LIBER CONSTITUTIONUM

Federiciana (2005)

Liber constitutionum

Ortensio Zecchino

sommario: I. La storia esterna 1. Promulgazione.  2. Attività preparatoria e giuristi impegnati.  3. Entrata in vigore.  4. Fonti. 5. Prime reazioni.  II. Il testo  1. Una lenta stratificazione.  2. I manoscritti.  3. Le edizioni. - III. La maturazione del progetto  1. 1220: anno cruciale.  2. Il primo abbozzo. - 3. La spinta degli eventi.  4. Il disegno politico.  5. Legge per un Regno e manifesto per l'Impero.  6. Al vertice dell'ordinamento. 7. Il contesto europeo. - IV. Il Liber nel contrasto con Gregorio IX  1. La diffida del papa: a) Lo 'scandalo' della Costituzione; b) L'insofferenza verso un re-vassallo; c) Il timore di lesioni della libertas ecclesiae; d) L''orrore' verso il diritto nuovo; e) Un richiamo ai limiti della potestas condende legis di un principe secolare.  2. La dissimulata marcia indietro.  3. Le risposte implicite di Federico: a) L'autonomia del Regno; b) Nostalgie cesaropapiste.  4. Le accuse papali successive alla promulgazione e la difesa di Federico: a) Il provocatorio richiamo alla lex regia; b) Ingerenze in tema di usura; c) Violazioni del privilegio del foro; d) Sottrazione di homines alle chiese; e) Divieto di accesso al notariato per i vescovi; f) Abusi sulle sedi vacanti; g) Vessazione contro Templari e Ospitalieri.  V. I contenuti  1. Struttura interna.  2. Le grandi scelte.  3. "Lex sine moribus".  VI. "Modello per i Regni" VII. Dal tramonto degli Svevi all'abrogazione 1. Il Liber nell'avvicendarsi delle dinastie. 2. La mitizzazione settecentesca. □ Bibliografia.

I. La storia esterna 

1. Promulgazione

"Actum in sollempni consistorio Melfiensi anno dominice incarnationis millesimo ducentesimo trigesimo primo, mense augusti, indictione quarta. Insinuatum vero mense septembris sequentis, quinte indictionis".

Queste parole di chiusura del Liber Constitutionum offrono le informazioni essenziali sul tempo (agosto 1231), sul luogo (Melfi) e sul contesto (un'assemblea di maggiorenti) in cui nacque la Costituzione voluta da Federico per disciplinare la vita istituzionale e sociale del Regno di Sicilia.

La cronaca di Riccardo di San Germano (1936-1938, pp. 175-176) informa inoltre che già da giugno ferveva, sempre a Melfi, l'attività di redazione dei testi ("constitutiones nove, que augustales dicuntur, apud Melfiam, augusto mandante, conduntur") e conferma che le Costituzioni furono pubblicate in agosto. Riccardo dà ancora notizia di un ordine di Federico del febbraio precedente di convocazione di un'assemblea generale (ibid., p. 173). È verosimile, come ha prospettato Garufi (ibid., n. 6), che l'ordine sia riferibile proprio all'assemblea convocata a Melfi per la successiva estate.

Tra giugno e agosto del 1231 Melfi offrì dunque ospitalità prima alla corte di Federico e ai suoi consiglieri per approntare il testo e, successivamente, ai grandi del Regno riuniti in concistoro per la solenne promulgazione.

È difficile dire quanto durarono i lavori preparatori e quanto il concistoro, quale ne fosse la composizione e quali i poteri. Sebbene tre mesi prima in una Curia solenne (Worms, 1o maggio 1231) ‒ presieduta dal figlio Enrico re di Germania ‒ fosse stato sancito "che né i principi né qualsivoglia altri possono fare Costituzioni o nuovi ordinamenti senza il consenso dei maggiorenti" (M.G.H., Leges, 1896, nr. 305, p. 420), non è facile ritenere che tale pronuncia fosse avvertita come cogente da Federico stesso, l'imperatore che legiferava per il suo Regno di Sicilia. D'altronde all'epoca l'autorità regia andava generalmente guadagnando peso rispetto al potere baronale (per la Francia: Richet, 1998, p. 20) e comunque i rispettivi ruoli nelle assemblee, non essendo codificati, finivano in concreto per dipendere dai contingenti rapporti di forza. E in quell'estate del 1231 la forza e il peso politico di Federico nel Regno erano indiscutibili: aveva infatti alle spalle successi internazionali (crociata e pace di San Germano col papa) e interni (cacciata degli invasori e sottomissione dei baroni ribelli).

2. Attività preparatoria e giuristi impegnati

L'attività preparatoria fu avviata almeno un anno prima. Federico per avere a disposizione il materiale su cui lavorare aveva impartito un ordine ai giustizieri di cercare anziani che conoscessero le Assise e le consuetudini del tempo del suo avo Ruggero e di suo cugino Guglielmo II e di mandarli a corte per prendere nota delle loro reminiscenze (Acta Imperii inedita, II, nr. 761, p. 605). Altrove abbiamo congetturato che questa ricognizione fosse volta a completare la ricostruzione della legislazione normanna relativamente alle parti di essa non pervenute al tempo di Federico attraverso testi scritti, e conoscibili perciò solo attraverso la tradizione orale (Zecchino, 1980, p. 90).

I lavori preparatori furono verosimilmente affidati a una commissione di giuristi. Il Liber può dirsi frutto della loro interpretatio sanzionata dall'autorità regia e imperiale di Federico. Questa sanzione non fu puro atto formale, perché Federico fu direttamente partecipe delle scelte operate, tanto che Andrea d'Isernia lo definì senza giri di parole "compilator [...] constitutionum" (Constitutionum Regni, 1773, commento a Const. III, 19). Oggi, più coloritamente, Abulafia (1990, p. 171) può scrivere che anche nella formulazione dei testi Federico si comportò da "padrone esigente ed impiccione".

Sulla diretta partecipazione di Federico alla definizione dei testi disponiamo di un'eloquente testimonianza, tratta da un manoscritto vaticano (Iuris interpretes, 1924, p. 143), che descrive il lavoro della commissione. Un allievo di Benedetto d'Isernia, Niccolò Rufolo, in una glossa a C. (Codex iuris civilis) 9.16.6 scrive infatti: "Ho sentito dal signor Benedetto che di-spiacque molto al signor Imperatore il sapere che fosse punito allo stesso modo chi camminasse armato [...] e chi fosse responsabile di omicidio. E allora [l'Imperatore] interrogò lui ed altri giuristi presenti, tra i quali v'era il giudice Mambro de Baro, per chiedere quale fosse la ratio che presiedeva alla scelta del legislatore. Ed il predetto Mambro de Baro rispose che era quella di prevenire azioni delittuose. Poiché la risposta non lo soddisfece ordinò che, sulla base di questi elementi, fosse formulata una Costituzione nella quale fosse prevista una punizione diversa per chi portasse l'arma, per chi la estraesse e per chi la usasse". La narrazione di Niccolò Rufolo rende la scena: i giuristi al lavoro, muniti dei testi giustinianei, e Federico che ascolta, discute e detta infine la soluzione.

Benedetto d'Isernia e Mambro de Baro furono dunque tra i giuristi della commissione incaricata di approntare il progetto. Non è agevole ricostruire altre presenze. Forse vi fu Roffredo Epifanio da Benevento, uno dei più famosi giuristi del tempo, ascoltatissimo consigliere di Federico. Verosimile la partecipazione di Enrico di Morra, che presiedette la Magna Curia dal 1223 al 1242 e che nell'agosto del 1231 era certamente a Melfi per giudicare su un caso di omicidio, insieme a Simone di Tocco e Roffredo da San Germano, anch'essi giudici della Magna Curia. La sentenza emessa menziona anche "magister" Benedetto d'Isernia, "Saductus" di Benevento e Guglielmo di Tocco "Magne Imperialis Curie in Iusticiaratu Notarius" (Giudicato della Gran corte, 1801, pp. 177 ss.). È probabile che la presenza di tutti questi giuristi a Melfi fosse legata all'impresa del Liber. Si può ragionevolmente supporre anche la partecipazione di Taddeo da Sessa, giudice della Magna Curia e, nel concilio lionese del 1245, appassionato difensore di Federico, che lo volle effigiato in una scultura dell'arco trionfale di Capua insieme a Pier della Vigna. Probabile è anche la partecipazione di Riccardo da Bisaccia, giudice a Melfi proprio in quei tempi, qualificato in un testamento dell'epoca "defensor iuris est a Cesare censor" (Scandone, 1957, pp. 215-217).

I due personaggi che hanno avuto un ruolo rilevante nella stesura del testo furono Pier della Vigna e Giacomo Amalfitano, arcivescovo di Capua. Sul secondo, probante è la diffida papale a partecipare all'impresa, che è come una certificazione dell'importanza del suo contributo. Sul ruolo di Pier della Vigna l'attestazione più significativa viene dall'epilogo delle Costituzioni ("Accipite, o populi, constitutiones [...] quas per magistrum Petrum de Vineis Capuanum, Magnae Curiae nostre iudicem et fidelem nostrum mandavimus compilari") che, svilito nella sua importanza per essere una interpolazione posteriore, da qualche tempo è invece rivalutato perché ‒ pur riconosciuta l'interpolazione ‒ se n'è potuta fissare la data a prima del 1247 (Monti, 1936, pp. 5 ss.).

3. Entrata in vigore

La già menzionata clausola finale del Liber attesta: "actum […] mense augusti […] insinuatum vero mense septembris". Data, quest'ultima, certamente scelta non a caso, ma per far coincidere l'entrata in vigore con l'inizio dell'anno greco. Va infatti ricordato che all'epoca nell'Italia meridionale era largamente usata l'indizione greca o costantinopolitana che, a differenza di quella romana o pontificia che coincideva con l'anno solare, iniziava il primo settembre.

La diversificazione del tempo di promulgazione da quello di entrata in vigore ‒ con la previsione di una vacatio legis che è fenomeno tipico della legislazione del nostro tempo ‒ ben può essere assunta come stigma della positività di un diritto riconosciuto non più come preesistente, che non viene quindi 'dichiarato', ma creato dal principe legislatore e che perciò richiede un tempo per essere acquisito alla conoscenza generale. Dell'effettività della vacatio abbiamo riscontro nella sentenza innanzi citata dell'agosto 1231, che prende atto della già avvenuta promulgazione delle Costituzioni, ne rileva allo stesso tempo la non entrata in vigore, le dichiara perciò non ancora applicabili e decide la causa secondo il diritto preesistente (Giudicato della Gran corte, 1801, pp. 177 ss.).

Subito dopo le Costituzioni furono inviate in tutte le province del Regno. Naturalmente occorse del tempo per approntare le molte copie necessarie. In questa prima operazione iniziò la produzione di errori e varianti che contribuiranno a fare del Liber un testo incerto e travagliato.

4. Fonti

L'approfondimento più compiuto e sistematico sulle fonti del Liber è venuto da Hermann Dilcher (1975, pp. 790 ss.), che ha realizzato un'analisi stratigrafica del testo offrendo così un quadro esaustivo di tutti gli apporti, diretti e indiretti, utilizzati. Dilcher in particolare, muovendo dalla considerazione che i materiali utilizzati per le singole costituzioni sono databili nell'arco temporale compreso tra il 1140 (promulgazione delle Assise di Ruggero) e il 1247 (promulgazione delle ultime Novelle di Federico), individua quattro fasi nell'ambito di tale tempo: la prima relativa alle Costituzioni di Ruggero II, la seconda a quelle dei due Guglielmo, la terza relativa alle Costituzioni approvate a Melfi nel 1231, la quarta, infine, relativa alle Novelle.

Analizza poi in relazione a ciascuna fase l'incidenza delle singole fonti. Individua a tal fine nel Liber 1.342 concetti giuridici che scompone in relazione ai quattro periodi indicati, con questi risultati: centotré concetti (pari a poco più del 7,5%) vanno fatti risalire al tempo di Ruggero; novantacinque concetti (7%) al tempo dei Guglielmo; settecentottantadue concetti (58%) al tempo della promulgazione di Melfi; trecentosessantadue concetti (27%) al tempo successivo quando furono inserite le Novelle.

L'analisi di Dilcher prosegue poi in modo ancor più penetrante rispetto a ciascuna fase. In relazione ai centotré concetti della fase rogeriana viene così evidenziata una dipendenza da altre fonti, tra le quali fortissima è quella del diritto romano. Assolutamente residuali risultano le influenze del diritto longobardo, bizantino e canonico, e in conclusione molto basso il tasso di originalità dei concetti giuridici elaborati in tale fase. Nel periodo guglielmino invece si registra un sensibile aumento percentuale di concetti autonomi e tra le fonti aumenta l'incidenza dei diritti longobardo e normanno. Nel corpus melfitano si registra invece un ritorno a una maggiore dipendenza percentuale da altre fonti, tra le quali compaiono significativamente la glossa della Scuola bolognese e i Librifeudorum (v.). Nelle Novelle infine si rivela il più alto grado di autonomia da altre fonti, segno di una maggiore sicurezza e creatività del legi-slatore nell'ultima fase del regno di Federico.

È superfluo sottolineare come una tale analisi meramente quantitativa finisca per considerare i concetti giuridici come tessere inerti tutte eguali, senza che se ne possa cogliere la diversa valenza nell'ordito complessivo. Pur con tali limiti, bisogna però dire che da essa deriva un quadro per certi aspetti inedito sulla evoluzione della legislazione normanno-sveva ‒ di cui il Liber è sintesi ‒ in rapporto alle culture giuridiche che l'hanno alimentata tra il 1140 e il 1247. E in tale evoluzione è possibile vedere riflessi i segni delle grandi trasformazioni politiche e giuridiche proprie di quel secolo straordinariamente fecondo per la storia del diritto, tanto da essere definito "secolo giuridico" (Niese, 1910, p. 200).

5. Prime reazioni

La storiografia più recente ‒ forse anche per reazione all'enfatizzazione degli ultimi due secoli ‒ ha molto insistito sull' indifferenza riservata dai contemporanei alla promulgazione della Costituzione. Basti citare in proposito Wieruszowski (1933, p. 43) e Reichert (1991, p. 42), che categoricamente afferma: "Al di fuori della Sicilia inizialmente il codice non fu neanche percepito [...]. Solo la storiografia della cosiddetta epoca dei lumi, con l'interesse proprio del tempo, verso lo stato e le sue forme, sembra aver recuperato la capacità di apprezzare le peculiarità [...] della legislazione del Regnum". Ancora più deciso il giudizio di Pispisa (1997, p. 301): "Federico splendido legislatore è una creazione della storiografia moderna, non della cultura medievale". La verità è che non mancò l'attenzione all'evento, in positivo e in negativo.

Sotto il primo profilo rilevante è la testimonianza che ci viene da un manoscritto ritrovato in tempi recenti. Si tratta di un testo conservato nella Biblioteca Universitaria di Erlangen rimasto a lungo sconosciuto. Esso contiene tre brevi brani su Federico e le sue Costituzioni attribuiti a Nicola, abate e diacono della Chiesa di Bari, e databili tra il 1231 e il 1239. Il manoscritto è stato edito e commentato da Rudolf M. Kloos nel 1954. I brani di Nicola di Bari attestano, con la forza della testimonianza immediata, la forte enfasi proprio intorno alle Costituzioni melfitane.

A queste manifestazioni laudative se ne contrappongono altre di segno negativo, come la diffida papale della vigilia e soprattutto la rivolta di Messina (v. Martino Bellone) esplosa proprio come reazione all'impianto antiautonomistico del Liber.

II. Il testo 

1. Una lenta stratificazione

Abbiamo già detto delle prime alterazioni subite dal testo nell'operazione di riproduzione manoscritta di copie, reclamate in ogni angolo del Regno.

Ben presto inoltre al testo di Melfi si aggiunsero ‒ e l'operazione durò finché visse Federico ‒ nuove costituzioni, le Novelle (v. Novellae), integrative o sostitutive delle precedenti. L'attività di assestamento e di aggiornamento, durata fino alla morte dell'imperatore, determinò presto l'alterazione dell'impianto originario perché "accresciuta la legislazione sveva di Novelle prescrizioni" queste furono disposte "nei luoghi propri del vecchio codice da quei dottori, che intendevano al maggior comodo del foro e della scuola" (Capasso, 1869, p. 46).

I manoscritti allo stato disponibili (molti quelli perduti o distrutti di cui si ha notizia) ‒ collocabili quasi tutti in età angioina tra la fine del XIII e la fine del XV sec. ‒ consentono di individuare, con qualche approssimazione, due linee di trasmissione del testo: una ridotta e un'altra, prevalente, più ampia. È forse verosimile pensare che la versione ridotta, pur con varianti significative, possa riprodurre in linea di massima l'impianto del testo originario promulgato a Melfi. La versione ampliata, la cosiddetta vulgata (il termine ‒ già usato per la Bibbia di s. Girolamo e poi anche per il Corpus iuris ricomposto dalla Scuola di Bologna ‒ per quanto ci risulta fu proposto per primo nel 1723 da Giannone [1823, V, p. 346]), presenta invece un testo più esteso, secondo un impianto tutto sommato costante, nonostante le tante varianti rilevabili tra le singole fonti. Tale versione si è detto che potrebbe derivare da una seconda edizione ufficiale della raccolta o, più probabilmente, da un assemblaggio operato da giuristi, per comodità di pratica e di consultazione, e affermatosi poi come versione consolidata, grazie alla sua sistematicità e attendibilità.

2. I manoscritti

Prima dell'avvento della stampa, cospicua fu la produzione di manoscritti, che nella varietà di espressione e struttura documentano il travaglio della formazione e tradizione del testo.

I manoscritti oggi disponibili sono di tre tipi, a seconda che riportino le Costituzioni nella versione originaria di Melfi, in quella integrata dalle Novelle o nella traduzione greca.

I Testo originario di Melfi

1) Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. Lat. 4625 (XV sec.);

2) Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Ottob. Lat. 2945 (fine XV sec.).

II -Testo integrato dalle Novelle:

1) Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Lat. 6770 (fine XIII sec.);

2) ivi, Regin. Lat. 1948 (seconda metà XIII sec.);

3) Valencia, Universidad, Biblioteca General, M417 (XIV sec.);

4) Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Lat. 1437 (prima metà XIV sec.);

5) Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. Lat. 4624 A (XIV sec.);

6) Palermo, Biblioteca Comunale, Qq H124 (1492).

III -Versione greca:

1) Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. Graec. 1392 (seconda metà XIII sec.);

2) Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Barb. Graec. 151 (già Barb. 147; XIII sec.).

3. Le edizioni

Il Liber ha avuto molte edizioni che sono lo specchio della sua fortuna. Di seguito ci limitiamo a un'arida elencazione delle stesse, rinviando per approfondimenti a uno studio specifico (Zecchino, 1996) e precisando che di ciascuna opera si offre qui l'indicazione del luogo, dell'anno di pubblicazione e del nome dell'editore-curatore:

1) Napoli 1475, F. Del Tuppo

2) ivi 1492, F. Del Tuppo

3) Venezia 1506, N. Superanzio

4) Napoli 1521, C. de Perrinis-P.P. d'Anna

5) ivi 1533, C. de Perrinis-P.P. d'Anna

6) Lione 1533, N. Superanzio

7) ivi 1534, ristampa della precedente (nostro recente ritrovamento)

8) ivi 1537, N. Superanzio

9) Napoli 1545, C. de Perrinis-P.P. d'Anna

10) ivi 1552, C. de Perrinis-P.P. d'Anna

11) Lione 1559, G. Sarayna

12) ivi 1560, G. Sarayna

13) ivi 1568, G. Sarayna

14) Venezia 1580, G. Sarayna

15) ivi 1590, G.B. Muzillo

16) Napoli 1605-1643, C. Tapia

17) Francoforte 1613, F. Lindembrogio

18) Napoli 1773, A. Cervone

19) Venezia 1781, F.P. Canciani

20) Napoli 1786, G. Carcani (propone a fronte il testo greco)

21) Parigi 1852-1861, J.-L.-A. Huillard-Bréholles

22) Palermo 1887, A. Todaro-A. Todaro

23) Colonia-Vienna 1973, H. Conrad-T. Von Der Lieck-Buyken-W. Wagner

24) ivi 1978, T. Von Der Lieck-Buyken (edizione della versione greca)

25) Hannover 1995, W. Stürner

26) Lavello 2001, A. Romano-D. Novarese (con traduzione italiana).

III. La maturazione del progetto

1. 1220: anno cruciale

L'idea del Liber maturò progressivamente. Federico non potette non avere l'ambizione di lasciare la sua orma come legislatore. Scontata, ma pertinente, l'evocazione del modello da emulare, il sommo Giustiniano, ma anche il geniale suo nonno materno, che fu tra i primi a far risorgere il diritto codificato nell'Europa del secondo millennio. Conclusa l'impresa di Germania, acquisita la dignità imperiale, mantenuta contro tutti la corona di Sicilia, il tempo spingeva verso il grande progetto. Teatro dell'impresa non poteva essere che il Regno di Sicilia, non solo perché come Federico stesso volle scrivere nel Liber (I, 95.1) lo "consideriamo il primo tra tutti e vogliamo coltivarlo come giardino eletto", ma anche perché lì soltanto il suo dominio aveva un compiuto senso di effettività rispetto alla lontana e disarticolata Germania e all'evanescente Impero.

Il decennio 1220-1231 è appunto il tempo della maturazione. Il 1220 fu anno cruciale per gli assetti politici d'Europa. In aprile Federico alla dieta di Francoforte riuscì a far eleggere re di Germania suo figlio Enrico che aveva appena nove anni e che era stato invece destinato a essere re di Sicilia, secondo antiche intese con Innocenzo III. L'atto segnò la inequivoca volontà di Federico di mantenere per sé l'Impero e il Regno di Sicilia. La Curia romana fu turbata dalla decisione ma, messa di fronte al fatto compiuto, fu indotta ad accettare anche per la promessa dello Svevo di organizzare e guidare la crociata.

Per far eleggere Enrico, Federico il 26 aprile dovette concedere ai potenti principi ecclesiastici il Privilegium in favorem principum ecclesiasticorum (M.G.H., Leges, 1896, nr. 73, p. 86; v. Confoederatio cum principibus ecclesiasticis), che rafforzava i loro poteri sul territorio. Il privilegio fu dettato certo dall'accennata necessità, ma era anche espressione di una linea verso la feudalità che caratterizzerà la politica fridericiana e le scelte del Liber. Una linea di indiscusso riconoscimento, all'interno di una dialettica sui reciproci poteri, ben diversa da quella di pregiudiziale e costante opposizione rispetto alle città.

Assicurato un tutore-reggente al piccolo sovrano, Federico lasciò la Germania rientrando così in Italia dopo otto anni di assenza. Il 22 novembre a Roma fu solennemente incoronato imperatore. Nell'occasione emanò per l'intero Impero, dall'alto della sua nuova autorità, un insieme di leggi, la Constitutio in basilica beati Petri (v.), che contribuì a rasserenare ulteriormente i rapporti con la Curia romana che di quelle leggi fu molto più che ispiratrice.

Nel mese successivo Federico ritornò finalmente nel suo Regno di Sicilia, da cui si era allontanato otto anni prima, lasciandolo in una condizione di disordine istituzionale che, iniziata con la morte di Ruggero II (1154), con alterne vicende si era aggravata nell'ultimo trentennio. Vi rientrò pago dell'acquisita autorità imperiale e della conferma definitiva del Regno di Sicilia. Vi rientrò con il proposito di ripristinare nell'immediato ordine e tranquillità attraverso il rafforzamento dell'autorità regia, forse puntando per i tempi lunghi su di un programma più ambizioso: unificare le terre imperiali d'Italia al Regno di Sicilia. Di certo già da allora pensò a una poderosa riorganizzazione del Regno.

Il disegno in sé non era innovativo, perché il modello restava quello definito da Ruggero e Guglielmo II. I suoi propositi Federico comunque li manifestò subito con atti concreti: fece arrestare alcuni baroni che si erano recati a Roma per la sua incoronazione imperiale (nella speranza di far così dimenticare le loro malefatte nell'assenza del sovrano) e dopo pochi giorni convocò a Capua ‒ città che per la sua posizione era considerata la 'porta' del Regno ‒ un'assemblea di magnati, nella quale promulgò, per assicurare ordine e tranquillità nel Regno, un primo corpo di leggi costituito da venti capitoli.

2. Il primo abbozzo

Con le Assise di Capua (v.) Federico tamponò alcune delle falle urgenti che si erano aperte durante la lunga assenza e pose mano a un primo abbozzo del suo disegno. Le venti disposizioni, in sintesi, sono orientate a esaltare l'autorità regia, a frenare lo strapotere feudale e a comprimere le autonomie locali. Qualche mese dopo (primavera del 1221) promulgò un secondo corpo di leggi, le Assise di Messina (v.), maggiormente orientato a regolare aspetti di vita sociale.

Le Assise di Capua nella loro stringatezza furono un sussulto molto violento per un Regno che si andava assestando su una vita interna sostanzialmente anarchica. Anche per il papa fu motivo di meraviglia la repentinità e durezza dell'intervento di Federico che, nel volgere di pochi giorni dall'incoronazione imperiale, aveva assunto il piglio deciso di monarca autocrate. Sollecitato dalla Chiesa del Regno, per le conseguenze che la revisione dei privilegi causava anche a essa, Onorio si risolse a scrivere una lettera conciliante ma preoccupata, alla quale Federico rispose dando ampie assicurazioni (ibid., nr. 417, p. 547).

Altra tappa verso il compimento del disegno fu la fondazione dello Studio di Napoli (1224), legato al Liber da un rapporto di complementarità, per essere entrambi momenti e strumenti di una stessa strategia: lo Studium doveva fornire il materiale giuridico (attraverso il rinnovato studio del diritto romano) e le risorse umane necessarie, e il Liber da parte sua doveva definire l'assetto istituzionale. Federico prometteva infatti ai futuri giurisperiti l'inserimento nell'apparato regio, secondo selezioni meritocratiche, senza dar peso a ceto e a censo.

3. La spinta degli eventi

Gli avvenimenti in Italia e in Germania sul finire degli anni Venti consolidarono in Federico il convincimento della pericolosità delle autonomie cittadine per i Regni e l'Impero.

La costituzione della seconda Lega lombarda indusse Federico a vani tentativi di intesa. Ne dà notizia egli stesso in una lettera enciclica dell'11 luglio del 1226 (ibid., nr. 107, p. 136) nella quale si dice costretto, con il consenso dei maggiorenti, alla revoca di "tutti i diritti che alla collettività e ai singoli potessero derivare dalla Pace di Costanza". Lo strappo di Federico fu grande perché la pace di Costanza, considerata ormai la Magna Carta dei diritti e delle libertà municipali, aveva assunto nella coscienza giuridica generale un tal peso da essere inserita dai maestri bolognesi nel Corpus iuris tra le fonti della sapientia legalis. Era quindi ormai ius commune (v.) e ben poco poteva valere il parere dei consiglieri di Federico che, considerandolo ius speciale in quanto privilegio concesso dall'imperatore, lo ritenevano invece revocabile.

Alla costituzione della seconda Lega lombarda aveva fatto riscontro la nascita in Germania di una prima lega autonomistica. L'ostilità della potente feudalità non si fece attendere. Per placarla suo figlio Enrico ‒ che non nascondeva un orientamento filocittadino ‒ fu suo malgrado costretto prima a emanare un editto (Worms, gennaio 1231) per vietare "constitutiones, colligationes, confederationes vel coniurationes aliquas" (ibid., nr. 299, p. 413) e poi sempre a Worms ‒ nel maggio dello stesso anno, quando a Melfi cioè stavano per iniziare i lavori della commissione per la redazione della Costituzione ‒, verosimilmente per volere dello stesso Federico, un privilegio (ibid., nr. 304, p. 418) con cui si rafforzavano i poteri del feudatario, riconosciuto dominus terrae, si comprimevano quelli delle città e si ridimensionavano quelli dello stesso re.

Temporaneamente frenata in Germania, la spinta municipalistica restava viva e agguerrita nel Nord Italia ove, due mesi dopo, veniva rinnovata la Lega lombarda a Mantova.

Da questi eventi, e dalle vicende degli ultimi tre anni, venne un'accelerazione alla concretizzazione del progetto di una nuova legislazione. L'occupazione del Regno da parte dell'esercito papale durante la crociata e il tradimento di città e vassalli (che ‒ per dirla con Abulafia [1990, p. 49] ‒ nel test di lealtà dei momenti difficili dimostrarono insieme la loro inaffidabilità e la precarietà della vita istituzionale del Regno) furono infatti per Federico potenti spinte all'azione.

Dopo aver firmato la pace col papa, forte dei successi conseguiti, finalmente rasserenato, impose una nuova verifica dei privilegi (gennaio 1231), per smascherare ulteriormente usurpazioni e abusi consumati durante la sua assenza, e avviò concretamente l'impresa del Liber dando inizio all'attività preparatoria. Questa successione logico-cronologica sarà resa esplicita in una costituzione (I, 73.1): "ottenuta la vittoria […] la principale attenzione della nostra mente è rivolta a legare la giustizia alla pace"; e ancora: "un nuovo virgulto della giustizia spunti nella vittoria del nuovo re" (v. Giustizia).

4. Il disegno politico

Nel Medioevo, tempo della dissoluzione dello stato e perciò "del dominio esclusivo del diritto privato" (De Ruggiero, 1945, p. 2), la legislazione fridericiana si presenta con una indiscutibile carica di innovatività in quanto espressiva di un progetto di ricostituzione e centralizzazione del potere politico e di sua crescente ingerenza nella vita sociale. È perciò esercizio non inutile tentare di cogliere tale valenza progettuale e programmatica, pur non ignorando i condizionamenti e gli stravolgimenti subiti già al primo impatto con la realtà, per la precarietà dei rapporti della monarchia con i poteri interni ed esterni al Regno, oltre che per le resistenze popolari e per la stessa vocazione autocratica di Federico, che lo induceva a trasformare in norma ogni suo nuovo volere.

La vera novità che si manifesta con Federico è una diversa coscienza del rapporto potere-diritto. Si è detto che il diritto medievale era espressione di un ordine soggiacente. Così inteso il diritto ispirava l'ideologia politica e l'azione politica doveva essere giustificata dal diritto (Paradisi, 1982, p. XXII). Federico inverte il rapporto e piega il diritto a un disegno politico. Il rapporto tra diritto e potere si avvia così alla rottura dell'equilibrio antico con il condizionamento e la subordinazione del primo al secondo. La novità è insomma nell'agire politico di Federico perché la sua ratio ormai "non era quell'ideale che i maestri di diritto teorizzavano dalle cattedre [...] ma era un'altra ratio: era solo e nient'altro che la norma dell'azione politica, la legge motrice dello Stato: che sono le parole con le quali Federico Meinecke definisce la ragion di Stato" (Calasso, 1987, p. 61; anche Grossi [1995, p. 134] riconosce che tra le "anticipazioni" e i "presagi" maturati nell'esperienza fridericiana va annoverata "la visione strumentale ‒ e il tentativo di strumentalizzazione ‒ del diritto a quella che ‒ anacronisticamente ‒ non esiteremmo a chiamare la ragion di Stato").

Ed è proprio l'esistenza di un 'disegno politico' che connota in modo originale l'esperienza del Regnum, già con Ruggero e più ancora con Federico. È stato scritto che il "discrimine fra la monarchia [...] del genuino medioevo e la nozione di Stato riposa non tanto in una relativa sovranità o in una quantità di apparato, ma piuttosto in una diversissima psicologia del potere. Lo Stato è un certo modo di intendere il potere politico e i suoi compiti, è innanzi tutto […] un programma che tende alla globalità; è la vocazione a far coincidere l'oggetto del potere con la totalità dei rapporti sociali; è la vocazione a diventare un potere compiuto" (Grossi, 1995, p. 46).

Il Regno fridericiano ‒ grazie alla corposa Costituzione melfitana che promette di regolarne gli assetti istituzionali e la stessa vita economica e sociale ‒ dimostra, indubbiamente, tale vocazione. Proprio per questo il Liber è stato però giudicato (ibid., p. 135) "testimonianza singolare, legata a un personaggio straordinario", rispetto a quel "genuino medioevo", cui per definizione non si attaglierebbero i concetti di legislazione e statualità (sul tema in generale: Fell, 1991, passim; Pennington, 1993, passim; Origini dello Stato, 1994, passim). In realtà i cronisti meridionali non avevano mancato di cogliere questa nuova psicologia del potere, già al tempo dell'esperienza normanna. "Che se poi alla coscienza del Regno si dovesse ricondurre anche il senso dello Stato, dai nostri cronisti potremmo ricavare solo qualche loro incerta nozione giuridica; ma è noto, senza scomodare Hegel, che il senso dello Stato implica la presa di coscienza di valori etici ed ideali e che si venne faticosamente affermando attraverso la crisi di coscienza europea dell'età moderna. Di questo senso dello Stato, nonché trovar traccia nell'Italia Meridionale normanna, mi è difficile, ancor oggi, trovare i segni". Queste parole di Nicola Cilento (1983, p. 184), valide per la ancor più evoluta monarchia sveva, ci sembra che ridimensionino talune tendenze radicali, relativizzando il senso di concetti e termini, per tanti versi insostituibili, riferiti a fenomeni che nelle singole concretizzazioni storiche non possono conoscere identità di lineamenti.

5. Legge per un Regno e manifesto per l'Impero

La Costituzione fu promulgata da Federico come legge da essere valida "solo nel nostro Regno di Sicilia […] preziosa eredità della nostra maestà". Lo dice egli stesso nel Proemio del Liber esaltando poi in un'altra disposizione la Sicilia "giardino eletto" da rendere "specchio per l'imitazione di quanti lo osservano e modello per i regni" (I, 95).

In pochi decenni s'era compiuta una grande svolta nel rapporto tra l'Impero e le neonate realtà politiche territoriali. Ancora nella dieta di Roncaglia (1158) il Barbarossa, nonno di Federico, proclamava ‒ su parere dei quattro dottori bolognesi Martino, Bulgaro, Iacopo e Ugo ‒ competere soltanto alla maestà imperiale provvedere alle esigenze della Respublica, ritenendosi ancora dominus mundi. A quel tempo l'imperatore considerava ancora il re di Sicilia un usurpatore dei suoi diritti sovrani, perché il Mezzogiorno, come parte del Regnum Italicum doveva essere suo legittimo possedimento e chiamava spregiativamente reguli i re dei Regni di nuova costituzione.

In quegli anni la prevalente dottrina giuridica, che era filoimperiale, teorizzava ancora la limitazione delle fonti del diritto alla legge e alla consuetudine. Secondo tale teoria il potere di fare leggi competeva al solo imperatore. In via subordinata veniva riconosciuto valore di fonte del diritto alla consuetudine, purché non contrastasse con la legge. Questa teoria fu travolta nel giro di qualche anno anche al Nord dalla forza prorompente dei nuovi poteri legislativi municipali, com'è comprovato dalle fonti notarili disponibili.

Nel Regno di Sicilia questo processo di affermazione della nuova realtà politica ‒ al di là dei riconoscimenti esterni ‒ s'era compiuto molti decenni prima e aveva avuto due sanzioni formali con l'incoronazione di Ruggero quale primo re del nuovo Regno (1130) e con la promulgazione di un primo corpo di leggi, le Assise di Ariano (1140; v.).

Sulla scia di questi precedenti le Costituzioni di Melfi furono certamente promulgate come leggi per il solo Regno di Sicilia ma in non pochi passaggi e in non pochi principi furono pensate con riferimenti più universali perché ‒ in un'alternanza di sovrapposizioni e sdoppiamenti ‒, quantunque fossero rivolte dal re ai sudditi del suo Regno, consentivano spesso anche all'imperatore di esprimere ciò che avrebbe voluto proclamare e disporre per l'intero Impero. Con la consueta forza espressiva ha scritto in proposito Francesco Calasso (1987, p. 55): "Il Liber Augustalis giuoca tutto sulla dialettica di questi interni contrasti", perché "quella separatio del Regno dall'Impero [...] era il fragile velo di una finzione giuridica: l'unione personale [...]. Ma il velo [...] si dileguava del tutto quando lo investiva, bruciandolo, la luce troppo viva e troppo calda della concezione maiestatica federiciana: l'imperium". E per questo intreccio di poteri e di ispirazioni il Liber può dirsi paradigmatico di quel complesso rapporto tra ius commune e ius proprium, ormai concordemente non contenibile nello schema della gerarchia delle fonti.

In realtà nello Svevo convivrà l'aspirazione dell'ultimo grande imperatore del Sacro Romano Impero di ridare forza e prestigio a quella declinante istituzione ‒ contro principi e autonomie comunali ‒ con la vocazione di un monarca territoriale ad affermare con le sue leggi la 'sovranità' piena del suo Regno. A Federico, che, undici anni prima, con la Constitutio in basilica beati Petri, aveva offerto una delle ultime espressioni del potere legislativo imperiale, toccherà poi di offrire la più alta espressione di quei diritti particolari, incalzanti sotto la spinta delle specifiche esigenze emergenti nelle sempre più forti e vitali nuove formazioni politiche.

6. Al vertice dell'ordinamento. - Il rapporto tra le Costituzioni e le altre fonti giuridiche del Regno è fissato espressamente in diverse disposizioni tra cui la celebre Puritatem (I, 62.1): "con la presente legge stabiliamo che tutti i camerari e baiuli [...] giudicheranno secondo le nostre Costituzioni ed in mancanza di esse secondo le consuetudini approvate ed in ultimo secondo i diritti comuni cioè secondo il diritto longobardo ed il diritto romano, come esigerà la condizione dei litiganti".

Com'è noto quest'espressione della Puritatem è stata al centro di un secolare dibattito esegetico, divenuto aspro nella prima metà del Novecento nel contrasto fra Calasso e Monti. Il primo ha giudicato l'espressione iura communia (frutto di interpolazione, comunque della prima metà del XIII sec.) priva di "significato tecnico", perché il diritto longobardo "di fronte al romano era sempre ius speciale" (Calasso, 1951, pp. 53-54). Il secondo, invece, dopo aver dimostrato "infondata l'espressione del Calasso che nelle Costituzioni per ius commune s'intende sempre il diritto romano" e aver ribadito che solo più tardi per diritto comune s'intenderà esclusivamente il romano, conclude che al tempo di Federico esistevano due diritti comuni, il romano e il longobardo, la cui applicazione rispondeva al criterio della personalità del diritto (Monti, 1987, pp. 208 ss.).

Monti in verità si pose anche il problema della datazione della costituzione Puritatem ‒ che alcuni autori settecenteschi (Giannone e Pecchia) avevano attribuito a Guglielmo I, retrodatandola così di vari decenni ‒ risolvendolo però nel senso della paternità fridericiana. A noi sembra che la questione vada riaperta anche alla luce di una testimonianza recentemente ritrovata, l'edizione cioè del 1492 (Zecchino, 1996, p. 16), che offre la versione riveduta e corretta dell'editio princeps, a opera dello stesso editore (Del Tuppo), e che attribuisce la Puritatem a Guglielmo. La retrodatazione finirebbe per incidere sulla interpretazione della disposizione perché la riporterebbe in un contesto politico e giuridico diverso, nel quale il rapporto tra diritto romano e longobardo era più equilibrato e nel quale l'aggettivo commune non aveva assunto il pregnante significato dei tempi successivi.

Il dato politicamente e costituzionalmente rilevante che emerge dalla Puritatem è comunque quello dell'assoluta preminenza che Federico assegna nel Regno al Liber rispetto a qualunque altra fonte normativa, comprese le sue stesse Costituzioni imperiali emanate per tutti i popoli dell'Impero. È questa una delle più forti espressioni della maiestas fridericiana, come enfaticamente s'è spesso ripetuto, talora dimenticando l'analoga e ben più antica disposizione rogeriana. Il nonno di Federico, Ruggero II, infatti, novant'anni prima, nelle Assise di Ariano, aveva già affermato lo stesso principio, pur con non piccole diversità di toni e di implicazioni applicative.

7. Il contesto europeo

La Costituzione fridericiana, ponderosa anche se tutt'altro che organica, nacque certamente dal disegno politico del suo autore, che si pose nel solco tracciato dall'avo materno, ma fu anche espressione di quel generale risveglio legislativo che caratterizzò l'Europa del XIII sec. e che poté contare su una comune cultura giuridica legata alla riscoperta del diritto romano. Proprio quest'ultimo divenne lo strumento principale per l'affermazione dell'autonomia del potere secolare.

La storiografia generalmente non ha prestato molta attenzione a questo dato e ha invece insistito sulla originalità dell'opera fridericiana e della stessa esperienza del Regnum.

La base romanistica del Liber, e prima ancora delle Assise rogeriane, non fu certo connotato esclusivo di quel testo, ma elemento di una cultura giuridica ormai comune a gran parte dell'Europa. Soltanto di recente la storiografia ha mostrato maggiore attenzione verso la comparazione di quanto si sviluppò nel mondo del diritto nell'Europa del XIII sec., giungendo alla conclusione che si trattò di una generale spinta alla codificazione (Gagner, 1960, passim).

Si trattò più propriamente della prima ondata di codificazioni in Europa. Bisognerà attendere sei secoli per averne una seconda più estesa ed organica. Armin Wolf, in una relazione a un recente convegno dedicato al Liber e alla storia comparata delle codificazioni europee (1997, p. 91 ss.), ha documentato che nell'arco di tempo di cinquant'anni, tra il 1231 e il 1281, fu realizzato uno straordinario numero di codificazioni in tutti gli stati, sotto la spinta dei tanti giuristi conoscitori del modello di codificazione giustinianeo, entrati in quel tempo al servizio dei regnanti, i quali a loro volta erano tra loro legati quasi sempre da un rapporto di parentela.

Norbert Kamp (1996, pp. 2 ss.), a sua volta, nel delineare l'orizzonte europeo in cui operò Federico ha sottolineato la condizione di alleanza permanente tra i regnanti dell'epoca, che insieme formavano quel corpus saecularium principum nel cui ambito l'imperatore era primus inter pares. Tutte le monarchie si trovarono in quel momento di fronte a compiti che tradizionalmente non rientravano nelle loro esperienze né nel loro patrimonio culturale e che tuttavia esse dovevano dominare se volevano lasciare aperta alla sovranità che loro spettava la strada del futuro. Secondo lo storico tedesco la monarchia per tenere il passo con i nuovi bisogni dei sudditi, con la loro esigenza di diritto e di amministrazione ordinata, senza lasciare spazio a centri di potere autonomo (feudalità, Chiesa, municipalità), dovette organizzare nel paese una rete amministrativa capace di garantire ovunque la sua presenza. La nascita di questa rete con personale legato centralmente alla monarchia costituì un indirizzo europeo comune, in contrasto con il principio della delegazione di tutte le funzioni pubbliche sulla base del diritto feudale.

Questa dunque la cornice entro cui maturò la generale spinta verso una normazione che fosse certa e innovativa per poter dare risposte alle nuove pressanti esigenze sociali e politiche.

Il Liber inserito in questa cornice fu espressione dello specifico clima culturale ma fu anche motore che spinse altri Regni nella stessa direzione, ponendosi come modello secondo gli ambiziosi auspici proprio di Federico (Const. I, 95).

Contro questa ondata si mobilitarono tutte le opposizioni determinando presto quel riflusso, che investirà, già subito dopo la morte di Federico, la sua stessa Costituzione, ma che ebbe dimensione europea (Wolf, 1997, pp. 103 ss., offre una panoramica del fenomeno in ciascun paese).

Il riflusso che si determinò a partire dalla fine del XIII sec. farà sì che fino alla fine del XVII il problema della legislazione e della codificazione resterà del tutto ai margini della riflessione del diritto. L'apparire del diritto codificato in senso moderno si avrà poi quando si giungerà al pieno ed esclusivo intervento dello stato in campo normativo. Monopolio statale del diritto, oggi attraversato da una crisi profonda che apre nuovamente la prospettiva della decodificazione e della rivalutazione del pluralismo giuridico proprio dell'esperienza medievale.

Il tema della codificazione conferma in definitiva che "la storia dà luogo ad un duplice e continuo movimento dialettico, sincronico e diacronico [...]. Nel campo del diritto quest'alternanza […] ha scandito la tendenza ad allontanarsi o a cercare il riferimento ai complessi di fonti specifiche, come il Corpus Iuris, o la codificazione. Si può parlare perciò di un movimento di diastole e di sistole" (Ajello, 1998, pp. 125-126). Tale oscillazione nel lungo arco di tempo che ci separa dalla vicenda fridericiana ha finito spesso per condizionare i giudizi sullo Svevo e sulla sua codificazione, in funzione appunto delle alternanti tendenze contingenti.

IV. Il Liber nel contrasto con Gregorio IX

1. La diffida del papa:

a) lo 'scandalo' della Costituzione

Gregorio IX, che da un anno aveva avviato l'ambizioso progetto del suo codice di diritto canonico (lo promulgherà nel 1234), non poteva non sapere del progetto di Federico. Senza aver ricevuto alcuna informazione, ufficiale o riservata, gli giungevano voci tali da amplificare la portata dell'impresa fridericiana, che comunque si annunciava innovativa e di grande respiro. Questo dato e l'assenza di notizie certe dovettero molto allarmarlo, sicché, quando capì che l'opera stava per giungere in porto, non gli restò che tentare di bloccarla. Gridò così allo 'scandalo' in due lettere (Pennington, 1989, pp. 60-61) indirizzate rispettivamente a Federico e all'arcivescovo di Capua Giacomo, ritenuto magna pars nella compilazione del testo. "Simili novità sono solite suscitare gravi scandali" è scritto nella lettera a Federico, e in quella all'arcivescovo capuano si parla di Costituzioni suscitatrici di "enormi scandali".

L'espressione della lettera a Federico è rimasta finora ignota al dibattito storiografico perché tutti gli editori ottocenteschi si sono rifatti alla prima edizione, quella di Odorico Rinaldi del 1693 (Annales ecclesiastici, 1693, XIII, pp. 376-377), che l'aveva omessa. Si deve oggi a Kenneth Pennington (1989, pp. 60-61) l'aver colmato la lacuna con un'edizione più completa e corretta.

L'invito a Federico a desistere dall'impresa, ancorché non perentorio, è deciso. Per la comprensione delle tante questioni implicate, il testo merita di essere riportato nei suoi passi salienti: "Abbiamo appreso che tu, di tua iniziativa o sedotto da cattivi consiglieri, ti proponi di emanare nuove leggi, donde segue necessariamente che ti si chiami persecutore della Chiesa e sovvertitore della libertà pubblica […]. Chi potrà con cuore indurito ascoltare le prevedibili grida di dolore, dei tanti che patiranno? [...] Affinché dunque non vada avanti ciò che in qualunque modo non deve essere assolutamente iniziato, chiediamo all'altezza imperiale […] perché, saggiamente avvertendo che simili novità sono suscitatrici di grandi scandali, non consenta che tu ti faccia indurre ad andare avanti verso ciò che può essere imputato come biasimevole sia a te che a noi, dal momento che a te non è lecito farlo e a noi non lo è tollerarlo".

Contemporaneamente il papa scrive al suo arcivescovo di Capua: "Guai a quelli che promulgano leggi inique, e a quelli che mettono per iscritto l'ingiustizia; […] tu stai redigendo [...] Costituzioni che attentano alla salvezza e suscitano enormi scandali. Forse ti è consueto usare foglie di fico per perizoma, dal momento che accampi come scusa il fatto che non sei il legum dictator, ma solo il calamus scribentis, non avendo scrupolo di provocare noi che quelle leggi non possiamo assolutamente tollerare [...]".

Nell'accusare con toni molto duri il suo vescovo di essere il legum dictator delle leggi fridericiane in gestazione, da cui la Chiesa non poteva aspettarsi niente di buono, Gregorio IX non poteva non avere davanti agli occhi una disposizione della Constitutio in basilica beati Petri, emanata proprio da Federico nel giorno dell'incoronazione imperiale, che recita: "comandiamo che venga considerato abrogato ogni statuto e consuetudine […] contro la libertà della Chiesa […]. Da questo momento siano giudicati infami i podestà, i consoli, i rettori, i giuristi e gli scriptores dictorum statutorum" (Historia diplomatica, II, 1, p. 4). Proprio il caso del vescovo di Capua! Ma ora il papa si trovava nella incomoda situazione di dover invocare contro lo scriptor di leggi scandalose, che Federico stava approntando per il suo Regno di Sicilia, una norma da quest'ultimo emanata come imperatore per tutto l'Impero.

Perché gridare allo scandalo? Il termine non è certo usato e insistito a caso, avendo soprattutto in quel tempo una valenza specifica giuridico-teologica nell'ordinamento della Chiesa e nel generale unitario ordinamento della Santa Romana Repubblica in cui si riconosceva la cristianità, senza le separazioni ordinamentali dei tempi successivi. Lo scandalo non è il peccato che intacca la condizione spirituale dell'individuo ma è l'attentato alla salvezza della comunità dei fedeli, è la messa in pericolo della salus animarum. S. Tommaso di lì a poco lo definirà "dictum vel factum minus rectum, praebens occasionem ruinae" (Summa theologica, III, Secunda secundae partis, Romae 1886, 9. XLIII). Principio teologico indiscusso è che scandalum vitandum est, appunto perché è da evitare l'occasio ruinae. Evocare il pericolo dello scandalo è dunque dovere della Chiesa per preservare la salus animarum. Gregorio nel denunziare il rischio di "gravi scandali" e poi ancora di "enormi scandali" alza molto il livello della sua disapprovazione, indirizzandola lungo i binari canonici dell'ammonizione ufficiale a tutela della salus animarum. Scrivere infatti che le Costituzioni suscitano scandalo e attentano alla salvezza significa porre Federico di fronte alle proprie responsabilità innanzi alla comunità dei fedeli. È difficile non sentire nell'ammonizione del papa l'eco delle parole di Gesù: "guai al mondo per gli scandali! [...] ma guai all'uomo per colpa del quale avviene lo scandalo" (Matteo 18, 7).

In generale sull'intervento di Gregorio è invece prevalsa l'interpretazione riduttiva che esso fosse ispirato dalla preoccupazione di possibili lesioni agli interessi della Chiesa, che sarebbero state evitate proprio dalla diffida preventiva. In realtà sul papato premeva un grumo inestricabile di motivi, non solo pratici ma anche e soprattutto ideologici, di portata rilevantissima, in gran parte inesplicitabili, tali da rendere quelle leggi "assolutamente non tollerabili".

Per districare la matassa occorre perciò provare ad analizzare tutte le ragioni, anche inespresse, della diffida. Al di sotto di esse v'era comunque una condizione psicologica del papa, di delusione e preoccupazione insieme. Il cammino verso la pace di San Germano era stato tormentato e ora di colpo tutto gli sembrava precipitare nuovamente nella vischiosità del tempo passato. Non è un caso che nella lettera a Federico preconizzi "le grida di dolore dei tanti che patiranno" a causa delle nuove leggi, utilizzando il medesimo termine (ululatus) usato tre anni prima in una lettera allo Svevo per contestargli le sue vessazioni: "è giunto [aveva scritto] fino a noi […] il grido di dolore […] della Chiesa e dei chierici del Regno di Sicilia" (7 maggio 1228; M.G.H., Epistolae, 1883, nr. 327, p. 289).

b) L'insofferenza verso un re-vassallo

Federico ‒ proseguendo in una tradizione di ambiguità, iniziata da Roberto il Guiscardo, nell'uso delle formule di assoggettamento, sempre in bilico tra significato giuridico-feudale e religioso-devozionale ‒ aveva in più occasioni fatto giuramento al papa, dichiarandosi fidelis di Santa Romana Chiesa, a cominciare dal febbraio 1212, quando proteso alla conquista della Germania solennemente aveva dichiarato a Innocenzo III: "ero fidelis […] sancte Romane ecclesie ac tibi domino meo pape Innocentio tuisque catholicis successoribus", (M.G.H., Diplomata, 2002, nr. 148, p. 287), ripetendo poi la professione ai successori.

Il papato, che aveva incassato quei giuramenti nell'accezione feudale, soprattutto nei momenti in cui Federico era in difficoltà, intendeva far valere il suo ruolo di superiore autorità. Federico inoltre aveva anche promesso, in tutte le tappe della sua ascesa, di ascoltare i consigli del papa. Gregorio, quando il conflitto esploderà, in una lettera gli rinfaccerà quest'inadempienza: "[…] noi, del cui consiglio avresti dovuto tenere costantemente conto, come pure avevi più volte promesso" (23 ottobre 1236; M.G.H., Epistolae, 1883, nr. 703, p. 599).

In questo contesto ‒ con vari capitoli della pace di San Germano inattuati da un anno ‒ a Gregorio dovette sembrare del tutto inaccettabile che Federico si accingesse a imporre al Regno una Costituzione così complessa e ambiziosa senza averlo neppure consultato.

Non mancheranno successivamente, con l'inasprirsi dei rapporti, espresse lamentele papali per far pesare non solo la sua autorità spirituale, ma anche il ruolo di superiore signore feudale. In una lettera del 15 luglio 1233 (ibid., nr. 550, p. 444) lamenta infatti le spietate repressioni contro presunti ribelli, inflitte sub hereticorum pretextu. Vi sono poi specifiche denunzie di abusi, in particolare contro nobili spogliati dei loro castra e dei loro beni (ibid., nr. 700, p. 596). Il papa ritornerà ancora sulla questione in una lettera dell'ottobre 1236 per condannare "episodi di oppressione degli uomini del Regno, nel quale nessuno muove una mano o un piede senza tuo ordine" (ibid., nr. 703, p. 599).

c) Il timore di lesioni della libertas ecclesiae

Questo timore è stato generalmente ritenuto dalla storiografia più recente la ragione scatenante della diffida che avrebbe conseguito lo scopo (Pennington, 1989, p. 58; Stürner, 2000, p. 193).

Avremo modo più avanti di verificare la reale portata delle disposizioni del Liber che peggiorarono la condizione della Chiesa nel Regno. Intanto va ricordato che l'espressione libertas ecclesiae stava a indicare il diritto della Chiesa a una piena libertà esterna, il diritto cioè a non vedere gravate le persone e le proprietà ecclesiastiche da controlli, giudizi ed esazioni da parte del potere temporale. Il privilegio del foro in particolare, che ne era l'aspetto più rilevante, era stato sanzionato in esplicite statuizioni del Decreto di Graziano (c. 11, q. 1) e di decretali successive raccolte poi da Gregorio IX nel suo Liber Extra (II, 1 e 2). Questa pretesa si saldava, dai tempi di Gregorio VII, alla rivendicazione della libertà interna, cioè all'altra pretesa della Chiesa di non subire ingerenze nella sua vita interna.

Mentre sul versante della libertà interna il contrasto tra papato e Impero era stato sempre acuto, su quello della libertà esterna si era nel tempo tra loro consolidata un'alleanza contro le nascenti entità politiche.

La posizione di Federico, come imperatore, fu in linea con la tradizione, e anzi la rafforzò. Rientrato in Italia dopo la lunga permanenza in Germania, emise infatti un decreto generale rivolto "ai podestà, consoli […] di tutte le città d'Italia" con cui ordinò che fossero cassate dagli statuti le disposizioni lesive della libertas ecclesiae (24 settembre 1220; M.G.H., Leges, 1896, nr. 79, p. 100). La sanzione solenne di questa linea di condotta verrà, dopo meno di due mesi, con la già ricordata Constitutio in basilica beati Petri, che Federico emanerà in occasione della sua incoronazione imperiale.

Si tratta di un complesso di leggi di enorme importanza per la Chiesa, un riconoscimento pieno delle sue antiche pretese su libertas ecclesiae ed eresie. Redatte quasi certamente nella cancelleria papale, esse aiutano a capire la cedevolezza di Onorio III verso Federico nelle ultime vicende. Lo Svevo comunque fece suo l'intero testo, promulgandolo e inviandolo "a tutti i dottori e scolari delle sacre leggi di Bologna" (Historia diplomatica, II, 1, p. 9), con l'orgoglio di farlo inserire nel Corpus iuris insieme alle Costituzioni di Giustiniano e dei suoi predecessori.

La promulgazione da parte dell'imperatore, che si rivolge "a tutti i popoli che regge l'Impero della nostra clemenza", fu seguita da un inusuale atto pubblico di approbatio del papa. Quanto ai destinatari il papato non ebbe dubbi: tutta la cristianità, con ciò resuscitando la teoria della missione e della potestà universale dell'Impero. Ha scritto Giovanni De Vergottini (1952, pp. 162-166): "erano anni che il Papato sgretolava alla base il mito secolare della funzione universale dell'Impero e […] fiancheggiava […] la dottrina delle monarchie occidentali del rex nazionale superiorem non recognoscens [...] ora l'abbandonava in modo clamoroso".

Vincoli giuridici immediatamente cogenti nella sfera secolare, principi di diritto comune, principi a metà strada tra teologia e diritto canonico, comunque valutate e interpretate le disposizioni della Constitutio in Basilica Petri costituivano un limite ineludibile alla potestas condende legis dei principi secolari. Esse aiutano a capire il clima e le questioni giuridiche sul tappeto nel rapporto papato-Impero e spiegano molte cose sui comportamenti degli attori delle vicende successive.

Già qualche mese dopo aver rimesso i piedi nel Regno, Federico dette i primi segni di un diverso orientamento, tanto che dovette giustificarsi con Onorio III per presunte spoliazioni compiute a danno della Chiesa (M.G.H., Leges, 1896, nr. 417, p. 547). È di qualche anno più tardi (7 maggio 1228) il primo appello sdegnato e addolorato di Gregorio IX per il comportamento di Federico re: "È giunto fino a noi […] il grido di dolore della Chiesa e del clero del Regno perché […] li stai affliggendo con tormenti infiniti" (M.G.H., Epistolae, 1883, nr. 372, p. 289).

Due anni più tardi si giunse alla pace di San Germano che in numerose e puntuali disposizioni sembrò risolvere ogni questione.

Non passarono pochi mesi da quegli accordi che riemersero però contrasti e contestazioni. Il 19 gennaio 1231 Gregorio scrisse a Federico per perorare la causa dei Templari e degli Ospedalieri che, mentre coraggiosamente custodivano e difendevano il S. Sepolcro, nel Regno di Sicilia erano stati privati dei loro beni (ibid., nr. 425, p. 343). Il giorno seguente in un'altra lettera, bonaria nel tono ma rivelatrice di un'inquietudine profonda, il papa sollecitò il versamento della cauzione a garanzia del rispetto dei patti della pace di San Germano (ibid., nr. 426, p. 345).

L'8 marzo una nuova lettera di Gregorio denuncia, con toni accorati e duri, le prepotenze dei giustizieri d'Abruzzo verso la Chiesa locale: "catturano i chierici, […] li rinchiudono sacrilegamente in carcere" (ibid., nr. 434, p. 349) e poi un'altra protesta il 13 giugno (ibid., nr. 442, p. 356). Seguono quindi la diffida del 5 luglio e la dissimulata marcia indietro del 27 luglio. Subito dopo, ma prima che il Liber fosse promulgato, interviene ancora una preoccupata lettera (12 agosto) che insiste sulle restituzioni dei beni ai Templari (ibid., nr. 450, p. 363).

Questo era dunque il clima e lo stato reale dei rapporti quando Gregorio, colto dalla notizia dell'approntamento del Liber, si risolse a scrivere la doppia diffida a Federico e all'arcivescovo di Capua.

Le preoccupazioni del papa ‒ nonostante le chiare norme della Costituzione imperiale di undici anni prima e gli accordi di San Germano dell'anno precedente ‒ erano ovviamente accentuate dal fatto che il re di quel Regno era anche imperatore, cumulo di dignità non a caso sempre paventato dal papato.

Gregorio in definitiva dalle nuove leggi non poteva che aspettarsi il peggio in materia di libertas e in più temeva di trovarsi, per questioni di così rilevante peso ideologico e pratico, privo della tradizionale copertura dell'Impero. E non ebbe torto! Federico effettivamente giocò in quel tempo disinvoltamente due parti: mentre nel Regno d'Italia vestiva i panni di difensore della Chiesa (solo così si può spiegare, per esempio, il provvedimento con cui ‒ ancora nel 1236, in coerenza col già citato decreto del 24 settembre 1220 ‒ cassò gli statuti di Asti perché contenenti disposizioni contra libertatem ecclesiasticam (Ughelli, 1719, col. 376), nel Regno di Sicilia legiferava invece, come vedremo, contro la libertas ecclesiae.

d) L''orrore' verso il diritto nuovo

Nella lettera a Federico il papa insiste molto sulle leggi nuove, legando anche alla novità in sé la condanna dell'iniziativa.

Tra i motivi della diffida c'è indubbiamente l'"orrore" (il termine è di Prawer, 1982, p. 161) tipicamente medievale per il diritto nuovo. Una condizione culturale sedimentata nel tempo aveva sviluppato un ben definito sentimento collettivo verso il diritto: le leggi non si creano, ma possono solo essere interpretate o restaurate, scaturendo da un ordine ispirato da Dio. Il diritto era infatti inteso per sua natura come eterno e immutabile (sul relativo dibattito storiografico: Fell, 1991, pp. 151-169) e il legislatore non poteva mai esserne l'arbitrario creatore, ma solo il rivelatore, attingendo alle fonti inesauribili della Scrittura. Con il linguaggio del nostro tempo si potrebbe dire che il rapporto politica-diritto, drammaticamente ondeggiante nel millennio che abbiamo alle spalle, era nel Medioevo tutto sbilanciato sul secondo termine.

È difficile ritenere che questa concezione del diritto non fosse presente nella mente del papa quando ammoniva Federico sulle potenzialità sovvertitrici della nuova Costituzione.

e) Un richiamo ai limiti della potestas condende legis di un principe secolare

Il grande sviluppo e la conseguente desacralizzazione-positivizzazione del diritto canonico, già nella prima metà del XIII sec., pur avendo comportato il ridimensionamento della sua antica prevalenza sul diritto civile, non aveva comunque liberato quest'ultimo dalla condizione di subordinazione al diritto naturale-divino. Sommariamente può dirsi che due erano i limiti in cui tale subordinazione si manifestava: la preclusione per il diritto civile a trattare materie specifiche ritenute riserva del diritto della Chiesa come matrimonio, eresia, usura, in quanto regolate dalla fonte biblica, e il divieto di contraddire i principi dell'ordine divino e naturale, riconducibili in definitiva all'antico imperativo dell'honeste vivere (D. I, 1.3). La violazione di quest'ultimo consentiva al papa, nell'ambito della potestas indirecta in temporalibus, un possibile intervento sanzionatorio, ratione peccati. In passato non erano mancati interventi di tale tipo su regnanti per richiamarli al rispetto di quell'imperativo. Innocenzo III era, per esempio, intervenuto su Pietro II d'Aragona per ricordargli che anche in materia monetaria il principe non poteva considerarsi dominus assoluto, tanto da non poter decidere arbitrariamente variazioni monetarie incurante degli interessi dei sudditi (Decretales, 1612, tit. II, 24.18) e aveva ‒ in verità per ragioni più complesse ‒ dichiarata nulla la Magna Carta di Giovanni Senzaterra. Un papa giurista come Gregorio IX, ben consapevole dei limiti che gravavano sui poteri secolari e del suo dovere di farli rispettare, con la diffida volle implicitamente ricordarli in via preventiva. L'intervento del papa inoltre doveva valere a far sentire la sua presenza vigile quale supremo reggitore della Respublica christiana ‒ non a caso con Gregorio VII era maturato il convincimento che durante l'interregno tutti i poteri ritornassero al papa (Kantorowicz, 1989, p. 287).

Nessun pontefice sosterrà in termini inequivoci ‒ neppure quando si toccherà l'acme ierocratico ‒ la sua autorità di legislatore in utroque foro. Un'opinione contraria è stata di recente sostenuta da Berman (1998, p. 115; ma già prima, in termini più sfumati, da Ullmann, 1972, p. 88; dure critiche alla tesi da Marongiu, 1990, pp. 441 ss.) che vede un'esplicita pretesa di monopolio legislativo del papa per l'intera societas christiana nel settimo enunciato del Dictatus Papae di Gregorio VII che recita: "a Lui solo è lecito legiferare secondo le necessità del tempo".

Se è difficile condividere tale interpretazione, è tuttavia vero che nell'escalation ierocratica dei secoli successivi la Chiesa vorrà affermarsi come monarchia, collocata al culmine di ogni gerarchia, per rivendicare a sé l'universale regimen nella prospettiva della salvezza delle anime, affidate appunto alla vigilanza, ma soprattutto alla responsabilità del vicario di Cristo che dovrà rispondere direttamente a Dio. Concetto questo che nella diffida si ritrova puntualmente quando Gregorio IX invita Federico a non andare avanti "verso ciò che può essere imputato come biasimevole sia a te che a noi, dal momento che a te non è lecito farlo e a noi tollerarlo". Parole che riecheggiano quelle della famosa lettera di Gelasio I all'imperatore Anastasio (a. 494) e quelle ancor più chiare rivolte oltre centocinquanta anni prima da Gregorio VII a Guglielmo il Conquistatore: "la divina scrittura attesta che la dignità apostolica e pontificale dovrà rappresentare innanzi al Tribunale divino i re cristiani […] e dovrà dar conto a Dio dei loro misfatti. Se perciò dovrò rappresentare anche te nel giudizio terribile [...] pensa bene se […] per la tua stessa salvezza non debba tu obbedirmi […]" (M.G.H., Epistolae selectae, 1955, nr. 25, p. 506).

In conclusione le lettere di Gregorio IX ‒ quella più morbida nei toni a Federico e quella più aspra al vescovo di Capua ‒ alla vigilia della promulgazione del Liber hanno le loro motivazioni in quest'impasto di principi e interessi che abbiamo sin qui tentato di scomporre e analizzare.

2. La dissimulata marcia indietro

Federico dovette far conoscere la sua amarezza al papa per la diffida ricevuta. Ne abbiamo notizia indiretta da un'ulteriore lettera di Gregorio scritta dopo ventidue giorni dalla prima, il 27 luglio del 1231 (ibid., Epistolae, 1883, nr. 447, p. 360). In quest'ultima il papa addolcisce i toni. Dice di essere stato colpito "dall'ascolto di cose orribili, come venivano descritte da molti", sottolinea che il suo rimprovero non era pubblico ma privato ed esorta infine Federico: "per fare in modo che tutto fra noi avvenga in piena trasparenza, chiediamo alla tua serenità e ti esortiamo nel Signore affinché, deposto ogni sospetto, […] tu ci esponga senza esitazione la tua volontà tutte le volte che lo ritenga necessario".

Come interpretare questa nuova posizione del papa che attenua così vistosamente la durezza delle lettere precedenti?

Pennington, come già detto, attribuisce tutto al fatto che Federico avrebbe assunto, in quel brevissimo lasso di tempo, impegni credibili, poi mantenuti nella stesura del Liber (Pennington, 1989, p. 58; Stürner, 2000, p. 193).

Ribadendo che il testo non sorregge affatto questa tesi, sembra fin d'ora possibile dire che la nuova posizione del papa si può spiegare in altro modo. Nel papa restavano intatte tutte le ragioni di principio e le preoccupazioni concrete sicché il diverso approccio della lettera del 27 luglio si può spiegare come variante tattica per conseguire due obiettivi. Era necessario non amplificare il clamore del caso. Mancava, come s'è detto, una motivazione enunciabile in modo aperto. Le questioni di principio, che pure c'erano, non consigliavano proclami aperti e sulle questioni più concrete non era opportuno scatenare guerre prima di aver verificato l'effettività delle lesioni. L'ammonimento duro non doveva insomma essere l'apertura di un conflitto ma realizzare l'obbiettivo di prevenirlo e le blandizie successive, dopo aver messo in chiaro la posizione papale, dovevano servire a non tendere oltre misura i rapporti nella speranza o di una piena resipiscenza di Federico, con la rinunzia all'impresa, o almeno di un esito della stessa non sfavorevole alla Chiesa. L'ammonimento inoltre non doveva essere pubblico, ma restare affare privato, perché non bisognava allarmare gli altri principi che guardavano con crescente insofferenza alle ingerenze papali negli affari temporali.

3. Le risposte implicite di Federico. - Non vi fu, o non ci è pervenuta, una risposta diretta di Federico all'invito del papa di desistere dall'impresa del Liber. La risposta però vi fu egualmente in forme varie: nei fatti, in alcuni atti e soprattutto nelle parole del testo della legge, che spesso vanno ben oltre quelle un po' sibilline e allusive della lettera papale.

Il Liber presenta infatti una serie di passi pervasi in modo evidente dall'esigenza di chiarire e giustificare l'esercizio del pieno ius condende legis, esigenza non altrimenti spiegabile se non correlata alla messa in discussione di quel potere autonomo e dei suoi limiti. È pur vero che il Liber gronda di ampollosità retoriche e di enunciazioni magniloquenti, ma quei passi non sembra che traggano origine da questa impostazione stilistica, quanto piuttosto da pressanti ragioni politiche.

a) L'autonomia del Regno

Federico non poteva non avere forte il senso dell'autonomia del Regno che già sul nascere si era, proprio per questo, imposto come modello nell'Europa del XII secolo. Ruggero, suo nonno, novant'anni prima si era infatti spinto molto avanti nel teorizzare e praticare l'autonomia piena del Regno e quella che egli definì la sua legum auctoritas (Le Assise di Ariano, 1984, Proemio).

Sull'ininfluenza della soggezione vassallatica del Regno al papato, in ordine alla potestas condende legis del re di Sicilia, discetterà Marino da Caramanico nella Glossa al Liber, giungendo alla categorica conclusione: "sicut imperatoris, ita regis est proprium condere legem" (Proemio al Liber, in appendice a F. Calasso, I glossatori e la teoria della sovranità, Milano 1957, p. 180).

La diffida del papa sotto questo aspetto dovette dunque apparire a Federico del tutto irricevibile.

b) Nostalgie cesaropapiste

Federico, incalzato dalla visione ecclesiologica e politica dei grandi pontefici che ebbe antagonisti, non poteva che rimpiangere i tempi, pur non privi di travagli, dei suoi due celebri nonni che ‒ quantunque su scenari diversi e da posizioni tra loro conflittuali ‒ incarnarono le residue pretese dei poteri secolari di ingerenza nella vita della Chiesa.

Riprendendo due termini ‒ che hanno avuto diversa fortuna ‒ coniati da un ecclesiasticista del XVIII sec. (Böhmer, 1738, pp. 10-11) potremmo dire nostalgie cesaropapiste contro l'incalzare del papocesarismo.

La partita era di rilevante importanza per entrambe le parti, perché ciascuna non solo intendeva difendere i propri spazi, ma sperava di realizzare di fatto un'ingerenza e un condizionamento negli spazi altrui. Per limitare l'attenzione al Regno di Sicilia, la Chiesa confidava di controllarne la vita con la sua sempre più strutturata presenza istituzionale sul territorio, specie dopo il concilio del 1215, e Federico, dal canto suo, sperava di realizzare una sorta di Chiesa di stato. In più Federico contava di condizionare con il suo clero siciliano la vita stessa della Chiesa romana: si consideri che nel concilio lateranense del 1215 su quattrocentocinque partecipanti più di un quarto proveniva dalla sola Chiesa siciliana. Lo Svevo guardava a questo passato, non rassegnato al declino di antichi poteri e prerogative, ma consapevole anche di dover resistere al crescendo delle pretese papali di guida della vita non solo spirituale dell'orbe cristiano; egli era inoltre cullato dall'adulazione sviscerata dei suoi cortigiani ed era coinvolto in riti e liturgie divinizzanti (si faceva celebrare come Sol, variamente aggettivato o specificato, e imponeva come elemento della liturgia di ossequio la proskynesis, il bacio del piede, che Gregorio VII nella 9ª disposizione del suo Dictatus aveva dichiarato competere solo al papa).

Federico, chiaramente da posizioni difensive, finisce per oscillare tra tesi contraddittorie e ambigue nella ricerca di nuove vie di legittimazione, ma senza mai rinnegare l'unità inscindibile dell'ordinamento della Santa Romana Repubblica che era poi la premessa generatrice del conflitto (de Lagarde, 1956, p. 87). Nel Liber come negli altri atti non è difficile cogliere la presenza di approcci diversi.

Nel Proemio domina la concezione agostiniana del potere secondo cui il peccato originale e il conseguente propagarsi di odi e disobbedienze, rerum necessitate cogente nec minus divine provisionis instinctu, avrebbe fatto sì che nascessero i principi. È stato giustamente rilevato che tale dottrina, lungi dall'esaltare l'autonomia dei principi, porta in sé come sviluppo logico la supremazia della Chiesa anche nel temporale. Secondo Stürner (1983, p. 529) questa concezione della sovranità costituirà un punto di debolezza e sarà una delle cause del fallimento politico di Federico. Eppure proprio il passo citato indusse Kantorowicz (1978, p. 228) ad inneggiare allo spirito laico sotteso e a sostenere che in quella necessitas va vista "la parola d'ordine di ogni illuminismo"! Nel Proemio, inoltre, Federico utilizza la metafora delle due spade, intorno alla quale, da tempo, era acceso il dibattito sulla definizione dei ruoli del papato e dell'Impero. Viene così riproposta la tesi del gladius materialis affidato direttamente da Dio ai principi per proteggere la Chiesa e assicurare la pace tra i popoli. Ancor più compiutamente il tema è ripreso in una lettera ‒ remissiva nel tono, ma sottilmente argomentata ‒ scritta al papa un anno dopo (3 dicembre 1232; Historia diplomatica, IV, 1, pp. 408 ss.). Il dibattito, com'è noto, conoscerà qualche decennio più tardi l'impennata ierocratica di Bonifacio VIII, che nell'Unam sanctam sembra rispondere proprio a specifiche argomentazioni di Federico suggellandole solennemente: "In verità chi nega che anche il gladio materiale sia nel potere di Pietro ha compreso male la parola del Signore […]. L'uno e l'altro quindi sono nella potestà della Chiesa, cioè sia lo spirituale che il materiale. È necessario perciò che un gladio sia sotto l'altro gladio e che l'autorità temporale soggiaccia alla potestà spirituale" (Extravagantes [...] communes, 1582, de maioritate et obedientia, c. I).

Ma nel Liber in una serie di disposizioni (principalmente I, 31 e I, 38) sono adombrate, come meglio si vedrà più avanti, anche tesi 'laiche' fondate su un diritto romano riutilizzato in chiave anticuriale.

4. Le accuse papali successive alla promulgazione e la difesa di Federico

La pace di San Germano non fu vera pace, ma solo una tregua raggiunta tra reciproche diffidenze. I nove anni che la separano dalla seconda scomunica dello Svevo (20 marzo 1239) sono un crescendo di accuse e vani tentativi di composizione dei dissensi.

Si può dire che la ripresa di ostilità si ebbe proprio con la diffida del papa del 5 luglio 1231. Da allora tutte le lettere di quest'ultimo a Federico saranno di lamentele, fino a giungere a una nota di contestazioni formali che, nell'agosto del 1236, il papa rassegnò a Giacomo, vescovo Prenestino suo legato presso l'imperatore (M.G.H., Epistolae, 1883, nr. 700, p. 596). A questa nota seguì, il 23 ottobre, una lunga lettera di Gregorio IX a Federico anch'essa piena di accuse (ibid., nr. 703, p. 599). Seguì infine due anni dopo, il 28 ottobre 1238, la relazione dei quattro vescovi che, a Cremona, avevano riproposto le contestazioni della Sede Apostolica personalmente all'imperatore, raccogliendone la difesa (Historia diplomatica, V, 1, pp. 249 ss.). La scomunica del 20 marzo 1239 concluderà il procedimento (M.G.H., Scriptores, 1888, pp. 148 ss.).

Con le lettere e con i documenti papali si intrecciano le risposte di Federico. Il carteggio relativo ‒ meritevole di un'edizione che completi ed emendi l'opera degli editori ottocenteschi ‒ è una testimonianza preziosa non solo su due protagonisti del declinante Medioevo ma sul dibattito su sovranità e legge, originato dal Liber.

Attingendo a questo carteggio ci limiteremo di seguito a riprendere le sole contestazioni papali causate da disposizioni del Liber e le relative difese di Federico.

a) Il provocatorio richiamo alla lex regia

"Non senza grande ponderazione [...] i Quiriti in virtù della lex regia trasferirono all'imperatore romano lo ius condende legis e l'imperium" (Const. I, 31). È questa una costituzione chiave. Da essa emerge l'ambizione di Federico di reincarnare l'immagine del Cesare, di marcare l'indipendenza dal papato e di risvegliare l'antico orgoglio dei romani contro il papa, loro sovrano.

L'avventura di Arnaldo da Brescia, per essere ancora viva nella memoria, può forse aiutare a capire le ragioni di un tale richiamo. Nella insurrezione popolare guidata dal canonico agostiniano era infatti risuonato il richiamo alla lex regia per strappare il potere al papa, ricondurlo al popolo e legittimare così il governo repubblicano da lui favoleggiato.

A suggello infine della sua concezione del potere, Federico aggiunge una solenne proclamazione: "Noi che abbiamo ricevuto dalla mano del Signore lo scettro imperiale". Dal punto di vista giuridico-costituzionale la questione della compatibilità tra la tesi dell'investitura popolare e quella della derivazione divina del potere era al tempo oggetto di sottili disquisizioni.

Il contemporaneo Accursio così risolve l'antinomia: "imperium […] Dei constituit permittendo, et populus Dei di-spositione" (Volumen legum quod parvum vocant, 1604, gl. De coelo in Auth., Coll. VI, tit. II, Nov. 73, Praefatio). Sul tema, agli inizi del XIV sec., giungeranno poi gli insegnamenti di Giovanni da Parigi ("populo facente et deo inspirante"; Giovanni da Parigi, 1942, c. XIX) e di Cino da Pistoia (Super Codice et Digesto veteri lectura, 1527, in Dig. I, 4.3, de const. principum, beneficium) che ‒ con la formula "imperator a populo est, sed imperium […] a deo" concluderà che l'elezione serve a designare una persona fisica ma il trono ha derivazione trascendente.

Gregorio IX incassò con grande disappunto queste teorizzazioni fridericiane e quando ormai i rapporti volgeranno al peggio le contesterà radicalmente in una lettera (23 ottobre 1236; M.G.H., Epistolae, 1883, nr. 703, p. 599). Dopo un'amara considerazione introduttiva sull'ingratitudine, Gregorio va al cuore della questione: "vogliamo ridurre la nostra penna alla concisione, e la tratteniamo dal vituperare il tuo onore con un freno alla verità, per quanto hai scritto sulla lex regia. Ma va al ricordo dei tuoi predecessori […]" e qui, fra l'altro, richiama espressamente la cosiddetta Donazione di Costantino. Il passo era preceduto da queste parole: "vedi che il collo dei re e dei principi si sottomette al ginocchio dei sacerdoti, e che gli imperatori cristiani non devono solo sottomettere le loro azioni al pontefice romano, ma anche non anteporle agli altri presuli, e che il Signore Dio ha riservato al solo suo giudizio la Sede apostolica, sottomettendo però al giudizio di quest'ultima l'intero orbe terrestre". Parole, come si vede, ferme e dure che nitidamente definiscono i termini reali dello scontro. È questo un raro documento in cui un papa espressamente richiama la Donazione di Costantino, dopo circa tre secoli e mezzo dalla sua comparsa, quando ancora non ne era stata acclarata la falsità.

Ma le provocazioni di Federico in tema di ius condende legis non si fermano alla lex regia. In Const. I, 38 compare un'altra affermazione rivoluzionaria: "Non togliamo nulla all'autorità dei regnanti antichi se dal nostro grembo [de nostro gremio] generiamo leggi nuove secondo la condizione dei tempi nuovi […]" (de nostro gremio, per un diverso scioglimento dell'abbreviazione in talune fonti, è reso de nature gremio, con significato diametralmente opposto).

Il rilievo dell'enunciato è forte perché supera la questione della fonte legittimante puntando sull'autoreferenzialità del diritto positivo (nel prosieguo viene poi adombrata una concezione ottimisticamente evolutiva del potere rispetto a quella del Proemio, dominata dal pensiero agostiniano che tutto fa discendere dal peccato originale).

Nel de nostro gremio nova iure producimus restano assorbite non solo tutte le questioni della legittimazione ma anche quelle della carica equitativa insita nelle norme introdotte. Dalla Scuola cominciano a levarsi sul punto significative consonanze. Odofredo ‒ maestro a Bologna ‒ in quello stesso tempo scriveva: "su quelle cose che sono definite dal diritto positivo e dalla propria volontà non v'è da chiedere o da pretendere altra ratio se non che così piacque all'autore" (Odofredo, 1552, Lect. di Dig. I, 3.20). Tali affermazioni non teorizzano l'assoluto arbitrio del legislatore, ma solo la presunzione di non contrarietà alla lex poli che deve circondare la legge positiva. Quest'ultima dovendo regolare la vita degli uomini, seguendone i cambiamenti, è mutevole a differenza della legge naturale.

Un felice giudizio di Kantorowicz (1989, p. 86) ‒ tornato a scavare nel mondo fridericiano trent'anni dopo la sua monumentale biografia ‒ così sintetizza le contraddizioni di Federico: in lui "due orbite sembrano sovrapporsi: una giuridica e l'altra teologica"; il Liber, infatti, "ebbe origine in un periodo in cui il flusso del movimento etichettato giurisprudenza emulante la teologia raggiungeva il proprio culmine".

b) Ingerenze in tema di usura

L'usura rientrava nella competenza della Chiesa perché su di essa pesava la condanna di Gesù (Lc., 6, 34-35). Il potere temporale ab antiquo in materia arretrava. Era insomma un caso di potestas directa in temporalibus della Chiesa, come famiglia e matrimonio. Ora, mentre su queste materie il Liber rispetta la competenza del foro ecclesiastico, sull'usura segue un'altra strada con due di-sposizioni, una ‒ ambigua ‒ che riprende un'assisa di Guglielmo II del 1179 (I, 6.1) e un'altra direttamente formulata da Federico (I, 6.2). In quest'ultima, dopo una significativa premessa ideologica ("Nell'intento di perseguire la malvagità degli usurai […] aggiungiamo alla punizione divina l'intervento dell'autorità imperiale ricevuta dalla volontà celeste"), si definisce l'usura crimine pubblico, punibile con la confisca di tutti i beni, e lo si attrae nella competenza della giustizia regia. Puntuale la contestazione del papa, per il tramite del suo legato: "i prelati non osano procedere contro gli usurai a cagione della Costituzione imperiale" (M.G.H., Epistolae, 1883, nr. 700, p. 596).

Federico per difendersi evoca prima astratte questioni di competenza: "Come noi ci auguriamo che sia conservato inviolato il nostro diritto negli affari temporali e nelle nostre antiche prerogative così anche negli affari spirituali non intendiamo assolutamente in nulla ostacolare la missione del Vostro ufficio pontificale e della Vostra plenitudo potestatis" e conclude promettendo di inviare una diffida a chi osi impedire ai vescovi di procedere, affermando infine che con la norma si è voluto aggiungere la sanzione temporale per punire più efficacemente l'usura (Historia diplomatica, IV, 2, p. 911).

Sul punto Federico sarà infine interrogato a Cremona. La sua difesa sarà ancora elusiva: "attraverso la nuova Costituzione gli usurai sono pubblicamente condannati alla perdita di tutti i loro beni […]. Da essa non è preclusa ai prelati la licenza di procedere" (ibid., V, 1, p. 249). Comunque edulcorata la norma realizza una grave lesione di una delle più esclusive competenze ecclesiastiche.

c) Violazione del privilegio del foro

In conseguenza della pace di San Germano, Federico il 28 agosto 1230 aveva notificato a giustizieri e baroni: "ordiniamo che nessun chierico o persona ecclesiastica sia convenuta civilmente o penalmente innanzi ad un giudice secolare se non civilmente in materia feudale" (M.G.H., Leges, 1896, nr. 145, p. 180). L'ordine era in linea con la dottrina e la prassi al tempo universalmente accolte sia nel principio generale di esenzione che nell'eccezione per i feudi (così anche in Philippe de Beaumanoir, Coutumes de Beauvaisis [1283], 1970, nrr. 314, 317).

Nel Liber (I, 44-45) infatti viene affermata la competenza ecclesiastica a giudicare penalmente i chierici, ma con una deroga: "deve eccettuarsi il caso in cui qualcuno sia accusato di tradimento o di altro grave delitto simile, la cui cognizione spetta alla Maestà Nostra". Quindi una competenza del foro secolare apparentemente molto limitata, ma in realtà ‒ per la natura intrinseca delle fattispecie richiamate e per la loro vaghezza ‒ tale da far sentire in permanenza gli ecclesiastici del Regno sotto la spada di Damocle della giustizia regia. Comunque un'attuazione certamente restrittiva per la Chiesa dei patti di San Germano.

Ma è nella giurisdizione civile che si ribaltano le posizioni perché viene stabilita in via generale la competenza regia rispetto agli ecclesiastici, con la sola eccezione del caso in cui oggetto del contendere sia un bene ricevuto dalla Chiesa (I, 68). Un riguardo quindi alla qualità non della persona ecclesiastica ma dell'oggetto della controversia. A confermare il dominio della giurisdizione regia una successiva disposizione (I, 69.2) detta: "nel caso di petitoria di beni burgensatici o di qualsivoglia altra possessoria per l'acquisizione, il recupero o la detenzione di possesso, vogliamo che il chierico o qualunque altro religioso convenuto con azione pecuniaria risponda in sede civile". Un rinnegamento evidente dei patti di San Germano!

Una norma, infine, per disincentivare i tentativi di aggiramento delle regole sulla competenza, dispone: "coloro che, disprezzando la nostra giurisdizione, si sono rivolti ad altro foro per questioni di pertinenza della nostra Curia, siano puniti, chierici o laici, con la confisca […]" (I, 64).

È noto che, all'epoca, esisteva una pluralità di fori concorrenti espressivi della varietà degli ordinamenti (canonico, regio, comunale, corporativo) in una condizione di incertezza sui criteri per la definizione della competenza (Gaudemet, 1998, pp. 589 ss.; Prodi, 2000, p. 130; una disamina delle vie giudiziarie percorribili nella Toscana del XII sec. in Wickham, 2000, passim). In questa concorrenza decisamente preferito era il foro ecclesiastico per varie ragioni puntualmente sottolineate da Giannone: "gli ecclesiastici, come quelli che meglio dei laici si intendevano di lettere, erano reputati migliori e più efficienti ad amministrare la giustizia […] ed oltre a ciò, quando s'entrava in contenzione di giurisdizione con gli ecclesiastici, le scomuniche fulminavano" (1823, V, pp. 154-155; infatti, fino al 1869, il giudice laico che si fosse dichiarato competente, malgrado le leggi ecclesiastiche, incorreva ipso facto nella scomunica).

Federico insomma con l'introduzione di meccanismi sanzionatori confidava di invertire questa tendenza, disincentivando il foro ecclesiastico, per rinforzare la sua giurisdizione. Come s'è visto dal Liber derivò, comunque, una forte compressione del privilegio del foro, che era il cuore della libertas ecclesiae.

Su questione di così grande importanza la reazione di Gregorio IX non poteva mancare. Giunse infatti, non immediata, con una lettera del febbraio 1236 (M.G.H., Epistolae, 1883, nr. 676, p. 573) in cui compare la prima denunzia precisa e forte: "nel Regno ad opera dei ministri imperiali le chiese sono private del privilegio libertatis […] i pastori e i ministri delle stesse, sono costretti, abbandonato il foro ecclesiastico, ad intraprendere azioni in un giudizio vietato e a pagare i tributi". Questa denunzia diventa dopo sei mesi una puntuale contestazione (ibid., nr. 700, p. 596) formulata nello stile processuale dei capi d'imputazione: "Nel Regno ad opera dei ministri imperiali le chiese sono private del privilegio libertatis; prelati vengono ristretti in carceri; e sono costretti a rispondere nel foro secolare e a pagare i tributi". Contestazioni non da poco, come si vede, legate a precise norme del Liber.

Federico sul punto della giurisdizione penale si difende in una lunga lettera del 20 settembre 1236 (Historia diplomatica, IV, 2, pp. 905 ss.): "non conosciamo nessuna Chiesa che abbia dovuto subire qualche pregiudizio nel privilegio libertatis […] a meno che Voi non chiamiate, con improprietà di linguaggio, pregiudizio la difesa dei nostri diritti. Il fatto che i chierici debbono soggiacere al giudizio secolare e al pagamento dei tributi nelle questioni patrimoniali o feudali […] crediamo che la cosa vada ricondotta non al nome di ingiuria ma piuttosto all'applicazione del diritto. Per quanto invece attiene ai benefici ecclesiastici o alle obbligazioni da loro contratte, non consentiamo che i chierici siano vessati con alcuna chiamata in giudizio civile, finanche quando contro di loro si procede per reati comuni che non consistano nella lesione della nostra maestà, per i quali casi secondo una saggia disposizione delle antiche leggi la cognizione deve essere del giudice civile".

Sulla questione Federico sarà poi interrogato a Cremona dai quattro vescovi incaricati dal papa. A difesa non nega di aver avocato alla sua competenza le accuse di delitti politici ai chierici, ma minimizza e circoscrive la cosa, e soprattutto contrattacca facendo rilevare ai suoi interlocutori l'inefficienza della giustizia ecclesiastica per i casi di sua competenza (ibid., V, 1, p. 249).

d) Sottrazione di homines alle chiese. - Gli homines delle chiese, cioè gli abitanti delle loro vaste proprietà, costituirono un'altra ragione di attrito tra Gregorio e Federico, per un duplice ordine di motivi: perché erano contesi a causa della penuria di manodopera e perché da tempo i poteri secolari attentavano alla giurisdizione patrimoniale e feudale di vescovi ed abati sugli stessi. La questione era rilevante anche fuori dal Regno di Sicilia.

In Germania Federico, nel Privilegium in favorem principum del 1220, per ingraziarsi i feudatari promise tra l'altro di non accogliere mai nelle sue città i loro homines. Sulla questione della giurisdizione della Chiesa sui suoi homines il canone 19 del terzo concilio lateranense (1179) aveva previsto la scomunica per chi la esautorasse (Sacrorum conciliorum, 1778, coll. 228-229).

Su questo sfondo si inseriscono due norme del Liber: una sull'obbligo delle chiese di restituire al demanio gli homines che lo avessero abbandonato, non pienamente bilanciato dall'obbligo reciproco (III, 6), e un'altra su possibili ingerenze della giustizia regia (I, 73.2). Puntuale la contestazione papale (M.G.H., Epistolae, 1883, nr. 700, p. 597) e la rilevazione di questi abusi nella già citata relazione dei quattro vescovi (Historia diplomatica, V, 1, p. 250). Generica infine l'autodifesa dello Svevo (ibid.), che però in un mandato suggerisce ai giustizieri una più duttile e blanda applicazione della norma (Savagnone, 1917, pp. 353 ss.).

e) Divieto di accesso al notariato per i vescovi

Nessuno può essere nominato "giudice o notaio pubblico se non sia del demanio o se non sia qualificato homo del demanio così che non sia soggetto a nessun servizio o condizione di alcuna persona ecclesiastica o secolare, ma sia sottoposta direttamente soltanto a noi": è questa la Const. I, 79. Nasce un nuovo casus belli, con il papa che lamenta: "Ai vescovi non viene permesso di fare i pubblici notai, così com'era consuetudine" (M.G.H., Epistolae, 1883, nr. 700, p. 596) e Federico che si difende: "Non dovete ritenere assurdo se una nostra Costituzione non permette di far notai pubblici i vescovi, perché i pubblici uffici debbono essere richiesti soltanto a noi, potestà questa di autorità e giustizia pubblica che il popolo romano conferì sulla base della lex regia" (Historia diplomatica, IV, 2, p. 912). Una risposta che, senza dire nulla nel merito della contestazione, mette sale sulla ferita aperta dalla risuscitata lex regia.

Non si può però tacere che la contestazione di Gregorio IX appare in contrasto con una disposizione di Innocenzo III che aveva vietato l'ufficio di notaio ai chierici in ordinibus constitutis e che egli stesso inserirà nel suo Decretales (1612, III, 50.8).

f) Abusi sulle sedi vacanti

Sulla questione delle chiese vacanti era molto viva l'attenzione non solo nel Regno di Sicilia, ma anche in Francia, Inghilterra e Germania. I regnanti facevano di tutto per far durare a lungo le vacanze e incamerare così rendite e frutti fino alla nomina del titolare.

Nel Regno di Sicilia questo non avrebbe potuto accadere perché secondo un'antica norma confermata nel Liber (I, 31) redditi e proventi del tempo di vacanza dovevano restare alla Chiesa. La norma però, che già al tempo dei re normanni aveva subito deroghe, ebbe con Federico un'applicazione progressivamente sempre più distorta. Si cominciò con l'insediare un canonico esterno in qualità di procuratore unico. Nella seconda decade degli anni Trenta, quando il fenomeno delle sedi vacanti interessava circa il 30 per cento delle chiese del Regno, il procuratore esterno ecclesiastico divenne procuratore unico laico (Kamp, 1998, p. 80).

Puntuale la protesta papale (M.G.H., Epistolae, 1883, nr. 676, p. 574), la successiva contestazione formale (ibid., nr. 700, p. 596) e la difesa di Federico che invita il papa a circostanziare l'accusa (Historia diplomatica, IV, 2, p. 907), contrattaccando sugli impedimenti frapposti dal papa stesso all'esercizio dei diritti del re sulle elezioni dei vescovi del Regno.

g) Vessazioni contro Templari e Ospitalieri

Templari e Ospitalieri erano nel mirino di Federico per vicende legate alle crociate. Al rientro nel Regno li spogliò dei loro averi, ma nella pace di San Germano dovette sottoscrivere l'impegno alla restituzione.

Nonostante i molti solleciti papali Federico non solo non mantenne gli impegni, ma dettò, probabilmente nel 1239, una novella (Stürner, 1995, p. 396) fonte successivamente di interminabili dispute giuridiche, per vietare donazioni e trasferimenti di proprietà in favore di quegli Ordini, al fine di evitare immobilizzazioni patrimoniali (cosiddetta manomorta; v. infra).

V. I contenuti

1. Struttura interna

Nell'esaminare sinteticamente struttura e contenuti del Liber si farà riferimento alla versione cosiddetta vulgata, consistente nell'assemblaggio postumo della originaria massa di Melfi e delle successive Novelle.

In tale versione esso si presenta strutturato in tre libri, contenenti rispettivamente centosette, cinquantadue e novantaquattro costituzioni, per un totale di duecentocinquantatré. In generale l'opera manca di organicità e presenta uno stile solenne e spesso ambiguo.

Le Costituzioni sono precedute da un Proemio di grande eleganza e forza concettuale (Stürner, 1983, ne ha offerto l'analisi più compiuta). Il testo ‒ complesso ed enigmatico, costituito su una pluralità di fonti (bibliche, letterarie, filosofiche e romanistiche) ‒ è incentrato sulla citatissima espressione "rerum necessitas et divina provisio" per indicare le fonti del potere sovrano.

Il libro I si apre con le norme a difesa della fede. Seguono quelle a difesa della maiestas, della pace interna e dell'ordine pubblico, quelle sulla giustizia, sull'ordinamento giudiziario, sull'amministrazione finanziaria, sull'amministrazione dei castelli e sul processo civile. Il libro II contiene norme processuali e penali e sulla responsabilità dei giudici. Il libro III infine contiene norme sui beni della Corona, sulla feudalità, su professioni e mestieri, sull'ambiente, sul commercio, sull'agricoltura e su una varietà di reati.

L'opera si chiude con un epilogo magniloquente in cui Federico invita i sudditi ad accogliere la nuova legislazione che egli ha voluto non "per desiderio di gloria, ma […] affinché quale segno di vittoria del nuovo Re spunti un nuovo virgulto della Giustizia".

2. Le grandi scelte

Alcune, fondamentali dal punto di vista politico-costituzionale, sono già state precedentemente prese in considerazione: il richiamo alla lex regia per legittimare l'imperium e lo ius condende legis (I, 31); l'autoreferenzialità del diritto regio (I, 38); la supremazia dello stesso su ogni altra fonte (I, 62).

Dopo il Proemio il Liber si apre con tre costituzioni dettate a difesa della fede, a ostentata conferma del ruolo di difensor fidei del re-imperatore.

La giustizia è ripetutamente enfatizzata come speciale prerogativa della dignità imperiale (soprattutto I, 31). La giurisdizione è affidata quasi completamente a magistrati di nomina regia con funzioni temporanee e soggetti a controlli finali sul loro operato (sindacato), a prescindere da quelli processuali sui singoli atti giudiziari (impugnazioni). Norme severe sono previste per sanzionare comportamenti deviati di giudici e funzionari. Il giustiziere (v.), organo già istituito da Ruggero II, viene ridefinito nelle sue competenze come una sorta di prefetto di uno stato centralizzato (I, 38 e ss.). Riassume infatti nelle province assegnategli tutti i poteri del re, sovrapponendosi così a ogni altro organo locale ‒ sia statale che feudale o cittadino. Una tale figura comparirà in tutte le monarchie europee per garantire i nuovi bisogni dei sudditi e un'amministrazione ordinata, senza lasciare spazio a centri di potere autonomo (feudali, ecclesiastici, municipali). Nella giustizia penale rilevanti sono le di-sposizioni sull'azione pubblica, sull'abolizione delle prove irrazionali, sulla brevità dei processi, sul gratuito patrocinio per i non abbienti, su garanzie fondamentali come l'obbligo di rilascio immediato di chi sia stato ingiustamente incarcerato e di colui nei cui confronti siano cessate le ragioni della detenzione (I, 42.1), come infine la possibilità di ricorrere direttamente al sovrano nelle condanne gravi (pena capitale, mutilazioni).

Sul tema del rapporto tra potere temporale e spirituale si è già detto anche con riferimento al Proemio. In relazione alla Chiesa del Regno si è generalmente ritenuto che la strategia fridericiana fosse volta a renderla parte dello stato.

In questa logica convivono forme di sostegno statale come la decima (I, 7) e ridimensionamento della libertas ecclesiae.

Quanto alla feudalità, preoccupazione costante dell'imperatore fu quella di tenere sotto stretto controllo i feudatari, senza per questo essere pregiudizialmente loro ostile. Da sovrano medievale, quale fu, egli riteneva essenziale ricondurre il ruolo e le funzioni dei feudatari all'interno di quella organizzazione militare che era stata ideata e attuata da suo nonno Ruggero II. Dalla distinzione tra feuda integra e non integra (III, 38) derivò la conseguenza del possibile adempimento degli obblighi militari attraverso una sostitutiva prestazione pecuniaria (adohamentum) resa congiuntamente da più feuda non integra. Con le costituzioni III, 24 e 25 impose come necessaria la sua licenza nelle successioni legittime dei feudi e nella nomina dei suffeudatari; con la III, 23 impose l'obbligo della sua approvazione alle nozze dei feudatari; con le III, 5 e 6, rifacendosi alla costituzione III, 1 originariamente emanata da suo nonno Ruggero, proibì ogni alienazione di feudi priva di autorizzazione regia e stabilì che i servizi dovuti per un feudo non potessero essere arbitrariamente diminuiti. Accanto a questo gruppo di norme limitative non mancano quelle foriere di vantaggi e privilegi per la feudalità: la I, 47 istituisce la corte dei pari; la III, 43 prevede pene più severe per offese ai nobili. Viene inoltre eliminato il divieto di successione nel feudo delle figlie femmine in mancanza di diretti eredi maschi (III, 26) e viene aperta la linea di successione feudale fino all'infinito in linea discendente (III, 27).

Nel sistema del Regno le realtà locali erano inquadrate nello schema terra-universitas-baiulatio, intendendosi con i tre termini rispettivamente l'agglomerato abitativo, l'insieme degli abitanti che vi dimorano e l'organizzazione amministrativa preposta. Il rapporto tra monarchia e realtà locali è affidato a due norme cardini: la celebre Puritatem (I, 62) che svuota la forza delle consuetudini locali prevedendone l'approbatio (sulla cui portata cf. le divergenti opinioni di Cortese [1964, II, p. 139] e Caravale [1998, p. 183]) e la I, 50 che vieta alle universitates di eleggere podestà o altri funzionari, pena la desolazione perpetua e la riduzione dei suoi membri allo stato di angarii. Sulla politica verso le autonomie le parole di Sestan (1952, p. 478) offrono forse la sintesi più efficace: Federico "non riuscì mai a capire le città come autonomi organismi politici, sociali, economici, morali; come dire che non riuscì a capire una delle forze storiche più vive e possenti del suo tempo e del tempo avvenire".

Il Liber contiene disposizioni sull'economia del Regno, ispirate anch'esse a una visione centralista e dirigista. La cura e l'accrescimento del demanio furono perciò oggetto di varie norme: III, 4 (restituzioni al demanio di beni detenuti temerariamente); I, 86 (istituzione di magistrature deputate alla cura dei beni demaniali); I, 90.2 (obbligo ai nuovi magistrati di intervenire anticipando anche di persona la somma necessaria, con opere urgenti a tutela dei beni demaniali); I, 87 (stringente disciplina per la locazione di beni demaniali); III, 49 (fissazione di tetti salariali per tutti gli operai); I, 89 (misure per agevolare le esportazioni di sale, ferro, acciaio e derrate alimentari); I, 89 (obbligo per i mercanti di depositare le merci in fondachi demaniali, pagando la relativa gabella); I, 88.2 (divieto ai produttori di vendere il loro vino prima che sia venduto il vino dei possedimenti demaniali). In questa logica dirigista va ricordato che Federico promosse la produzione agricola attraverso grandi masserie statali (v. Masserie regie) e allestì una sua flotta commerciale.

Rilevanti gli interventi normativi su molti aspetti della vita sociale, come nel caso degli studi di medicina (v.) e dell'esercizio delle professioni sanitarie, cui sono dedicate ben cinque corpose costituzioni del libro III (Zecchino, 2002), o in quello della tutela dell'ambiente e della disciplina di varie attività commerciali (v. Commercio) e artigianali.

Molte norme infine sono volte a garantire il principio di eguaglianza (I, 27); la tutela dei più deboli e delle donne in particolare (I, 22, 23; II, 41, 42, 44); la fine del diritto di albinaggio (v.; I, 29) e l'obbligo di soccorso in caso di incendio; la difesa dei più deboli con la possibilità a essi riconosciuta di invocare protettivamente il nome dell'imperatore con l'obbligo ‒ severamente sanzionato ‒ per l'aggressore di desistere dalla violenza (le cosiddette defense I, 16 e ss.).

3. "Lex sine moribus"

Sul Liber pesa da quasi un secolo il giudizio di Benedetto Croce, che dopo averne esaltati gli aspetti positivamente innovativi, concluse: "Dalle ricordate leggi [...] malamente si trarrebbe la conseguenza che le condizioni dell'Italia meridionale fossero migliori [...] di quelle [...] di altra parte d'Europa: altro è l'astratta forma giuridica, la lex sine moribus, e altro la realtà effettiva" (Croce, 1944, p. 30), aggiungendo poi che costumi e leggi possono aver rilievo nella storia di un popolo solo "in quanto esso li volle e li respinse, li asserì o li abbatté, per un suo ideale etico e seguendo impulsi etici". Il giudizio si completa con queste parole: "Certo la storia non ha un'unica ma molte vie; se quella vigorosa monarchia fosse durata più a lungo […] una vita nazionale sarebbe potuta venire crescendo" (ibid., p. 15).

Nel giudizio crociano, in fondo ambiguo, non v'è spazio per la valenza progettuale della Costituzione fridericiana, che pure è elemento del fenomeno giuridico. Diritto non è infatti solo la norma storicamente 'vivente' che nasce dal fatto, ma anche il progetto in sé, se mai rivoluzionario, voluto dal princeps conditor legum, le 'parole' cioè al di là della loro sorte futura. Un grande giurista ha potuto per questo intitolare problematicamente un suo saggio Il diritto come antistoria?, perché "il diritto è dominato dal valore del fine. E il valore del fine è il valore del futuro" (Carnelutti, 1957, pp. 365 ss.), anche se inevitabilmente condizionato nella sua vita da fattori imponderabili. Costituzione formale e materiale debbono essere perciò entrambe oggetto di ricostruzione e approfondimento. Nel nostro caso il progetto politico sotteso alla Costituzione fridericiana, pur prescindendo dall'effettività giuridica di quest'ultima, è comunque elemento non secondario nella comprensione del Federico storico.

Il Liber, conclusa l'età fridericiana ‒ tempo già esso non suscettibile di valutazione unitaria, nel quale non piccolo fu lo scarto tra progetto e realtà ‒, ha finito poi per avere una nuova vita: sempre meno ordinamento giuridico e sempre più manifesto politico, demonizzato talora, ma più spesso idealizzato e mitizzato. E questa è ‒ se pure in modo diverso ‒ essa stessa vita reale, storicamente rilevante.

VI. "Modello per i Regni"

"Vogliamo coltivare il Regno di Sicilia con cura particolare […] perché sia specchio per l'imitazione di quanti lo ammirano, motivo d'invidia per i regnanti e modello per i regni". Questo proclama contenuto in Const. I, 95.1 introduce bene il tema della fortuna del Liber oltre i confini del Regnum, qui delineato soltanto per tratti assolutamente sommari (relativamente ai comuni del Nord cf. Zecchino, 1998, pp. 344-362).

Non è priva di plausibilità la congettura secondo cui Federico aveva come obiettivo l'espansione dell'ordinamento giuridico del Regnum nell'Italia centrosettentrionale e come sogno quello di fare di Roma la sua capitale. V'è un gruppo di novae constitutiones (introdotte dalla I, 38.1) con le quali si realizza una sorta di confusione giuridico-costituzionale tra Regno e Impero. In Const. I, 39.2 si prescrive infatti che "tutte le petizioni di giustizia o di grazia riguardanti sia l'Impero che il Regno siano presentate al maestro giustiziere". In Const. I, 42.2 si stabilisce che il maestro giustiziere "definisca [...] le cause su debiti e cose mobili intentate contro il fisco attraverso i maestri camerari nel Regno o i capitani nell'Impero".

Julius Ficker (1868-1874, I, p. 69) ha poi documentato i tanti casi di decisioni della Magna Curia oltre i confini del Regno, specie dopo che le decisioni del legato generale per l'Italia non erano più inappellabili.

Il Liber conobbe inoltre una sorta di espansione nell'Italia dei comuni per il recepimento e l'adattamento di talune sue disposizioni in costituzioni imperiali. Questo recepimento ha indotto Dilcher (1987, p. 322) a parlare di "assunzione da parte del Liber Augustalis della valenza di diritto imperiale". Anche in Germania non mancarono segni di questa espansione. Nei quindici titoli dell'ordinanza emessa nel 1235 da Federico nella dieta di Magonza ‒ che probabilmente preludeva a una più corposa opera legislativa (v. Magonza [1235], pace di) ‒ si riscontrano assonanze col Liber, come nel caso dell'istituzione del giustiziere.

I riverberi delle Costituzioni melfitane oltre i confini del Regno, al di là di questi aspetti normativi, appaiono rilevanti sulla cultura giuridica e letteraria dell'Italia dei comuni. Il Liber certamente fu modello retorico per i nascenti statuti comunali (emblematico il caso di Bologna), ma anche più in generale per quel vasto pubblico di fruitori legati alla cultura giuridica delle società comunali del Nord Italia.

Anche fuori d'Italia non mancarono emuli della legislazione fridericiana. Particolarmente significativi i casi di Alfonso X di Castiglia-León (1252-1284), figlio di Beatrice, cugina di Federico, con il suo codice noto come Siete Partidas, e dell'imperatore Carlo IV (1346-1378) che nel suo codice (Maiestas carolina) mutuò dal Liber struttura e interi passi.

VII. Dal tramonto degli Svevi all'abrogazione

1. Il Liber nell'avvicendarsi delle dinastie

Rinviando alla voce specifica per l'approfondimento di ciò che si sviluppò intorno al Liber nella scienza giuridica meridionale, dal tramonto degli Svevi all'abrogazione avvenuta agli inizi dell'Ottocento (v. Scienza giuridica, Regno di Sicilia, l'eredità di Federico II), di seguito si offrono cenni sommari sulle decisioni formali e sugli umori politici che circondarono la Costituzione fridericiana in quell'arco di tempo.

Il disegno politico che la animava cominciò a dissolversi con la morte di Federico. Già il figlio Corrado infatti, entrato nel Regno nel gennaio 1252, per ingraziarsi i baroni avviò una politica di allentamento dei vincoli feudali voluti dal padre.

Le comunità locali, per parte loro, cominciarono presto a recuperare autonomia. A un anno appena dalla morte di Federico, nelle consuetudini di Salerno (1251) si sovverte il rapporto tra legge e consuetudine fissato nella Puritatem (Const. I, 62): "Si leges sanctae fuerunt, sunt, erunt per semper, bone tamen consuetudines sunt sanctiores, et quoniam ubi consuetudines loquuntur, tacere debeant leges tote" (Trifone, 1919, p. 115). Di lì a poco anche Amalfi si pone sulla stessa linea: "Lex est sancta, bona consuetudo est sanctio sanctior eo quod ubi consuetudo loquitur, lex tacet" (Consuetudines, 1970, p. 28).

L'avvento degli Angioini formalmente non portò a stravolgimenti degli assetti costituzionali. Carlo I confermò infatti espressamente la Costituzione, con l'eccezione delle disposizioni emanate da Federico dopo la scomunica e la deposizione del 1245, perché considerate contra ecclesiasticam libertatem. Ma il clima politico era di sostanziale rigetto dell'esperienza fridericiana e delle sue leggi. Lo descrive efficacemente Giannone: "I nostri professori che fiorirono sotto i re Angioini, per accomodarsi ai tempi che allora correvano, tutti favorevoli ai romani pontefici, dai quali questi principi riconoscevano il Regno, cominciarono a malmenare alcune Costituzioni di questo savio principe, riputandole, in quanto al loro credere e secondo quelle massime che allor correvano, che fossero contrarie a quelle della corte romana" (1823, V, pp. 350-351). Gli Angioini avviarono insomma una progressiva alterazione della Costituzione materiale del Regno. Molti funzionari dell'amministrazione furono sostituiti con giuristi, consiglieri e collaboratori francesi provenienti da Orléans (Iuris interpretes, 1924, p. XXXVII). Durante il regno di Carlo I l'influenza francese toccò così nel Mezzogiorno d'Italia il più alto grado di espansione provocando di conseguenza modifiche ordinamentali degli apparati dello stato e soprattutto della Magna Curia.

Sedici anni dopo l'avvento degli Angioini la rivoluzione del Vespro portò alla secessione dell'isola (31 marzo 1282) che, com'è noto, restò Regno autonomo fino al 1415. Il sovrano che assunse il potere fu Pietro III d'Aragona, in nome dell'eredità che sua moglie Costanza vantava come figlia di Manfredi.

Durante la dominazione aragonese le Costituzioni sveve non furono formalmente abrogate anche se prese il via un processo di ridimensionamento soprattutto relativamente al diritto feudale. Il colpo più grave all'impianto costituzionale venne nel 1289, quando Federico III d'Aragona promulgò il capitolo Volentes, con il quale stabilì che i feudi, salvo alcune insignificanti restrizioni, si potessero liberamente alienare dai legittimi possessori, in contrasto con specifiche disposizioni del Liber (III, 1 e 5). Il continuo cedimento dell'autorità centrale portò in Sicilia a un lento ma continuo rafforzamento dell'elemento feudale.

Dalle innovazioni legislative, interpretative e comportamentali emerse un nuovo assetto incentrato sul baronaggio, che finì per esercitare su due piani poteri incisivi: nel feudo, con piena autonomia, e nel governo generale con la partecipazione di suoi esponenti all'amministrazione centrale.

Nella parte continentale del Regno la morte di Giovanna II (1435) causò un'aspra lotta per la successione che alla fine portò sul trono di Napoli Alfonso d'Aragona (1442), determinando così la riunificazione del Meridione sotto la dinastia aragonese, che impresse un'inversione di rotta.

Anche se Alfonso I concesse nel 1443 alla nobiltà feudale il mero e misto imperio, non le riconobbe mai centralità dominante nella vita del Regno. In cambio il sovrano pretese comunque una dichiarazione con cui i baroni dovettero proclamarsi feudatari del sovrano e beneficiari di poteri giurisdizionali da lui concessi.

La monarchia aragonese ‒ molto sensibile al mito dello stato accentrato e libero da condizionamenti feudali ed ecclesiastici ‒ portò a una rivalutazione della legislazione fridericiana. Il Liber, mai formalmente abrogato, fu espressamente convalidato da Ferrante I d'Aragona che, con la prammatica data a Foggia il 25 dicembre 1472, lo riportò all'attenzione di giudici e avvocati nei giudizi.

Su impulso della corte aragonese il Liber conobbe nel 1475 la prima edizione a stampa, seguita diciassette anni dopo da una seconda, riveduta e corretta, a opera dello stesso editore (Del Tuppo). L'utilizzo effettivo del Liber nella seconda metà del XV sec. è testimoniato inoltre da due manoscritti contenenti versioni epitomate in volgare, predisposte in ambienti di corte. A suggello di questa stagione di esaltazione dell'opera fridericiana giunse poi il Compendio della Istoria del Regno di Napoli di Pandolfo Collenuccio (pubblicato postumo nel 1539, ma composto a partire dal 1498), con cui cominciò a prendere corpo il mito di Federico. La caduta degli Aragonesi travolse i sogni di uno stato autonomo e forte vagheggiato da Ferrante ed esaltato da Collenuccio.

Anche nel nuovo assetto non vi fu nessuna abrogazione dell'ormai corposa massa legislativa preesistente. Ferdinando il Cattolico, sotto il cui regno ebbe inizio la reggenza vicereale, formalmente riconobbe come vigenti le Costituzioni. Venuto infatti nel Regno, nel 1507 espressamente ordinò, dinanzi al parlamento generale, che si osservassero "constitutiones, capitula et pragmaticae Regni" (Privilegii, 1588, p. 59).

2. La mitizzazione settecentesca

Nel 1734 la ripristinata indipendenza e la ritrovata unità della monarchia meridionale dettero inizio a un tempo carico di fermenti e speranze che, anche sulla scia dei rinnovati studi romanistici, riaccese l'interesse verso le Costituzioni sveve.

Se a ridare loro slancio in epoca aragonese era stata l'idea di uno stato accentrato che contrastava le spinte centrifughe della feudalità, nel Settecento il motivo dominante fu l'aspirazione alla totale indipendenza dello stato dalla Chiesa.

Teorico di tale indirizzo fu Pietro Giannone che, ridando smalto al Liber, resta l'artefice del nuovo 'mito' di Federico, assunto a simbolo dell'indipendenza dello stato dalla Chiesa.

L'anticurialismo napoletano affondava comunque le radici nella seconda metà del XVII secolo. Su due fronti Federico fu elevato in quel tempo a simbolo di irriducibile avversione alla Chiesa: quello della miscredenza e quello di una laicità propugnatrice dell'autonomia dello stato dalla Chiesa. Sul primo, Federico era evocato in quegli ambienti radicalmente anticristiani da cui sortì sul finire del Seicento un'opera clandestina nota come Trattato dei tre Impostori (1994; cf. la prefazione di R.H. Popkin, p. VIII). Sul secondo molto contribuì Francesco D'Andrea, autore tra l'altro di un'operetta (composta nel 1682; F. D'Andrea, 1993) esaltatrice appunto del Federico 'indipendentista'.

Prima di Giannone, che nel 1723 pubblicò la sua fortunata Istoria, era stato Nicolò Caravita a riprendere la posizione di D'Andrea con il suo Nullum ius Pontificis maximi in Regno Neapolitano, stampato in Napoli nel 1707, in concomitanza con le intricate vicende legate alla successione spagnola al trono napoletano. Uniti nel negare la soggezione vassallatica del Regno alla Chiesa, Caravita e Giannone erano divisi dalla motivazione. Il primo negava il fatto storico dell'investitura, il secondo riteneva invece il rapporto vassallatico storicamente ormai superato dai tempi. Questa divergenza si riacutizzerà sul finire del secolo nel clima rovente dell'illuminismo napoletano prerivoluzionario. Eleonora de Fonseca Pimentel tradusse infatti nel 1790 il Nullus ius di Caravita, non senza notazioni polemiche verso la posizione di Giannone (de Fonseca Pimentel, 1943, p. 243, Introduzione). La Napoli regalista fu, comunque, particolarmente attiva nella seconda metà del secolo nella polemica anticuriale. A rinfocolarla era venuta un'opera di molto successo di un vescovo e canonista tedesco, Johann Nikolaus von Hontheim (1763), nascosto dietro lo pseudonimo di Febronio. La Curia fu molto turbata dalle tesi del Febronio sui diritti del trono papale. Provvide a una risposta Tommaso Maria Mamachi (1769-1770), domenicano e maestro di Sacro Palazzo. L'opera innescò a sua volta nuove polemiche molto vive particolarmente a Napoli. Carlo Pecchia ‒ storico e acuto esegeta del Liber ‒ le riservò una pungente stroncatura: Mamachiana per chi vuol divertirsi (1770).

L'anticurialismo napoletano non si nutriva però soltanto della disputa sulla massima questione dell'investitura ma anche di un diffuso contenzioso su tante altre più minute come quelle relative a benefici, riserve e dispense e soprattutto alla manomorta (v.) della Chiesa nel Regno, limitativa della circolazione di beni immobili. Nel 1712 la città di Napoli rivolse una pubblica petizione al re per porre fine al disagio causato dalla concentrazione di grandi proprietà esenti in mano ecclesiastica, con la conseguenza che i tributi prefissati a carico di ogni comunità finivano per gravare solo su una parte della popolazione (Memoriale, 1777, pp. 332 ss.). Bernardo Tanucci, gran propugnatore della soppressione della manomorta, si fece forte del precedente fridericiano (III, 29). In una lettera a Carlo III si legge: "Ricordai la legge del Regno del re Federigo che proibisce l'acquisto delle mani morte, rinnovata a istanza del ministero togato l'anno 1768, […] a simiglianza di tutte le potenze italiane anche minori, Modena, Parma, Lucca e con grandi benedizioni dei popoli" (Lettere, 1969, p. 962). All'elencazione di Tanucci si può aggiungere la Francia, ove già nell'agosto del 1749 era stato emanato un editto sulla manomorta.

Al tempo il quadro della legislazione del Regno era fatto di confusione e incertezza. Ne offre un'efficace descrizione Colletta: "undici legislazioni, o da decreti di principe, o da leggi non rivocate, o da autorità di uso reggevano il Regno; ed erano: l'antica Romana, la Longobarda, la Normanna, la Sveva, l'Angioina, l'Aragonese, l'Austriaca spagnuola, l'Austriaca tedesca, la Feudale, la Ecclesiastica, la Greca […]. Le molte legislazioni s'impedivano, mancava guida o imperio alla ragione de' cittadini e al giudizio dei magistrati" (1951, I, p. 88).

Di qui una forte spinta verso una codificazione ufficiale che, nonostante importanti tentativi, non sortì effetti. Essa però portò a ricercare certezze nell'autorità delle fonti antiche, prima fra tutte la legislazione di Federico (un pressante invito in tal senso in un'opera emblematica di quel clima: Delle viziose maniere del difendere le cause nel Foro di G.A. Di Gennaro [1744]).

In tale contesto videro la luce studi e nuove edizioni del Liber: quella di Antonio Cervone (1773), poi interamente corretta da Pecchia (1777), quella di Francesco Paolo Canciani (1781), e infine quella di Carcani, molto elogiata per il contenuto e l'eleganza tipografica, contenente anche la versione greca (1786). Diretto ispiratore dell'edizione di Carcani fu Bernardo Tanucci, che si adoperò per ottenere il testo parigino della versione greca e che mise a disposizione l'unico esemplare dell'editio princeps allora noto, da poco ritrovato e custodito nella cancelleria reale. L'opera ebbe grande successo. Saverio Simonetti, consultore in Sicilia, ne ordinò ben cinquecento copie per diffonderne lo studio (Napoli, Archivio di Stato, Segr. di Sicilia, fasc. 185).

Quella di Carcani è l'ultima edizione approntata per un testo legislativo comunque ancora vigente. Resterà formalmente in vigore ancora qualche decennio. Nel 1809 per il Regno di Napoli e dieci anni dopo per quello di Sicilia, interverrà infatti l'abrogazione, dopo circa sei secoli dalla promulgazione.

Conclusa la sua lunga vita di testo normativo il Liber ne inizierà una nuova, come oggetto di interesse storiografico e di rinnovate dispute esegetiche, riconosciuto ormai ‒ secondo la classica definizione di Besta (1925, p. 731) ‒ come "il più grande monumento legislativo laico del medio evo".

fonti e bibliografia

Per i manoscritti e le edizioni del Liber Constitutionum v. i §§ 2 e 3 del precedente cap. II.

Cino da Pistoia, Super Codice et Digesto veteri lectura, Lugduni 1527.

Odofredo, In primam codices partem complectentem I, II, III, IV, et V lib. praelectionis, ivi 1552.

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Decretales D. Gregorii Papae IX, Parisiis 1612.

Annales ecclesiastici ab anno quo desinit Card. Caesar Baronius, Coloniae Agrippinae 1693.

F. Ughelli, Italia sacra, sive de episcopis Italiae et insularum adiacentium, IV, Venetiis 1719.

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Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, a cura di J.D. Mansi, XXII, Venetiis 1778.

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Historia diplomatica Friderici secundi; Acta Imperii inedita; M.G.H., Epistolae saec. XIII e regestis pontificum Romanorum selectae, I, a cura di C. Rodenberg, 1883.

ibid., Scriptores, XXVIII, a cura di F. Liebermann, 1888.

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