Lo studio dell'antichità classica nell'Ottocento - Introduzione

I Classici Ricciardi: Introduzioni (1962)

Lo studio dell'antichità classica nell'Ottocento – Introduzione

Piero Treves

Quando, conformemente al modulo sallustiano dei cronisti di Guglielmo il Conquistatore, Dino Compagni delineava l'animo, le fattezze, i propositi di messer Corso Donati a « somiglianza di Catellina romano»; o quando Niccolò Machiavelli sull'Agatocle di Diodoro Siculo modellava il proprio ritratto di Castruccio Castracani, l'antico era per essi, come per l'universalità degli scrittori medievali e rinascimentali, paradigma, sorgiva e mimesi: non studio, alterità, epperò indagine, ricerca, ricostruzione, cioè storia. E così anche fu, pur tramontata la fase scolasticamente imitatrice o tradizionalisticamente osservante della cultura umanistica, nei due secoli tra il pieno vigoreggiare della Controriforma e il declino dell'Illuminismo: quantunque né la Controriforma disdegnasse (anzi, nell'ambito educativo, nella società e nel costume non poco favorì) il classicismo paganeggiante superficialmente cristianizzato, né l'Illuminismo, nonostante impennate anti-storiche o gl'idoleggiamenti del buon selvaggio, si astenesse dall'assidere, sulle due rive dell'Atlantico parimenti, la propria esperienza storica, la sua propaganda, ideologia e cultura sur un fondamento d'ispirazione o di analogia greco-romana, nel che si rifrange la plurisecolare continuità ininterrotta d'una tradizione uniformemente europea.

Affermare che lo studio dell'antichità classica non sorse in Italia prima del secolo XIX, mentre per tutta Europa trionfava con i precorrimenti e gli svolgimenti della rivoluzione romantica, manifestamente non significa dimenticare o misconoscere i precedenti genetici, gli apporti fruttuosi ch'esso ricevette, e grazie ai quali concrebbe, nel germogliare e progredire dello storicismo.

Il magnanimo aforisma bruniano dell'antichità dei moderni, come affretta l'instaurazione del concetto di progresso storico, il progressivo ampliamento dell'esperienza e arricchimento della coscienza umana, implicitamente affretta altresì il sostituirsi del principio della distinzione al principio dell'imitazione. La sfiducia che anche uomini, ecclesiastici e maestri della scuola controriformistica, l'olivetano Secondo Lancellotti ad esempio, dimostrano più e più acuta nella presunta esemplarità degli storici, mitici e pseudostorici eroi greci e romani, in quanto la tradizione letteraria, e primamente «Livio che non erra», riescono e risultano inficiati ormai dagli «sfarfalloni» che vi discoprono il razionalismo e l'erudizione, prepara ed ispira non soltanto la novità della querelle, ma, e soprattutto, la consapevolezza dall'incertitude. Onde, se tutta la cultura secentesca, primamente la classicistica cultura francese dell'età di Luigi XIV, rispecchiando il dilemma e accogliendo le conseguenze del contrasto insito appunto nella querelle des anciens et des modernes, suggerisce dal Poussin al Racine la necessità e l'obbligo d'una reinterpretazione «modernistica», o almeno poeticamente nuova e adeguata, degli antichi simboli e miti, la cultura settecentesca è, invece, tutta dominata dall'incertitude programmatica del Beaufort, dal dubbio sulla verità ed efficacia della tradizione: e quivi s'incontrano tanto i critici di Livio, dal Newton al Beaufort, ai loro epigoni e divulgatori italiani Algarotti e Napione, quanto i critici d'Omero, i quali, se preludono con i precursori del Wolf al razionalismo filosofico e filologico, preludono col Vico al romanticismo.

Eppure, l'Italia che nel Cinquecento perdette con l'indipendenza politica anche il primato filologico e filosofico, onde gli uomini del Risorgimento sentiranno il dovere di rivendicare, col raccordo alle guise e alle scoperte rinascimentali, il nesso fra l'una e l'altra libertà, la giustificazione e la ragion d'essere del risveglio civile italiano, dell'antico e nuovo compito europeo della Penisola divenuta nazione, l'Italia classicistica e a-storica della Controriforma, nonostante il solitario miracolo della Scienza nuova, posposta dai contemporanei alla fittizia romanità del melodramma metastasiano, troppo poco può dirsi contribuisse, o quasi punto, alla restaurazione dell'antico, all'intelligenza critica e quindi allo studio dei classici. Né, soprattutto, avvertiva il rischio, la novità e l'avventura che tale studio portava seco, ed avrebbe imposto ben presto a tutta l'Europa. Meno arduo, d'altronde, il pericolo per quest'ultima, in quanto già vi si differenziavano, e differenziate si articolavano, le singole culture nazionali o prenazionali, capaci comunque d'ispirarsi ad una sorgiva anche linguisticamente diversa ormai dalla comune sorgiva pan-latinistica.

Sul tramonto del secolo XVIII l'Europa sostanzialmente possedeva due culture, o tradizioni culturali, strette in un dialettico vincolo di concordia discors, e di tanto più acuta o immediata ostilità reciproca, quanto più alle sue popolazioni, soprattutto se anglogermaniche, il classicismo, il retaggio classico si affigurava come la formula, o l'antico precorrimento, del predominio universalistico d'un'autocrazia, romanità pontificia, monarchia ancien régime o cesarismo rivoluzionario, di contro a cui sorgevano, o sarebbero insorti poco di poi, il principio franco-americano dell'universale uguaglianza dei diritti dell'uomo e il principio pre-ottocentesco della nazione. Lo studio dell'antichità classica favoriva, quindi, oltre l'Alpe, od era sollecitato a favorire, l'affermarsi della nuova cultura e dei nuovi princìpi; donde il filellenismo in funzione di filo-germanica antiromanità o d'appoggio alla rivendicazione in libertà di popoli schiavi; la discoverta delle guise in cui e dei limiti entro cui si credeva si articolasse la polis, arbitrariamente identificata ora con lo statino cantonal-federale alla svizzera ora con lo Stato night watchman del liberistico liberalismo britannico; e, soprattutto forse, la critica della tradizione, fossero le deche liviane o i poemi omerici, ad esempio e a preannunzio dell'ormai non remota critica biblica.

Questi, ch'erano i connotati e i propositi dello studio universalmente europeo dell'antichità classica sul chiudersi del secolo XVIII, non erano, ed ovviamente nemmeno potevano essere, i connotati e i propositi della contemporanea cultura italiana: la quale, unica nell'Occidente europeo sostanzialmente livellato e uniforme (almeno nelle apparenze o in superficie), era ben lungi ancora dal costituire una cultura nazionalmente individuata, epperò duplice e, in virtù appunto di questa sua medesima dualità, paragonabile alla cultura degli altri paesi. Alla vigilia dell'esperienza franco-napoleonica permaneva difatti, ed invece, nello stadio antiquato d'una cultura unitariamente classicistico-panlatinistica; e tanto più in quanto pareva mancarle, pur nell'ossequio al toscano e alla Crusca, un moderno strumento espressivo. Il retaggio pagano-vaticanesco restava perciò l'unico elemento comune, la sola fronda comune di nobiltà in un'Italia dove lo studio dell'antico non poteva iniziarsi che per un atto di consapevole ribellione, e avrebbe quindi acquistato ben tosto il carattere d'una sfida, non senza il ritardo d'uno o due secoli rispetto al resto d'Europa, nel passaggio dialettico dall'unicità alla dualità, dall'indifferenziato al differenziato, dall'universalismo alla nazione.

Non che nulla si fosse compiuto nella Penisola, massime durante la seconda metà del secolo XVIII, anche dai conterranei e contemporanei d'un Vico ignorato o incompreso. Non che l'Italia non avesse avuto nell'ambito dell'erudizione, troppo sovente identificata dai critici col mero medievalismo e pre-patriottismo dei Rerum muratoriani e delle sillogi affini, studiosi di fama e di statura meritamente europea, presenti e operanti nella circolazione internazionale degli uomini e delle idee, iniziatori, ad esempio, nell'arte epigrafica e nella ricerca antiquaria, dove tuttora splendono insigni i nomi del Maffei e del Corsini, del Morcelli e del Mazzocchi. Né sarà da negar valore come di simbolo a un'opera quale l'Etruria regalis, che, distesa a cavaliere dei secoli XVI e XVII da un umanista scozzese semi-profugo, fu edita nel secolo XVIII da un discendente di Michelangelo per il mecenatismo d'un giovane gentiluomo britannico, probabile primo amore della Contessa di Albany.

Ma il simbolo dell'Etruria regalis e l'implicita rivoluzione politico-storiografica della discoverta local-provinciale dell'etruscheria, più che nell'apporto specifico e nel metodo dell'indagine, più che nel principio della preferenza progressivamente accordata alla tradizione archeologico-antiquaria invece che alla sempre meno immune e creduta tradizione letteraria, valgono, e sono quindi a ritrovare, nell'individuazione tuttavia embrionica d'una storia e d'una civile nobiltà le quali prescindono da Roma e dal principato romano. Talvolta ne costituiscono anzi l'antitesi, e affrancano perciò da questa diuturna sudditanza, da quest'obbediente acquiescenza controriformistica, i monarcati pre-nazionali della Toscana lorenese o del Regno di Napoli, inaureolato di vestigia magno- greche e dagli splendori della risorta Pompei.

Roma, dunque, già è il simbolo d'un qualche cosa di cui non si ha più oltre bisogno, di cui tanto più si può adesso fare a meno, come si scopre che non erano romani ma etruschi i concittadini dei Medici e dell'Alighieri, né romani ma greci i sudditi del Borbone. Roma, anzi, sembra pericolosamente affigurarsi sullo sfondo dell'orizzonte storico repentinamente ampliato e schiarito quale un nemico, la potenza egemone che sovvertì, soggiogò e livellò, sostituendo l'unità uniforme dell'autocrazia cesarea e successivamente papistica alla molteplice varietà degli statini, o degli Stati, prefigurazioni, per i sovrani, dell'illuminato assolutismo settecentistico e, per i popoli ormai parzialmente acquisiti alle idee nuove, delle patrie in gestazione o in risveglio.

Eppure, l'antiquaria «autoctona» della Toscana e del Mezzogiorno (dove anche si apprestavano i primi avviamenti, e pochi se n'avvantaggiarono quanto il Goethe, alla discoverta della Grecia e del vero «greco», prima della rapinosità filellena di Lord Elgin) è ancor al di qua dello studio effettivo, cioè storico-critico, dell'antico. Ancor si raccorda all'erudizione lato sensu muratoriana più assai che all'instauratio magna, dal Winckelmann al Visconti, nella Roma di Pio VI, perché non si è tuttavia fatta problema, non è Angst e non è storia. Non si è calata nell'immediatezza della vita, acquistando consapevolezza di sé nell'individuazione propria. Né a codesta individuazione poteva in verità pervenire se non mediante il confronto antitetico con l'altro da sé. Donde l'errore dell'illusione «europeistica» dei contemporanei e di troppi critici posteriori, l'errore d'una presunta «nazionalità» dell'erudizione settecentesca italiana e d'una presunta sua identità sostanziale con l'erudizione straniera, quasi già non rispecchiasse, quest'ultima, un'intima od oramai manifesta dualità culturale, quasi non tradisse - anche, e in ispecie, nel «greco» Winckelmann - un diverso intendere e sentire, il clima storico del romanticismo, della rivoluzione europea. Né ad esso era, invece, ancor matura e pronta la comune degli antiquari nostrani, massime se vivessero in Piemonte, in Toscana o nel Mezzogiorno, dunque fuor dai centri del cosmopolitismo europeizzato, quali potenzialmente già erano la metropoli di papa Braschi e la prossima capitale della Repubblica cisalpina.

Solo col dilagare dell'esperienza romantica, solo all'avvento della Rivoluzione s'inizia, pertanto, in Italia lo studio storico dell'antico : quanto più romanticismo e rivoluzione, mentre per un verso affrettano e contrassegnano il potenziamento, la sublimazione e propagazione del Classico, per altro verso anche ne costituiscono la critica in atto mediante la liquidazione del classicismo, quando e nella misura in cui di quest'ultimo s'inorpelli, e sulle sue lustre o chimere si assida, il cesarismo bonapartesco.

Già ora e qui si delinea quindi il problema, tosto acutamente avvertito in Europa e gravissimo all'Italia per oltre un secolo della sua storia, il problema dell'ambivalenza del classicismo, in cui si assorbe e si annulla il problema, stranamente così a lungo dibattuto e in verità insussistente per noi, della battaglia fra «classici» e « romantici», la presunta dicotomia d'una cultura ormai dialetticamente duplice e differenziata in Europa e solo avviata in Italia a differenziarsi storicizzandosi.

L'«oziosa questione» del romanticismo, secondo l'amara e profonda formula suggerita dal Foscolo esule all'amico suo Hobhouse, tanto meno ha ragione di risorgere in sede storica, quanto più risulti chiaro l'impulso e l'avvantaggio che il romanticismo impresse universalmente agli studi classici e all'individuazione storico-critica dell'antico: quanto più, correlativamente, si avvertano la presenza ineliminabile, la duplice polarità (dunque, anche una volta, l'ambivalenza) del classicismo nella cultura italiana. La quale, pur nei maestri e corifei del cosiddetto «romanticismo», Leopardi, per esempio, Manzoni e Mazzini, fu, in radice, sempre e soltanto «classica».

Il problema che s'impone allo storico non è, perciò, la bipartizione geografico-cronologica delle aree culturali della Penisola: «romantica» la Lombardia manzoniana e del «Conciliatore», nonostante l'esempio eminente e la tenace battaglia del vecchio Monti; romantico-hegeliano il Mezzogiorno dei Begriffi partenopei, nonostante il purismo del Puoti e il cattolicesimo giobertiano dell'abate Fornari; «classiche» la Toscana, i Ducati e le terre pontificie, all'insegna del Giordani, del Betti e della Crusca; diviso il Veneto. E neanche è l'abusato paradosso dell'in verità troppo facile denegazione dell'esistenza d'un romanticismo italiano, o almeno e solo «toscano». È unicamente ed invece la determinazione puntuale delle guise o fasi d'un processo di varia connotazione, colorazione, attività e finalità d'una cultura, la quale, universalmente «classica», diversa però si atteggia e si esplica, travalicando a «romanticismo» o scadendo a fossilizzato «classicismo», secondo che l'esperienza del reale, il senso e la coscienza della storia, la problematica della vita, le implicazioni o conseguenze politico-pratiche d'un gusto e d'un sentire solo apparentemente eruditi e libreschi sorreggano e ispirino, governino e guidino ad uno e altro porto i singoli studiosi e scrittori.

Non, dunque, cultura classica e cultura romantica, né partizioni regionalistiche od esclusivismi paesani, quasi che la retrograda Toscanina degli Amici Pedanti già non avesse suggerito a pensosi suoi figli come il Capponi e il Centofanti l'attualissima rimeditazione romantico-europea dei problemi della tragedia greca e dell'antico teatro: ma cultura «storica» e, in quanto storica, moderna o impegnata - ed erudizione a-storica, non adeguata, non impegnata, o meramente impegnata nella bisogna impossibile dell'antimoderne, nello sterile tentativo di contrastare l'avvento d'una cultura, per cui sola potesse nascere, e in cui sola potesse affermarsi, la nuova patria italiana.

La riprova della verità di quest'asserzione, la riprova correlativa del fatto, inevitabile alle soglie dell'altro secolo e fin allora evitato, della nascita e instaurazione d'un autonomo, proprio ed auto-sufficiente «genere letterario», quale fu lo studio dell'antichità classica, si ravvisa nella sostanziale identità metodica e ideologica di esso studio, non avulso più oltre dalla realtà quotidiana e da ogni altra attività storiografica: nell'identità sostanziale dei mezzi adoperati e dei fini prefissi cui mirò durante il Risorgimento la nostra cultura. Questa ricercò nel passato gli schemi, le guise, le scelte del presente: donde anche l'avversione all'antico nella misura in cui lo s'immaginasse o paventasse ostile all'avvento dello Stato italiano, antitetico agli svolgimenti ed avanzamenti della dottrina e coscienza della nazionalità. Ma sottomise il passato, il retaggio storico-letterario della Penisola al più severo scrutinio, per renderlo viemmeglio adeguato alle esigenze attuali, viemmeglio adatto a soddisfare un sempre maggior numero di cittadini, di esso retaggio progressivamente e più sempre beneficiari e partecipi.

Né si procedette altrimenti nello sceveramento, nel giudizio, nella tecnica dei mezzi intellettivi o espressivi, nella scelta dei testi, degli autori e dei problemi. Se è vero che per tutto il secolo fu aspro e vivo come un dovere civile l'assillo di quel problema della lingua che troppi ridussero allora e di poi a mero problema accademico, a una querelle di letterati pro e contro il toscano, il fiorentino e la Crusca; se è vero che a quel manzoniano problema si affiancò, per opera precipua del Bonghi e di vari suoi amici tardo- neoguelfi, il problema del perché la letteratura italiana non fosse popolare in Italia (fin quando non lo si disse risolto, o invalidato con l'opera propria, dal neo-manzoniano e socialista De Amicis); se è vero che dell'uno e dell'altro problema fu elemento essenziale il divisamento popolaresco e realistico di tanta parte della nostra ottocentesca letteratura, conforme alle supreme finalità paradigmatiche della battaglia romantica sul «foglio azzurro» del «Conciliatore»; altrettanto è vero, però, che, sia pur grazie all'attività d'individui personalmente non certo inclini a condividere le ideologie, e tanto meno il destino, dei romantici, finiti per la più parte in esilio o allo Spielberg, analoghi propositi di popolarismo e realismo «classico» governarono lo studio dell'antico in chiave non propriamente letteraria, ma epigrafico-papirologica: una chiave che rifiutavano come indegna del proprio letteratume gli accademici vaticaneschi dell'altro secolo e gli estetistici dannunzianeggianti del nostro.

Nemmeno può valer da argomento contro l'identità del processo evolutivo dello studio dell'antichità classica e della cultura tout court l'apparente divergere dell'una e dell'altra storia, non appena si fu conseguita l'unità nazionale. Perché l'età carducciana rispecchia bensì, con sempre maggiori appropriazioni o concessioni di «realismo romantico » da parte di Enotrio, il programma d'una medietas etico-stilistica, insufficiente riparo tuttavia alle prossime rapinosità del decadentismo; ma nell'ambito universo degli studi storici rapido si avverte il declino per il venir meno degli alti problemi e propositi, fin quando non si registri una felice ripresa di «concretismo» grazie alla nuova metodica della sociologia, dell'economia, del materialismo storico. Donde anche una restaurazione dello studio dell'antichità classica a cavaliere fra i due secoli: per una ripresa e di neoguelfismo storiografico e di «popolarismo» che, limitato in un primo tempo alla materiale od accidentale strumentalità papirologica, divenne successivamente guisa efficacissima d'intellezione storica, quando i singoli mezzi pratici della ricerca antiquaria vennero discriminatamente sommessi all'organica ricostruzione storicistica.

Questo passaggio dialettico, questa formula senecana («quae philosophia fuit, facta philologia est») programmaticamente ribadita ed animosamente rovesciata dal Nietzsche (« philosophia facta est quae philologia fuit») a coronamento della sua celebre prolusione nella Basilea burckhardtiana del '69, governò per tutto il secolo del Risorgimento come il volgere della nostra cultura, così anche, e in ispecie, lo studio dell'antichità classica. Tanto più sostanziale, quindi, lo stacco e lo iato, quanto meno esso riuscì e meno può riuscir tuttavia manifesto nelle apparenze formali, per la continuità estrinseca del nuovo lavoro, proseguito lungo il tracciato e conforme ai «generi» del secolo XVIII.

Il romanzo pedagogico-erudito a sfondo antiquario, che gl'illustri precedenti del Fénelon e del Barthélemy avevano divulgato, e radicato anzi, fra noi (contemporaneamente a quell'analoga sorta di romanzo politico-pedagogico, intriso di pubblicistica immediata, che furono gli Entretiens de Phocion d'un altro illuministico abate, il Mably), non solo, infatti, continuò a vivere, e poi a grigiamente vivacchiare, oltre la breve fiammata dei volumi del Verri, fino alla polemica resurrezione massonico-garibaldina ribellistica e galante, imperando il positivismo «lucreziano nella temperie napoleonica, assurse repentino a singolarissim. efficacia storiografico-educatrice col Platone in Italia di Vincenzo Cuoco.

L'omerismo e gli studi omerici, la stessa critica del Wolf rinverdivano nell'Italia tuttavia immemore del Vico, grazie all'estrosità ardita e alle dotte relazioni straniere del Cesarotti; mentre dall'anglo-germanica Gottinga lo Heyne suggeriva ai propri ammirati lettori italiani (fra essi un Visconti e un Foscolo) non pure una diversa lettura di Virgilio, ma nuovo avviamento ad intendere tanto Demostene, politicizzato e attualizzato polemicamente ben prima del Niebuhr, quanto l'età ellenistica, almeno la poesia alessandrina nell'aulica temperie dei Tolemei.

La papirologia, prima di favorire agli inizi e sul finire del secolo XIX, con le scoperte (rispettivamente) del Peyron e del Vitelli, il «popolarismo» e realismo della nostra cultura, era nata con la resurrezione di Ercolano e Pompei, massime con i fortunati ritrovamenti fra le rovine di quella villa che il Comparetti vittoriosamente poi rivendicò alla proprietà di Lucio Calpurnio Pisone e alla dimora del filosofo epicureo Filodemo. Archeologia, etruscheria, catalogazione antiquaria e ricostruzione piranesiana contribuivano gagliardamente al doppio mito romano ed anti-romano; mentre il pirronismo storiografico e il quietismo illuministico, Gibbon aidant e il successo dell'opera sua anche presso deprecanti cattolici della Beozia sabauda come il Napione, diffondevano la sfiducia nel racconto tradizionale e la fiducia nella «felicità» dei monarcati, affrancatisi dall'insania mutile delle conquiste (nonostante le tre partizioni della Polonia) e apparentemente guarentiti nella propria esistenza dalla razionalità dell'equilibrio.

Tutti i motivi e temi cui diede sviluppo e vigore il secolo XIX si direbbe sieno, dunque, compresenti e operanti nell'erudizione, nel costume, nel sentire del Settecento: che anche vide in Roma, e poi vastamente diffuso da Roma, il «neo-classico» del Canova e del Valadier. Quasi una moda dell'antico, una foggia o una maschera, come in troppe odi arcadico-pariniane, o nel ritratto che, non senza un più cupo ed intimo né forse interamente consapevole significato, il Romney dipinse di Lady Hamilton. Ma, come i precedenti, i precursori e le fonti di qual si voglia realtà storica od

arte non valgono e bastano mai a spiegare, a scomporre, j meno a sostituire, l'individuum ineffabile, l'irripetibilità del- .aduto e della creazione, così è vano ricercare se non appunto r categorie o generi letterari qual si voglia continuità intrinseca ira l'erudizione antiquaria del Settecento e lo studio dell'antichità classica nel secolo successivo.

Siffatta continuità ben si avverte in Germania e oltre Manica (donde altresì una costanza tematica e il trapasso dialettico, nello studio dell'antico, dalla cultura alla poesia, dagli Elgin Marbles al Keats, dal Wolf e dal Boeckh al Goethe e allo Hölderlin). Difetta, invece, radicalmente in Italia: dove un abisso divide i due secoli e le due età. Un abisso o un miracolo: la Rivoluzione. E non la Rivoluzione francese in se stessa, ma quanto vi s'incarna, e si concreta nella temperie dell'epoca, nell'immagine d'un Eroe, nella resurrezione del mito romano ed omerico.

Ventisettenne comandante della campagna d'Italia, consapevole rinnova la gesta dell'invasione annibalica, e più che non riuscisse al Cartaginese chiama le popolazioni della Penisola alla rivolta contro la Roma pontificia e i suoi temporalistici difensori. Tre anni di poi, comandante della spedizione d'Egitto e affascinato dal miraggio indiano, sogna e rinnova nei campi medesimi delle falangi macedoniche la gloria di Alessandro, rischiudendo alla civiltà la metropoli da lui fondata. Tre lustri d'impero; un lustro in cui storicizzare, da prigioniero in Sant'Elena, il supplizio di Prometeo sulla rupe del Caucaso, la cattività di Filottete sullo scoglio di Lemno. E su Napoleone morto il primo dei suoi storici a tacitiano epicedio ripeterà il grido stupito degl'innumerevoli: «Nous avons vu César ...».

Commisurato di contro allo sfondo dell'alto cielo sereno, dopo la giornata e pur nell'aureola di Austerlitz, ben poteva l'Imperatore immeschinirsi e scadere dinanzi al principe Andrea. Ma commisurato di contro allo sfondo d'un polveroso scenario metastasiano, contro gli scolastici idoleggiamenti dell'astratto eroe plutarcheo, qual era venuta figurando la classicistica pedagogia gesuitica o generalmente controriformistica, e delineando la musica di Haendel e la pittura del Tiepolo, Bonaparte non poteva non imporre, o fulgurare subitamente, la rivelazione d'una grandezza sognata forse nei secoli, ma non più incarnatasi dopo Alessandro e Giulio Cesare. Quanto si era fin allora insegnato nelle accademie o fantasticato sui libri o inseguito sui teatri e nelle tele, diveniva improvvisamente la dimensione della storia attuale e la misura della storia trascorsa.

«Noi stessi che siam figli di questo secolo», e più quando lo splendore dell'epopea ebbe ceduto alla grigia tristezza e alla nostalgia lancinante della Restaurazione, gli uomini venuti alla vita col Bonaparte sentirono batter più rapido il ritmo del tempo, e ad esso accordarsi il ritmo, la rinata attualità del passato. Napoleone, perciò, se rimase fondatore ciclopico alle soglie del Risorgimento, pur nel giudizio di suoi avversari o di sue vittime, Cesare Balbo ad esempio; se nel bronzo braidense del Canova o nell'arco marmoreo del Cagnola ispirò all'azione, all'avvenire italiano anche moderati ed ecclesiastici, come il toscano abate Arcangeli, più ancora e più immediatamente restò iniziatore e rivelatore nella storia degli studi classici nostri: i quali, appunto da questa lezione congiunta di attuale e di antico, acquistarono quasi d'un subito l'immediatezza, la concretezza e corpulenza proprie non dell'erudizione o dell'antiquaria, ma dell'efficace storiografia.

Certo la Germania, assuefatta da ormai mezzo secolo a inseguir nei miti, sulla scena e nella poesia più che propriamente nella storia immagini di grandezza, dagli eroi di Shakespeare ai Ràuber di Schiller, agli agitatori e rivoluzionari assurti al martirio e a simbolo di libertà nei drammi del Goethe e nelle musiche beethoveniane, poco abbisognava del «miracolo» napoleonico per farsene stregua e strumento all'esegesi dell'antico, sebbene il Niebuhr e il Jacobs traducessero Demostene nei giorni di Jena e trasferissero così esemplarmente l'antica oratoria dall'ambito dell'ornata retorica all'ambito dell'ideologia e della politica. Certo l'Inghilterra, abituatasi a derider col Gibbon le follie sanguinose della decadenza imperiale e ad assidere la propria esperienza di governo sulla tradizione greco-romana, poteva prescindere dalla lezione bonapartesca, se non per derivarne a contrario col Mitford la convenienza e la convinzione d'una storia della grecità in termini di «torysmo» filospartano (donde si sarebbe tosto sviluppata ad antitesi la storiografia whig dei Macaulay e dei Grote).

Nella stessa Francia, però, dove non impallidivano, e più concreti anzi venivano facendosi adesso, i ricordi classicistici del monarcato di Luigi XIV, mentre la spedizione d'Egitto apriva metodi insospettati di ricerca erudita, il bonapartismo e l'anti-bonapartismo trapassavano, per un correlativo processo dialettico, da guise pratiche a guise storiografiche, e dalla storiografia e dalla storia riconducevano alla pratica e alla politica, dall'affermarsi dell'uno al crollo dell'altro impero napoleonico articolandosi nel contrasto categoriale fra cesarismo e tachismo. Militavano all'insegna del cesarismo i fautori o i beneficati del primo e del terzo Napoleone (fino al Duruy e al Mérimée); militavano all'insegna del tachismo gli oppositori, massimo e primo fra questi, né solo per l'articolo del luglio 1807, che provocò la soppressione e l'alienazione del «Mercure», o per la refutazione della «felicità» antoniniana, il visconte di Chateaubriand.

Tutt'altro, invece, il panorama dell'Italia «classicistica», benché si dividesse tosto anch'essa fra cesariani e tachisti: perché l'esperienza napoleonica, se oltr'Alpe meramente affrettò il maturarsi e affermarsi irrevocabile della cultura nazionale, nella Penisola ne segnò soltanto la genesi, cioè la differenziazione iniziale dal supra-nazionale ed universale umanesimo. Né alla differenziazione, qui pure altrimenti che oltr'Alpe, mancarono di contribuire capitalmente gli stessi scrittori bonaparteschi. Bastino a riprova i nomi del Visconti e del Monti, i quali, romani entrambi di adozione e di beneficio pontificale, si trovarono però a parteggiare contro la monarchia vaticana e conobbero entrambi l'esilio, donde il Monti ritornò dopo Marengo, ma donde non volle più ritornare il Visconti; e che, trasferendo nell'antico l'esperienza napoleonica, interpretando al lume di quest'ultima la tradizione greco-romana, resuscitarono Callimaco, gli eroi dell'una e dell'altra Iconographie, la simbologia e la realtà del monarcato ellenistico, tosto divulgate dal Foscolo nel commentario alla Chioma di Berenice. Né sarà caso, come non fu mera piacenteria di letterati adulatori, che una medesima generazione desse all'Italia, con l'Omero bodoniano di Luigi Lamberti e col discorso pavese del Butturini - generosa rivendicazione del primitivo e passionale dell'Iliade, quasi a restaurare così l'unità e l'unica legge della poesia contro il perbenismo degli accademici e la dicotomia wertheriana -, il volgarizzamento montiano (per la compartecipe collaborazione del Lamberti, appunto, e del Visconti, del Mustoxidi e del Lampredi e d'altri minori), l'esperimento del Foscolo e l'Odissea del Pindemonte: a non ricordare i tentativi, meritamente dimenticati, della concorrenza o dell'invidia letteraria, i quali, tuttavia, non sarebbero stati né concepibili né intrapresi, se, oltre l'esempio ambivalente del Cesarotti, il clima storico non fosse stato appunto favorevole ad un'instaurazione vernacola dell'omerismo.

« Mirabile . . . rinnovatore », non pure o non tanto « di forme e di animazioni liriche», qual ebbe a esaltarlo il vecchio Carducci, ma d'interessi e di attività culturali, Vincenzo Monti risvegliava all'immediatezza e alla storicizzazione dell'umanesimo, oltre la Milano del Regno italico, tutta, direbbesi, l'Italia superiore. Mentre a lui rivolgeva come a patrono e a maestro le proprie canzoni patriottiche il giovinetto Leopardi, il vecchio poeta, infatti, grazie altresì alla sua stretta consanguineità col Perticari, ne suscitava agli studi conterranei e congiunti, favoriva gli esordi carlo-albertini del Borghesi, spronava Francesco Cassi alla versione di Lucano. Il quale per essa divenne, più forse d'ogni altro scrittore latino, caro e presente alla memoria, allo studio, all'emula venerazione, quasi un antico Mameli, delle generazioni risorgimentali: fino al Garibaldi che ordinò invano per lui si rinnovasse a Caprera il rogo di Pompeo.

Né solamente col patriottismo cesariano e col cesarismo «democratico» il Monti apriva le vie dell'avvenire, preludendo agli anti-nazionalistici apologeti e profeti dell'« incivilimento », correlativamente operato in Italia e nell'Europa romanizzata dal municipio-città e dall'Impero-civiltà, siccome avrebbero poco di poi sostenuto il Romagnosi e il fedelmente montiano Carlo Cattaneo. Perché l'aulico, l'omerico, il cesareo cavalier Vincenzo, le cui strofette ottonarie Per la liberazione d'Italia, mentre anticipano le nostalgie, il ritorno struggente degl'esuli, anche provvedono sur un diverso piano a refutare l'anti-bonapartismo del «mito» cartaginese, insieme propagava un altro mito politico in funzione «classica» e di storia antica, un mito almeno potenzialmente di opposizione, con la tragedia del Caio Gracco, la quale, se prelude alla Francesca del Pellico per la comune esaltazione italiana, prelude soprattutto al neoguelfismo per l'esaltazione democratico-nazionale dell'eroiche vittime della nobilitas. Il dramma dei Pittagorici conserta, frattanto, e celebra in uno l'autoctonismo meridionale, divulgato contemporaneamente in Milano dal Platone del Cuoco, e il martirio italiano dei napoletani del '99.

Nell'instaurazione bonapartesca del Regno italico dunque convergono e si raccolgono le varie guise o idee-forza che da mezzo secolo almeno travagliavano, e adesso risvegliano e creano moderna ed europea, la Penisola. Onde son ora, o hanno la taccia, di conformisti, scrittori cui darà fama di oppositori l'avverso clima della Restaurazione: tranne forse (e anch'egli, tuttavia, a suo modo uomo nuovo, non foss'altro perché destinato, nella sua liberale anglofilia, a prossimo ed amarissimo disinganno), tranne l'anti- romano Vittorio Barzoni.

In Venezia, lavorata dal giacobinismo dei giovani e ciecamente decline all'onta di Campoformio, ma ancor capace di donare all'Italia, al rigoglio europeo degli studi italiani, pleiade non indegna di coronare le tradizioni umanistiche della Serenissima, gli ultimi suoi figli dell'altra sponda adriatica, i greci Foscolo e Mustoxidi, Mario Pieri e De Tipaldo, cui tosto si affiancheranno dalla Dalmazia limitrofa il Paravia, il Tommaseo e il De Leva, in questa Venezia il cittadino di terraferma Vittorio Barzoni crea con feconda intuizione storiografica l’histoire partiale, l'esegesi allegorica e pur intrinsecamente storica della conquista romana della Grecia. Al mito romano e « continentale » del Bonaparte e del blocco egli perciò contrappone il mito marittimo-cartaginese, in cui comunica, e del quale per certa parte fu vittima, un altro esule, e questi superstite alle forche borboniche, il Lomonaco, chiamato a incarnare, per suprema protesta contro le angherie dell'ambiente e le persecuzioni della polizia, quel neo-storico tachismo d'opposizione che rivendica e testimonia, di contro alla tirannide apparentemente trionfante, la libertà inviolabile del suicidio. Iacopo Ortis è testé nato, ma è felicemente remoto ancora il suicidio di Francesco Lomonaco nei rapidi e freschi gorghi del Ticino ; e già il Foscolo alla vigilia del secolo, dopo aver minacciato di morte il Barzoni e cantato « Bonaparte liberatore», nella lettera proemiale alla dedicatoria della celebre « oda » promette magnanimo, più che non propriamente auguri o minacci all'eroe: «Avrà il nostro secolo un Tacito . . .».

Quest'ambivalente classicismo, tacitiano ed omerico, di consenso e d'opposizione, di restaurazione storica e d'inveramento polemico-pratico dell'antico, si direbbe che il Foscolo sia tra i primi a commettere ai propri scritti, e a vivere con drammatica dialettica nell'opera sua. Il Foscolo omerico-bonapartesco detta il commento alla Chioma di Berenice. traduce l'Iliade, medita sui criteri di volgarizzamento e sui problemi dell'esegesi storica di Omero; mentre il Foscolo tacitiano, il Foscolo affrancatosi dal conformismo controriformistico e dall'obbligato spiritualismo ecclesiastico, idoleggia, comprende, diffonde Lucrezio (quasi a remoto preludio delle fortune che il poeta epicureo conobbe nell'Italia positivistica), suggerisce, ancor prima dell'«istituzione» dell'esilio, l'istituzione o la dignità del suicidio; commisura il rapporto etico-storico fra libertà e servitù, fazioni ed impero, lo stato e le sette, avanti di convertirsi per disperazione quasi a neoguelfo e dettar nei discorsi Della servitù dell'Italia l'infelice sentenza, che al foscoliano Cattaneo parve giustamente «vanissima»: doversi, per fare l'Italia, disfare le sette; concretizza sullo sfondo della Penisola fra il 1813 e il '15 le vicissitudini di Roma e di Atene, il soggiacere delle poleis discordi all'egemonia macedonica, della nobilitas disarmata al combattentismo e della libertas all'autocrazia.

Troppo era il Foscolo, tuttavia, figlio e soldato dell'Italia napoleonica, pur nella costantemente osservata memoria della piccola patria zacintia, pur nella pietas di Venezia trafficata a Campoformio, per abbandonarsi a melanconie rievocatrici o per indulgere ad esaltazioni fra polemiche e nostalgiche d'un autoctono provincialismo e regionalismo settecentesco a lui estranei, quantunque assurti frattanto a potenziale patriottismo italiano. Né quindi stupisce che il Foscolo non dimostrasse né interesse né comprensione, e nemmeno equità, per la massima rivendicazione dell'autoctonismo e dello statino nell'Italia del tempo: i quattro volumi di Giuseppe Micali. Restano essi, però, a rappresentar la più solenne conferma dell'ambivalenza del classicismo; a fornire la prova irrefragabile della trasformazione rivoluzionaria cui l'esperienza bonapartesca sottopose gli studiosi e gli studi nostrani.

Perché l'opera del Micali, concepita nell'ultimo decennio del secolo XVIII durante un pellegrinaggio meridionalistico e in collaborazione ideale, in erudito scambio e commercio, con Melchiorre Delfico, se nel 1810 meritò il premio della restaurata Accademia fiorentina come opera di scrittore non politico e non impegnato, o procacciante addirittura e ossequente, parve non solo poco di poi agli uomini della Restaurazione, ma subito alla critica del non certo « classicistico » né bonapartesco Sismondi, un libro d'opposizione. O, più propriamente, di consapevole distruzione del mito: la condanna dei lauri e delle conquiste di Roma per la rivendicazione civile delle minuscole comunità italiche, matrici dell'antica libertà repubblicana e della nuova patria non libera.

Non par si convertisse il Micali al liberalismo e all'opposizione pur nel successo politico-librario dell'opera sua, le cui varie ristampe accompagnarono costanti l'ardua ascesa italiana, fino all'edizione della Tipografia elvetica di Capolago e alla torinese del Pomba nei giorni alcionici del «decennio» cavouriano. E questo spiega, probabilmente, perché, nonostante i meriti dello storiografo e le fortune dell'«uomo europeo», gli si dimostrassero freddi sempre ed ostili i maggiori maestri del Risorgimento. Ma quanto a trasformare in istorici gli antiquari di per sé sola contribuisse la storia che Napoleone faceva sotto i loro occhi, quant'immediatezza e intelligenza di realtà ispiri, dunque, e pervada l'attività anche meramente erudita nel primo decennio del secolo, insegnano bastantemente l'esempio del Micali, appunto, e quello dell'amico suo Delfico, il quale, dopo avere trasceso il dotto provincialismo numismatico tanto col redigere la storia della Repubblica di San Marino quanto col negare per attardato settecentismo la concepibilità e l'utilità della storia, indotto dalle vicissitudini bonapartesche a rimeditarne la lezione e a desumerne luce per il presente o per l'immediato avvenire, si consociava nel 1814 con i congiurati torinesi, auspicando operosamente con essi l'avvento d'un Impero romano degl'Italiani, d'uno stato superatore e contemperatore delle municipali rivalità e gelosie degli statini, sotto l'egida e nella persona di Napoleone.

I critici, soprattutto se forestieri, del Micali, anche l'anti-napoleonico Niebuhr, anche il liberale Stendhal, anche il costituzionalistico tosco-renano von Reumont, ben potevano contestare i fondamenti filologici e la stessa metodica o legittimità critica d'un'opera che malamente sostituiva all'insufficienza partigiana e non fededegna della tradizione letteraria, ligia ex hypothesi ai vincitori, l'insufficienza forse maggiore d'una tradizione antiquaria lacunosa, e soprattutto manchevole nell'elaborazione spesso fantastica od avventata dell'antiquario livornese. Ben potevano vederci la mera appendice proto-ottocentesca delle bizzarrie o apologie provinciali del secolo antecedente (destinate a durare, massime nel Mezzogiorno di Cataldo Jannelli e consorti, per una gran parte del successivo): né altrimenti giudicarono anche severi conterranei del Micali, ad esempio il Capponi. L'Italia micaliana, peraltro, immetteva nel dibattito ormai patriottico o pre-patriottico delle «origini italiche», perciò destinato a protrarsi fino alla vigilia del '48 e a concludersi con le critiche di due artefici del Risorgimento quali Cesare Balbo e il terzogenito di Gabrio Casati, un elemento non di scienza pur ma di vita, di attualità e di pietas, senza cui non è concepibile l'attività storiografica. Insieme, e quasi a preludio della cosiddetta « storiografia dei vinti », resa poco di poi celebre universalmente in Europa dal Sismondi e dai Thierry, dalla musa e dalla meditazione di Alessandro Manzoni, s'intravvedevano, implicitamente si denunziavano dal Micali negli statini della Penisola, gli antecedenti d'una nobiltà non d'accatto, le connessioni con l'Italia medievale e municipale: quasi a suggerir l'antitesi tematica dell'età della Restaurazione, il conflitto fra il romanesimo classicistico di marca vaticanesca e l'anti-romanesimo dei neoguelfi, destinato a durare e a ripercuotersi, sotto le maschere o modificazioni successive del nazionalismo, del filologismo grecizzante e del neopaganesimo laicistico, per tutto il secolo XIX.

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La Restaurazione e il neoguelfismo, se nella cronologia e ideologia politica dell'Ottocento italiano rappresentano due fasi susseguentisi, e il neoguelfismo fu, anzi, l'irreversibile superamento della Restaurazione, in quanto condizionava l'assolutezza del diritto divino dei principi affiancandovi, collaboratore o giudice, il diritto divino dei popoli, nelle articolazioni della storia culturale invece si alternano: segnano le due facce correlative, coeve d'una stessa temperie. Altrimenti da oltr'Alpe, soprattutto dalla Francia borbonica, la quale fra nostalgie bonapartistiche, messianesimo popolare, generosi od imperialistici programmi e proclami d'iniziativa, cova le giornate di Luglio e matura l'avvento d'una filosofia e d'una storiografia tanto più, almeno potenzialmente, sovvertitrici, quanto più intrise di romanticismo idealistico, la Restaurazione in Italia non fu, propriamente, un fenomeno culturale, ma un mero fatto politico-diplomatico. Gli uomini della Restaurazione furono, invero, culturalmente degli oppositori, ancor prima di agire da oppositori politici: o fecero la propria educazione di « conformisti » in atmosfera napoleonica, in cui si aprirono gli stessi rappresentanti migliori dell'accademia romana, il Mai, per esempio, il Betti e il Borghesi.

Sul piano della pura «tecnica» culturale non si nega per certo che la Restaurazione vi abbia contribuito parecchio, forse più della stessa era napoleonica (non fossero la decifrazione dei geroglifici e la voga dell'egittologia; non fosse, nell'Italia bonapartesca, la ripresa scavistico-archeologica, soprattutto in Roma e a Pompei). L'uniformità educativa, l'adeguamento e livellamento scolastico che l'Austria importò ed impose nel Lombardo-Veneto, favorirono una tal quale circolazione di libri e di testi, se non di idee, riconosciuta non senza qualche orgoglio municipale-borghese da Carlo Cattaneo e non senza qualche compiacimento filologico, sul finire del secolo, dal Vitelli. Cominciarono a gravitar su Milano gli uomini di frontiera, tra i quali furono bensì Zajotti e Salvotti, ma pur un medico triestino, il Kohen, primo volgarizzatore integrale di Polibio. S'intrapresero versioni, col favore anche di taluni funzionari absburgici, d'opere storiografiche tedesche: oltre gli scritti dell'uno e dell'altro Schlegel, il Sommario del Leo, quasi a contrappeso della storiografia dei Thierry e del Sismondi, sulle cui Républiques italiennes il Giordani sperò indarno volesse prima del '21 fondar la propria educazione politico-liberale il principe di Carignano. Né i dominatori mancarono di dar prova d'un interessato ma non spregevole mecenatismo. Consensi ufficiali non difettarono al romagnolo Antonio Padovani, insegnante all'Università di Pavia, quando mise mano all'edizione, filologicamente riprovevole ma singolarmente attenta ai problemi economico-storiografici, dei Poroi di Senofonte; né al veneto Giovanni Petrettini, che, successore del Mabil sulla cattedra di Padova e discepolo dell'«ottimo Ottofredo Müller», ebbe l'agio di stampare a Vienna nel '26 un volume di Papiri greco-egizi (quantunque tosto superato dalle ben più esperte cure del Peyron). L'editore Sonzogno, benché infelicemente assistito da troppi collaboratori, lanciò l'addirittura avventato programma d'una collezione di storici, retori e moralisti greci tradotti, cui lavorò anche il Tommaseo, recensente così scoperto e «attuale» d'uno dei volumi della collana, il Pausania di Sebastiano Ciampi, da fornire alla polizia lorenese il pretesto alla soppressione dell'«Antologia».

Solo al periodico del Vieusseux restò, d'altronde, inferiore (dopo il rapido, glorioso tramonto del «foglio azzurro»), e fu di gran lunga più aperta, europea e moderna d'ogni altra rivista della Penisola, per congiunto merito dell'Acerbi e dello Zajotti, la «Biblioteca Italiana», di cui divenne tosto magna pars l'austriacante, ma punto incolto e adeguatamente informato (anche nella critica al Niebuhr),

Francesco Ambrosoli. Né si vuol negare il buon lavoro di modesta erudizione provinciale che perseguirono in Modena le «Memorie» di monsignor Cavedoni o in Roma il «Giornale Arcadico», immeritatamente avvantaggiato dalle scoperte numismatico-epigrafiche del Borghesi e dai fortunati ritrovamenti del Mai. Recensente severo di quest'ultimo sulla «Biblioteca Italiana», non senza stuzzicare i nazionalistici risentimenti del giovanissimo (e poi ravveduto) Leopardi, l'abate Amedeo Peyron profittava, dal canto proprio, del modesto mecenatismo di Carlo Felice e della protezione sovrana all'egittologo Bernardino Drovetti, per raccogliere nel Regio Museo Egizio e stampar nelle «Memorie» dell'Accademia delle Scienze i papiri torinesi: i quali, per il loro contenuto non letterario e la valentia tecnico-storiografica dell'editore (prossimo interprete e volgarizzator di Tucidide), avrebbero aperto nell'Europa del Droysen, e potevano aprirlo in Italia, un nuovo cammino, e più consono, all'intelligenza storica dell'antico.

Eppure, se a livello tecnico l'Italia sembrava in grado di gareggiar con l'Europa o addirittura d'esserle a paro - donde nel '34 il tono di certe lettere parigine del Tommaseo al De Tipaldo e al Centofanti, il suo temerario confronto fra «la letteratura d'oggidì» e «la napoleonica» ex hypothesi ad essa inferiore -; se nella comune venerazione per l'opera e la memoria del Niebuhr comunicavano l'Arnold e il Peyron; se i dotti franco- germanici, massime dopo la celebre commendatio dell'edizione niebuhriana di Merobaude, ancor avanti gli sforzi amichevoli e sinceramente ammiranti di Luigi de Sinner, si compiacevano di avere compagno nella critica testuale il Leopardi (Platone, Dionisio, Eusebio, Cicerone, Plotino); nulla, tuttavia, se non appunto e soltanto sul piano tecnico diede nell'Italia della Restaurazione lo studio dell'antichità classica: o, meramente, a contrario. Nella misura che in esso i nostrali videro uno strumento lato sensu politico, ed avvertirono il rapporto d'antitesi fra esso e la cultura italiana.

L'Impero romano d'Italia, che i congiurati del '14 avevano vagheggiato a salvaguardia d'indipendenza mercé l'instaurazione demiurgica d'una sintesi autoritaria di statini fin allora discordi, fu, invero, per gli uomini della Restaurazione la misura del programma da attuare o la figurazione del nemico da abbattere. Quanto più la rinascita dello spiritualismo cattolicheggiante guarentiva alla Roma di papa Chiaramonti e del cardinale Consalvi una posizione di privilegio e l'orgoglio di accogliere per almeno un decennio il meglio dell'intelligentsia, della stessa intelligentsia liberale, europea - benché rifiutasse costantemente di mettervi piede Alessandro Manzoni -, quanto più le ricerche archeologiche del Fea e i palinsesti del Mai, quindi elevato come per premio alla porpora, obbligavano i dotti d'Europa a un atteggiamento fra di sudditanza e di ossequio, e necessariamente dischiusero allo «scopritor famoso» le porte delle maggiori accademie, tanto più l'erudizione vati- canesca venne elaborando, quasi fiutasse il pericolo dello storicismo romantico, e successivamente ad osteggiare la critica niebuhriana e le paventate novità manzoniane, la tesi dell'unitaria dualità degl’Imperi, della provvidenziale continuità storica dal solco di Romolo all'impero di Augusto e dall'Incarnazione del Cristo alla Restaurazione di Pio VII.

Era così teoricamente confermata la realtà e legittimità del potere pontificio, spirituale e temporale in uno; ed era così rivendicata simultaneamente La illustre Italia. Quella che rievocava nei propri dialoghi ciceroniani il Betti; quella che direttamente o indirettamente difendeva il padre Bresciani. Persuaso a ragione, quest’ultimo, che romanticismo è in fatto di lettere il sinonimo e l'uguale del liberalismo in politica. E persuaso non a torto il Betti che romanzo è frutto e sinonimo di decadenza (quasi a precorrer la tesi riesumata indipendentemente ai dì nostri da un illustre tedesco), è il simbolo e l'espressione d'un qualche cosa che muore. Ma restituir l'agonizzante alla vita non potevano né la dottrina dell'antiquaria né la politica del gesuita. Non quella, che invano armeggiava col tradizionalismo frammezzo all'universale trionfo dell'esegesi storica della tradizione liviana e biblica, sebbene anglicani e cattolici facessero a gara nel tacciare il pio Niebuhr d'immoralità e di eresia. Né più aveva, d'altronde, il Bresciani la forza d'imporre interventi disciplinari, come pur fu tentato contro il romanzo di Alessandro Manzoni, ad arginare la marea del rinnovamento stilistico e popolaresco al quale è associato in perpetuo il miracolo dei Promessi sposi: massime dopo che la nuova generazione italiana, maturatasi nel clima persecutorio costantemente propugnato dal Vaticano, tranne la breve parentesi dall'elevazione di Pio IX alla sua fuga in Gaeta, ebbe affermato la realtà non più oltre differibile del proprio diritto a conquistarsi e a fondare una patria con l'eroica difesa della Repubblica mazziniana. La quale, se fra i suoi combattenti e caduti anche noverò i figli di quel semiretrivo poligrafo Tullio Dandolo che fin dal '37 (cfr. p. xvii) aveva pur avvertito presente, operante l'analogia efficace dell'antico e del nuovo Cesare, altresì volle assidere i propri ordinamenti civili sur un ideale di ambivalente classicismo, a comprovar l'inscindibilità delle due componenti imprescindibili del patriottismo italiano.

La conclusione cui s'appigliò il padre Bresciani, di concerto con altri ecclesiastici anti-risorgimentali, fra cui rimase insigne don Bosco, era l'esclusione in radice del retaggio classico, la condanna di quest'ultimo come peccaminosa paganìa, contaminatrice diuturna delle nostre scuole. Ma un insegnamento, soprattutto confessionale, senza « classicismo », al più con la sostituzione, caldeggiata dal Tommaseo, degli scrittori cristiani a Virgilio e a Tacito, a Livio e a Cicerone, avrebbe costituito pregiudizio troppo grave alle fortune istituzionali della Chiesa. Onde l'antiquaria romana del Betti e del Mai, cui fece tosto eco da Torino il Vallauri, prima di convertirsi al nazionalismo massonico del ministro Baccelli e lucrarne il laticlavio, insorse contro l'oltranzismo del Gaume e la sua tesi del ver rongeur, sia per isfogare i propri tenaci risentimenti e gelosi rancori misogallici, sia per favorire ufficialmente la politica di accomodamento propugnata, di concerto con Napoleone III, dal vescovo d'Orléans, monsignor Dupanloup.

L'impossibilità e di resecar dalla cultura italiana il retaggio classico e di rifiutarsi al romantico e popolare, cioè al moderno e allo storico di essa cultura, spiega l'insuccesso per congenita sterilità dell'uno e dell'altro movimento vaticanesco. Spiega perché non soltanto il Fea, quantunque infelice editore di Orazio, il Mai, quantunque scopritore della Repubblica, la quale fuor dall'ambito professionale della filologia ebbe interpreti adeguati forse unicamente il Giordani e il Villemain, lo stesso Betti, quantunque autore di acute revisioni critiche in margine al Tiberio di Tacito e alla Giugurtina di Sallustio, ma Giovanni Battista de Rossi, massimo restauratore degli studi romani e cristiani nella capitale di Pio IX e d'Italia, non sapessero in effetti trascendere la mera tecnica, di cui fu maestro universalmente ammirato in Europa l'epigrafista Bartolomeo Borghesi. O pervenissero alla storia, alla pietas storico-storiografica, solo nella consapevolezza del proprio segnato destino, per una sorta di elegiaco idoleggiamento d'un mondo oramai condannato, che ravvicina questi maestri dell'erudizione ecclesiastica ai pagani de bonne foi nella metà seconda del quarto secolo, fra l'impero dell'Apostata e il pontificato di Damaso. Né senza casualità conobbe quest'ultimo un fervore nuovo di studi nelle ricerche del De Rossi e dei suoi discepoli, quasi desiderassero di contrappor da oltre il Tevere alla realtà potenzialmente o più che potenzialmente laicistico-anticlericale dello Stato italiano il ricordo restaurato ed attualizzato della ecclesia triumphans - e dall'ecclesia pressa delle catacombe.

Il neoguelfismo, che sul piano ideologico-politico è dagli storici generalmente identificato col cattolicesimo liberale e il primo programma dell'abate Gioberti, sul piano culturale riesce invece, e perciò appunto, assai più: l'unico tentativo sistematico di elaborazione d'un'educazione nazionale italiana, d'una sintesi storica di nuovo e d'antico, di classico e popolare, di tradizione e rivoluzione. La quale, indipendentemente dall'opera individua dei singoli, dal loro contingente militare in uno o in altro partito, dal loro aderire all'una o all'altra scuola storiografica, restò per mezzo secolo, dalla maturità del Manzoni alla maturità del Carducci, dallo spiritualismo al positivismo, il sostrato universo della nostra cultura.

Come che si travagliassero intorno a problemi lungamente dibattuti poi dai neoguelfi, non ne partecipano il Giordani e il Leopardi, entrambi settecentisticamente ostili all'ormai prevalente idealismo e, soprattutto il Leopardi ora avverso alla «Francia scellerata e nera» ora satirico del Niebuhr e del «tedesco filologo», non scevri di certa boria nazionalistico-feudale, nel superstite orgoglio proprio della vecchia Italia accademica e blasonata.

Di apertura europea, invece, i neoguelfi, e più quelli ch'ebbero strido sensu tal nome. Ne diede testimonianza suprema il Manzoni (ma non gii furono in questo molto da meno il Capponi e il Niccolini), magnanimamente francofilo nella conclusione della Lettre à M. Chauvet, magnanimamente filo-germanico (o, com'è forse meglio dire, inchinevole con emula riverenza all'eroico dell'Uomo) nella dedica di Marzo 1821. Onde, consapevoli degli obblighi e delle insufficienze italiane, pur nella propensione cattolico-settecentesca a deprimere il classicismo paganeggiante e la storia, avvertirono di dover accentuare lo iato fra l'antico (e non italiano) e il nuovo (e italiano), di dover sommettere alla misura della legge umana e cristiana l'eroismo tradizionale, la pseudo-grandezza della potenza terrena, il mito dell'impero e l'orpello di Roma: in una distinzione o contrapposizione ch'era un seme storiografico fecondissimo. Né solo perché importava la continuità della ricerca, inverandosi dai neoguelfi l'erudizione provinciale del Settecento, l'anti-romanesimo del Micali e d'altri fautori degli statini, l'antimilitarismo ed anti-imperialismo dei philosophes. Ma, e soprattutto, perché in quest'antitesi meglio si articolava l'uguale e il diverso del processo storico, il passato diveniva o ridiveniva da paradigma problema e la conclamata inferiorità medesima del paganesimo aiutava a scoprire le guise genetiche, le limitazioni morali, il primitivo, spontaneo e barbaro dell'antica letteratura e dell'antica poesia.

Contemporaneamente, quest'animus volto a cogliere il primigenio e all'affrancamento dall'aulico e tralaticio permetteva ai romantici d'Europa, e ai neoguelfi in Italia, di formulare un discriminante e quindi più storico giudizio differenziale fra Grecia e Roma, per quanto poco greco sapesse il Capponi e punto il Manzoni, e soli si potessero anzi chiamare ellenisti il Peyron e il Centofanti. Qui ai romantici ed ai neoguelfi si raccordavano anche il Giordani e il Leopardi, che, pur infelice traduttore di Virgilio quasi quanto l'Alfieri, si affisava peraltro ad Omero e in Omero soprattutto ammirava la vitalità, una quasi disumana passionalità, quali perfino coglieva, e più ad elogio che a biasimo, in Priamo e in Achille.

I vantaggi storiografici erano, sono oggi per noi, manifesti. Il Centofanti e Gino Capponi inseguivano la spiritualità e ricostruivano la problematica dei tragici greci, quasi a continuare nel solco del senile ellenismo cui s'era convertito il deluso rivoluzionario del Misogallo, mentre un Ambrosoli non andava neanche in ambito critico oltre i decorosi volgarizzamenti del Bellotti e dell'Angelelli. L'avversione alla tirannide, se favoriva la tendenza onnipresente a un infelice, perché antistorico, moralismo, se induceva Balbo e Manzoni, Capponi e Vannucci all'indiscriminata condanna dell'Impero, quasi per inconscia imitazione e nella pericolosa rinascita di guise pseudo-tacitiane che si voleva, dal Balbo medesimo, fossero finite con la prosa illustre del Botta, permetteva, non di meno, al marchese Gino di fermare storicamente i meriti e la posizione dell'Arpinate, al Bindi di commisurare i limiti di verità dei «divini Commentari» e le contraddizioni o le colpe della dittatura di Cesare. Né questo sacerdote-maestro di scuola, in fama di «gesuita» e di «codino», peritavasi a definir «giudizio di Dio» la congiura delle Idi di Marzo, mentre distingueva lucidamente fra l'autocrazia e la res publica, fra il suicidio libertario, cattolicamente riprovato, di Catone o di Bruto e l'ideale vittoria perpetua dei vinti di Farsalo, di Tapso e di Filippi. Donde, anche per questa via (cfr. p. XIX), la breve rinascita di Lucano, nel cui poema lo stesso Nisard non vedeva polemicamente se non spagnolismo all'Hugo, e che la posteriore filologia «scientifica» avrebbe prevalentemente ridotto a materia di analisi «allotrie», tecniche o fontaniere.

Frattanto, il giudizio politico-moralistico, trasformatosi nella fattispecie in giudizio critico-estetico, mentre suggeriva il ribadimento della condanna giacobina, alfieriano-foscoliana di Orazio e di Virgilio augustei, la cui esaltazione del Principe, condonatagli sornionamente dall'Ariosto, era a quest'ultimo rinfacciata da Alessandro Manzoni, costituiva un opportuno avviamento alla discriminazione tonale; permetteva di contrapporre all'apparato macchinoso delle Odi romane l'«affettazione popolare» dell'«autobiografia di Orazio» compilata dal Bindi non senza l'invido plauso del Giusti e la successiva commendatio di Marco Minghetti alla sua allieva sabauda; era preludio alle pascoliane e post-pascoliane formulazioni anti-«imperiali» dell'Arcadia e dell'anti-Arcadia, di struttura e poesia o addirittura di poesia e non poesia.

In questo studio neoguelfo dell'antico v'era, peraltro, una grossa contropartita di passività: la quale nel giudizio dei posteri disgraziatamente pesò ben più dell'attivo. Passività era, invero, la sostanziale ignoranza del greco e la diffusa indifferenza alle cose greche, nonostante il solitario esempio solenne del Peyron. Il cui stesso Tucidide, forse unica degna critica dell'History of Greece di George Grote, soggiacque ben tosto - e non tanto al biasimo dei cultori della cosiddetta bella letteratura, fra cui dispiace di annoverare anche il variamente dotto Stefano Grosso, quanto ai risentimenti politici cui diedero ansa la condotta, il programma anti-egemonico piemontese ed anti-unitario italiano dell'abate subalpino.

Neanche nell'ambito più familiare della latinità poteva, d'altronde, acquistarsi credito agli occhi dei provinciali, ma tecnicamente non inesperti, eruditi italiani la cultura classica neoguelfa, come quella che, se procedeva da premesse metodiche settecentistiche, ad esse, tuttavia, contravveniva nell'incuria per le fonti epigrafico-monumentali. Quasi solo negativamente perciò conferì alla storia della romanità, massime dell'impero romano, in quanto ne emerse irrefragabile l'impossibilità d'una ricostruzione meramente fondata sul moralismo di Tacito e sull'aneddotica di Svetonio, ristretta agl'intrighi di corte, all'opposizione o prostituzione della nobilitas, e non invece slargata, com'avevano pur insegnato il Romagnosi e il Cattaneo, all'intera distesa e compagine dell'Europa, grazie al nuovo miracolo del Corpus Inscriptionum Latinarum.

Il nome, tante volte citato dall'antiquaria nostrana, e tante volte esecrato, il nome che non credo s'incontri presso il Manzoni, pur devotamente ricordato spesso da quest'emulo del Goethe nella versione del Cinque maggio, il nome di Teodoro Mommsen qui cade in acconcio a commisurare, per un verso, il trapasso dalla tecnica epigrafica del Borghesi all'intelligenza storica mediante la strumentalità dell'epigrafia; e a commisurare, per altro verso, non tanto le insufficienze del neoguelfismo, quanto le scelte, gli avvii, le conseguenze che ne provenivano, o che potevano derivarne: ma non le trassero gl'italiani. Che era, infatti, che altro importava in radice, il manzonismo e neoguelfismo se non la decoturnizzazione del classico, un aspetto nazionalmente contingente di quell'universo processo di critica romantica, il quale culminò a mezzo il secolo nella Ròmische Geschichte del Mommsen: anzi, in questa sua formula? Le sue stesse bizzarrie, unilateralità, assurdità e stravaganze, dalla negazione della poesia presso latini e italiani alla stroncatura di Cicerone, che altro erano se non un bisogno negativo di necessaria liberazione, di affrancamento dal classicismo, di storicizzazione dell'antico, sottratti i poeti all'imitazione servile Apolline nullo, sottratto l'oratore alle clausole retoriche del cogitanti mihi saepenumero e dell'esse videatur, alla famigerata coniunctivitis professoria in regime di grammaticume imperante, cui diede volto e nome in Italia un probo piemontese esiziale, il Gandino?

Ma, come sul Mommsen gravò, e prima sul Niebuhr, nel giudizio anche del Troya e del Balbo, quest'aspetto meramente distruttivo, in cui si volle nazionalisticamente ravvisar quasi la gelosia o l'avversione del tedesco anti-cattolico, trasformatosi l'estate del 1870 in propagandista anti-vaticanesco a fini di guerra anti-francese, così gravò sui neoguelfi l'avversione alla loro ideologia e alla loro politica, allorquando, nonostante il voto e l'esempio di Alessandro Manzoni, parve anacronistica meschineria da fissati l'opposizione a Roma capitale; quando, soprattutto, il patriottismo e la cultura italiana parvero avviarsi dopo il '60 all'insegna dell'anticristianesimo positivistico. La retorica invano deprecata, massime la retorica imperiale romana, continuò a imperversar più che mai, per la concordia discors degli accademici ostili al Mommsen, alla filologia tedesca, al verbo straniero, e dei massoneggianti idoleggiatori della paganìa classica, salvo poi a passare, come in vecchiezza Tommaso Vallauri, dall'uno all'altro campo, e inquinare anche la poesia e sensibilità parnassiana d'un Carducci, troppo spesso inchinevole a suggestioni pericolose di nazionalismo anti-germanico.

L'insufficienza e l'insufficiente penetrazione del neoguelfismo, la sua mancata vittoria sulla retorica e l'accademia, il suo stesso orientamento prevalentemente francese (nonostante le personali relazioni del Capponi e del Niccolini con lo Schelling, il Reumont, Carlo Hillebrand e Carlo Witte), ma in favore d'una cultura francese da Monarchia di Luglio e Secondo Impero, alla quale tosto subentrò, anche presso l'illuminato ed equanime marchese Gino, l'avversione incoercibile al Renan e allo scientismo della Terza Repubblica, in tanto erano tuttavia rimediabili in quanto si colmasse spedito, ma senza salti immetodici, lo iato fra due generazioni diverse, e l'Italia degli anni Sessanta riuscisse ad attuare animosa il programma che le suggerivano la celebre prolusione napoletana di Bertrando Spaventa e il dimenticato proemio di Eugenio Ferrai al proprio volgarizzamento della Letteratura greca del Muller. L'articolazione europea degli studi filosofici e filologici, le cui scaturigini rinascimentali avevano poi fecondato la cultura d'oltr'Alpe nella decadenza e servitù della Penisola, presupponeva, o imponeva, si consertassero l'idealismo romantico e l'ideologismo neoguelfo, e, digerita la lezione niebuhriana imperfettamente assimilata finora, si accogliesse il meglio del mommsenismo, cioè il suo retaggio e sostrato romantico, allorquando il Mommsen invece più l'inquinava, fra il plauso degli epigoni e lo spregio del Nietzsche, di scientificità positivistica, e mentre la sua patria germanica sembrava oramai dipartirsi dai metodi e dalle guise della sua grandezza più vera.

Il primo decennio dell'Unità segnò quindi per gli studi classici italiani il decennio della crisi, delle scelte che non diremo, antistoricamente, sbagliate (quand'erano forse inevitabili), ma che non si possono retrospettivamente non riconoscere esiziali all'avvenire umanistico della nazione. In quel decennio per certo elaborò un suo «spaventano» programma il Ferrai, tra il proemio fiorentino del '58 e la prolusione padovana del '67, in cui vibrano gli ultimi echi della grande filologia germanica e i preludi alla crisi post-1870, contro la quale militarono, pessimistici e profetici, due allievi del Ritschl e amici del Burckhardt, il Nietzsche ed Erwin Rohde, mentre la rinascita romantico-tedesca del dramma greco si consumava, fra decadentistici pervertimenti e preannunzi, nel Ton-Drama del Wagner. In quel decennio un altro discepolo e amico italiano del Ritschl, che non stupisce avesse screzi e dissensi col Mommsen, proseguiva dalla sua cattedra pisana (e poi fiorentina) gli studi di papirologia ch'erano stati del Peyron, apprestando edizioni dei discorsi allora scoperti d'Iperide, batteva il campo nuovo, e ugualmente « romantico », del folklore, della poesia popolare, della mitologia comparata in senso risolutamente anti-naturistico ed anti-solare : redigeva per la « Nuova Antologia » fiorentina del Protonotari, e avrebbe poi dedicato «alla memoria di Giampietro Vieusseux», i capitoli del Virgilio nel Medio Evo. Germi neoguelfi e romantici, commisti a germi cattaneani e positivistici o positivi, alimentavano, frattanto, nella Milano del «Politecnico» gli scritti dell'Ascoli e del Bonghi, del Trezza e del Villari, ancor fedeli a un metodo e ad un principio di orientamento franco-inglese (quantunque non pur Taine e Renan, ma Bréal e Stuart Mill, Spencer e Guyau, Bain e Max Müller fossero ora i nuovi maestri).

Ma il decennio era tramontato appena, era ancor fresco di stampa il Virgilio del Comparetti, a tutt'oggi forse l'unico libro italiano di filologia classica tradotto e diffuso in più lingue straniere, e l'opera troppo breve di questi maestri accennava già a isterilire dinanzi al vigoreggiare del cosiddetto metodo germanico, ch'ebbe a suo massimo organo la torinese «Rivista di filologia» giusto allora fondata (1872-1873) a tal fine; e ne fu il più agguerrito campione Girolamo Vitelli.

I giovani, gli homines novi, post-risorgimentali d'abito, d'animo e di cultura, stranamente dimentichi dell'antecedente generazione, stranamente indifferenti a sorgive straniere se non tedesche, quasi la Francia risorgente non desse a quegli anni l'esempio d'una cultura potenzialmente anti-germanica, perché nazionalistico-celtistica con i Fustel e i Jullian, o più veramente germanica, perché attinta a fonti romantiche, con i Renan, i Boissier e gli Henri Weil, lo stesso (anche da Gaetano De Sanctis) spregiato Essai sur Tite-Live del Taine, non pur si affisarono esclusivisticamente a quanto venivano sfornando i vincitori in declino, non pur confessavano con vergogna forse ma senza ritegno l'inferiorità dell'Italia, impegnandosi ad affrancarne (per questa via . . .) la Penisola; ma, persuasi che nulla fosse compiuto nell'ambito dell'antiquaria nostrana lungo i decenni del Risorgimento, e che quanto si fosse compiuto, o continuasse oltre lo spartiacque del 1870, fosse la piaga infesta della retorica (nel che perdurava fra obliterato e corrotto un residuo neoguelfo), iniziarono un'opera sistematica di segregazione degli studi classici, di separazione della filologia e dell'umanesimo dalla storiografia e dalla vita, che tanto più risultò pregiudizievole, quanto più è giusto datare da questo termine la crisi del latino e della scuola italiana.

Non che la filologia positiva non fosse una fucina severa di serietà e di onestà. Non che il magisterio vitelliano non contribuisse non pur a restaurare, ma invero a creare, gli studi greci fra noi, anche se a detrimento degli studi latini, scaduti (oltre che per la mancanza d'una personalità così autorevole ed eminente come il Vitelli e per la presenza di troppi retori vecchi e nuovi, massimi Vallauri e Gandino) per l'indirizzo sostanzialmente crenologico-germanicizzante, per la riduzione della letteratura romana a mera materia ricostruttiva di modelli greco-ellenistici e a campo di avventurosi, avventati o sofistici e razionalistici cacciatori di strati genetici e pescatori d'imitazioni maldestre, di suture fin qui inavvertite.

Nemmeno si negano i molti meriti, come della « scuola storica » in ogni sua branca e guisa, così, e soprattutto, dello Stato italiano, che liberalmente invitava nei propri atenei, durante il primo decennio dell'Unità rivoluzionari e ribelli, da Georg Herwegh ad Herzen e Schifi, ora semiti ed anti-semiti, storici, epigrafisti e archeologi, Helbig, Holm, Loewy, Karl Julius Beloch. Erano studiosi assai benemeriti, dalla cui scuola uscì presso che tutta la generazione, o la prima generazione, dei nostri maestri, ond'è manifesto l'obbligo di gratitudine e perpetuo il segno dell'opera loro nella storia degli studi italiani. Ma non potevano non essere quali erano, stranieri all'Italia perché mommseniani post-1870, con una loro metodica e problematica, un'ideologia unitaristico-bismarckiana, una propensione massiccia ai nuovi strumenti dell'economia e della statistica, ai ritrovati della sociologia, dell'incipiente determinismo e marxismo: quando non importassero addirittura l'ormai diffusa barbarie razzistica o favorissero, di concerto col desanctisiano fedifrago Francesco Montefredini e con l'antropologo Giuseppe Sergi, il mito della superiorità nordico-tedesca sui decadenti latini: efficacissimo pendant, e non meno efficace alimento a un tempo ed antidoto, del mito uguale e contrario del nazionalismo romaneggiante.

Questa temperie, avversa universalmente agli studi storici, massime nell'Italia ancora immatura, tanto più riuscì grave d'effetti per lo studio dell'antichità classica, quanto meno era destinata ad esercitare ripercussioni in tal campo l'opera dei due maggiori maestri dell'Italia di allora: Carducci e De Sanctis. Entrambi poco esperti di «classici» e quasi digiuni di greco. Entrambi più o meno autodidatti, nonostante il tirocinio del De Sanctis alla scuola del Puoti e il discepolato del Carducci presso gli scolopi di San Giovannino e alla Normale di Pisa. Entrambi sostanzialmente incuriosi dell'hortus conclusus e vittime d'uno strano timor reverentialis dinanzi ai nuovi chefs de file. Né furono quindi punto risvegliatori o educatori di «classicisti», né si preoccuparono, da ministro il De Sanctis e da professore il Carducci, di assicurare nemmeno ai propri atenei uomini storicamente formati o modernamente adeguati, capaci comunque di agire sui giovani. A Bologna insegnarono il Gandino e l'ex-improvvisatore Giuseppe Regaldi, il modesto grecista Pelliccioni e l'ugualmente modesto, ma più maturo, Bertolini; mentre allievi del Carducci quali l'Albini e il Michelangeli non possono dirsi che stimabili letterati. Pascoli è sur un piano tutto diverso, anche per certe sue origini scolopio-neo- guelfe, ma fu spirito radicalmente, e quasi diremmo: felicemente, a-storico - come il suo collega e maestro Francesco Acri, transfuga dal natio Mezzogiorno.

Il quale restò sostanzialmente remoto dallo studio dell'antichità classica, né quindi conobbe il De Sanctis una tradizione indigena da proseguire o da restaurare. Scomparso a mezzo il secolo l'Avellino, e ammutitosi poco di poi il non tecnico, ma ugualmente «napoleonico», Luigi Blanch, i cui scritti di storia e storiografia del mondo antico sembrano tardivamente ispirarsi alla metodica e polemica di Vittorio Barzoni, allegorizzano sotto la maschera di Polibio, di Annibale e Diviziaco, o in margine a Livio e ai commentari di Sallustio, i problemi ottocentistici dell'ancien regime, dell'equilibrio, del colonialismo e combattentismo, del passaggio all'una e all'altra fedeltà in era di rivoluzione; lo studio dell'antichità classica, per chi avesse giustamente in orrore i metodi del Puoti e lo stagno lor seguito presso l'abate Fornari o monsignor Mirabelli, non poteva non restringersi alla tecnica antiquaria e dello scavismo pompeianistico, dal Minervini al Fiorelli, dal Sogliano al De Petra, fino alla restaurazione dei valori più propriamente storico-artistici per merito quasi esclusivo d'un adepto dell'estetismo ruskiniano prima, dell'idealismo poi, il grande e tuttavia troppo scarsamente celebrato Vittorio Spinazzola. Nemmeno l'abito speculativo del Mezzogiorno, dond'emigrarono i più filologicamente colti dei pensatori meridionali, come il Bonghi e l'Acri, successivamente concordi a polemizzare contro positivisti e veristi con l'arma del volgarizzamento platonico, favorì lo studio dell'antica filosofia, nonostante i «contributi», rimasti nella stessa opera loro senza domani, del Fiorentino e del Labriola.

Ma questa, storicamente spiegabilissima, assenza e del Carducci e del De Sanctis dallo studio dell'antichità classica, mentre ne conferma la segregazione dalla vita italiana durante gli ultimi tre decenni del secolo, anche spiega perché la coeva filologia non assurgesse, non potesse in effetti salire, né alla letteratura né alla storia: quand'anche, o quanto più, l'animasse il proposito, ora tardo-neo- guelfo ed ora neo-bismarckiano, di dettar con la storia di Roma la genesi unitaria della storia italiana, o un paradigma anacronisticamente pericoloso alle nuove fortune colonialistico-mediterranee della Penisola. In un solo campo, e per merito precipuo di uomini della generazione risorgimentale, quand'anche ormai convertitisi al positivismo, fu quindi fruttuosa e feconda - oltre che nella mera tecnica strumentale dell'erudizione - la filologia post-1870. Anti-spiritualismo ed anti-cristianesimo, ispiratori altresì del massoneggiante romanzo storico dei Giovagnoli e dei Castellazzo, le scoperte dei papiri ercolanesi di Filodemo o della scuola epicurea, l'esempio straniero del Guyau, tutto parve felicemente cospirare a re-immettere il poema di Lucrezio nell'universa cultura nostra: ond'egli fu l'unico degli antichi a conoscere in questi decenni un'adeguata esegesi storica grazie al Trezza e al Comparetti, un insigne volgarizzamento poetico grazie alla musa congeniale del Rapisardi e, sul tramonto del secolo, ad opera del milanese Carlo Giussani, un'edizione esemplare.

Quand'uscì per i tipi finora molto e troppo germanicizzanti del Loescher il commento lucreziano del Giussani, l'aria era già mutata; e un recensente, che in questo nostro Novecento avrebbe fatto gran chiasso con le sue polemiche nazionalistiche, anti-filologiche, anti-vitelliane ed anti-crociane, irrideva ilare e giocondo alla teorica dei sassolini, pazientemente accumulati dai singoli nell'attesa che venisse « quandochessia » il sospirato artefice della sintesi. Ebbene, la teorica dei sassolini, quando così ne scriveva Ettore Romagnoli, aveva già dato il meglio, o il peggio, di sé con la cosiddetta Storia del Pais. Quello che ai contemporanei sembrò il maggior merito, e agli occhi dell'acuto e storicistico glottologo Luigi Ceci il maggiore demerito, di codesto (allora) radicalissimo e germanicizzante allievo del Mommsen, il presso che totale ripudio della tradizione letteraria romana, in un guazzabuglio indescrivibile di miti etiologici ed etimologici, reduplicazioni, falsificazioni, retrodatazioni, ecc., probabilmente pesa oggi meno, nel nostro giudizio, della contraddizione metodica e della illeggibilità contestuale.

Perché il Pais, mentre negava si potesse scrivere, almeno per allora, o da lui o da altri, la storia di Roma, quest'ultima, tuttavia, tradizionalisticamente, retoricamente, accademicamente asseriva dover essere il prologo necessario all'unità della storia d'Italia, e monito ali'«invecchiata gente italiana» (dond'era facile, tra parentesi, la non remota conversione del Pais al nazionalismo anti-germanico ed al fascismo). Perché, ingegnandosi a scrivere una, quantunque meramente filologica, storia di Roma, il Pais, d'altro canto, avvertiva in confuso il maturarne dell'esigenza o del desiderio presso il «gran pubblico»: sentiva, cioè, che la lezione della storia presente (imperialismo, colonialismo, industrialismo, classismo, nazionalità, ecc.) riconduceva alla meditazione della storia trascorsa, creava le premesse d'una nuova storiografia.

Stranamente, un fatto e una crisi come il crollo francese del 1870, il tramonto irrevocabile del mito napoleonico e del cesarismo bonapartista, non avevano punto stimolato gli studi storici italiani, quand'anche, né senza censura dei «benpensanti» e biasimo degli accademici, pronti perciò a consegnare l'una e l'altra scrittura all'oblio, in termini di attualità e al lume di Sedan avessero il Cavallotti e il Pallaveri giudicato il quinto secolo greco, dalla democrazia autoritaria di Pericle alla paventata autocrazia di Alcibiade. Qui pure l'aria era, adesso, mutata, benché la storia di Grecia e di Roma si volesse commisurare arbitrariamente alla stregua dell'unità bismarckiana, applicandovi altresì tutti gli elementi, amminicoli e connotati politico-economico-giuridici dello Stato moderno, in una laicizzazione statolatrica della polis e dei monarcati ellenistici, in un bipartitismo anacronistico di ottimati e di populares, in una rivendicazione di « concretismo » economico-sociologico, ma non senza giusti propositi di attualità e divulgazione.

Per questa via si misero i filologi e gli anti-filologi, o quelli che amavano dirsi tali e comunque subirono dagli avversari siffatta, sostanzialmente ingiustificata, nomea. Gli anti-filologi provenivano dalle lettere e dal mestiere, come il Fraccaroli, allievo di Eugenio Ferrai, il Pascoli e, ormai varcate le soglie del Novecento, il Romagnoli, o provenivano dall'economia, dal giornalismo, dalla giurisprudenza e dalla politica, il Ciccotti, per esempio, e Guglielmo Ferrerò. Avevano, dunque, appreso dalla vita e dagli «ismi contemporanei» quella lezione che i filologi avevano poco e male appresa dai libri. Ma anche i filologi, massime quell'uno la cui esistenza e il cui magisterio serbano quest'ambito valore esemplare, provenivano in realtà, e più assai ch'essi medesimi non si avvedessero, dalla vita.

Nato in Roma, l'indomani di Porta Pia, da una famiglia che rifiutò giuramento di fedeltà allo Stato italiano, figlio della Roma leonina alla quale il Pontefice predicava lo studio della storia in funzione polemico-difensiva, malamente raccomandandolo all'esempio di Angelo Mai, allievo dell'Apollinare, dove, come nella contemporanea storiografia del Toniolo e nell'antiquaria del Gamurrini, qualcosa del neoguelfismo sopravviveva, quindi della Sapienza sconsacrata, dove professavano il Beloch e il Labriola e illustri superstiti non amati, come il Bonghi e l'Occioni, Gaetano De Sanctis indagò nella storia di Grecia e di Roma il duplice problema correlativo della nazionalità e del classismo, il contemperamento degl'interessi reciproci nell'ambito d'uno stato unitario, la giustificazione dell'unità nazionale nella salvaguardia o la sua condanna inappellabile nella soppressione della libertà.

Il Risorgimento, che da trent'anni pareva concluso, accettato come una realtà di fatto e dimenticato come un ideale dalle generazioni filologiche post-unitarie, subitamente diveniva, per questo nuovo suddito consapevole della monarchia liberale sabauda (che l'avrebbe giudicata alla stregua dell'osservanza o dell'insufficiente tutela dello Statuto albertino), come lo studio dell'antichità classica per gl'italiani del tardo Settecento, un problema immediato, una scelta morale, uno strumento d'intelligenza storica e di azione civile. Avevano essi idoleggiato Napoleone, avevano veduto in lui l'incarnazione di Cesare. Gaetano De Sanctis vide analogamente Camillo intraprendere col sacco di Veio la marcia sanguinosa verso l'unità, romana e italiana, della Penisola, che doveva concludersi a Porta Pia. Vide i consoli del 295 a. C. immettere nella nostra storia a Sentino l'archetipo vittorioso di Solferino; vide Antigono Dosone restaurar l'unità macedonica della Grecia, al prezzo, tuttavia, già pagato a Filippo di Aminta, la depressione, prelusiva alla soppressione, della democrazia cittadina di Demostene e della democrazia monarchico-rivoluzionaria di Cleomene III (al cui esempio si sarebbe invano ispirato poco di poi « l'ultimo dei Greci», Filippo V), in entrambi i secoli e le congiunture per l'interesse delle classi possidenti, onde la penisola ellenica, sperimentata invano una presunta unità non sinonimo ma antitesi di libertà, mal sarebbe stata in grado di resistere a Roma, e questa si sarebbe macchiata congiuntamente d'imperialismo e di classismo, a detrimento irreparabile della libertà propria e d'Europa.

Né, fautore ardentissimo dell'espansione romana nell'Occidente da incivilire, quasi a precorrimento e modello del colonialismo in cui questo cattolico Crispino fervidamente credeva, né si astenne il De Sanctis dal riesumare, forse inconsapevole, il concetto dell'equilibrio mediterraneo, deprecando la distruzione di Cartagine per le conseguenze politico-sociali che ne sarebbero derivate al regime della nobilitas e, nell'affermarsi dell'autocrazia militaresca e combattentistica, all'antica civiltà tutta quanta. Sicché, pur immesso nella storia delle guerre puniche un motivo «razziale», ch'è probabile mutuasse al Trezza e al Littré, pur affermati la superiorità degli Arii sopra i Semiti e quindi il vantaggio per l'umanità della violazione romana dei patti dell'Ebro, il De Sanctis, il «cartaginese» De Sanctis, certo ignaro dell'opuscolo antinapoleonico e della successiva pubblicistica anglofila di Vittorio Barzoni, affigurò audacemente in Annibale, per la sua «critica in atto» dell'antico imperialismo, il precorritore di san Paolo. Anzi, rifattosi o rifugiatosi nella storia greca, conforto all'amarezza d'un'Italia non libera, all'inquinarsi praticistico e partitico della romanità, il De

Sanctis, avvedutosi dell'errore di aver identificato risorgimentisticamente unità e libertà, risalì dal bismarckismo dell'antisemitico Beloch alle Deux sources del suo semitico filosofo e maestro Bergson, ne derivò il concetto della bipolarità della storia, l'applicò alla grecità quale correlazione od antitesi di polis e paideusis; vide, a conclusione della storia greca e dell'opera propria, vide in Socrate, massime « nella giustizia della . . . condanna», «il protomartire nella storia del pensiero europeo».

Uomo del Risorgimento anche in questo, il De Sanctis interpretò, dunque, in nuce o in aenigmate la realtà del presente nella ricostruzione del passato e la realtà del passato nel travaglio del presente, soppresse ogni distinzione o distanza di tempi nella problematica della contemporaneità della storia, nell'identità degli esiti e delle scelte. Perciò chi studi storicamente l'antiquaria italiana dell'Ottocento, chi l'interpreti e raffiguri siccome un aspetto particolare, e quasi una specola, una guisa o una misura, dell'universa storia nostra in quel secolo, retrospettivamente la vede convergere a quest'alto vertice: oltre il quale storiografia e praxis indistinte ancora coincidono nella terra incognita del nostro nuovo lavoro.

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