stesso Gianfrancesco, quando l'autorità imperiale di Sigismondo parve consolidata.

Sigismondo in persona con diploma del 22 sett. 1433 (preceduto da altro del 1432 da Parma) compì la solenne cerimonia dell'investitura sulla piazza di Mantova; quattro aquile con le ali aperte furono aggiunte allo stemma gonzaghesco e Barbara di Brandeburgo, nipote dell'imperatore, sposò Ludovico, figlio di Gianfrancesco.

Le vicende del marchesato furono per lunghi anni molto agitate, essendo il Mantovano, come territorio e come governo, travolto nelle lotte tra Venezia e i Visconti. Abbandonate le parti di Venezia nel 1438, Gianfrancesco passò ai Visconti; il marchesato fu allora minacciato gravemente; e nella pace (Cremona 1441) Asola, Lonato, Peschiera furono date alla repubblica. Alle sfortunate vicende belliche si contrapposero migliorie nell'organizzazione interna, nell'edilizia e nelle vie di comunicazione. Le monete mantovane d'argento ebbero allora notevole pregio; prese sviluppo la fabbricazione delle artiglierie; e il marchesato vantò la fiorente scuola umanistica di Vittorino da Feltre. Alla morte di Gianfrancesco (1444), il territorio fu, per il testamento di lui, diviso fra i quattro figli: Ludovico, Carlo, Alessandro e Gianlucido. Ma Ludovico tornò a essere solo signore per la morte di Gianlucido nel 1448, per quella di Alessandro nel 1466 e per aver pagato il riscatto del fratello Carlo prigioniero.

Le vicende del marchesato furono assai movimentate anche sotto il secondo marchese Nella lotta tra Venezia e gli Sforza, Ludovico fu fedele a questi ultimi; ma il Mantovano subì tutte le tragiche alternative della lotta e fu campo di battaglia. Castiglione delle Stiviere fu più volte presa e perduta. La pace di Lodi (1454) ricondusse una temporanea tranquillità, ma confermò a Venezia tutti i paesi che erano stati aspirazione costante dei Gonzaga: Asola, Lonato, Peschiera; né fu possibile a Ludovico di ricuperarli, neppure nelle successive vicende di lotte e di trattati, coi quali si cercava un più stabile equilibrio.

Sebbene funestato da inondazioni, carestie e dalla peste micidiale del 1478, il marchesato di Ludovico fu improntato a grande operosità civile. Importantissima la costruzione della chiusa e del sostegno di Governolo, e del canale di navigazione, a mezzo di conche, da Goito a Mantova, opere di Giovanni da Padova (1460-61). Tra gl'ingegneri e architetti chiamati a prestare l'opera loro furono Pietro da Figino e Filippo Brunelleschi. A Cerese, a Canneto, a Viadana, a Marcaria, a Ostiglia si riattarono torri e fortificazioni; l'industria della lana fiorì per opportuni privilegi. Per la prima volta segnarono scientificamente i confini Carlo Zucconi e Luca Fancelli, il quale, mentre con Andrea Mantegna e con Leon Battista Alberti abbelliva mirabilmente la città capitale, procedeva a un vero rinnovamento artistico dei paesi, costruendo chiese e palazzi a Soave, a Cavriana, a Saviola, a Revere, a Gonzaga, a Luzzara. Il testamento di Ludovico ridivise lo stato tra i figli; il primogenito Federico ebbe il marchesato. Al card. Francesca e a Gianfrancesco furono assegnati Viadana, Sabbioneta, Rivarolo, Bozzolo, S. Martino, Gazzuolo, Dosolo e Isola Dovarese. A Rodolfo e a Lodovico furono dati Canneto, Ostiano, Castelgoffredo, Redondesco, Castiglione delle Stiviere, Solferino. Da questa divisione derivarono i principati di Castiglione delle Stiviere, di Bozzolo e di Sabbioneta; i marchesati di Gazzuolo, di Luzzara e di Castelgoffredo; e le signorie di S. Martino e di Solferino. Parecchie di queste minuscole corti ebbero floridezza letteraria e artistica.

La guerra tra Venezia e Ferrara sconvolse ancora il mantovano dal 1482 al 1484. Federico, alleato del duca di Ferrara, tagliò l'argine del Mincio per impedire i rifornimenti ai Veneziani; Ostiglia fu a stento difesa dall'alleato duca d'Urbino. Ma nella pace dell'84 lo sperato possesso di Asola svanì ancora una volta.

L'importanza del marchesato crebbe a dismisura sotto il governo di Francesco I, marito d'Isabella d! Este, essendo a lui stato affidato il comando della lega del 1495, e più ancora, quando tra le due correnti, l'una favorevole, l'altra ostile a Luigi XII, l'atteggiamento del marchese di Mantova, confinante con la Venezia e con i ducati di Milano e Ferrara, divenne di sommo valore e perciò oggetto di molte pressioni. Il giuoco del marchese fu invero assai torbido e rischioso e, ristabilito nel 1500 il dominio francese a Milano, il pericolo parve irreparabile. Venezia e il re di Francia stavano per intendersi per una spartizione del marchesato. A stento l'opera di Iacopo d'Atri, di Clara Montpensier Gonzaga presso Luigi XII e l'efficace mezzo dei denari e dei doni salvarono la dinastia gonzaghesca.

Ma per tutto il periodo del marchese Francesco la situazione del marchesato stretto tra i Veneziani e i Francesi rimase gravissima: e fu necessaria una politica di ripieghi continui, d'incessanti armeggi diplomatici per reggersi su due staffe e giustificarsi dinnanzi a tutti (v. francesco gonzaga; isabella d'este). Morto nel 1519 il marchese Francesco, Isabella alla corte del figlio Federico con l'esperimentato consiglio preserva per il momento lo stato dalle lotte tra Francesi e Spagnoli. Ma la mossa temporeggiatrice di Leone X, che nel 1521 nominò Federico capitano generale della Chiesa, fu giocata senza scrupoli poco tempo dopo, facendo sottrarre dall'Archivio vaticano la cedola che impegnava il Gonzaga a combattere per il papa anche contro l'imperatore; e quando per la lega di Cognac, cui il papa aderiva, venne il momento della prova, il Gonzaga, pure conservando il titolo di capitano generale della Chiesa, aprì, d'accordo con Alfonso d'Este, la via di Roma ai Lanzichenecchi (1526).

Da quel momento, la politica dei Gonzaga si mantiene decisamente imperiale e Federico appare sempre più come agente cesareo in Italia. Però le sue speranze di accrescimento territoriale, o con l'acquisto del ducato di Milano o con la restituzione da parte dei Veneziani delle terre ambite, svaniscono. Unico compenso tangibile fu l'elevazione del marchesato a ducato (8 aprile 1530).

I confini del vecchio stato non furono modificati. Essi, però, non erano segnati dappertutto con precisione: anzi, le contestazioni per tratti di territorio, per l'uso delle acque e dei pascoli, furono frequentissime con Cremona, Brescia, Ferrara, Guastalla, Parma, Modena, Mirandola, Carpi, Correggio, Verona. Così pure innumerevoli furono le controversie di dominio per alcuni paesi del territorio, sui quali i duchi di Mantova vantavano ragioni in contrasto con altri rami della famiglia, che per divisione di eredità possedevano principati. Ebbero maggiore durata e gravità le vertenze per Dosolo e Gazzuolo con i Gonzaga di Bozzolo, incominciate sotto Gugliellno (1569); quelle per Castelgoffredo e Solîerino con i marchesi di Castiglione, svoltesi nell'ultimo decennio del sec. XVI; quella per Sabbioneta coi principi di Stigliano, apertasi sotto il duca Vincenzo e protrattasi per lunghissimo tempo; quella coi Guastalla per Luzzara e Reggiolo, continuata fino all'estinzione della casa regnante e poi ritornata in campo sotto il dominio austriaco.

Il governo ducale conservò le antiche cariche cittadine; nei paesi l'autorità ducale fu rappresentata dai vicarî, che si tenevano in strettissimo contatto con il potere centrale, che erano spesso persone insigni nel campo della cultura. Sotto la reggenza del cardinale Ercole, fu dato all'amministrazione un ordinamento regolare, curando l'onestà degli uomini preposti alle cariche pubbliche e frenando gli sperperi. Guglielmo a sua volta istituì una specie di commissione di vigilanza sull'amministrazione dello stato. Le entrate di questo si confondevano ormai con quelle private del sovrano. Pure al governo di Guglielmo risale la creazione del senato (1571), corpo giudiziario che sentenziava tanto in materia civile quanto in materia criminale e che ebbe fama di grande dottrina. La milizia fu anch'essa ordinata dall'attivo duca Guglielmo e fu composta in modo regolare di cittadini, lasciando solo per i casi straordinarî e per speciali servigi di parata la soldatesca mercenaria e straniera.

Nel sec. XVI e fino alla ben nota guerra di successione, le condizioni economiche del Mantovano furono floridissime. La popolazione del territorio raggiunse i 170.000 abitanti e quella della città toccò i 43.000. Nella campagna era intensa l'attività agreste; in Mantova e in alcuni altri centri, fioriva l'arte tessile. Numerosa e ricca di proprietà terriera era la nobiltà, che si raccoglieva alla corte mantovana e nelle molte ville gonzaghesche, e che attorniava gli altri rami regnanti dei Gonzaga: a Bozzolo, a Sabbioneta, a S. Martino dall'Argine, a Castiglione, ecc. Gli Ebrei, molto numerosi, ebbero per lungo tempo condizioni di speciale favore e insolite libertà di esercitare commerci: privilegi che essi pagavano con tributi e prestiti ingenti. Solo il 17 marzo 1610 ebbero l'ordine di abitare entro il ghetto, e a questo furono apposti portoni con chiavistelli esterni. Numerosi anche, tanto nella città quanto nel territorio, nonostante la cerimoniosa devozione dei principi e l'abbondanza degli ordini religiosi, i seguaci delle sette eretiche: e specialmente se ne ebbero a Viadana e Gonzaga. Quindi, molto lavoro per gl'inquisitori. L'autorità secolare tentò dapprima di opporsi all'opera loro, inviando anche una speciale missione a Roma; ma poi finì con cedere e lasciò mano libera contro gli eretici, ottenendo qualche favore solo per le persone di condizione più elevata. Per quasi vent'anni (1508-1587), tutto il Mantovano offrì vittime al tribunale dell'inquisizione. In seguito, la severità del potere inquisizionale andò scemando. Rimase in vita, sì, fino al 1782, ma si occupò quasi esclusivamente di streghe, di libri proibiti, di misure disciplinari nei rapporti col clero.

In tutto il primo secolo del ducato, la cultura fiorisce nel Mantovano. Continua, sotto il primo duca, il movimento artistico suscitato da Isabella. Giulio Romano crea la splendida villa del Te, nella quale dipinge e lavora il Primaticcio; nel Castello, si abbelliscono e affrescano appartamenti, si costruisce una nuova palazzina. Si fa venire da Bruxelles Niccolò Carcher, per riattivare l'industria degli arazzi. Tiziano lavora per i Gonzaga. Sotto l'impulso di Giulio Romano, Mantova, diceva il Vasari, non doveva più chiamarsi col suo nome, ma Nuova Roma. Gli studî pubblici erano anch'essi in fiore. Nel 1532 Carlo V aveva concesso ai padri agostiniani di S. Agnese facolta di conferire i gradi accademici, parificando lo studio mantovano a quelli di Parigi, Bologna e Pavia. Circa un secolo dopo (1625), Ferdinando apriva uno studio universitario affidato ai gesuiti. Nel territorio poi, si eressero sontuose ville. La corte, trasportandosi di frequente ora nell'una ora nell'altra, recava in tutto il dominio la sua nota di fasto e d'arte. Oltre quelle del Te e di Marmirolo, le più famose, vi erano ville gonzaghesche alla Montana, a Rasega, a Gonzaga, a Spinosa, a Porto, a Marengo, a Revera, a Pietole, a Belfiore, a Poggioreale, a Borgoforte, a Gavriana. Guglielmo ne aggiunse un'altra, solenne e severa, a Goito; Vincenzo I comprò la villa di Maderno e il parco e palazzo di Boscofontana, profondendovi tesori; Ferdinando fece edificare la Favorita. Sotto Guglielmo, cominciò pure a essere assai coltivata la musica; e la corte, al tempo di Vincenzo, vantò il Monteverdi. Lo splendore artistico toccò i fastigi sotto questo duca, quando Mantova fu a capo delle altre città italiane nella grandiosità delle feste, nella varietà dei divertimenti, nella gaiezza della vita: e anche nella licenza dei costumi. Sull'esempio dei principi, questa fece rapidi passi: e la prodigalità sconvolse le finanze. Sotto Ferdinando, si dovettero fare prestiti forzosi, si ridussero gli stipendî, si stabilirono dazî sul pesce e sul riso, s'impegnarono enormi quantità di gioielli al Monte di Verona, si vendettero preziose collezioni di quadri, fu creato con scarsi risultati il Banco di Santa Barbara. La rovina continuò sotto Vincenzo II. Morto quest'ultimo, si andò rapidamente avvicinando lo sfacelo che, per la guerra e per il sacco, doveva essere estremo.

La minaccia nemica, infatti, già di per sé stessa aveva indotto a distruggere nelle campagne tutto ciò che poteva riuscire di giovamento agl'invasori; la ferocia dei soldati causò la distruzione completa. Bruciato il fieno, morì, per mancanza di alimento, moltissimo bestiame. Metodicamente, nell'inverno del 1630 la soldatesca alemanna distrusse tutte le coltivazioni; e le imposte raggiunsero un ammontare favoloso. I beni delle famiglie nobili, notoriamente avverse agli Alemanni, furono devastati in modo irreparabile, abbattendo pianta per pianta, incendiando ogni cascinale. La peste, la terribile peste del 1630, completò la rovina. Manifestatasi già sul finire del 1629, tra le file dell'esercito assediante, si diffuse rapida tra la popolazione civile, spargendo la morte dentro e fuori, mietendo decine di migliaia di vittime, distruggendo per intero numerosissime famiglie, anche della nobiltà. Caduta poi la città in mano dei Tedeschi, subì tutti gli orrori del saccheggio, compiuto con insaziabile furore per tre giorni, e continuato in certo modo anche dopo con le esorbitanti contribuzioni imposte e con l'obbligo dell'alloggio e del mantenimento di 3000 soldati (v. appresso). Tutto ciò che non fu portato via, fu distrutto. La colonia ebraica cacciata fuori in blocco e tutti i suoi beni venduti. Coloro che in tempo di pace avevano occupato una posizione elevata, colpiti dall'imposizione di contributi fissi e mancando di tutte le risorse rurali, furono ridotti a miseria, mentre una miriade d'incettatori e di mercanti piovuti d'ogni dove, faceva fortuna. Lo spettacolo delle condizioni a cui era ridotto il Mantovano, era miserando. Fulvio Testi, il potere politico modenese, recatosi sul luogo, scriveva al suo duca: "Per lo distretto, V. A. non troverà (e non sono amplificazioni) quattro contadini, due paia di bovi, una vacca, una gallina".

Quando fu restituito il ducato a Carlo di Nevers, la rovina del dominio raggiungeva l'incredibile. Non solo i palazzi, un tempo sontuosi, erano vuotati di ogni suppellettile; ma nelle terre, da due anni incolte, mancavano coltivatori e bestiame; sì che il duca di Modena fece per carità il dono di 200 buoi e 100 bifolchi. Mentre un tempo la fertilità del terreno permetteva una larga esportazione, ora fu necessario far venire dal Bresciano e dal Veronese i grassi, le carni, il pollame; dal modenese, i vini; dallo Stato ecclesiastico, il grano. La popolazione si era ridotta a un quarto; i pochi che disponevano di denaro liquido, per lo più provenienti da altri stati, potevano con 30 lire comprare una biolca (mq. 3138) di terreno. Per tentare di ridare vita alle industrie, ai commerci, all'agricoltura, si escogitò di far venire una colonia di Olandesi; ma il progetto, per varie cause, fallì. Furono concessi speciali privilegi ai forestieri che venissero a stabilirsi nel Mantovano. Con provvedimenti governativi, fu proibito, con pene severe, ai coltivatori di lasciare la campagna e cambiare occupazione. La scarsezza di mano d'opera portò al rialzo delle mercedi: e si dovette determinarne l'ammontare. A poco a poco, si procurò di ristabilire un certo equilibrio sul mercato monetario e di ridare pregio e fiducia alle monete per le quali la zecca gonzaghesca aveva goduto un tempo altissima fama.

La ricostruzione non poteva essere che molto lenta, data la rovinosa situazione. Solo sotto la reggenza di Maria Gonzaga (1640-1647), il bilancio dello stato migliorò e si avviarono a risanamento le orribili piaghe. Ma subito dopo, l'imbelle governo di Carlo II provocò altri mali, che furono aggravati ancora per le guerre, alle quali Ferdinando Carlo, ultimo della stirpe regnante, aprì il paese, devastato dagli eserciti gallo-ispani e da quelli imperiali negli ultimi anni del sec. XVII e nei primi del XVIII. Dichiarato Ferdinando Carlo reo di fellonia contro l'impero e considerato decaduto da tutti i suoi diritti e stati con sentenza della dieta di Ratisbona, il 30 giugno 1708, il ducato di Mantova passò sotto la potestà imperiale. Nel 1710, nonostante le proteste dei Guastalla che aspiravano alla successione, esso fu dichiarato ereditario nella casa d'Austria. Nel 1737, essendo stato costituito un unico governo per la Lombardia, Mantova passò amministrativamente alle dipendenze di Milano; ma, dopo il trattato di Aquisgrana, Maria Teresa staccò nuovamente dallo stato di Milano il ducato di Mantova, il cui ordinamento amministrativo fu pubblicato il 15 marzo 1750. Attenuatesi le dolorose conseguenze delle guerre di successione svoltesi anche sul territorio mantovano, la popolazione godette in quella seconda metà del secolo d'un notevole benessere e la cultura rifiorì vivida. L'annessione definitiva di Mantova al regno lombardo-veneto e la scomparsa della denominazione di ducato si ebbe nel 1815.

Bibl.: Sull'argomento non sono finora comparsi studî organici. Esistono notizie sparse in lavori molteplici per i quali v. la bibl. in fine ai due volumi Torelli-Luzio, L'Archivio Gonzaga di Mantova, Mantova 1920-22.

La cartina del Ducato di Mantova è riprodotta dal Magini, Geografia d'Italia, tav. XV, ediz. Bologna 1620.