LETTERATURA

Enciclopedia Italiana - VI Appendice (2000)

Letteratura

Achille Tartaro
Jacqueline Risset
Carla Rossi
Ines Ravasini
Luciana Stegagno Picchio
Antonella Gargano
Maria Stella
Valerio Massimo De Angelis
Giuseppe Castorina
Bruno Berni
Michele Colucci
Marcello Piacentini
Giuseppe Dierna
Cristiana Baldazzi
Lionello Lanciotti
Maria Rita Masci
Maria Teresa Orsi

L'ampliamento delle problematiche legate alla l., con il progredire degli studi e con l'infittirsi dei rapporti che essa è venuta intrattenendo con le altre arti e con le più varie discipline, ha consigliato di distribuire la trattazione dell'argomento in più voci specifiche; si vedano in questa Appendice: letteratura e arti visive; letteratura e cinema; letteratura e musica; letteratura e psicoanalisi; letteratura e tradizione classica; ma anche: letteraria, critica e storiografia; semiologia: Semiologia del testo letterario; e traduzione: La traduzione letteraria. Innumerevoli sono le voci che nell'Enciclopedia Italiana afferiscono al campo della l., che si lega da un lato a discipline specialistiche come la linguistica (ripresa anche in questa Appendice) e la filologia (ripresa nell'App. V, ii, p. 228), dall'altro all'estetica (ripresa anche in questa Appendice) e alla critica (v. critica: La critica letteraria, ripresa nell'App. II, i, p. 729); si veda anche la voce letteraria, storiografia, introdotta nell' App. V (iii, p. 184). Ampie voci di carattere istituzionale sono dedicate all'oratoria, alla retorica (ripresa nell'App. V, iv, p. 485) e alla stilistica (ripresa nell'App. IV, iii, p. 490), nonché alla metrica (ripresa nell'App. V, iii, p. 453) e alla prosodia. Sui generi letterari, oltre alla voce genere letterario, si possono leggere, tra le altre, le voci canzoni di gesta, commedia, dramma, epopea, lirica, novella, romanzo, satira, tragedia e, da ultimo, fantascienza (introdotta nell'App. IV, i, p. 759); altri lemmi sono dedicati a singole forme letterarie come, per es., la ballata, la canzone, l'ode, il sonetto, il verso libero; ma si vedano anche voci come autobiografia o epistolari, scritture. Sulle scuole, le correnti, i grandi movimenti spirituali che hanno influenzato la l., si vedano voci come arcadia (Accademia), classicismo, futurismo, illuminismo, naturalismo, petrarchismo, realismo, rinascimento, romanticismo, secentismo, umanesimo e, nell'App. II, ermetismo (i, p. 870) e esistenzialismo (i, p. 873), nell'App. IV, neoavanguardia (ii, p. 559), nell'App. V, postmoderno (iv, p. 217). Per quanto riguarda lo svolgimento delle l. nazionali si vedano nell'Enciclopedia Italiana i relativi sottolemmi nelle voci dei singoli paesi. In questa Appendice, piuttosto che riprendere il discorso sulle singole l., completando per pochi anni una trattazione che con l'App. V si era già spinta fino agli inizi degli anni Novanta, si è preferito spostare l'attenzione sull'attività letteraria nel suo insieme, offrendo qui di seguito un quadro di quanto si viene elaborando in questo campo nel nostro paese e nei paesi appartenenti alle aree linguistiche di maggiore estensione. Se tale impostazione obbliga a escludere dal quadro alcune l., la cui minore diffusione non è quasi mai segno di minore vitalità, essa permette una lettura ravvicinata e comparativa dei problemi e delle linee di sviluppo che caratterizzano il sistema letterario alla fine del 20° secolo. Un ulteriore apporto alla conoscenza della l. in questa fine di secolo è dato del resto dalle numerose voci biografiche dedicate, anche in questa Appendice, agli autori che si sono distinti per la loro attività nelle più diverse aree linguistiche e culturali. Mentre in queste ultime voci, per il loro carattere analitico, è di regola segnalata, ove esistente, la traduzione italiana delle opere citate, nei contributi che si leggono qui di seguito, volti a una ricostruzione dall'interno delle specifiche situazioni linguistico-letterarie, tale indicazione è apparsa irrilevante; l'eventuale traduzione italiana apparirà dunque solo accanto ai titoli di cui si deve comunque fornire la traduzione letterale (lingue scandinave, lingue slave e lingue extraeuropee in genere). *

sommario: Letteratura italiana (p. 9). - Letterature di lingua francese: Francia (p. 14); Paesi francofoni (p. 17). - Letterature di lingua spagnola (p. 19). - Letterature di lingua portoghese (p. 23): Letteratura portoghese (p. 23); Letteratura gallega (p. 24); Letteratura brasiliana (p. 24); Letterature africane di espressione portoghese (p. 24). - Letterature di lingua tedesca (p. 25). - Letterature di lingua inglese: Gran Bretagna (p. 27); Irlanda (p. 29); Stati Uniti (p. 30); Canada (p. 34); Australia (p. 35); Nuova Zelanda (p. 37); L'area caribica (p. 38); Letteratura africana di espressione inglese (p. 39). - Letterature scandinave (p. 40). - Letterature slave (p. 42): Russia (p. 43; Polonia (p. 46); Repubblica ceca (p. 49). - Letterature di lingua araba (p. 50). - Letteratura cinese: Cenni sul periodo maoista (p. 53); Le nuove tendenze letterarie (p. 53). - Letteratura giapponese (p. 55).

Letteratura italiana

di Achille Tartaro

A fronte degli eventi di ampia portata europea e mondiale (dalla caduta nel 1989 del muro di Berlino alle reviviscenze nazionalistiche spesso sanguinose, al dramma delle migrazioni su larga scala con conseguenti tentazioni xenofobe) è difficile sottrarsi al dubbio, negli ultimi decenni del Novecento, di una sostanziale inadeguatezza dei nostri scrittori a farsi interpreti di un tempo talmente complesso e convulso. Il discorso investe generalmente la situazione intellettuale. Alla crisi per molti aspetti salutare delle ideologie si è aggiunto il rischio di una diffusa disaffezione alla politica e ai grandi temi della società civile: in un clima di pesante sconcerto in seguito alle vicende anche giudiziarie che, coinvolgendo le istituzioni dello Stato oltre al tradizionale sistema dei partiti, hanno accompagnato il passaggio alla cosiddetta seconda Repubblica. In tale quadro, segnato dalla sempre più aggressiva influenza dei media, e con essa dall'affermazione di modelli culturalmente degradati, l'impressione è di un momento per la nostra l. piuttosto pigramente attestato su posizioni ed esperienze individuali, magari di alto livello ma senza novità di rilievo e comunque lontane da ogni ipotesi di impegno.

Nel campo della poesia, dopo la scomparsa di E. Montale (1981), centrale resta negli anni Ottanta-Novanta l'esempio di A. Bertolucci (n. 1911), G. Caproni (1912-1990), M. Luzi (n. 1914): in relazione a un paradigma di assoluta fedeltà ai propri percorsi lirici, sul filo di una letterarietà appartata, discretamente aristocratica.

Nel 1988, pubblicando la seconda parte de La camera da letto, Bertolucci ha portato a termine il suo 'romanzo famigliare', dove l'autobiografismo del poeta rifluisce in un'epica domestica di lunga gittata temporale e gli eventi, anche minori e minimi, testimoniano un mondo di affetti radicati: gli stessi di un'intera carriera lirica, rispecchiata ora nel volume delle Opere (1997). Sulle ragioni della propria pluriennale esperienza ha continuato a insistere anche Caproni: l'edizione di Tutte le poesie (1983; successivamente: Poesie 1932-1986, 1989; vi compaiono gli inediti Versicoli del controcaproni; nel 1998 l'edizione de L'opera in versi, a cura di L. Zuliani, con introduzione di P.V. Mengaldo) consente di ripercorrerne l'itinerario, in vista degli ultimi approdi nei registri di un'espressione ridotta all'essenziale, quasi trattenuta e perplessa, dinanzi ai temi della solitudine dell'uomo e dell'assenza-presenza di Dio (Il conte di Kevenhüller, 1986; Res amissa, post., 1991). In Luzi l'evoluzione dell'originario ermetismo ha portato al linguaggio decoroso e denso, spoglio d'ogni preziosità, del Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini (1994; successivamente, per il teatro, Ceneri e ardori, 1997), nel vivo della sua ininterrotta indagine spirituale ed esistenziale ora ripercorribile attraverso l'opera poetica (a cura di S. Verdino, 1998).

Si conferma nello stesso periodo la vitalità di alcune voci impostesi all'attenzione a partire dalla metà circa del secolo. Il razionalismo pessimista di F. Fortini (1917-1994), la sua polemica contro le infamie della storia, in una lingua decantata da ogni lirismo, si testimoniavano in Paesaggio con serpente. Poesie 1973-1983 (1984) e quindi negli accenti presaghi della dissoluzione e del nulla che contrassegnano Composita solvantur (1994), cui è seguito il volumetto di Poesie inedite (post., 1997; ma già apparso in edizione fuori commercio, 1995). Sulla linea della sua personalissima sperimentalità spiccava la presenza di A. Zanzotto (n. 1921), nel quale il recupero semantico della parola (compresa quella vernacolare, nuovamente in Meteo, 1996) risultava catalizzato dal tema della morte, sotto l'urgenza di un assiduo interrogarsi su ciò che non esiste più (v. ora: Le poesie e prose scelte, 1999, con inediti).

La scelta dell'isolamento nel proprio laboratorio accomuna altre significative esperienze: da quella anticipatrice della neoavanguardia, e solo di recente scoperta in tutta la sua complessità, di E. Cacciatore (1912-1996: Graduali, 1986; Carichi pendenti, 1990; Itto itto, 1994; l'autoantologia de Il discorso a meraviglia, post., 1996), a quella di A. Parronchi (n. 1914), densamente riflessiva e impressa di ragioni religiose (Climax. 1977-1989, 1990; Diadema (Antologia personale 1934-1997), 1998). Singolarmente scaltra sul terreno metrico e delle forme si è confermata l'estrosa poesia di T. Scialoja (1914-1998: Le sillabe della sibilla (1983-1985), 1988; I violini del diluvio, 1991; Rapide e lente amnesie, 1994; Quando la talpa vuol ballare il tango, 1997). Alla realtà e al presente tornava a guardare N. Risi (n. 1920), nei modi misuratamente affabili di un osservatore disincantato e colto (Le risonanze, 1987; Mutazioni, 1991; Il mondo in una mano, 1994); letteratissima, e persino sofisticata, continuava a essere la scrittura dello svizzero italiano G. Orelli (n. 1921) nelle poesie di Spiracoli (1989), con l'interessante innesto di germanismi e dialettismi ticinesi. Nel solco di un autobiografismo assecondato con mano leggera, ora con ironia ora nei toni di una saggezza vagamente malinconica, si manteneva la produzione di L. Erba (n. 1922: Il tranviere metafisico, 1987; L'ippopotamo, 1989; Variar del verde, 1993; L'ipotesi circense, 1995).

Alla sua vocazione di poeta eminentemente civile si rifaceva intanto R. Roversi (n. 1923), nel progetto di un ambizioso poema in quattro parti (L'Italia sepolta sotto la neve) di cui eseguiva insieme con Premessa. Il tempo getta piastre nel Lete (1984; nuova ed. 1995) le prime due (Fuga dei sette re prigionieri, 1989; La natura, la Morte e il Tempo osservano le Parche, 1993); mentre la sua tensione espressiva, nell'impiego pluristilistico di un materiale verbale di differente provenienza e livello, tornava a contrassegnare Il libro Paradiso (1993). Il nome di Roversi evoca la lontana stagione della rivista Officina e con questa il dibattito negli anni Sessanta sul rapporto ideologia-linguaggio, nel cui ambito si era andata definendo, pur nella diversità dei singoli sostenitori, l'eversivo radicalismo della neoavanguardia e del Gruppo 63. I suoi protagonisti - da A. Giuliani (n. 1924) a E. Pagliarani (n. 1927), da E. Sanguineti (n. 1930) ad A. Porta (1935-1989) e a N. Balestrini (n. 1935) - non si sono allontanati dalle misure di una strenua sperimentalità.

Nelle prove più recenti Giuliani ha esercitato la sua tecnica in funzione di un discorso la cui varietà tonale, fra l'intenerimento e lo sberleffo, il gioco e la pensosità, esalta gli imprevisti movimenti di un'intelligenza senza illusioni e non suggestionabile, neppure dall'ambigua attrazione dello scrivere versi (Versi e nonversi, 1986; Ebbrezza di placamenti, 1993). Dopo l'exploit metaletterario degli Esercizi platonici (1985) e degli Epigrammi ferraresi (1987), Pagliarani licenziava il suo romanzo in versi, a conclusione di una gestazione almeno di un trentennio: La ballata di Rudi (1995) riassume nelle proprie ragioni, sulla traccia risalente a La ragazza Carla (rist. in I romanzi in versi, 1997), l'esperienza sintattica e ritmica, la duttilità nello scambio dei piani linguistici, la ricerca intorno alle potenzialità della parola sui registri del parlato e del basso, che il poeta da sempre ha posto alla base delle sue preoccupazioni umanitarie e sociali. Altrettanto coerente nella pratica della sperimentazione, Sanguineti ha perseguito tenacemente gli obiettivi di una versificazione guidata dall'estro corrosivo della parodia, dei recuperi e delle citazioni a fine di rovesciamento: in vista di una giocosa e grottesca strutturazione del nonsense, nell'ambito di un elaboratissimo sistema di versi lunghi, internamente pausati e scanditi, oppure attraverso il recupero degli schemi chiusi della metrica tradizionale (ottava, sonetto, canzonetta) esposti alla pressione di un'incontenibile energia dissacratoria (Novissimum testamentum, 1986; Bisbidis, 1987; Corollario. Poesie (1992-1996), 1997). L'esplorazione di vie sempre diverse, all'insegna di un'antiliricità che le riannodava intorno a una direttiva ideologico-artistica mai rimessa in discussione, ha coinciso per Porta con la ricerca di una comunicazione risolutamente aperta, epico-brechtiana (Invasioni. 1980-1983, 1984; Melusina, una ballata e un diario, 1987; Il giardiniere contro, 1988; Poesie 1954-1989, a cura di N. Lorenzini, 1998). Parallelamente, intanto, l'oltranza sperimentale di Balestrini cedeva alla rarefatta letterarietà dei versicoli in serie, sedicenti 'sonetti', di Ipocalisse (1986; successivamente: Il pubblico del labirinto, 1992).

Particolare rilievo va dato a G. Giudici (n. 1924), restio fin dal suo esordio a ogni aggregazione scolastica e di tendenza. Nei componimenti di Fortezza (1990) la condizione di una dura solitudine, oggettivata in invenzioni di larga portata metaforica, riservava solo un minimo spazio al motivo liberatorio di un atteso 'distacco'; occorre attendere le raccolte successive (Quanto spera di campare Giovanni, 1993; Empie stelle, 1996; Eresia della sera, 1999) perché il costante autobiografismo di Giudici, incrinato dal pensiero della vecchiaia e della decadenza, torni a insistere sui modi di una poesia cordialmente espansiva: dove la Storia con la maiuscola, non meno delle circostanze più private, si avvalora in una dimensione di ironia e di saggezza.

Decisamente a sé stante, la ricerca formale di A. Rosselli (1930-1996) ha continuato a fondarsi sulla deformazione e lo straniamento delle immagini e delle parole: sul filo di un trilinguismo praticato dietro all'ipotesi di una lingua universale, aderente ai flussi incontrollabili della psiche, e in grado di corrispondere alla struttura matematica e musicale del testo (Antologia poetica, a cura di G. Spagnoletti, con un saggio di G. Giudici, 1987; Sleep. Poesie in inglese, 1992; nel 1997 l'edizione integrale delle Poesie). In equilibrio fra tradizione e innovazione, in un linguaggio fatto esperto dall'uso del latino e del dialetto, oltre che di uno studiatissimo italiano, F. Bandini (n. 1931) ha dato fondo con Santi di dicembre (1994; è seguito Meridiano di Greenwich, 1998) alle notevoli risorse della sua personalità di 'artista' consumato. Attivo fin dagli inizi degli anni Cinquanta, C. Villa (n. 1931) è rimasto fedele alle ragioni di una ricerca letteraria fondata sulla reciproca necessità della prosa narrativa (da La nausea media, 1964, a Fino all'ultima fermata, 1999) e della lingua poetica; nella sua poesia, al tema dell'eros inteso come energia vitale (Polvere di miele, 1980; Corpo a cuore, 1985; 100 di questi fogli, 1989) si è presto accompagnata l'amarezza del disinganno (L'apparenza del nulla, 1992; Consumato amore, 1994; successivamente nel 1999: Dedicamenta, Roba da gatti, L'amore per l'anima del podice). Con risultati assai persuasivi, in G. Raboni (n. 1932) la memoria della guerra vissuta nell'adolescenza, al riparo da cedimenti elegiaci, e l'amore filtrato attraverso moduli cortesi (Arnaut Daniel) approdavano a una lingua poetica normalizzata, col recupero delle forme chiuse e della rima (Versi guerrieri e amorosi, 1990): sulla via che, proseguita in Ogni terzo pensiero (1993) e rispecchiata nel volume di Tutte le poesie (1951-1993) (1997; successivamente: Quare tristis, 1998), ci accerta di una sapienza artistica sicura, del tutto aliena da ogni gratuito formalismo.

Intanto, M.L. Spaziani (n. 1924), dopo essersi provata nei modi di un'epica popolareggiante (Giovanna d'Arco, 1990), ha ritrovato le sue più consuete misure ne I fasti dell'ortica (1996); coltissima e schiva, inoltre, ci appare la produzione anche in prosa di L. Frezza (1926-1992: La tartaruga magica, 1984; Ventiquattro pezzi facili, 1988; Parabola sub, 1990; Agenda, post., 1994; Il disegno, post., 1996); ma non sfuggano le interne vibrazioni della rarefatta scrittura di G. Neri (n. 1927: Liceo, 1986; Dallo stesso luogo, 1992; Teatro naturale, 1998); ormai consumato il momento dell'esplicito impegno sociale, G. Majorino (n. 1928) si è volto a un mosso esercizio formale (Provvisorio, 1984; La solitudine e gli altri, 1990; Tetrallegro, 1995); di accurata fattura classicheggiante risultano gli elegantissimi versi di G. Leto (n. 1930: Nostalgia dell'acqua, 1990; L'ora insonne, 1997); particolarmente concentrata e sofferta, la vena lirica di A. Merini (n. 1931) è tornata a effondersi, dopo il forzato silenzio di un ventennio, nel ricordo straziante della reclusione in manicomio, in una sommessa e inquieta registrazione di emozioni e palpiti vitali (da Vuoto d'amore, 1991, a Ballate non pagate, 1995; Fiore di poesia 1951-1997, con introduzione e a cura di M. Corti, 1998).

Molti dei poeti esordienti intorno agli anni Settanta hanno brillantemente mantenute le loro promesse. Si è affermata con sicurezza la personalità di D. Bellezza (1944-1996): nelle sue opere mature il tema della diversità sessuale, provocatoriamente esibita, a ridosso di un io dolorosamente narcisista, concitato e autocommiserativo, pare assestarsi in una più composta dimensione psicologica; mentre il senso della fine e con questo una vaga nostalgia d'innocenza calibrano la parola nei toni di una meditazione raccolta, a tratti intenerita (Io. 1975-1982, 1983; Serpenta, 1987; Libro di poesia, 1990; L'avversario, 1994; Proclama sul fascino, post., 1996). Dopo l'ottima prova d'esordio (Il disperso, 1976), M. Cucchi (n. 1945) ha approfondito il metodo di un'oggettiva registrazione del reale, quale gli si offre in un cumulo del tutto casuale di frammenti e detriti: nelle raccolte seguenti (Le meraviglie dell'acqua, 1980; Glenn, 1984; La donna del gioco, 1987; Poesia della fonte, 1993; L'ultimo viaggio di Glenn, 1999) il suo 'realismo', già impresso di uno speciale autobiografismo, tende a risolversi in una verità privata, sfuggente alla coscienza e variamente indagabile. A un 'sublime' novecentesco, comprensivo di registri medi, perviene il linguaggio di G. Conte (n. 1945) dietro alla sensuale immersione in una natura sacralizzata ma anche segnata da segreti malesseri (L'oceano e il ragazzo, 1983; Le stagioni, 1988; Dialogo del poeta e del messaggero, 1992; Canti d'Oriente e d'Occidente, 1997).

Meritevoli di attenzione sono anche altre esperienze: da quella di L. Mariani (n. 1936), contrassegnata da un linguaggio riccamente espressivo, con calcolati virtuosismi e preziosismi lessicali (Indagine di possibilità, 1972; e poi fra le raccolte successive: Bestie segrete, 1987; Dispersi gli alleati, 1990; con lo pseud. di Astro Falisco, Pandemia, 1990; Il torto della preda, 1995; fino all'intenso poemetto Del Tempo, 1998); a quella di E. Pecora (n. 1936: Poesie 1975-1995, 1997), vigilmente teso - nelle misure di una versificazione di alto decoro stilistico - a indagare la 'inesorabile pena' dell'esistere, riconoscibile financo nell'ebbrezza amorosa, quando a raggelarla interviene il pensiero di uno smacco comunque immancabile; a quella di V. Zeichen (n. 1938: Pagine di gloria, 1983; Museo interiore, 1987; Gibilterra, 1991; La metafisica tascabile, 1997), la cui giocosa sensualità sa lasciare il campo anche a più varie sollecitazioni tematiche ed espressive; a quella di G. Scalise (n. 1939: Danny Rose, 1989; Poesie dagli anni 90, 1997). Nella pienezza di un canto ricco di vibrazioni e sorvegliatissimo B.M. Frabotta (n. 1946) ha espresso la sua raggiunta maturità artistica (La viandanza 1982-1992, 1995; Terra contigua, 1999). Ironica e finto ingenua, V. Lamarque (n. 1946) allontana nella favola un mondo di pene anche profonde, oltre che di delicate emozioni (da L'amore mio è buonissimo, 1978, a Una quieta polvere, 1996). In C. Viviani (n. 1947) lo sperimentalismo verbale, in connessione con la chiave psicoanalitica, parrebbe ora contenersi nelle forme di una comunicazione resa accessibile, ancorché concettualmente tesa (Merisi, 1986; Preghiera del nome, 1990; Una comunità degli animi, 1997; Il mondo non è uno spettacolo, 1998). Alle misure, invece, di una colloquiale discorsività, in un linguaggio terso e netto, sagacemente screziato, continua ad attenersi P. Cavalli (n. 1949: Poesie. 1974-1992, 1992; Poesie, 1998; Sempre aperto teatro, 1999). Rigorosamente antilirica, la poesia di P. Ruffilli (n. 1949: Piccola colazione, 1987; Diario di Normandia, 1990; Camera oscura, 1992) fa leva, infine, sulla spigliata orchestrazione dei versi brevi, con scoperta allusione alla facile cantabilità della canzonetta settecentesca; il suo lessico, non indenne da calcolate dissonanze, ritrova il parlato quotidiano, in un tessuto testuale che alterna agli enunciati le loro giustificazioni o chiose in parentesi. Fedele alla linea teorica della rivista Niebo, da lui diretta alla fine degli anni Settanta, M. De Angelis (n. 1951) ha continuato a verificare, approfondendole nel vivo di una scrittura premeditatamente enigmatica, le ragioni di una poesia del tutto chiusa nell'assoluta autonomia del proprio liguaggio (Somiglianze, 1976; Terra del viso, 1985; Distante un padre, 1989; Biografia sommaria, 1999).

Tra i poeti più giovani e già affermati andranno ricordati almeno R. Mussapi (n. 1952) che, dopo gli esordi postermetici (La gravità del cielo, 1984; Luce frontale, 1987), ha lasciato rifluire il proprio spiritualismo nelle misure di una decorosa e discreta epicità (Gita meridiana, 1990; Racconto di Natale, 1995; La polvere e il fuoco, 1997); P. Valduga (n. 1953), nella quale il recupero delle forme metriche tradizionali, dal sonetto alla terzina e all'ottava, descrive lo spazio dell'artificio in cui precipitano, potenziandosi linguisticamente, le ossessioni erotiche e mortuarie dell'autrice (La tentazione, 1985; Medicamenta e altri medicamenta, 1989; Donna di dolori, 1991; Requiem, 1994; Cento quartine e altre storie d'amore, 1997); V. Magrelli (n. 1957), la cui scrittura spassionata e puntigliosamente analitica procede dal fermo intellettualismo di Ora serrata retinae (1980) e di Nature e venature (1987) alle soluzioni più mosse degli Esercizi di tiptologia (1992; ora in Poesie e altre poesie 1980-1992, 1996; successivamente, la raccolta Didascalie per la lettura di un giornale, 1999), nello scarto qui fra l'asciuttezza dei versi e la forte espressività di una prosa carica di umori, volutamente eccessiva.

Al riparo da ogni anacronistico sospetto di marginalità, ma inevitabilmente chiusa nella sua specialità linguistica ed espressiva, la poesia dialettale può vantare alcuni esponenti di primo piano: dal lucano A. Pierro (1916-1995: Poesie tursitane, 1986; Non c'è pizze di munne, 1992) al trevigiano E. Calzavara (n. 1907: Ombre sui veri. Poesie in lingua e in dialetto trevigiano. 1946-1987, a cura di C. Segre, 1990; Rio terrà dei pensieri, 1996). Alla voce romagnola di T. Guerra (n. 1920: Il viaggio, 1986; L'albero dell'acqua e più (dedicato soprattutto a Ezra Pound), 1995) si è aggiunta quella notevolissima di R. Baldini (n. 1924: La nàiva, 1982; Furistìr, 1988; Ad nota, 1995). Altrettanto notevole è l'esercizio mistilingue, su base marchigiana con inserzioni di latino e volgare antico, di F. Scataglini (1930-1994) ne La rosa (1992; postumo: El Sol, 1995). F. Loi (n. 1930) pare indirizzare il suo ricco espressionismo milanese (Stròlegh, 1975) a soluzioni di maggiore morbidezza e duttilità (Bach, 1986; Liber, 1988; L'angel, 1994; Verna, 1997; Amur del temp, 1999). Da ricordare infine il sapido calabrese di D. Maffia (n. 1946: A vite i tutte i jurne, 1987; U ddije poverille, 1990; I rùspe cannarùte, 1995).

Rare nel settore narrativo sono le eccezioni a una produzione essenzialmente soggetta (ben più della poesia) all'industria culturale e alle direttive del mercato. La morte di L. Sciascia (1989) e di P. Volponi (1994) ha lasciato pressoché vuoto il campo della denuncia civile e sociale; il fallimento delle ideologie, del resto, ha accelerato il ripiegamento sulle verità del privato, sottratte ad altra verifica che non sia quella condotta sul terreno largamente esistenziale e morale: la stessa letteratura femminista si direbbe avere smussato, anche da noi, le sue punte più battagliere; mentre ad allargare gli orizzonti tradizionali concorre la diffusione - sulla spinta di esempi stranieri - di un'estesa materia antropologica, psicoanalitica e storica.

In un panorama assai mosso, e piuttosto eclettico, risaltano alcune figure già da tempo in attività. Dopo una prolungata assenza, A.M. Ortese (1914-1998), con Il cardillo addolorato (1993) e Alonso e i visionari (1996; nello stesso anno la raccolta poetica Il mio paese è la notte), si è confermata scrittrice di livello europeo. Altrettanto notevole la presenza di N. Ginzburg (1916-1991) nell'ambito del teatro, oltre che della narrativa e della saggistica: la sua costante produttività è testimoniata dalla raccolta delle Opere (2 voll., 1986-87). La misura di un raccontare impeccabile, in equilibrio fra l'evocazione ambientale e l'indagine psicologica, resta la sigla di M. Prisco (n. 1920: Lo specchio cieco, 1984; I giorni della conchiglia, 1989; Il cuore della vita, 1995); mentre alla narrativa, specificamente, si è volto nuovamente anche D. Rea (1921-1994): con i racconti brevi de Il fondaco nudo (1985) e poi col romanzo Ninfa plebea (1992), dove l'energica espressività dell'autore dà forma a un acre erotismo. Come un ritorno sulle proprie ragioni di scrittore si profilava, intanto, la ripubblicazione da parte di R. La Capria (n. 1922) delle sue prove maggiori sotto il titolo Tre romanzi di una giornata (1982; seguiranno La neve del Vesuvio, 1991, e Napolitan graffiti, 1998), scopertamente allusivo al tempo joyciano entro il quale poteva contenersi, anche per lui, il significato profondo di un'esistenza.

All'appello rispondono ancora altri esponenti di una generazione letteraria piuttosto nutrita: da G. Saviane (n. 1916: Diario intimo di un cattivo, 1989; In attesa di lei, 1992; Voglio parlare con Dio, 1996) a M. Pomilio (1921-1990), che con Il Natale del 1833 (1983) ha suggellato la sua ininterrotta ricerca religiosa, proiettandone il senso sul personaggio di Manzoni. L. Adorno (n. 1921) è tornata a raccontare il passato, ritrovando la visuale dell'adolescenza e della prima giovinezza, e con essa i tempi di un'educazione sentimentale scandita dalle vicende della storia italiana, dal fascismo alla liberazione (Le dorate stanze. Storia in tre tempi, 1985; successivamente: Arco di Luminara, 1990; La libertà ha un cappello a cilindro, 1993; Come a un ballo in maschera, 1995). La misura di una coltivata semplicità è rimasta la sigla di M. Rigoni Stern (n. 1921: Arboreto salvatico, 1991; Sentieri sotto la neve, 1998). Alle sollecitazioni del fantastico e insieme di una delicata memoria autobiografica e familiare è restato fedele G. Bonaviri (n. 1924), la cui inclinazione alla poesia (Il re bambino, 1990; Il dire celeste, 1993) è davvero inseparabile da quella narrativa (È un rosseggiar di peschi e d'albicocchi, 1986; Il dormiveglia, 1988; Ghigò, 1990; Il dottor Bilob, 1994). A temi attuali, dopo l'intenso resoconto della propria esperienza in Germania (Deviazione, 1979), si è indirizzata L. D'Eramo (n. 1925: Nucleo zero, 1981; Partiranno, 1986; Ultima luna, 1993), confermando la sua propensione al racconto d'azione, sulla scorta di forti istanze morali e politiche. Nella direzione dello scavo psicologico, sensibilmente attento alle manifestazioni anche minime e all'apparenza trascurabili dei pensieri e degli affetti umani, ha proceduto F. Sanvitale (n. 1928), in una prospettiva di solidale partecipazione alle vicende di quanti, donne e uomini, si scoprono soli dinanzi al mondo e alla storia (Madre e figlia, 1980; L'uomo del parco, 1984; La realtà è un dono, 1987; Verso Paola, 1991; Il figlio dell'Impero, 1993; Separazioni, 1997; Camera ottica. Pagine di letteratura e realtà, 1999).

Dalla seconda metà degli anni Ottanta fino alla sua improvvisa scomparsa G. Bufalino (1922-1996), dopo l'esordio tardivo, ha dato fondo alla sua vena di narratore di razza: l'edizione delle Opere 1981-1988 (1992) lo ha consacrato tra i non molti scrittori del pieno e tardo Novecento in grado di vantare il meritato apprezzamento della critica oltre che del pubblico. Altrettanto può dirsi per L. Malerba (n. 1927), nella cui produzione il ritrovamento (dopo il momento neoavanguardistico) di un linguaggio narrativo di marca volutamente tradizionale, mentre assicura un grado alto di leggibilità, si direbbe autorizzare l'intraprendenza delle trame sempre scaltramente architettate, molto spesso metaforiche (Le maschere, 1995; Itaca per sempre, 1997; La superficie di Eliane, 1999). Al fortunatissimo exploit de Il nome della rosa U. Eco (n. 1932) ha fatto seguire le ulteriori - e discusse - prove de Il pendolo di Foucault (1988) e de L'isola del giorno prima (1994), confermando la sua speciale propensione per un narrare sontuosamente erudito, calibrato fra le digressioni storico-enciclopediche e l'oculato montaggio delle invenzioni. Tenacemente radicato nella realtà siciliana, V. Consolo (n. 1933) ha continuato a derivarne la materia di un narrare acre, moralmente risentito e stilisticamente teso (Lo spasimo di Palermo, 1998). Memoria autobiografica e reinvenzione delle proprie esperienze, istanze realistiche ed etiche, erotismo, contraddistinguono anche la più recente produzione di A. Bevilacqua (n. 1934): da La grande Giò (1986) a I sensi incantati (1991), da Anima amante (1996) a Gialloparma (1997), fino a Sorrisi dal mistero (1998).

Sui temi di una memoria storica e insieme privata insiste, variamente e con diversa fortuna, una larga parte della nostra narrativa. Sul tracciato di un doloroso e scoperto autobiografismo si è mosso L. Canali (n. 1924: da Autobiografia di un baro, 1983, a Amate ombre, 1989, a Memorie di un libertino depresso, 1996). Ma andranno aggiunti i nomi di G. Lagorio (n. 1930: Il silenzio, 1993; Il bastardo ovvero gli amori, i travagli e le lacrime di don Emanuel di Savoia, 1996) e di R. Loy (n. 1931: Le strade di polvere, 1987; Sogni d'inverno, 1992; Cioccolata da Hanselmann, 1995; La parola ebreo, 1997). D. Maraini (n. 1936) ha proiettato le ragioni della sua militanza femminista sullo sfondo settecentesco de La lunga vita di Marianna Ucrìa (1990), mentre la pratica di una scrittura autoanalitica si è agevolmente piegata alle sollecitazioni della memoria infantile (Bagheria, 1993); alle nefandezze della realtà contemporanea guardano, infine, i suoi racconti riuniti in Buio (1999). Nella correlazione fra luoghi geograficamente identificati, Napoli o la Spagna o la Cina o l'Australia, e gli spazi spesso altrettanto distanti di un'intima geografia, consiste il centro (e il meglio) della produzione di F. Ramondino (n. 1936) tesa fra liricità e oggettività documentaria (Althénopis, 1981; Storie di patio, 1983; Un giorno e mezzo, 1988; Star di casa, 1991; In viaggio, 1995; L'isola riflessa, 1998). All'estrosa ricostruzione della propria storia, in Casalinghitudine (1987), C. Sereni (n. 1946) ha fatto seguire i forti racconti di Manicomio Primavera (1989; cui si aggiungono quelli raccolti in Eppure, 1995), sebbene la prova forse più felice rimanga il romanzo Il gioco dei regni (1993), memoriale di famiglia, costruito con molta abilità, sullo scenario dei principali eventi del secolo.

Fuori dei circuiti consueti M. Corti (n. 1915), in margine alla sua prestigiosa attività filologica e critica, ha continuato a coltivare i propri interessi di narratrice: dopo il primo romanzo (L'ora di tutti, 1962) hanno fatto seguito fra gli altri Il canto delle sirene (1989) e Cantare nel buio (1991); le prove ulteriori (Ombre dal fondo, 1997; Catasto magico, 1999) infrangono originalmente i confini abituali del genere narrativo. G. Manganelli (1922-1990) ha fornito l'esempio, sul duplice registro del narratore e del saggista estroso e provocatorio, di un'oltranza sperimentale spinta alle ultime conseguenze. Non meno eccentrica la posizione di L. Meneghello (n. 1922), espatriato senza nostalgie, scrittore di singolarissima inventività espressiva (ancora nelle prove degli anni Novanta: Maredè Maredè..., 1991; Il dispatrio, 1993; Materia di Reading e altri reperti, 1997; Le carte, 1999). Uno spiccato sperimentalismo contrassegna, inoltre, gli elaborati congegni dei romanzi di G. Gramigna (n. 1920: dal lontano Un destino inutile, 1958, a La festa del centenario, 1989); mentre in G. Soavi (n. 1923: Il conte, 1983; Passioni, 1993; Il quadro delle patate, 1994) l'inclinazione a un linguaggio fortemente soggettivo si modula in un'ampia varietà di toni, dall'ironico-giocoso al fantastico-onirico. Altrettanto fuori della norma, G. Ceronetti (n. 1927) si conferma moralista coltissimo e sconcertante (L'occhiale malinconico, 1988; La pazienza dell'arrostito. Giornale e ricordi 1983-1987, 1990; Tra pensieri, 1994; Cara incertezza, 1997). Critico di grande acume e raffinato saggista, P. Citati (n. 1930) si è rivelato anche narratore di larga inventività (Storia prima felice, poi dolentissima e funesta, 1989; La caduta del Messico, 1992; La luce della notte, 1996). Un posto di rilievo occupa inoltre la produzione di C. Magris (n. 1939: Danubio, 1986; Microcosmi, 1997), scrittore di ricercata misura oltre che stimolante studioso e saggista: sulla linea di una tradizione che rinvia a precedenti illustri (da M. Praz a G. Macchia e ad A.M. Ripellino). In R. Calasso (n. 1941), infine, gli spiccati (e vari) interessi culturali rifluiscono in una densa scrittura narrativo-saggistica (Le nozze di Cadmo e Armonia, 1988; Ka, 1996).

Per altri versi, la stessa narrativa non vincolata a progetti che diremmo d'autore, e dunque disponibile a una più ampia circolazione di pubblico, non manca di scoprirci - nella qualità delle invenzioni come nel linguaggio, non di rado sofisticato - i segni di una tensione letteraria mai allentata. Il discorso coinvolge una gran parte degli scrittori già ricordati. Ad altri ancora dobbiamo riferirci, non meno rappresentativi del progressivo affrancamento della nostra cultura narrativa dalle ragioni più usurate del realismo, ma insieme dall'intraprendenza troppo spesso stucchevole della pura sperimentazione formale. P.M. Pasinetti (n. 1913) ha fruttuosamente ribadito le sue radici veneziane (Dorsoduro, 1983; Melodramma, 1993; Piccole veneziane complicate, 1996). In S. Strati (n. 1924: La conca degli aranci, 1986; L'uomo in fondo al pozzo, 1989; Melina, 1995) l'attenzione sociale continua a cercare le misure di un'irrinunciabile oggettività. Fra divertimento e più risentita dissacrazione, nelle prove più recenti, G. Cassieri (n. 1926) è tornato ad attingere alle ragioni anche morali e di costume, oltre che linguistiche, della sua personalissima poetica comica (Diario di un convertito, 1986; Esame di coscienza di un candidato, 1993; Le campane di mezzanotte, 1995). Al Friuli, fra realismo e trasfigurazione inventiva, in vario modo mitizzante, continua a collegarsi - magari obliquamente - l'abbondante produzione di C. Sgorlon (n. 1930: da L'armata dei fiumi perduti, 1985, e da La foiba grande, 1992, a Il costruttore, 1995, e a La malga di Sir, 1997). Particolarmente incline alla rappresentazione di realtà psicologiche complesse e sfuggenti, G. Pontiggia (n. 1934) resta scrittore di originale espressività (La grande sera, 1989; Vite di uomini non illustri, 1993); notevole anche la sua varia produzione saggistica e di riflessione morale (L'isola volante, 1995; I contemporanei del futuro, 1998). Poeta e anche lui saggista, nelle sue opere narrative F. Camon (n. 1935) è tornato a esplorare la condizione umana sulle tracce di una ormai da tempo consolidata visione morale ed esistenziale (Il canto delle balene, 1989; Il santo assassino. Dichiarazioni apocrife, 1991; Il super-baby, 1991; La terra è di tutti, 1996). Di là ormai da ogni autobiografismo, l'intreccio delle vicende e dei destini individuali con le dinamiche della storia è rimasto al centro dell'esperienza di F. Tomizza (1935-1999: Il male viene dal Nord. Il romanzo del vescovo Vergerio, 1984; L'ereditiera veneziana, 1989; I rapporti colpevoli, 1992; L'abate Roys e il fatto innominabile, 1994; Franziska, 1997).

In un panorama così fitto, e irriducibile a tendenze che si riconoscano come prevalenti, alcuni autori si segnalano per uno speciale accento inventivo. Dalla stagione del terrorismo, indagata nel romanzo Procedura (1988), a Un morso di formica (1989) e ai racconti di La figlia perduta (1992) l'esperienza di S. Mannuzzu (n. 1930) si sviluppa intorno a temi mai episodici e marginali. È quanto si può ripetere per G. Rugarli (n. 1932) nei suoi romanzi migliori: La troga (1988) e Il nido di ghiaccio (1989), rappresentazione il primo di un'Italia grottescamente devastata dall'illegalità, referto tragico il secondo di raggelanti ossessioni e vuoti affettivi (fra i romanzi successivi: Andromeda e la notte, 1990; L'infinito, forse, 1995). Il paesaggio ligure, liricizzato e come rarefatto nella memoria, anima l'immaginazione di F. Biamonti (n. 1933: L'angelo di Avrigne, 1983; Vento largo, 1991; Attesa sul mare, 1994). Particolarmente avvincenti sono le trame della germanista L. Mancinelli (n. 1934), interessata a un passato anche remoto ma non meno ai tempi della storia più vicina, o anche dell'oggi, sulla spinta comunque di una vocazione narrativa efficacemente esercitata sui registri sia dell'ironia (nel tracciato spesso dell'avventuroso poliziesco) sia di una più raccolta e discreta pensosità (I dodici abati di Challant, 1981; Il fantasma di Mozart, 1986; Il miracolo di santa Odilia, 1989; I tre cavalieri del Graal, 1996). E. Siciliano (n. 1934), critico e drammaturgo oltre che narratore, dopo l'esordio negli anni Sessanta, ha continuato nello scandaglio di complesse verità interiori (fra le opere più recenti: Carta blu, 1992; Mia madre amava il mare, 1994; I bei momenti, 1997). Il percorso di F. Duranti (n. 1935) si è allargato dal piano autobiografico ed eminentemente introspettivo dei primi romanzi (La Bambina, 1976; Piazza, mia bella piazza, 1978) a quello delle verità psicologiche più complesse delle ultime opere (da Effetti personali, 1988, a Sogni mancini, 1996). Densamente evocativa e sottilmente ironica sa essere la scrittura di A. Debenedetti (n. 1937), nei racconti come nei romanzi (Monsieur Kitsch, 1972; Spavaldi e strambi, 1987; Se la vita non è vita, 1991; Racconti naturali e straordinari, 1993; Giacomino, 1994). Nato a Budapest nel 1937, G. Pressburger, dopo il sodalizio col fratello gemello Nicola (1937-1985; cui si collegano, a firma di entrambi, i racconti Storie dell'ottavo distretto, 1986, nonché il romanzo L'elefante verde, 1988), ha successivamente pubblicato una raccolta di racconti (La legge degli spazi bianchi, 1989) e una serie di romanzi (Sussurro della grande voce, 1990; Denti e spie, 1994), all'insegna perlopiù di un'acuminata intelligenza metafisica, smussata e più dolorosa nell'ulteriore libro di racconti La neve e la colpa (1998). G. Celati (n. 1937), passata la fase di una vorticosa sregolatezza sperimentale, è approdato alla più composta scrittura di Quattro novelle sulle apparenze (1987) e di Avventure in Africa (1998). Dal canto suo, G. Morandini (n. 1938), completata con Angelo a Berlino (1987) la propria trilogia mitteleuropea, pare inaugurare una fase nuova (Sogno a Herrenberg, 1991; Giocando a dama con la luna, 1996).

Scendendo alla generazione degli autori nati negli anni Quaranta, andrà registrato il successo ottenuto da S. Vassalli (n. 1941), dopo le battagliere prove precedenti, con i suoi romanzi forse di più salda struttura narrativa (La notte della cometa, 1984; L'oro del mondo, 1987; La chimera, 1990; Marco e Mattio, 1992; Il cigno, 1993; La notte del lupo, 1998), calibrati fra la ricostruzione storica e un'accattivante qualità affabulatoria. In F. Cordelli (n. 1943), narratore e saggista (La democrazia magica. Il narratore, il romanziere, lo scrittore, 1997), l'esperienza della scrittura - da Procida (1973) a I puri spiriti (1982), a Guerre lontane (1990) e a Un inchino a terra (1999) - comporta una strenua attenzione metaletteraria, in presa diretta con l'esigenza di dare un senso, preliminarmente, alla scelta di guardare all'esistere attraverso la dubbiosa eppure per lui insostituibile mediazione della letteratura. Dopo essersi provato nelle misure certamente congeniali della narrazione breve, sotto l'urgenza di una materia impressa da suggestioni profonde e interrogativi mai pretestuosi (Il gioco del rovescio, 1981; Il filo dell'orizzonte, 1986; I volatili del Beato Angelico, 1987; L'angelo nero, 1991), A. Tabucchi (n. 1943), lusitanista autorevole - studioso e traduttore di F. Pessoa, non senza conseguenze per la sua stessa formazione letteraria - è scrittore di notorietà internazionale: a consolidarne la fama ha concorso lo straordinario successo del romanzo Sostiene Pereira (1994; ridotto presto per il cinema; gli ha fatto seguito La testa perduta di Damasceno Monteiro, 1997), efficace resoconto di una maturazione etico-politica sullo sfondo di una Lisbona oppressa dalla dittatura salazariana. In sagace equilibrio, fra umorismo e pathos, vanno ricordati gli spigliati romanzi di N. Orengo (n. 1944: Ribes, 1988; Le rose di Evita, 1990; L'autunno della signora Waal, 1995; Ospite celeste, 1999), poeta pregevole (Cartoline di mare, 1984; Narcisi d'amore, 1995) oltre che narratore. Sensibile evocatore di atmosfere romane, fra realtà e sogno, G. Montefoschi (n. 1946) ha continuato a investigare gli inquietanti percorsi delle psicologie e dei sentimenti (Volto nascosto, 1991; La porta di Damasco, 1992; La casa del padre, 1994; Il volo, 1997). Sul filo di una mossa osservazione della realtà, nutrendone il linguaggio, prende forma la produzione di S. Benni (n. 1947: Il bar sotto il mare, 1987; Baol. Una tranquilla notte di regime, 1990; La compagnia dei Celestini, 1992; Elianto, 1996). Irruentemente trasgressivo, nella lingua oltre che nelle scelte tematiche, si è confermato A. Busi (n. 1948), il cui ostentato antiperbenismo - fin dal romanzo d'esordio (Seminario sulla gioventù, 1984) - si affida a una scrittura in presa diretta con le tensioni e gli umori, le proiezioni grottesche, i paradossi canzonatori e il sarcasmo di una debordante vocazione protestataria (da Vita standard di un venditore provvisorio di collant, 1985, a Vendita galline km 2, 1993; Suicidi dovuti, 1996; Per un'apocalisse più svelta, 1999). Dopo il fortunato avvio (con Lo stadio di Wimbledon, 1983) D. Del Giudice (n. 1949) ha proseguito sulle tracce di una narrativa saggistica, volta a indagare alcuni temi di singolare portata concettuale: dal senso della letteratura e della scienza alle segrete implicanze in pittura della visione e della luce, all'emblematica avventura del volo aeronautico (Atlante occidentale, 1985; Staccando l'ombra da terra, 1994; Mania, 1997).

L' improvvisa e piena affermazione all'inizio degli anni Novanta di A. Camilleri (n. 1925) costringe a rompere il filo cronologico e generazionale. Da Il birraio di Preston (1995; precedentemente: La forma dell'acqua, 1994) alle prove successive (da Il ladro di merendine, 1996, a La concessione del telefono, 1998; Un mese con Montalbano, 1998; La mossa del cavallo, 1999; Gli arancini di Montalbano, 1999) l'ilare complessità delle trame, anche legate a fatti storici, si accompagna in Camilleri a un'irresistibile inventività espressiva, in un intreccio di lingua e dialetto siciliano.

Ma gli anni Novanta hanno segnato il successo anche di più giovani narratrici e narratori, variamente orientati nella prospettiva piuttosto eclettica di fine secolo. Dopo la buona accoglienza ricevuta dai suoi racconti (La ragazza col turbante, 1986) M. Morazzoni (n. 1950) ha confermato le qualità di una scrittura classicamente composta e ricca di modulazioni, a sostegno di una materia in cui la pacata quotidianità dei comportamenti umani s'indovina carica di fermenti e di segrete emozioni (L'invenzione della verità, 1988; Casa materna, 1992; Il caso Courrier, 1997). Effetti sicuramente suggestivi, sul terreno in particolare di una forte tensione espressiva, ha raggiunto L. Pariani (n. 1951) nei suoi racconti (Di corno o d'oro, 1993; La perfezione degli elastici (e del cinema), 1997). Altrettanto notevole è inoltre il cammino di M. Maggiani (n. 1951: Màuri, màuri, 1989; Felice alla guerra, 1992), che nel romanzo Il coraggio del pettirosso (1995; ha fatto seguito La regina disadorna, 1998) ha saputo tradurre in affresco storico la memoria familiare e privata, comprensiva del ricordo di un mitico Ungaretti. Singolarmente scaltrita, sul piano non meno della scrittura che delle invenzioni, si è rivelata peraltro la produzione degli autori più giovani: da A. De Carlo (n. 1952: Treno di panna, 1981; Uccelli da gabbia e da voliera, 1982; Macno, 1984; nell'ultimo decennio: Uto, 1995; Di noi tre, 1997), incline a una scrittura di tipo cinematografico, strenuamente visiva e realistica; a M. Mari (n. 1955), autore di romanzi e racconti (Di bestia in bestia, 1989; Io venia pien d'angoscia a rimirarti, 1990; Euridice aveva un cane, 1993; Tu, sanguinosa infanzia, 1997; Rondini sul filo, 1999) maturati in un rapporto a volte esplicito, giocosamente sperimentale, con la nostra maggiore tradizione letteraria e linguistica; a P.V. Tondelli (1955-1991), la cui carriera, avviata dal provocatorio Altri libertini (1980), si è prematuramente conclusa con l'intensa e appassionata storia d'amore del romanzo Camere separate (1989; successivamente: le raccolte Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni ottanta, 1990, e L'abbandono. Racconti dagli anni ottanta, post., 1993); a E. Affinati (n. 1956), scrittore di forte e persino esasperata tensione etica, soprattutto sensibile ai temi della violenza e della morte (Soldati del 1956, 1993; Campo del sangue, 1997; Uomini pericolosi, 1998); a L. Doninelli (n. 1956), dalla scrittura asciutta e fantasiosa, senza cedimenti liricizzanti sia nei racconti sia nei romanzi (I due fratelli, 1990; La revoca, 1992; Le decorose memorie, 1994; La verità futile, 1995; Baedeker inferno, 1995; Talk show, 1996); a M. Lodoli (n. 1956), autore - dopo l'esordio nel 1985 col Diario di un millennio che fugge - delle belle storie metropolitane del Grande raccordo (1989; fra le sue prove più recenti: I fannulloni, 1990; Crampi, 1992; Cani e lupi, 1995; I fiori, 1999). Il congegno fin troppo accattivante di alcuni suoi romanzi più recenti (Va' dove ti porta il cuore, 1994; Anima mundi, 1997) non cancella l'efficacia delle precedenti prove di S. Tamaro (n. 1957): nel romanzo La testa fra le nuvole (1989) e soprattutto nei racconti di Per voce sola (1991), dove la scrittrice toccava punte assai apprezzabili d'immaginazione e di stile. Un notevole interesse hanno suscitato i libri di A. Baricco (n. 1958: Castelli di rabbia, 1991; Oceano mare, 1993; Seta, 1996; City, 1999), narratore dalla scrittura colta e densa, a volte quasi preziosa. Nella produzione di S. Veronesi (n. 1959: Per dove parte questo treno allegro, 1988; Gli sfiorati, 1990; Venite venite B-52, 1995; Live, 1996) l'attenzione all'oggi si fa testimonianza di contrasti generazionali, traducendosi anche in ferme prese di posizione contro le aberrazioni e le assurdità della realtà contemporanea. Intorno ai temi della finzione e dell'annientamento, in una successione di accadimenti immersi in minacciose atmosfere oniriche e magiche, cui fa da contrasto il realismo delle descrizioni, si muove infine P. Capriolo (n. 1962: da La grande Eulalia, 1988 e Il nocchiero, 1989, a Un uomo di carattere, 1996; successivamente: Barbara, 1998; Il sogno dell'agnello, 1999).

Il conferimento del Nobel nel 1997 a D. Fo (n. 1926) ha premiato la statura di un singolare scrittore e uomo di teatro, la cui intraprendenza inventiva e formale costituisce un'eccezione nel panorama della nostra l. di fine secolo. A una valutazione complessiva, questa si direbbe conoscere un periodo di stasi o piuttosto di ordinaria amministrazione delle proprie risorse, all'interno di un processo di cui è possibile indicare alcuni momenti nodali, rinunciando alla tentazione (e futile pretesa) di prevederne gli sbocchi. La crisi ideologico-politica ha accelerato la fine di ogni ipotesi di mobilitazione sul terreno di una cultura letteraria le cui istanze tecniche ed espressive, comunque orientate, si commisurino a un progetto di palingenesi o almeno di sviluppo sociale. Di qui il diffuso ripiegamento degli scrittori sulle proprie ragioni individuali, in vista di una pratica della l. positivamente affrancata dall'obbligo, anzitutto soggettivo e perciò tanto più condizionante, di preventive ed estrinseche giustificazioni. Ma lo spazio conquistato a vantaggio di un impegno specificamente letterario, al riparo da ipoteche ideologiche, non ha reso meno urgente il problema che attraversa in gran parte il nostro Novecento, concorrendo a scandirne le fasi salienti: quello del complesso rapporto della l. con la realtà e con la storia; problema delicato e sicuramente centrale, anche quando s'intenda rivendicare - e non necessariamente da un punto di vista programmaticamente sperimentale e avanguardistico - la piena autosufficienza dell'esperienza letteraria, e dunque le valenze in ogni modo simboliche del suo linguaggio. La questione investe la responsabilità etica della scrittura, sia poetica sia narrativa, indeclinabile se si vuole sottrarre la l. alla frigidezza di un vacuo diversivo e se ne avvalori la speciale finalità conoscitiva e di testimonianza critica. Per quest'ultimo aspetto non può non apparire fondata l'esigenza, avvertita anzitutto dagli scrittori più consapevoli del loro ruolo, di un rinnovamento culturale in grado di riempire il vuoto apertosi con la crisi intellettuale dei nostri anni. Nel senso, certo, di una sempre più sensibile e genuina attenzione agli interrogativi e alle attese del mondo contemporaneo; ma preliminarmente in quello di una l. capace di resistere all'invadenza della pura logica del mercato, succube e insieme alimentatrice di mode chiassosamente effimere, enfatizzate dai media, con effetti gravemente disorientanti sul pubblico dei lettori; un pubblico in definitiva esiguo, inferiore alle misure auspicabili in una società avanzata, sul quale preme una produzione libraria quantitativamente imponente (si pensi soltanto al grande numero degli autori stranieri tradotti), nel cui ambito ogni criterio selettivo - di là dalla pubblicazione, beninteso, di opere anche raccomandabili e di valore - pare rispondere a prevalenti preoccupazioni commerciali: compresa quella che presiede alla costruzione scopertamente artificiale dei 'casi' letterari, col supporto di una critica fin troppo indulgente. Il rinnovamento culturale non passa attraverso velleitari ribellismi. Lo stesso recente episodio della narrativa dei "cannibali", gelidamente (e stucchevolmente) dissacratoria e mortuaria, con l'occhio a un immaginario di massa nutrito di certo cinema horror, ha finito per confermare con quanta facilità il 'sistema' attuale, assolutamente smaliziato, sappia riassorbire le provocazioni anche più baldanzose, inserendole nei circuiti maggiori dell'editoria e dell'informazione ufficiale. La via maestra resta quella di una l. che torni a interrogarsi in profondità sulle proprie motivazioni essenziali; e rivolgendosi al passato senza sudditanza, sappia guardarlo come un elemento imprescindibile nella ricerca ed elaborazione del nuovo. Non si tratta di un'indicazione solo di principio. Sull'esistenza ormai di una tradizione novecentesca, da identificare e studiare con gli strumenti della più agguerrita filologia, in un'ottica anzitutto di rigorosa tutela degli autografi e del materiale manoscritto, si fonda l'istituzione (nel 1973) a opera di M. Corti, presso l'Università di Pavia, del Centro di ricerca sulla tradizione manoscritta di autori moderni e contemporanei. Ma quella tradizione è pure al centro del colloquio che i migliori scrittori, anche di quest'ultima stagione, intrattengono più o meno espressamente con le voci più sollecitanti del secolo, comprese quelle di un passato ancora recente: da E. Montale (1896-1981) a S. Penna (1906-1977), a G. Caproni (1912-1990), a V. Sereni (1913-1983) a F. Fortini (1917-1994); da C.E. Gadda (1893-1973) a E. Morante (1912-1985), a G. Manganelli (1922-1990), a I. Calvino (1923-1985); per limitarci a quelle prossime, di là da ogni banale scommessa su un 'canone' novecentesco; con riguardo piuttosto alla forza propositiva di un patrimonio di verità con cui è impossibile non fare i conti.

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Letterature di lingua francese. Francia

di Jacqueline Risset

La storia della l. francese conosce da sempre fasi contraddittorie, epoche di intensa polemica con quelle precedenti, ma pure di profonda contraddizione interna. Il cartesiano 'paradiso della ragione' contiene anche, G. Macchia lo ha dimostrato, l'inferno della déraison, o almeno l'ombra del dubbio, perfino nel secolo del Re Sole, o in quello dei Lumi. Lo stesso può dirsi per il Novecento. E l'ultimo periodo, i venti anni della fin de siècle, può essere letto come prolungamento e accentuazione della fase precedente: quella della reazione, negli anni Settanta, contro l'iperteoricismo, contro il regno del sistema e della struttura che avevano caratterizzato gli anni Sessanta.

Non più scuole, ma percorsi individuali, non più programmi, ma dispersione, rose di possibilità, non più regole, ma soggetti in cerca di sé: un 'al di là del principio di teoria' da intendere anche come un 'al di là del sospetto' (nel senso in cui N. Sarraute, alla fine degli anni Cinquanta, proponeva di leggere il tempo del nouveau roman come l'ère du soupçon: sospetto portato sulle forme tradizionali del narrare, ma anche sullo stesso 'reale'). Il "piacere del testo" che R. Barthes (1973) opponeva ormai alle sue stesse severe ricerche degli anni precedenti - orientate verso la sistematicità di una semiologia generale (Barthes 1967) - è stato poi seguito, a guisa di nuova poetica, non solo dalla critica ma anche dai romanzieri stessi come amore riaffermato e a volte come nostalgia della fiction. E la nuova 'nuova critica', la critique génétique che si sviluppa in Francia alla fine del secolo come riscoperta della filologia fondata su una moderna e problematica analisi delle fonti, sceglie per oggetto prediletto l'opera di M. Proust, che conosce in questi anni una nuova vita postuma grazie alla grande riedizione nella Bibliothèque de la Pléiade (À la recherche du temps perdu, sotto la direzione di J.-Y. Tadié, dal 1987).

La dissoluzione dell'avanguardia letteraria (la pubblicazione di Tel Quel cessò nel 1983) è sintomo della fine del sogno di riconciliazione tra fini letterari e fini politici ("la scrittura si trova necessariamente dalla parte dell'azione rivoluzionaria in corso", scriveva Ph. Sollers nel 1968). A partire dagli anni Ottanta, sotto forme diverse - anche quella della restaurazione - la l. ha ripreso la propria autonomia: gli scrittori non vogliono più essere chiamati 'intellettuali'. Alcuni decidono di esplorare il genere popolare dell'epoca, il poliziesco, ma più che di G. Simenon, si sentono eredi di D. Hammet o di R. Chandler, e usano, a volte, gli stereotipi del giallo per denunciare l'agonia della società capitalista. Altri ripensano la l. in funzione della violenza del mondo attuale. In romanzi di grande complessità formale, si legano reminiscenze di S. Mallarmé e di G. Flaubert a schemi di racconti polizieschi. Le gerarchie vengono abolite.

D. Daeninckx (n. 1949), scrittore autodidatta di estrazione operaia, intende il noir come testimonianza del vissuto sociale e di un passato recente che deve essere sottratto all'oblio (Meurtres pour mémoires, 1984; Play-back, 1993; Nazis dans le métro, 1996); J.-P. Manchette (1942-1995) ha contribuito a rivoluzionare la série noire assumendo come componente fondamentale dell'intreccio la violenza politica (da L'affaire N'gustro, 1971, a La princesse du sang, 1996). Maestro del romanzo nero parodico e dell'avventura ludica è J. Echenoz (n. 1947: Cherokee, 1983; L'occupation des sols, 1988; Nous trois, 1992; Un an, 1997), che sperimenta linguaggi e strutture narrative con effetti sottilmente parodistici.

Il pensiero del nuovo non si afferma più trionfalmente, ma si scoprono, in concreto, possibilità inedite. Tutte le scritture coesistono. La poesia, campo moderno del sacro, prosegue nella scia di Mallarmé o, più vicino a noi, di A. du Bouchet, all'interno di una tensione comunicativa che rifiuta ogni contatto col discorso logico. Sovente diviene ludica, o allude a modelli pittorici e cinematografici.

L'esplorazione del vuoto di A. du Bouchet (n. 1924), discepolo di R. Char e raffinato traduttore (P. Celan, F. Hölderlin, W. Shakespeare), traccia nuove coordinate (Axiales, 1992; Carnets, 1994; Pourquoi si calmes, 1996). Traduttore d'eccezione (Hölderlin, Celan, poeti americani) è anche M. Deguy (n. 1930), autore di un'opera complessa, impregnata di riflessioni filosofiche, ricca di neologismi (Gisants, 1985; À ce qui n'en finit pas, 1995). L'impegno nella traduzione (J. Donne, L. Hejinian, L. Zukofski) connota anche l'attività letteraria di P. Alféri (n. 1962), che spazia dall'analisi del discorso letterario (Chercher une phrase, 1991) al romanzo (Fmn, 1994) alla prosa diaristica (Sentimentale journée, 1997), mentre O. Cadiot (n. 1956) si muove tra poesia (L'art poétic, 1988), opera lirica (Roméo & Juliette, musica di P. Dusapin, 1989), arti grafiche (Rouge, vert & noir, in collab. con B. Cardonnet, 1989) e narrativa (Futur, ancien, fugitif, 1993; Le colonel des zouaves, 1997).

Al polilinguismo rabelaisiano e alla violenza contro il linguaggio, che aveva contrassegnato la lingua poetica degli scrittori riuniti intorno alla rivista TXT (1969-93), continua a ispirarsi l'opera di Ch. Prigent (n. 1945: La langue et ses monstres, 1989; À quoi bon encore des poètes?, 1994; Dum pendet filius, 1997). La tendenza verso un'apertura 'europea', che si manifesta in un'intensa attività di traduzione, accomuna alcuni scrittori appartenenti alla più giovane generazione poetica: Y. Bichet (n. 1951: Le foulon, 1980; Citelle, 1989; Le rêve de Marie, 1995); F. Boddaert (n. 1951: Tombeau du goût français, 1987; Ce livre de malheur, et des corps, 1991), la cui poetica è impregnata del 'gusto francese' medievale; M. Orcel (n. 1952: Destin, 1989), traduttore dei classici italiani (Tasso, Leopardi, Michelangelo); B. Simeone (n. 1957: Éprouvante claire, 1988; Une inquiétude, 1990), grande promotore della cultura italiana contemporanea in Francia (U. Saba, M. Luzi, S. Penna, V. Sereni ecc.). Tra i nuovi talenti figura anche M. Houellebecq (n. 1958), approdato al romanzo (Extension du domaine de la lutte, 1995; Les particules élémentaires, 1998).

Dopo la scomparsa dei grandi maîtres à penser, psicoanalisi e linguistica hanno perduto parte della loro forza di attrazione. Come in Italia, la filosofia torna, dopo molto tempo, ad appassionare. Ma la grande novità, per la l. francese della fine del secolo, viene forse dal suo aprirsi alle l. di lingua francese, che preferiscono non essere più chiamate francofone, consapevoli come sono di non essere comprensibili in una prospettiva tradizionale, di stampo colonialista o protezionista, e di essere invece portatrici di arricchimento alla l. e anche alla lingua francese.

Ma vi è dell'altro: la fin de siècle, forse proprio in virtù del suo statuto di fin de siècle, non si presenta solo come fase, o prolungamento di una fase, in contraddizione con quelle precedenti, ma si volge anche verso momenti letterari più lontani, per reinterpretarli e a volte rovesciarli. È così che negli ultimi anni ha ripreso vigore una discussione che sembrava da tempo estinta, o quanto meno sopita. L'attuale polemica che riguarda il cosiddetto impegno degli intellettuali rimanda, ovviamente, all'epoca dell'egemonia sartriana e in particolare al celebre editoriale che apriva nel 1945 il primo numero di Les temps modernes, e anche al lungo saggio Qu'est-ce que la littérature? apparso nei numeri 17-22 (1947) della medesima rivista (entrambi gli scritti poi in Situations II, Paris 1948; cfr. Sartre 1960). In quest'ultimo testo, Sartre correggeva alquanto il tono imperativo dell'editoriale della rivista, e restringeva alla prosa la necessità immediata dell'impegno ("l'arte della prosa è solidale dell'unico regime in cui la prosa conserva un senso: la democrazia"), continuando tuttavia a fustigare la tentazione di irresponsabilità degli scrittori: "Tutti gli scrittori di origine borghese hanno conosciuto la tentazione dell'irresponsabilità". Forgiava allora questa definizione: "Scrivere è un certo modo di volere la libertà [...] La letteratura vi getta nella mischia". Ma la lunga egemonia di Sartre si rivela a poco a poco, retrospettivamente, meno assoluta di quanto non sia apparsa finora. Si conoscono ormai diversi testi che ne cambiano l'immagine, e in particolare (dopo la pubblicazione postuma delle Øuvres complètes, 1970-79) la risposta di G. Bataille a quella scelta dell'engagement. Nel 1950, nella rivista Botteghe oscure, sotto il titolo Lettre à René Char sur les incompatibilités de l'écrivain, Bataille dichiarava la nozione di engagement un 'contrario' della l.: "L'incompatibilità della letteratura e dell'impegno, che costringe, è precisamente quella di due contrari [...] Non serviam è, si dice, il motto del diavolo. In questo caso, la letteratura è diabolica". Il punto di vista di Bataille non escludeva, tuttavia, né la presa di posizione né l'impegno pratico. Ma questo doveva essere, sottolinea Bataille, nettamente separato dall'idea di impegno 'letterario': "Se vi è qualche ragione di agire, occorre dirla il meno letterariamente che si può". Scrivendo questa Lettre à René Char, Bataille, nel 1950, non era isolato. A parte il poeta amico che ne era il destinatario, vi era, vicino a lui, M. Blanchot, il quale, nel suo testo del 1949, La littérature et le droit à la mort, negava la serietà della domanda posta da Sartre in Qu'est-ce que la littérature?

Ed è ancora M. Blanchot a pubblicare molti anni dopo, nel 1996, un libretto intitolato Les intellectuels en question, che rilancia il dibattito e riprende, sotto un angolo lievemente diverso, ma in coerenza assoluta con lo scritto del 1949 e con quello di Bataille dell'anno successivo, la questione del rapporto tra intellettuali e impegno: in funzione cioè della concezione sovrana e solitaria dello scrivere come destino e missione: "mi domando se attraverso la loro sconfitta e la loro disperazione, artisti e scrittori non portino aiuto e soccorso a quelli che vengono definiti intellettuali" (Blanchot 1996, p. 8). La nozione mallarmeana di scacco è essenziale all'orizzonte dell'artista e dello scrittore. La qualità di intellettuale "è una parte di noi stessi che ci distoglie momentaneamente dal nostro compito, e ci riporta verso ciò che si fa nel mondo per giudicare o apprezzare ciò che vi si fa" (Blanchot 1996, p. 12). E l'impegno appare come un fenomeno del tutto extra-letterario, extra-artistico, rispondente, volta per volta, a una 'ingiunzione' interiore. Ciò che viene allora 'ingiunto' è precisamente l'interruzione - momentanea - della scrittura come dovere primario. Si può, perciò, parlare di un impegno 'discontinuo'. L'intellettuale e lo scrittore vengono ormai definiti come figure diverse, e questa concezione, rara e marginale un tempo, viene ora condivisa dagli scrittori attuali, anche se privi del rigore intellettuale ed etico dell'autore de L'espace littéraire.

Il dialogo a distanza tra gli anni Novanta e gli anni Cinquanta, rianimato inaspettatamente in funzione delle questioni e difficoltà storiche e politiche degli ultimi anni, continua a mettere in luce nuovi aspetti, modi di essere della letteratura. E intanto consente di individuare un tratto costante dell'ultimo mezzo secolo, che appare costellato, o piuttosto scandito, da testi che non pretendono, come nella prima metà del Novecento, di venire accolti come manifesti, proclami, programmi di azione (per es., i manifesti del surrealismo), ma piuttosto come definizioni - della l. in generale -, definizioni che emanano spesso da scrittori solitari (e non da gruppi). E la lettura di questi testi, che valgono spesso anche come lucide analisi dei rapporti tra scrittura e politica, consente, di volta in volta, l'interpretazione delle opere nuove e delle loro trasformazioni.

Per di più, la reinterpretazione attuale dell'immagine letteraria del secolo, o almeno del mezzo secolo, illumina di nuova luce, di fronte a testi chiave come Qu'est-ce que la littérature? di Sartre, altri testi finora quasi ignorati o dimenticati. Così riemerge in questi anni uno scritto di cui non si parlava più, Pour un romanesque lazaréen in Lazare parmi nous, pubblicato da J. Cayrol nel 1950. Nato dall'esperienza dei campi di concentramento, questo testo è anche una forte risposta alla famosa domanda "Come è possibile scrivere dopo Auschwitz?". "Non è assurdo ipotizzare - scrive Cayrol - un'arte nata da una simile convulsione umana, da una catastrofe che ha scosso il fondamento stesso della nostra coscienza" (Cayrol 1950, p. 11). Quest'arte 'lazarea', Cayrol la descrive, a partire dagli effetti psicologici devastanti prodottisi in chi ha vissuto questa esperienza, come "frammentarietà, spezzettamento, sbriciolamento". E ancora "instabilità", "respiro interrotto", "tracce fuggitive", "letteratura da Apocalisse". Da un simile saggio, se guardiamo indietro, al tempo che ci separa dalla sua pubblicazione, potrebbe provenire una nuova luce sotto la quale comprendere gli esperimenti linguistici di questo periodo, anche quelli avanguardistici, spesso visti come 'sperimentali' appunto, o ludici. "Sdoppiamento dell'essere, duplice piano - piano del terrore e piano dell'esaltazione [...] Un'opera lazarea non può che portare la testimonianza di questa agonia debordante" (Cayrol 1950, p. 36).

G. Perec (1936-1983) è stato recentemente definito "il grande scrittore lazareo di oggi". Considerato dopo il suo primo romanzo (Les choses, 1965) una sorta di sociologo flaubertiano moderno, e dopo La disparition (1969) un abilissimo tecnico ludico del linguaggio, Perec è visto oggi come uno scrittore del dopoguerra, del 'dopogenocidio'. Le combinatorie ludiche nella sua opera, percorsa da una vena autobiografica (W ou le souvenir d'enfance, 1975; Je me souviens, 1978) e da un'inesauribile voluttà classificatoria (La vie mode d'emploi, 1978; Un cabinet d'amateur, 1979), si rivelano provocate da quella che è stata nella sua vita "l'esperienza del vuoto, del crimine e della cancellazione del crimine". E altri scrittori contemporanei, apparentemente diversissimi da Perec, si trovano uniti a lui da questo filo della catastrofe storica interna al Novecento. Così i romanzi di P. Modiano (n. 1945), molto più 'classici', meno sperimentali, ruotano intorno alla traumatica esperienza di Vichy (La place de l'Étoile, 1968; La ronde de nuit, 1969), assunta come punto di partenza della propria vita (Livret de famille, 1977) e della difficile ricerca di un'identità sospesa tra oblio e memoria (Rue des boutiques obscures, 1978; Vestiaire de l'enfance, 1989; Du plus loin de l'oubli, 1996; Dora Bruder, 1997).

Alcuni giovani scrittori percepiscono una sorta di tabula rasa legata alla presa di coscienza tardiva dell'orrore dei campi, con ciò che essa dice sulla vanità delle imprese umane, comprese quelle artistiche. "C'era di che, di fronte a questo 'innominabile', introdurre il dubbio, rendere caduca ogni fiction, fratturare gli immaginari nascenti, generare l'afasia", afferma A. Nadaud (n. 1948) in Malaise dans la littérature (1993, p. 12). Per di più la perdita della dimensione utopica (di cui il maggio 1968 era ancora un'espressione), che si è chiusa nel crollo simbolico del muro di Berlino, ha come esaurito un sopravvissuto ideale collettivo di cambiare il mondo e la vita, non soltanto attraverso la contestazione politica, ma anche grazie alla letteratura.

Da questa situazione scaturisce la necessità, per i giovani scrittori, di una rimessa in discussione dello statuto e dell'esercizio della letteratura. 'Periodo di latenza' durante il quale prolifera una produzione di tipo giornalistico e commerciale, che tenta di invertire i dati del problema - il fatto che la l. nasce dall'"irriducibilmente singolare". Da questa stessa crisi scaturisce la necessità di riprendere in mano strumenti abbandonati dagli anni Settanta, che permettano alla l. di conoscersi, in modo da evitare una duplice tentazione, quella di autocentrarsi su se stessi, con atteggiamento puramente narcisistico, e quella di incitare il lettore a decifrare segni che il narratore ha lasciato imprecisi. Una nuova concettualizzazione, meno rigida di quella dell'era dello strutturalismo, è ormai in corso.

Ma già J.-M.-G. Le Clézio (n. 1940), iniziatore con Le procès verbal (1963) di una nouvelle vague di romanzieri che non intendono più 'spiegare' ma 'testimoniare', a partire da Désert (1980) persegue la sua "estasi materiale" nella definizione di 'ultimi mondi esotici' (Le rêve mexicain, 1988; Onitsha, 1991; Étoile errante, 1992; Poisson d'or, 1997). Un esotismo tutto particolare, poiché rigorosamente letterario, è quello di Ch. Bataille (n. 1972), che s'inoltra in tempi e spazi lontani (Annam, 1993; Absinthe, 1994; Le maître des heures, 1997). Tematiche di una diversità spinta fino all'estremo, dall'omosessualità alla malattia mortale, si trovano in T. Duvert (n. 1945: Quand mourut Jonathan, 1978; Abécédaire malveillant, 1989), R. Camus (n. 1946: Le chasseur de lumières, 1993; Le département de la Lozère, 1996) e H. Guibert (1955-1991: Pour l'ami qui ne m'a pas sauvé la vie, 1990; Le protocole compassionnel, 1991). D. Sallénave (n. 1940: L'amazone du grand Dieu, 1997) e A. Ernaux (n. 1944: Passion simple, 1991; La honte, 1996) estremizzano il tema della diversità 'dalla parte delle donne'. A storie di vita quotidiana, raccontate in tono prevalentemente intimistico, s'ispirano B. Visage (n. 1952: Tous les soleils, 1984; Bambini, 1993; L'éducation féline, 1997) e E. Carrère (n. 1957: La classe de neige, 1995), mentre J.-Ph. Toussaint (n. 1957) sviluppa, estenuandolo, lo stile impersonale dell'école du regard (Monsieur, 1986; La télévision, 1997). La riflessione filosofica e l'attenzione costante a filtrare le voci delle culture e discipline artistiche caratterizza l'opera di P. Quignard (n. 1948), tesa a superare le frontiere dei generi (Les mots de la terre, de la peur, et du sol, 1978; Le salon du Wurtemberg, 1986: La leçon de musique, 1987; Le sexe et l'effroi, 1994; Vie secrète, 1998).

Nuovi fenomeni si sono sviluppati, peraltro, nell'ultimo periodo. È del 1984 il Dictionnaire Bordas des littératures de langue française, che indica che le l. dette francofone vengono ormai considerate come autonome e finalmente staccate dalla madre patria. Lo sviluppo delle l. del Maghreb, dell'Africa Nera, del Québec e delle Antille si rivela sempre più vasto. Ed è in questa prospettiva, ma non soltanto in essa, che occorre leggere l'opera di É. Glissant (n. 1928), grande scrittore antillano, che nei suoi ultimi libri, e in particolare nel volume del 1996, Introduction à une poétique du divers, descrive un fenomeno che rappresenta insieme "una mutazione dolorosa del pensiero umano" e una straordinaria apertura di possibilità inedite alla creatività. "Le monde se créolise" scrive Glissant: perdita d'identità, contaminazioni, metamorfosi. Si va verso ciò che egli chiama un chaos-monde. Il 'pensiero di sistema' viene necessariamente sostituito da un'altra forma, 'il pensiero della traccia' (che ritrova inaspettatamente le formulazioni di J. Cayrol). La lingua creola, presa a emblema di questo momento, si definisce come "messa in contatto di elementi linguistici assolutamente eterogenei". Ma "quasi tutte le lingue, alle origini, sono lingue 'creole'". La créolisation è dunque un rivelatore di fenomeni che le preesistono. Ed è anche una via di risoluzione - in questo è qualcosa di molto di più di un semplice fenomeno 'linguistico' - dei problemi di convivenza umana che si pongono oggi nel mondo intero. La créolisation non è solo un dato di fatto, ma un valore, che esige, come sua condizione di realizzazione, l'uguaglianza, e anche, tra le culture diverse, la 'intervalorizzazione', alla quale si aggiunge, come fattore caratteristico e imprescindibile, la 'imprevisibilità'. Si può vederla come un'incarnazione 'lazarea' del 'pensiero della traccia'. Ma anche, enunciata nei termini inventivi di Glissant, come una metafora della poesia, della scrittura poetica.

Per riassumere emblematicamente la produzione letteraria francese di questa fine secolo, si possono forse evocare due testi importanti e recenti - testi molto diversi e che sembrano, tuttavia, attingere entrambi in modo innovativo a una delle grandi acquisizioni letterarie del Novecento, di R. Musil e di altri, il romanzo-saggio. In essi la parte romanzesca si fa esigua, quasi assente, pur restando elemento centrale, mentre la componente teorica sembra articolarsi direttamente sul linguaggio poetico, per mezzo di una prosa lavorata sapientemente, e fondata soprattutto sul ritmo. Studio, di Ph. Sollers, è apparso nel 1997, mentre Vie secrète, di P. Quignard, è del 1998. I titoli potrebbero essere considerati quasi sinonimi: nel primo caso l'accento è messo sul luogo appartato, luogo di quelle che M. Proust chiamava le "gioie intellettuali", nel secondo, sull'esperienza amorosa e sul suo silenzio. Nei due libri si tratta della vita individuale sottratta al dominio del campo sociale, di quella vita interiore che si rigenera in continuazione, attraverso esperienze-limite laiche ma vicine alle caratteristiche dell'esperienza mistica, e anche attraverso il contatto con alcuni testi letterari prediletti e con alcune opere artistiche (pittura, musica, architettura).

Studio di Sollers si costruisce in un dialogo continuo con la Bibbia (in particolare con i testi dei profeti) e con A. Rimbaud (Illuminations). Ma, allo stesso tempo, come in altri libri di Sollers che analizzano, sotto diverse forme, 'la paranoia sociale', lo sguardo, attraverso il velo della fiction, che acquista a tratti un ampio respiro narrativo, si esercita con grande acutezza politica: "Uno storico dell'avvenire dirà forse: 'improvvisamente, verso la fine del ventesimo secolo, in mezzo a ricchezze considerevoli e del resto sperperate, il legame sociale si disfece. Nessuno si aspettava una simile rottura. Fu all'inizio uno stupore, un torpore, come se un'enorme sfera, fino ad allora ermeticamente chiusa, si fosse improvvisamente vuotata del suo contenuto. Potere, Menzogna, Delitto, Satana, Traffico, Sesso, Morte, Denaro, tutte le vecchie maiuscole della grande solita ruota continuavano a girare, ma, così sembrava, a vuoto. Dopo l'affare dell'epidemia, gli uomini non andavano più alle donne, né le donne agli uomini. La delusione preliminare, la svalutazione istantanea, una rassegnazione confusa, una irritazione tetra e ben presto in briciole, si leggevano ovunque'" (Sollers 1997, p. 29).

Dubbio, distanza, sfiducia di fronte al vuoto delle energie politiche; lo sguardo di Sollers ricorda in questo punto quello di Nietzsche-Zarathustra di fronte agli 'ultimi uomini'. Ma, allo stesso tempo - questa doppia dimensione è una costante del libro - "je tutoie mon âme immortelle": momenti di solitudine estrema, e di gioia estrema, accompagnati dai libri amati: "Fine del ventesimo secolo: vecchi greci, Bibbia, Hölderlin, Rimbaud [...] Un giorno si classificheranno i rarissimi momenti che meritano di sopravvivere secondo la loro sfericità di zaffiro, di metallo; la loro assenza di peso, la loro capacità di silenzio".

Il silenzio, che può dirsi pure l'oggetto, e anche il fine di Vie secrète di Quignard, risponde al versante 'solitario' del libro di Sollers, e si situa insieme a esso agli esatti antipodi dell'engagement di Qu'est-ce que la littérature?: "La letteratura è questo impegno sempre più profondo, nella sua fonte fino alla sua fine, nel silenzio. L'invenzione della scrittura è la messa in silenzio del linguaggio" (Quignard 1998, p. 215).

La vicenda travagliata dei rapporti tra l. e storia nella seconda metà del Novecento trova forse esito in queste parole. Dapprima presente e desiderata con Sartre, la storia si assenta dall'orizzonte del nouveau roman, diventa, poi, fatto di cronaca, attualità, o anche fantasma per i giovani romanzieri. Espandendo lo spazio temporale all'invenzione della scrittura e alla voce dei profeti, due scrittori, alla fine del secolo, indicano al terzo millennio vie ancora possibili di sopravvivenza.

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Letterature di lingua francese. Paesi francofoni

di Carla Rossi

Lo statuto delle l. cosiddette francofone è sensibilmente cambiato negli ultimi decenni. Anche se esse non godono ancora dell'autonomia che contraddistingue, in rapporto alle rispettive metropoli linguistiche, le l. di lingua spagnola e inglese, è consuetudine ormai diffusa parlare non più di una l. francese con ramificazioni fuori dei confini nazionali, ma di letterature di lingua francese che si sviluppano con caratteri propri fuori della Francia, sia là dove il francese è lingua delle popolazioni autoctone o madrelingua di popolazioni non autoctone ma direttamente discendenti dai Francesi, come in Europa (Belgio e Svizzera) e nell'America Settentrionale (Québec), sia là dove l'uso del francese sopravvive, accanto alle lingue autoctone, in conseguenza di vicende variamente legate al passato di potenza coloniale della Francia, come nell'Africa mediterranea e nel Vicino Oriente (Maghreb, Libano), nell'Africa subsahariana, nelle isole dell'Oceano Indiano, nelle Antille e in altre aree di minor rilevanza. Offrire dunque un quadro, per quanto sommario, delle l. di lingua francese di fine secolo significa occuparsi di autori e di opere la cui storia è difficilmente riconducibile a un comune denominatore, tanto più che la stessa nozione di 'francofonia' è ben lontana dall'aver trovato una definizione univoca e stabilizzata, come ha sottolineato G. Dugas in Convergences et divergences dans les littératures francophones (1992).

In Belgio, dopo la costituzione a Stato indipendente, le due tradizioni linguistiche e culturali del paese, quella vallona e quella fiamminga, pur mantenendosi distinte, sono andate elaborando una cultura nazionale, attraverso il progressivo distacco dalle l. madri francese e neerlandese. Così oggi la l. francofona belga, superate le preoccupazioni indipendentistiche che talvolta hanno condizionato la sua espressione, è rappresentata sia da autori valloni sia da scrittori di origine fiamminga, come J. de Decker (n. 1945), Ph. Van Kessel (n. 1946) e M. Wijckaert (n. 1952), i quali hanno scelto il francese come lingua letteraria.

Alla fine degli anni Ottanta si sono spenti due dei maggiori autori francofoni di fama internazionale: M. Yourcenar (1903-1987), la prima scrittrice a essere accolta all'Académie française, e G. Simenon (1903-1989), i cui scritti continueranno a raccogliere un crescente consenso di critica e di pubblico, confermato dalla pubblicazione dell'opera omnia (Tout Simenon, 27 voll., 1988-93). Nonostante i lunghi soggiorni negli Stati Uniti e poi nella Svizzera romanda, Simenon non ha mai perduto il contatto con la terra d'origine, il cui paesaggio fa da sfondo a quasi tutti i suoi romanzi.

Una notevole vitalità ha dimostrato in Belgio l'attività teatrale. Essa è dovuta all'intraprendenza di numerosi drammaturghi: H. Ronse (n. 1946), fondatore del Nouveau théâtre de Belgique; J. Louvet (n. 1934), interprete delle preoccupazioni del proletariato vallone; M. Liebens (n. 1938), creatore, dopo il fallimento del Théâtre du parvis, dell'Ensemble théâtral mobile; A. Delcampe (n. 1939), direttore dell'Atelier théâtral di Louvain-la-Neuve; F. Baal (pseud. di Charles Flamand, n. 1940), fondatore del Théâtre laboratoire vicinal; J.-M. Piemme (n. 1944: Neige en décembre, 1988; Commerce gourmand, 1991); M. Fabien (n. 1945: Tausk, 1987; Claire Lacombe, 1989); B. De Coster (1954-1991). Significative, nell'ambito del Jeune théâtre di Bruxelles, le presenze di M. Delval (n. 1949), M. Dezoteux (n. 1949), Ph. Sireuil (n. 1952). Una menzione particolare merita la breve e intensa carriera di R. Kaliski (1936-1981), ebreo di origine polacca, il cui teatro, teso a far emergere la violenza e le contraddizioni della storia, si sottrae alle più consolidate convenzioni nell'uso dello spazio e del tempo (Trotsky, 1969; Le pique-nique de Claretta, 1973; La Passion selon Pier Paolo Pasolini, 1978; Dave au bord de la mer, 1978; Aïda vaincue, post., 1982).

In campo narrativo, gli apporti di maggior rilievo sono offerti da P. Mertens (n. 1939), interprete degli eventi della storia contemporanea in numerosi romanzi (L'Inde ou l'Amérique, 1969; Terre d'asile, 1978; Une paix royale, 1995) e novelle (Terreurs, 1983; Collision, 1995), e da J.-P. Verheggen (n. 1942), artefice di saporite contaminazioni tra il registro linguistico colto proprio dell'accademia e quello basso della parlata popolare (Le degré zorro de l'écriture, 1977; Pubères, putains, 1985; Ridiculum vitae, 1994). Si distinguono inoltre R. Swennen (n. 1942: La nouvelle Athènes, 1985; Le roman du linceul, 1991), P. Emond (n. 1944: La danse du fumiste, 1993) e J.-P. Otte (n. 1949: L'amour en eaux dormantes, 1996). Un posto a parte occupa H. Bauchau (n. 1913), poeta, narratore e drammaturgo, per il potere suggestivo e la sottigliezza intellettuale della sua opera. In poesia, pur nel venir meno di scuole e movimenti, va segnalata la ricerca di autori quali J. Izoard (n. 1936: Terre ultime, 1970; Enclos de nuit, 1983), animatore a Liegi dell'Atelier de l'agneau, J. Crickillon (n. 1940), autore di raffinati versi barocchi (L'ombre du prince, 1971; Nuit la neige, 1983) nonché di novelle, W. Lambersy (n. 1941: La diagonale du fou, 1982), vicino alle sperimentazioni di R. Queneau (1903-1976), e Ch. Hubin (n. 1941: Continuum, 1991; Ce qui est, 1995).

In Svizzera la tradizionale vocazione federale e sovranazionale dei cantoni ha impedito che la condizione minoritaria del francese (nonché dell'italiano e del ladino) nei confronti della lingua egemone tedesca desse luogo nelle regioni romande a tensioni analoghe a quelle del Belgio e del Québec. La l. romanda è tendenzialmente policentrica e in essa, più che la rivendicazione di un'identità nazionale, conta semmai il sentimento d'appartenenza che lega il singolo scrittore alla sua regione d'origine, intesa come luogo di memorie e tradizioni e specifico campo culturale. D'altra parte, se tanti illustri rappresentanti della cultura svizzera francese sono stati e sono tuttora spesso percepiti come francesi tout-court (da Saussure a Piaget a Le Corbusier, da Cendrars a Jaccottet a Pinget), ciò non dipende solo dall'inevitabile attrazione esercitata dalla cultura più forte della vicina Francia, ma anche dalla difficoltà di molti intellettuali svizzeri a sentirsi pienamente integrati in un paese che, se ha il merito di ospitare alcune delle più importanti agenzie internazionali per la pace e la collaborazione tra i popoli, è anche fortemente legato alle proprie tradizioni di autonomia e neutralità, e geloso del proprio benessere, di uno stile di vita tra i più ordinati e confortevoli. Il dubbio intellettuale, l'inclinazione allo sconforto e ai sensi di colpa che caratterizzano l'opera di molti scrittori trovano del resto ulteriore alimento in un'educazione ancora in gran parte impregnata di moralismo calvinista. È vero infatti che l'ombra della teologia calvinista ha gravato per secoli sulla cultura della Svizzera romanda e che a dissiparla non valsero né la rivolta di Rousseau né le aperture cosmopolite degli intellettuali di Coppet; come ha scritto P.-L. Borel (L'âme suisse romande, sa captivité, sa délivrance, 1961): "la Francia ci ha dato Calvino e noi le abbiamo dato Rousseau. C'è un virus Calvino, e ne siamo tutti intossicati, come c'è un virus Rousseau, dal quale i Francesi sono, invece, stimolati".

La l. del Vaud si giova ancora dell'impulso che le venne all'inizio del 20° secolo dalla generazione dei Cahiers vaudois. Tra gli autori maggiori vanno ricordati Ph. Jaccottet (n. 1925: À la lumière d'hiver, 1977; Pensée sous les nuages, 1983) e J. Chessex (n. 1934), narratore (Les yeux jaunes, 1979; La mort d'un juste, 1996), saggista (Les saintes écritures, 1972, 1985², in difesa della l. romanda) e poeta dalle complesse architetture (Le calviniste, 1983; Les élégies de Yorick, 1994). L'austerità calvinista, mentre tempera in Jaccottet le emozioni del discorso poetico, potenzia l'ossessione della morte e il fascino delle situazioni estreme che caratterizzano l'opera di Chessex. Accanto a uno scrittore affermato come E. Barilier (n. 1947: Le chien Tristan, 1977; La crique des perroquets, 1990), prossimo all'école du regard, si distinguono i losannesi J.-F. Tappy (n. 1954: Pierre à feu, 1987; Terre battue, 1995), F. Debluë (n. 1950: Judith et Holopherne, 1989), P.-A. Tâche (n. 1940: Le mensonge des genres, 1989), M. Magnaridès (n. 1936: Hautes pierres, 1989) e S. Roche (n. 1949: Le Salon Pompadour, 1990), condirettrice della rivista Écriture. La l. del Valais ha trovato espressione non soltanto nella prosa violenta e barocca di M. Chappaz (n. 1916: da Portrait des Valaisans: en légende et en vérité, 1965, a Office des morts: suivi de Tendres campagnes, 1992), il più autorevole rappresentante della locale l., ma anche nella scrittura di segno opposto che contraddistingue l'opera di G. Borgeaud (n. 1914: Le soleil sur Aubiac, 1987) e nello stile discreto con cui la scrittrice S.C. Bille (1912-1979) ha raccontato, in numerose novelle, storie di donne destinate alla solitudine e all'esclusione. La tradizione letteraria del Giura romando, patria di Cendrars e Le Corbusier, ha trovato nuovi autorevoli esponenti nei poeti J. Cuttat (n. 1916) e A. Voisard (n. 1930) e nella scrittrice A.-L. Grobéty (n. 1949: Zéro positif, 1975; Belle dame qui mord, 1992), rivelatasi nel 1970 con il romanzo Pour mourir en février. Meno legata a connotazioni regionalistiche è la città di Ginevra. Patria di R. Pinget (1919-1997), che trova migliore collocazione nella l. francese, essa accoglie autori provenienti da altre culture, come A. Cohen (1895-1981) e G. Haldas (n. 1917), ma è soprattutto sede di un'autorevole scuola cui appartengono critici e studiosi come J. Poulet (1902-1991), J. Rousset (n. 1910) e J. Starobinski (n. 1920). Ginevrina è anche una scrittrice ormai affermata come S. Dupuis (n. 1956: Figures d'égarées, 1989). Figura significativa, in cui riaffiorano le tracce di un antico rigore calvinista, è infine quella di J. Ziegler (n. 1934). Autore del romanzo L'or du Maniéma (1996) e dei saggi Une Suisse au-dessus de tout soupçon (1976), La Suisse lave plus blanc (1990) e Le bonheur d'être Suisse (1993), Ziegler si è occupato con spirito critico non soltanto della realtà politica e culturale di casa propria, ma anche delle problematiche internazionali, in particolar modo di quelle dei paesi del Terzo Mondo: nel 1971 ha pubblicato Le pouvoir africain e nel 1978 Main basse sur l'Afrique; nella prefazione al volume collettaneo Décolonisations, instabilités et famines en Afrique (1986), ha affrontato il problema della decolonizzazione nei territori delle ex colonie francesi dell'Africa subsahariana.

In Canada, la l. di espressione francese ha ricevuto il maggiore impulso dagli scrittori del Québec, strenui difensori di un'autonomia sia dai modelli anglo-americani sia dai canoni e dettami della cultura francese. Nata come rifiuto globale dei valori morali ed estetici sui quali si fondava la società del Québec, la littérature québécoise contribuì all'assunzione di coscienza politica dell'identità nazionale, promuovendo il recupero delle tradizioni culturali e del joual, il gergo parlato nei bassifondi di Montréal, inteso come lingua degli oppressi e dei ribelli. A inaugurare l'âge de la parole, in risposta all'antico silenzio, è stato il movimento dell'Hexagone, dall'omonima casa editrice fondata nel 1953, che ebbe in G. Miron (1928-1996) il suo infaticabile animatore: il volume L'homme rapaillé (1970), in cui Miron ha raccolto testi poetici pubblicati dal 1953, rappresenta la sintesi di un percorso culturale che ha portato la l. canadese francofona a definirsi come québécoise.

Tra i membri più attivi dell'Hexagone sono i poeti G. Hénault (1920-1995), R. Giguère (n. 1929), P.-M. Lapointe (n. 1929), F. Ouellette (n. 1930), Y. Préfontaine (n. 1937). Emanazione dell'Hexagone fu la rivista Liberté, fondata nel 1959 da J.-G. Pilon (n. 1930) e M. van Schendel (n. 1929), che svolse un ruolo importante negli anni della cosiddetta rivoluzione tranquilla (1959-65). Una nuova fase, più decisamente impegnata nella lotta per l'indipendenza del Québec, si apre con la fondazione della rivista di poesia Parti pris (1963-68), a opera di P. Chamberland (n. 1939: Terre Québec, 1964). Dalla seconda metà degli anni Sessanta la questione letteraria tornò a essere preminente rispetto al problema politico: in poesia, attraverso l'apertura alle istanze della modernità delle riviste La barre du jour (1967; dal 1977 La nouvelle barre du jour), Hobo-Québec (1968), Les herbes rouges (1969), e l'emergere di nuove voci, da quella essenzialmente lirica di J. Brault (n. 1933: Mémoire, 1965) a quella di G. Godin (n. 1938: Les cantouques, 1967); nel romanzo, attraverso l'apertura alle tecniche del nouveau roman da parte di H. Aquin (1929-1977: Trou de mémoire, 1968), J. Godbout (n. 1933: Le couteau sur la table, 1965), J. Basile (pseud. di Jean-Basile Bezroudnoff, n. 1932) e R. Ducharme (n. 1941: Le nez qui voque, 1967). Parallelamente, si verifica la riattivazione del registro poetico nella prosa di una tra le più feconde scrittrici, M.-C. Blais (n. 1939: Une saison dans la vie d'Emmanuel, 1966; Une liaison parisienne, 1975; Soifs, 1995), o di quello popolaresco della tradizione orale nelle opere di J. Ferron (n. 1921) e R. Carrier (n. 1937), mentre il joual entra nel teatro con le pièces di M. Tremblay (n. 1942: Les belles-soeurs, 1968), M. Garneau (n. 1939: La chanson d'amour de cul, 1974) e J. Barbeau (n. 1945: Manon Lastcall et Joualez-moi d'amour, 1972).

Intorno alla metà degli anni Settanta, mentre si preparava il successo elettorale del Parti québécois (1976), si sono aperte ulteriori prospettive, con il sovrapporsi di problematiche internazionali a quelle più specificatamente nazionaliste. Emblematici i Poèmes des quatre côtés (1975) di J. Brault, che adombrano la riconciliazione tra le due lingue antagoniste, l'inglese e il francese, ma anche l'opera poetica di M. Lalonde (n. 1937), autrice tra l'altro di una Défense et illustration de la langue québécoise (1979), o di C. Péloquin (n. 1942). Dal fermento innovativo nasce la Nouvelle écriture, cui fanno capo poeti alle prese con sperimentazioni sul linguaggio: M. Beaulieu (n. 1941: Indicatif présent, 1977; Visages, 1981); N. Brossard (n. 1943: Mécanique jongleuse suivi de Masculin grammatical, 1974; Langues obscures, 1992), autrice anche di romanzi (Baroque d'aube, 1995) e testi teatrali; R. Duguay (n. 1939: Le manifeste de l'infonie: le toutArtBel, 1970; Chansons d'ô, 1981). Nell'ampio e diversificato panorama della produzione narrativa, accanto alle nuove fortunate prove di A. Hébert (n. 1916: Les enfants du Sabbat, 1975; Les fous de Bassan, 1982), attiva anche in poesia (Les songes en équilibre, 1942; Oeuvre poétique 1950-1990, 1992), e di autori quali R. Ducharme, J. Godbout, H. Aquin, G. Bessette, s'impongono le voci di L. Caron (n. 1942: L'emmitouflé, 1977; Le canard de bois, 1981) e di V.- L. Beaulieu (n. 1945: Don Quichotte de la démanche, 1974), mentre il movimento femminista esplode con M. Gagnon (n. 1938), poetessa (Pour les femmes et tous les autres, 1974; Les fleurs du Catalpa, 1986; La terre est remplie de langage, 1993) e narratrice (Le vent majeur, 1995), e con Y. Villemaire (n. 1949), che fa uso sapiente del joual (i romanzi Ange Amazone, 1982, e Le dieu dansant, 1995; le poesie Les murs de brouillard, 1997).

La sconfitta delle tendenze separatiste (1980) e il successivo declino delle fortune elettorali del Parti québécois pongono le premesse di una fase di ripiegamento, cui corrisponde una stasi delle ricerche formali, sia in poesia sia nella produzione romanzesca. Il romanzo contemporaneo coniuga tutte le esperienze possibili, tra rottura e continuità. Tra le varie tendenze, sembra anche emergere il ricorso a tematiche realistiche, atte a suscitare l'interesse del pubblico: non solo è messa a nudo la realtà più intima, attraverso le opere autobiografiche (G. Roy, La détresse et l'enchantement, 1984; J. Godbout, L'écrivain de province. Journal 1981-1990, 1991), ma anche la realtà collettiva, con i suoi temi più scottanti e attuali: l'emarginazione, il disagio sociale, l'omosessualità. Tra le nuove voci emergono quelle femminili di M. Proulx (n. 1952: Le sexe des étoiles, 1987; Homme invisible à la fenêtre, 1993), F. d'Amour (n. 1948: Le jardin de l'enfer, 1990), M. Larue (n. 1948: Copies conformes, 1989). Da segnalare, inoltre, lo sviluppo del romanzo per ragazzi per merito di scrittrici come Ch. Brouillet (n. 1958: Une nuit très longue, 1992; Un rendez-vous troublant, 1993) e M. Décary (n. 1953: L'incroyable destinée, 1993).

Nel Maghreb, la l. di espressione francese, rivolta inizialmente a sensibilizzare un pubblico d'oltremare alla causa dell'indipendenza nazionale, con la fine del dominio coloniale ha instaurato un nuovo dialogo intellettuale e culturale con la Francia e, pur mantenendo vivo il sentimento d'identità nazionale, ha espresso una forte disillusione nei confronti della nuova gestione politica e del conseguente assetto sociale.

È il caso degli algerini R. Mimouni (1945-1995: Le fleuve détourné, 1982; La ceinture de l'Ogresse, 1990; Chroniques de Tanger: janvier 1994-janvier 1995, 1995), R. Boudjedra (n. 1941: La répudiation, 1969; Timimoun, 1994), entrambi autori di pamphlet (come De la barbarie en général et de l'intégrisme en particulier, pubblicato da Mimouni nel 1992, o Fils de la haine, pubblicato nello stesso anno da Boudjedra), e T. Djaout (1954-1993: L'invention du désert, 1987; Les vigiles, 1991), che rimase vittima dell'oltranzismo integralista. Tra gli autori algerini affermatisi anche all'estero, oltre a Y. Kateb (1929-1989), spiccano M. Dib (n. 1920: La nuit sauvage, 1995) e A. Djebar (n. 1936: Ombre sultane, 1987; Oran, langue morte, 1997).

Il recupero della tradizione e l'istanza di emancipazione che caratterizzano l'intera produzione letteraria maghrebina si traducono spesso nella ricerca di nuovi linguaggi e strutture narrative: si distinguono in tal senso alcuni scrittori marocchini, quali il berbero M. Khaïr-Eddine (n. 1942), che ha fatto della ribellione la sua linea di condotta e il suo stile (La légende d'Agoun'chich, 1984; Mémorial, 1991), A. Laâbi (n. 1942), che ha espresso il suo impegno politico in un linguaggio ermetico, svincolato dai canoni grammaticali (il romanzo Les rides du lion, 1989; la raccolta poetica Le spleen de Casablanca, 1996), e il poeta Mustafa Nissaboury (n. 1943). Altri interpreti della nuova coscienza letteraria marocchina, oltre al celebre T. Ben Jelloun (n. 1944), sono D. Chraïbi (n. 1926), che nella seconda fase della sua produzione ha adottato il genere poliziesco per denunciare la corruzione della classe politica e imprenditoriale (L'inspecteur Ali, 1991; L'inspecteur Ali à Trinity College, 1995; L'inspecteur Ali et la Cia, 1997), A. Serhane (n. 1950: Les enfants des rues étroites, 1986; Le soleil des obscurs, 1992) e F. Mernissi (n. 1940), narratrice e saggista (Sultanes oubliées: femmes chefs d'état en Islam, 1990).

Meno copiosa è la produzione in Tunisia, dove la preservazione e il potenziamento delle istituzioni islamiche hanno favorito lo sviluppo di una l. d'espressione araba. La scelta del francese si è caricata per lungo tempo di un'inevitabile connotazione ideologica, che ha posto gli scrittori in una condizione d'isolamento. Nonostante la politica di apertura instauratasi dopo l'indipendenza, molti scrittori hanno continuato a pubblicare all'estero e i loro percorsi sono rimasti essenzialmente individuali. Comune denominatore resta il 'meticciato culturale', cantato con malinconia o propugnato con furore dai poeti, indagato nelle sue risonanze psicologiche dai narratori. A partire dagli anni Ottanta, la mediazione tra le due culture, quella della Francia, divenuta per molti patria adottiva, e quella araba, è affidata ai luoghi: in Retour à Thyna (1997), H. Bouraoui (n. 1932) racconta il suo ritorno nella città natale, Sfax; la scrittrice H. Béji (n. 1948), in L'oeil du jour (1985), mette a confronto la vita di una casa araba tradizionale con quella di un appartamento parigino; il poeta M. El Houssi (n. 1941), uno dei migliori interpreti dell'antica tradizione arabo-berbera, nel suo primo romanzo, Le verger des poursuites (1991), a carattere autobiografico, rievoca il ritorno al villaggio natìo dopo la morte della madre. Tra i poeti dell'ultima generazione si distingue M. Ghachem (n. 1947: Cap Africa, 1989; Orphie, 1997), nato nella città faro della dinastia fatimide, Mahdia, di cui canta la luce mediterranea.

Una particolare menzione merita la l. ebraica del Maghreb: si tratta di una l. ricca nel suo corpus, specifica nelle sue tematiche e originale nei suoi modi di espressione. Tra gli appartenenti alla comunità ebraica tunisina, oltre a Ryvel (pseud. di Raphaël Lévy, 1898-1972), va ricordato A. Memmi (n. 1920), che, pur dichiarandosi profondamente legato alla terra natìa, attribuisce alla sua opera una "specificità ebraico-maghrebina"; considerato tra i più importanti scrittori tunisini di lingua francese, è autore di romanzi (da La statue de sel, 1953, a Le désert, 1977, a Le pharaon, 1988), di saggi letterari (Écrivains francophones du Maghreb, 1985; Le roman maghrébin de langue française, 1987) e studi sociologici (Portrait d'un juif, 1962; Le racisme, 1982). Testimonianza di una fusione delle culture ebraica, araba e berbera è l'opera di A.E. El Maleh (n. 1917), ebreo marocchino che ha esordito in l. nel 1980 con il romanzo Parcours immobile - cui sono seguiti Aïlen ou La nuit du récit (1983), Mille ans, un jour (1986) - rivelandosi scrittore capace di far rivivere la tradizione del racconto attraverso una scrittura aperta a soluzioni sperimentali.

Relativamente esigua è la presenza di autori che adottano la lingua francese nel Libano. Accanto a G. Schéhadé (1919-1989), romanziere, poeta (Les poésies, 1969) e drammaturgo d'ispirazione surrealista (L'émigré de Brisbane, 1965; L'écolier sultan, 1973), si devono ricordare E. Adnan (n. 1925: Sitt Marie-Rose, 1977; Au coeur du coeur d'un pays, 1994), nota anche come pittrice, e A. Maalouf (n. 1949), vincitore del Prix Goncourt con il romanzo Le rocher de Tanios (1993).

Un notevole interesse presenta invece la situazione dell'Africa Nera dove, a partire dagli anni Ottanta, la produzione letteraria ha avuto un incremento significativo: le pubblicazioni superano del 40% quelle dei due decenni precedenti. La l. non è più soltanto motivata da istanze di denuncia politica e sociale, ma dal bisogno dello scrittore di esprimere se stesso e il suo rapporto con la scrittura. Tra le modalità espressive privilegiate dagli autori africani vi è sicuramente l'ironia, spesso amara, come in A. Kourouma (n. 1927). Dopo vent'anni di silenzio, Kourouma si è dedicato nuovamente al genere romanzesco con Monné, outrages et défis (1990), una riflessione sul passato coloniale del proprio paese, la Costa d'Avorio, in cui sembra che il disprezzo e l'umiliazione siano inscindibili dal destino del Negro, in qualsivoglia epoca egli viva; da qui deriva il titolo del romanzo, composto dalla parola malinke monné, seguita da due sinonimi francesi che ne costituiscono la glossa approssimativa, oltraggi e sfide.

La satira caratterizza l'opera di scrittori quali M.M. Diabaté (1938-1988), del Mali, autore del Cycle de Kouta (Le lieutenant de Kouta, 1979; Le coiffeur de Kouta, 1980; Le boucher de Kouta, 1982), calibrata fusione di humour e storia, e del congolese H. Lopès (n. 1937: Le pleurer-rire, 1982; Le chercheur d'Afriques, 1990; Sur l'autre rive, 1992). L'ironia assume toni feroci nella produzione di un altro congolese, S.L. Tansi (n. 1947), affermatosi come romanziere (La vie et demie, 1979; L'anté-peuple, 1983; Les yeux de Volcan, 1988), ma attivo anche come regista e drammaturgo: il suo teatro è una denuncia violenta della corruzione e dell'ingiustizia e si pone come atto di rivolta morale. Accanto a scrittori già noti quali il guineano C. Laye (1928-1980), il camerunese F. Oyono (n. 1929) e il congolese G.-F. Tchicaya U'Tamsi (1931-1988), considerati tra i massimi rappresentanti della l. negro-africana, hanno contribuito al rinnovamento delle strutture e delle tematiche narrative il guineano A. Fantouré (n. 1938) e Y. Ouologuem (n. 1940), del Mali.

Sebbene il Madagascar non possa essere assimilato, né sotto il profilo morfologico né dal punto di vista etnografico, al continente africano, la vicinanza geografica e l'affinità delle vicende storiche autorizzano a estendere il discorso sulle l. francofone dell'Africa anche a quest'isola dell'Oceano Indiano.

Il tentativo, durante il periodo coloniale (1895-1960), d'imporre il francese come unica lingua dovette fare i conti nel Madagascar, a differenza che in altri Stati africani, con l'esistenza di una lingua, il malgascio, forte di una tradizione scritta, che dagli inizi del secolo 19° si avvale dell'alfabeto latino, e di un ragguardevole corpus di testi storici, eruditi e anche letterari. La fedeltà al malgascio si è così presentata come un segno di resistenza nazionale ed è poi stata intensamente sostenuta dopo la caduta del regime coloniale, tanto che attualmente non sono molti gli scrittori che si servono del francese (anche se non devono essere trascurati alcuni segnali, come il successo ottenuto da M. Rakotoson con la raccolta di racconti Dadabé, 1984). I maggiori rappresentanti della francofonia in Madagascar restano quindi ancora gli autori affermatisi a partire dagli anni Trenta, in particolare i tre poeti inclusi da L.-S. Senghor nella sua celebre Anthologie de la nouvelle poésie nègre et malgache de langue française (1948): J.-J. Rabearivelo (1903-1937), F. Ranaivo (n. 1914) e soprattutto J. Rabemananjara (n. 1913). Quest'ultimo, che nel 1988 ha ricevuto dall'Académie française il Grand prix de la francophonie, ha più volte sottolineato come l'uso della lingua dei colonizzatori sia uno dei più ardui cimenti per i popoli conquistati. Il movimento culturale da lui iniziato nel 1944 si rifaceva esplicitamente alla tradizione indigena ("scrivete come francesi, restate malgasci nel cuore"), espressione specifica (malgachitude) del più generale movimento della négritude.

Diversa è la situazione delle due più importanti isole Mascarene, Riunione e Maurizio, dove nonostante la concorrenza del creolo, frutto della mescolanza di popolazioni introdotte dai successivi colonizzatori, è tuttora assai forte l'ancoraggio ai modelli culturali francesi, in una caratteristica tensione tra desiderio d'integrazione e rivendicazione di un'autonoma identità insulare. È soprattutto in questa seconda direzione che si orientano tuttavia i poeti e gli scrittori delle ultime generazioni.

Una vera e propria rinascita letteraria ha avuto luogo nell'Isola della Riunione, grazie agli esponenti della nouvelle poésie réunionnaise (J. Albany, B. Gamaleya, G. Aubry, A. Guéneau, J.-H. Azéma), che hanno inteso distinguersi dai pedissequi imitatori della poesia della madrepatria francese. A partire dagli anni Ottanta si è anche affermata una ricca produzione narrativa, per cui si è parlato di roman réunionnais: vanno ricordati almeno J.-F. Sam-Long (n. 1940: Terre arrachée, 1982; Zoura, femme bon Dieu, 1988; L'arbre de violence, 1994), e le scrittrici D. Roméis (n. 1933: Les terres chaudes, 1988; La cathédrale cassée, 1993) e J. Brézé (n. 1961: La sale gosse, 1989). Nell'isola di Maurizio, dove la stessa presenza di un forte meticciato culturale spinge a collocare in un passato mitico la ricerca di una purezza originaria, per esempio nell'opera visionaria di M. de Chazal (1902-1981), molti sono gli autori che solo nella scelta dell'esilio hanno trovato il modo di esprimere la propria identità provvisoria; due nomi tra tutti: quello del poeta É. Maunick (n. 1931: Toi laminaire: italiques pour Aimé Césaire, 1990; Maurice: le temps d'une île, 1993) e quello di J. Fanchette (n. 1932), romanziere (Alpha du centaure, 1975) e poeta (L'île équinoxe, 1993).

Nelle Antille francesi, da dove, con A. Césaire, aveva preso il via il movimento della negritudine, e dove, con É. Glissant, sono nate la nozione di 'antillanità' e la poetica del 'diverso', la l. è tuttora portatrice di istanze destinate all'acquisizione di un nuovo concetto del meticciato: la 'creolizzazione' non è più soltanto la condizione particolare di popoli in cerca di una problematica identità nazionale, ma la condizione stessa dell'umanità, in un mondo decisamente avviato verso un generale rimescolamento delle culture.

Massimi artefici della nuova stagione della l. caribica sono i martinicani P. Chamoiseau (n. 1953), vincitore del Prix Goncourt nel 1992 con Texaco, che insieme a R. Confiant (n. 1951: La vierge du grand retour, 1996; Le meurtre du Samedi-Gloria, 1997) ha creolizzato il francese intervenendo sulle strutture sintattiche e grammaticali con effetti di grande espressività, e D. Maximin (n. 1947: Soufrières, 1987; L'île et une nuit, 1995), più aderente a una scrittura poetica sulla scia di A. Césaire. Martinicano è anche il più anziano J. Zobel (n. 1915), che più d'ogni altro dipinge con disincantato distacco tanto la quotidianità rurale (Jours immobiles, 1970; ripubblicato col titolo Les mains pleines d'oiseaux, 1978), quanto la condizione universale dell'uomo (Et si la mer n'était pas bleue?, 1982; Mas Badara, 1983). Di grande rilievo è il contributo offerto da due scrittrici della Guadalupa: M. Condé (n. 1937), che ambienta la maggior parte dei suoi romanzi in Africa, mitico luogo d'origine e insieme immagine di una drammatica realtà (Hérémakhonon, 1976; Une saison à Rihata, 1981; Pays mêlé, 1997); e S. Schwarz Bart (n. 1938), cui si deve il modello del romanzo storico antillano, Pluie et vent sur Télumée Miracle (1972), nonché la pièce, Ton beau capitaine (1987).

Un discorso a parte merita Haiti, dove i problemi d'identità razziale, culturale e di lingua comuni alle isole caribiche sono stati acutizzati dal susseguirsi di regimi antidemocratici, che hanno costretto all'esilio gran parte degli intellettuali. È ormai dall'estero che gli scrittori haitiani fanno sentire la loro voce, coniugando la fedeltà alle tradizioni e l'impegno politico con l'originalità delle soluzioni formali. Il realismo magico di molta narrativa attinge direttamente alla religione vodù per operare un'incessante trasformazione del dato reale: in romanzi come Le nègre crucifié (1974) di G. Étienne, o Hadriana dans tous mes rêves (1988) di R. Dépestre, la figura dello zombi diventa metafora di un annientamento globale che consegna gli uomini alla condizione di morti-viventi.

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Letterature di lingua spagnola

di Ines Ravasini

Le affinità culturali che sin dai tempi della conquista hanno legato indissolubilmente la Spagna a gran parte dell'America Latina sono ancor oggi vive e si può dire che non siano state scalfite né dal pesante fardello dell'eredità storica, fatta anche di scontri cruenti e dolorose incomprensioni, né dalle variegate modalità linguistiche assunte dallo spagnolo nelle diverse regioni dell'America Latina. Ciò nonostante, sotto la spinta di forze centrifughe e di processi di trasformazione, e in modo sempre più accentuato nel corso del Novecento, le diverse realtà di cui si compone l'universo ispanico si sono andate complicando e diversificando. L'omogeneità linguistica e culturale sembra oggi sgretolarsi nell'ambito della stessa Spagna e la l. castigliana guarda ora con attenzione al riaffermarsi di lingue e l. autonome, la catalana, la gallega e la basca, cui la democrazia ha restituito voce e dignità e con cui gli scrittori castigliani sono portati a confrontarsi più di quanto, forse, non accada con la l. d'oltreoceano. Al contempo, la cultura ispanoamericana negli ultimi cinquant'anni ha affrontato con rinnovato vigore la questione della propria identità e del nodo contraddittorio dei rapporti che la legano alla Spagna e più in generale all'Europa; strettamente connessa a tale problematica, e da essa scaturita, è poi quella altrettanto complessa dell'unità latinoamericana, che peraltro travalica le differenze linguistiche accomunando l'area brasiliana e quella ispanica. A creare ulteriore 'disordine' rispetto all'idea di una possibile omogeneità concorre, a partire dagli anni Sessanta, la comparsa sulla scena letteraria dei cosiddetti latinos, ossia delle minoranze d'origine ispanica in territorio statunitense, un milieu di identità e culture in cui si fondono Messicoamericani (i cosiddetti chicanos), Portoricani e immigrati più recenti da varie aree del Sudamerica, e in particolare dai Caribi. Gli scrittori latinos, rappresentanti della cultura del mestizaje, si fanno interpreti di una l. anch'essa meticcia, che è innanzitutto intreccio di lingue, dialetti e gerghi metropolitani (lo spagnolo, l'americano, il nahuatl, il caló), in un costante varcare di frontiere tra il mondo latinoamericano e quello anglosassone. Premesso, dunque, che parlare di produzione letteraria in lingua spagnola significa abbracciare esperienze eterogenee, si tenta di rintracciare quel filo che lungo la seconda metà del 20° secolo ha consentito alle diverse l. di dialogare, delineando percorsi paralleli e individuando punti di contatto e costanti significative.

Da un punto di vista storico, Spagna e America Latina, rimaste entrambe al margine della Seconda guerra mondiale, a partire dagli anni Cinquanta seguono rotte divergenti. La Spagna entra nella seconda metà del secolo oppressa dalla dittatura. Molti intellettuali sono morti durante la guerra o immediatamente dopo, moltissimi sono in esilio, la vita culturale è isolata dal resto d'Europa e limitata da una censura ottusa. Ovunque si respira un clima soffocante e persino l'attenuarsi dell'ideologia falangista contribuisce a rafforzare la mediocrità imperante di una mentalità clericale, nutrita di nazionalismo, che ha come unico scopo il mantenimento dello statu quo sociale ed economico. Tuttavia, dapprima lentamente e poi con una certa accelerazione a partire dalla metà degli anni Sessanta, la Spagna si avvia sulla strada del cambiamento: fattori politici ed economici hanno reso inevitabile un'apertura e una trasformazione sociale e culturale, incerta e faticosa in una prima fase, ma inarrestabile a partire dalla morte di Franco. Il ritorno alla democrazia e la scelta europea e atlantica segnano questo cammino verso la normalizzazione della vita civile, la modernizzazione del paese, la ripresa economica; cammino che culminerà negli anni Ottanta, gli anni del benessere diffuso e del ritorno a un ruolo significativo nel contesto politico mondiale. In tale parabola dall'oppressione alla libertà è racchiuso anche l'orizzonte culturale di questi anni: dal silenzio cupo e dal 'tremendismo' (storico ancor prima che letterario) degli anni Quaranta, al ritorno in primo piano della realtà e della l. come mezzo per trasformarla propri del romanzo impegnato e della poesia sociale degli anni Cinquanta, alle rivendicazioni dell'autonomia dell'arte con lo sperimentalismo narrativo dei decenni posteriori e l'estetismo della lirica degli anni Settanta, fino all'abolizione della censura e alla ritrovata libertà creativa dei nostri giorni.

Molto meno lineare è la traiettoria dei paesi latinoamericani. Dalla metà del secolo, il Sudamerica è scosso da rivoluzioni, colpi di Stato e dittature, da crisi economiche e squilibri sociali; è un continente che si risveglia e tenta di scuotere il giogo dell'imperialismo nordamericano ma anche di liberarsi dei retaggi ideologici del colonialismo europeo. L'America Latina vuole affermare se stessa, scoprire la propria identità, cancellando lo sguardo dell'altro, dell'Europa, che sin dai tempi della conquista e della colonizzazione l'ha imprigionata nella categoria del 'diverso', dell'esotico, rifiutandola o esaltandola di volta in volta ma sempre e solo in base a parametri eurocentrici, estranei alla realtà americana. Gli avvenimenti storici del secondo Novecento portano invece il Sudamerica in primo piano e gli attribuiscono uno statuto d'autonomia: al tentativo di ribellarsi alla subordinazione politico-economica si unisce l'assunzione della coscienza di sé, il riconoscimento della specificità latinoamericana. L'unità latinoamericana è dunque legata non tanto a una comunanza linguistica quanto a questa condivisa volontà di riscatto, a questa necessità di creare la propria immagine di sé, e non esistere più solo come riflesso dello sguardo altrui. In questo confronto continuo con l'Europa (e in modo privilegiato con la Spagna), in questo dialogo fra l'io e l'altro, nel rifiuto dei cliché imposti nel passato, ma nella consapevolezza che quel passato è ormai parte di sé, l'America Latina si rivela come un crogiolo in cui si fondono le componenti autoctone e quelle iberiche, l'elemento africano e quello costituito dalle successive ondate di immigrati europei, in una molteplicità di apporti culturali che ne segnano l'essenza. Alla l. è affidato il compito di interpretare questa pluralità, di farsi specchio del processo di autocoscienza. La genesi (solo apparentemente improvvisa) e l'incredibile fioritura del romanzo degli anni Sessanta ne sono il risultato più evidente, così come la sua ricezione europea, fortunatissima ma anche ricca di equivoci, testimonia ancora una volta le contraddizioni e i disagi del confronto tra vecchio e nuovo mondo. Il prezzo pagato dall'America Latina in questo cammino verso la coscienza di sé è stato molto alto, in termini politici ed economici, ma anche di sofferenza umana. Molte delle esperienze liberatorie che lo hanno scandito sono naufragate, soffocate da dittature sanguinarie o da una guerriglia feroce. Oggi, seppure si assiste in molti paesi al ripristino della libertà e dei diritti umani, nuovi pericoli assediano le deboli democrazie latinoamericane: le atrocità dei gruppi terroristici e quelle dei regimi totalitari mascherati da moderni Stati di diritto, la corruzione diffusa, le connessioni tra potere e malavita, la presenza del narcotraffico, la crisi economica. Restano l'acquisizione di una consapevolezza e di un'identità culturali, una coscienza critica e la volontà di testimoniare.

Nel corso di questi cinquant'anni, Spagna e America Latina hanno mantenuto aperto un dialogo fecondo e condiviso momenti di confronto e reciproco arricchimento. Negli anni della dittatura franchista, l'America Latina ha rappresentato per molti intellettuali spagnoli la terra dell'esilio, la possibilità di continuare a scrivere e a ripensare a distanza la Spagna, il suo destino storico, il suo passato e presente, visti ora da una diversa prospettiva. L'America ha offerto a questi scrittori, pur nella dolorosa esperienza della diaspora, una seconda patria, ma soprattutto una continuità con la madre lingua e, non ultimo, un mercato editoriale. Nasce così una l. della memoria, nostalgia di una vita perduta ma anche ricostruzione di un recente passato storico al quale ci si afferra per non dimenticare, per non sentirsi ormai senza radici. Coloro che più a lungo sono rimasti lontani dalla Spagna, che non hanno voluto o potuto tornare quando la morsa del regime si è allentata consentendo i primi rimpatri, hanno scritto della paradossale situazione dell'esiliato, legato a un paese che non esiste più ed estraneo nella terra che lo ha accolto, al di là di ogni tentativo di integrazione. L'esperienza dell'esilio non va sottovalutata neppure dal punto di vista dell'incontro con gli intellettuali americani e dell'apporto dato da scrittori e studiosi spagnoli alla cultura locale: università, riviste, case editrici si sono avvalse della collaborazione stimolante degli esiliati spagnoli. Questi, a loro volta, al momento del loro ritorno in patria hanno portato con sé un bagaglio di conoscenze ed esperienze culturali dalle quali la Spagna era rimasta esclusa e hanno assolto un prezioso compito di mediazione verso le nuove tendenze. Per coloro che erano rimasti in patria l'America Latina ha rappresentato il luogo dell'altra Spagna, la parte mutilata di sé, ma anche il luogo dell'opportunità dove, per es., era possibile pubblicare i romanzi proibiti dalla censura, avere un pubblico che veniva negato in patria. Il fenomeno dell'esilio ha comunque aperto una lacerazione profonda nel tessuto civile e culturale spagnolo e ha condotto a una sorta di dicotomia nel corso del quarantennio franchista, sancita ormai anche dalle storie letterarie, che non mancano di dedicare un capitolo alla 'letteratura dell'esilio'.

Proprio negli anni in cui tale frattura si ricomponeva, con il ritorno in patria di scrittori e intellettuali seguito alla morte di Franco, la brutalità dei regimi dittatoriali in Uruguay, Argentina, Chile obbligava molti autori alla via dell'esilio, verso altri paesi latinoamericani, verso la Spagna e l'Europa. Per molti di essi l'esilio è stato l'unica alternativa al silenzio o alla morte. La storia si è riproposta alla rovescia: ancora una volta alla l. è affidata la memoria, ma anche la testimonianza e la denuncia, particolarmente efficace in un continente in cui spesso la parola si è tradotta in strumento di lotta, in militanza politica, dove la realtà sembra superare la finzione e dove la finzione - si pensi ai numerosi romanzi sulla figura del dittatore - ha saputo dare senso a una realtà che appare spesso incredibile.

Esiste dunque un viaggio fisico, quello dell'esilio, che ha unito l'America alla Spagna, ed esiste anche un viaggio della l., quello che alla fine degli anni Sessanta ha portato all'irruzione della narrativa latinoamericana nei mercati europei. In particolare, nel 1967 appare Cien años de soledad di G. García Márquez e, sulla scia del suo folgorante successo, le porte dell'editoria si spalancano a quello che viene definito il nuovo romanzo ispanoamericano; non che gli scrittori americani non fossero conosciuti e tradotti prima di questa data, ma certo la loro presenza era limitata ad alcuni nomi eccellenti: P. Neruda, C. Vallejo, J.L. Borges, M.A. Asturias, A. Carpentier, M. Vargas Llosa e pochi altri. In Europa si esaltò il carattere di novità di questa narrativa, anche se essa rappresentava, in realtà, il risultato di un processo in atto sin dall'inizio del secolo, in cui confluivano la poesia modernista, il grande romanzo della rivoluzione messicana, le avanguardie poetiche, il surrealismo, il neoindigenismo, la narrativa degli anni Quaranta, con la rivalutazione del mito da parte di Asturias, il 'realismo magico' di Carpentier, le costruzioni fantastiche di Borges e più tardi di J. Cortázar. Il 'romanzo latinoamericano' (secondo la formula standardizzata che si impose allora per alludere a un fenomeno sentito come omogeneo, ma che celava invece una realtà composita accogliendo al suo interno esperienze specifiche e unitarie come, per es., le tradizioni messicana e argentina) ebbe un impatto violento sulla l. europea, dal momento che la creatività e la problematicità di quella prosa restituivano vigore e vitalità a un genere che per molti versi si riteneva esaurito. Circostanze culturali e ideologiche che si affermavano in quegli anni in Europa, come la rivalutazione del Terzo Mondo e delle aree marginali, favorirono l'accoglienza di questa narrativa, ma a determinarne la fortuna fu soprattutto la sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa che, in un linguaggio esuberante e barocco, parlava di mondi ignoti, di una realtà magica e affascinante che si prestava a essere letta in chiave mitica. E ad aumentarne il fascino si aggiungeva la scoperta, sotto le sue ardite architetture, di echi del romanzo francese, della cultura spagnola, del surrealismo, di F. Kafka, W. Faulkner, J. Joyce, insomma di un'impalcatura familiare stravolta però da una visione diversa della realtà, indissolubilmente legata all'identità americana, da cui la vecchia Europa veniva esclusa. Certo, ancora una volta il rischio dell'esotismo, dello sguardo straniante, era in agguato, e ciò ha dato luogo a non poche interpretazioni devianti.

Resta il fatto che soprattutto in Spagna la scoperta di questa l. provocò effetti dirompenti: senz'altro per la vicinanza linguistica, per cui la prosa ispanoamericana infondeva nuovo vigore allo spagnolo peninsulare, anche nel segno della tradizione barocca, ma specialmente per lo stato in cui languiva la realtà culturale ispanica, stremata da due decenni di romanzo e poesia sociale che rispondevano a un impegno eticamente nobile ma esteticamente debole. Neppure le voci di autori di rilievo (si pensi solo a poeti come G. Celaya, B. de Otero, J. Hierro, J. Gil de Biedma, J.A. Valente, C. Rodríguez, o a scrittori come I. Aldecoa, R. Sánchez Ferlosio, J. Goytisolo, J. Marsé e ovviamente C.J. Cela e M. Delibes, per citare solo i più significativi di quegli anni) né alcuni recenti segni di rinnovamento (per es., lo sperimentalismo di L.M. Santos, o la prosa fantastica di Á. Cunqueiro) apparivano sufficienti ad attenuare il malessere nei confronti di una narrativa che sembrava aver esaurito la sua vena più felice. In Spagna, la diffusione di autori ispanoamericani fino allora poco noti, quando non sconosciuti, è legata al progetto di divulgazione attuato dalla casa editrice Seix Barral, progetto cui non era estranea l'intenzione di provocare un moto di rinnovamento in un panorama che si giudicava immobile e fossilizzato. Inclusi nelle collane di narrativa più prestigiose e vincitori di premi letterari spagnoli, gli scrittori latinoamericani, più che esercitare influenze dirette (che pure si possono rintracciare), hanno soprattutto contribuito a modificare l'ambiente culturale. Dinanzi al cosiddetto boom latinoamericano, non sono venute meno le imitazioni servili, né i tentativi di ricondurre la poliedricità degli stili a canoni propri della narrativa europea, così da negare l'identità specifica americana e il valore innovativo di questi testi; e neppure sono mancate difese della propria originalità. Ma al di là di tali reazioni, è innegabile che proprio negli anni in cui la censura si andava attenuando e in Spagna si registravano taluni isolati tentativi di rinnovamento, il romanzo americano ha apportato una linfa rivitalizzante e ha indicato possibili strade da seguire: la liberazione dell'immaginazione, le sperimentazioni formali e il sovvertimento delle strutture tradizionali, la polifonia, il linguaggio sofisticato e proliferante, la commistione con formule e stili provenienti da altri codici come il cinema, il fumetto, la musica. Ma in un certo senso il romanzo spagnolo, pur avendo maturato questi stimoli specialmente nella direzione dello sperimentalismo (si pensi a J. Benet o a G. Torrente Ballester), è rimasto ancorato alle radici europee perché impossibilitato a fare propria quella nuova visione del mondo che il romanzo latinoamericano imponeva, attribuendo alla parola il potere di annullare lo smarrimento dinanzi a una realtà 'surreale' e 'magica', e per ciò stesso incomprensibile e caotica, sfuggente nel mostrare il suo duplice volto di magia e di inaudita violenza. Soltanto la parola può rintracciare il senso segreto delle cose, rivisitandole in chiava mitica o svelandone attraverso l'immaginazione quegli aspetti nascosti che non è dato cogliere oggettivamente. È la finzione che permette di percepire la molteplicità del reale, poiché questo ha perso la sua univocità e quindi la possibilità di essere rappresentato secondo i tradizionali canoni realistici e obiettivi. Da questa nuova lettura della realtà deriva la complessità linguistica e strutturale, imposta da una visione del mondo frammentata e polisemica, di opere aperte che invitano a molteplici letture.

Se le tappe dell'esilio e del confronto con il romanzo degli anni Sessanta hanno rappresentato due momenti intensi e significativi, non privi di esiti felici, ve ne sono altri forse meno appariscenti ma di non minore rilievo. Basti qui ricordare che negli anni Settanta, in Spagna, il rifiuto della poesia sociale portò un gruppo di giovani poeti (tra cui gli ormai famosi Nueve novísimos, dal titolo dell'antologia che nel 1970 li fece conoscere) a difendere l'autonomia dell'arte e del linguaggio poetico e a bandire ogni messaggio ideologico in nome dell'estetismo. Tra i loro meriti ci fu quello di operare un taglio netto con la recente tradizione lirica spagnola a favore di un dichiarato cosmopolitismo che si appropriava delle neoavanguardie, del surrealismo, della scrittura dada, contaminandoli con la Pop Art, i linguaggi del cinema e dei mass media. Nella ricerca di nuovi modelli, il magistero di poeti latinoamericani come J. Lezama Lima, O. Girondo, O. Paz, unito a quello di poeti anglosassoni, li conduceva a restituire alla parola poetica tutta la sua pregnanza, non più svilita dall'uso quotidiano. A tali momenti di scambio proficuo vanno affiancate inevitabili fasi di distanziamento in cui ogni l. (la spagnola come le molteplici l. nazionali dell'America Latina) ha perseguito un cammino solitario e individuale, lungo percorsi indipendenti.

La l. spagnola sembra essersi dibattuta, a fasi alterne, tra opposte tendenze: scrittura militante versus autonomia dell'arte, realismo versus sperimentalismo, riflessione metaletteraria versus narrazione pura, estetismo lirico versus poesia umana, per riassumere grosso modo un'alternanza di orientamenti attorno ai quali, nel lungo arco di questi cinquant'anni, si è articolato un dibattito scandito da scontri, nette prese di posizione e ripensamenti. Al realismo sociale degli anni Cinquanta e Sessanta, engagé e ammantato dell'aura della resistenza antifranchista, subentra una l. di memorie, ricordi, diari, che rompe con l'oggettività in nome di un individualismo che si fa misura della realtà. Tra gli anni Sessanta e Settanta, d'altronde, il realismo oggettivo era già stato messo in crisi a livello formale dal romanzo sperimentale che, maturato nel solco della lezione latinoamericana ma anche dei più recenti orientamenti critici quali lo strutturalismo e la semiologia, cercava il senso dell'esistenza nel senso della scrittura, talora scivolando in un artefatto esercizio meccanico. In qualche misura, tale rottura con la tradizione narrativa recente e la necessità di concentrarsi sulla creazione artistica rispondono alle medesime esigenze della rivoluzione messa in atto dai poeti degli anni Settanta contro la poesia sociale, così come mostrano una correlazione con il teatro sperimentale e underground, che scardina la struttura della rappresentazione realista e della commedia borghese d'intrattenimento ancora in voga.

Negli ultimi decenni, in questo alternarsi di processi, lo sperimentalismo più esacerbato sembra aver esaurito la sua vena e lascia il campo a una narrativa autoreferenziale, in cui la riflessione sul processo della scrittura corre parallela al tentativo di ordinare la caotica esperienza della realtà. È questo uno dei filoni più fecondi della recente narrativa spagnola, che continua a dare segni di vitalità lungo tutti gli anni Ottanta e Novanta, come dimostrano i romanzi Beatus ille (1986) di A. Muñoz Molina (n. 1956), El metro de platino iridiado (1990) di Á. Pombo (n. 1939), Nubosidad variable (1992) di C. Martín Gaite (n. 1925), Negra espalda del tiempo (1998) di J. Marías (n. 1951). Sulla linea del superamento del romanzo sperimentale si colloca, inoltre, la rivalutazione del romanzo d'impianto classico, incentrato sul piacere della narrazione ben costruita. Tratto saliente della narrativa degli ultimi vent'anni, tale riscoperta spiega anche la fortuna di generi minori tornati alla ribalta. In quest'ottica va letto, per es., il successo della novela negra, in cui la struttura del giallo si combina felicemente con l'analisi sociologica: per tutti gli anni Ottanta e Novanta resta ben solida la fama del detective Pepe Carvalho inventato da M. Vázquez Montalbán (n. 1939: El premio, 1996; Quinteto de Buenos Aires, 1997), e sulla sua scia appaiono numerosi emuli, di cui ricorderemo solo i recenti Malo en Madrid (1996) di J.P. Aparicio (n. 1941) e La tempestad (1997) di J.M. Prada (n. 1970). Queste storie dal taglio poliziesco sono di difficile delimitazione e spesso sconfinano in romanzi non propriamente ascrivibili alla categoria del 'giallo' ma che si aprono piuttosto all'indagine sociopolitica e alla riflessione sull'attualità (Galíndez, 1990, di Vázquez Montalbán; Plenilunio, 1997, di Muñoz Molina; La piel del tambor, 1995, di A. Pérez Reverte, n. 1951). Nella medesima prospettiva va letta anche la riscoperta del romanzo d'azione e d'avventura, talora a sfondo storico (si pensi ai romanzi di Pérez Reverte El Capitán Alatriste, 1996, e Limpieza de sangre, 1997). Né sembra attenuarsi quell'interesse per la storia recente, esploso negli anni della transizione, che aveva dato origine a una miriade di romanzi sulla guerra civile e la dittatura e che continua ad alimentare, seppure in misura lievemente minore, la produzione degli anni Novanta (Autobiografía del general Franco, 1992, di Vázquez Montalbán; La forma de la noche, 1994, di Aparicio). Ma il tratto forse più significativo della narrativa dell'ultimo ventennio è da ricercarsi nella dirompente presenza di intime storie esistenziali, talora dal taglio psicoanalitico, che invadono romanzi e racconti; una narrativa che sempre più spesso si fa interprete di situazioni di disagio e frattura, di vicende individuali frammentate e nevrotiche, rese anche attraverso architetture strutturali complesse e una scrittura sofisticata: La soledad era esto (1990) di J.J. Millás (n. 1946); Corazón tan blanco (1992) e Mañana en la batalla piensa en mí (1994) di J. Marías; Donde las mujeres (1996) di Á. Pombo; La mirada del alma (1997) di L. Mateo-Díez (n. 1942). In questa linea è rilevante la presenza femminile, con opere in cui, accanto a una spiccata vena intimista, trovano spazio problematiche femministe o questioni sentite come peculiari dell'universo femminile: Con la miel en los labios (1997) di E. Tusquets (n. 1936); Temblor (1990) e La hija del caníbal (1997) di R. Montero (n. 1951); Lo raro es vivir (1996) e Irse de casa (1998) di C. Martín Gaite; El sueño de Venecia (1992) di P. Díaz-Mas (n. 1954); Una prudente distancia (1994) di M. Soriano (n. 1956); Malena es un nombre de tango (1994) e Modelos de mujer (1996) di A. Grandes (n. 1961); La fiebre amarilla (1994) di L. Castro (n. 1966), e molte altre. Un mutamento di rotta sembra, invece, caratterizzare le opere degli scrittori più giovani: sotto le spoglie di un recupero del realismo attento alla disperazione e alla tragica ribellione del mondo giovanile, affiora una vena di marcato sperimentalismo; al di là di ogni rappresentazione oggettiva, la realtà è travolta dalla crudezza e dalla violenza di un linguaggio contaminato dall'oralità che si spinge fino al sovvertimento della sintassi e si apre a ogni forma di intertestualità, dal linguaggio del rock a quello dei fumetti o del mondo del calcio. Ne sono un esempio Perros verdes (1989) di A. Cerezales (n. 1959), Uno se vuelve loco (1989) di D. Múgica (n. 1967), Historias del Kronen (1994), Mensaka (1995) e Ciudad rayada (1998) di J. A. Mañas (n. 1971).

Anche nel teatro, problematiche giovanili e tematiche di attualità come la droga e la disoccupazione, la violenza e l'emarginazione, sono al centro delle opere di autori che si sono affacciati alla ribalta a partire dalla fine degli anni Ottanta, come M.M. Reina (n. 1957), P. Pedrero (n. 1957: Invierno de luna alegre, 1987), E. Caballero (n. 1957: Squash, 1989), A. Onetti (n. 1962), S. Belbel (n. 1963: Alesio una comedia de tiempos pasados, 1987). Pur conservando un'impostazione tradizionale, il loro teatro si apre alla contaminazione con altri generi e forme della comunicazione. Di particolare interesse il lavoro svolto negli ultimi anni dal Grupo de Madrid (riunito attorno a Caballero, con la partecipazione anche di Pedrero e di I. del Moral, n. 1957), che propone un teatro scarno ed essenziale, in cui sotto la lente di un umorismo dissacrante si mettono a fuoco personaggi disadattati e frustrati. Un'analoga esperienza, con particolare attenzione al rinnovamento delle strutture drammatiche, svolge a Barcellona la Sala Beckett, gruppo riunito attorno a J. Sanchis Sinisterra (n. 1940), con la partecipazione di J.P. Peyró (n. 1958), L. Cunillé (n. 1961), J.M. Benet (n. 1940) e il già citato S. Belbel.

Come per la narrativa, anche per la lirica gli autori che si sono affermati negli anni Ottanta continuano a dominare la scena e ad alimentare quella polemica tra tradizione e innovazione che ha segnato il panorama poetico spagnolo dagli anni Settanta in poi. La poesia dal tono colloquiale e dall'impostazione realista, che riportava l'uomo in primo piano e non rifuggiva dalle forme tradizionali, documentabile nell'opera di M. D'Ors (n. 1946), di F. Ortiz (n. 1947), di L.A. de Cuenca (n. 1950), di L. García Montero (n. 1958), di F. Benítez Reyes (n. 1960), trova sfumature e accenti nuovi nella lirica più astratta e metafisica, che si apre alla riflessione e a toni meditativi, di C. Marzal (n. 1961: Los países nocturnos, 1996), J. Reichmann (Baila con un extranjero, 1994) o nel realismo duro di R. Wolfe (n. 1962: Días perdidos en los transportes públicos, 1992; Arde Babilonia, 1994). Su un altro versante, la lirica neopurista di A. Sánchez Robayna (n. 1952), di R. Romojaro (n. 1948) e di J. Navarro (n. 1953), che affonda le sue radici nel simbolismo e nella tradizione della poesia pura, si affianca alle tendenze più marcatamente sperimentali, sulla scia della poesia degli anni Settanta, di J.M. Bonet (n. 1953: Café des exilés, 1990), di B. Andreu (n. 1959: El sueño oscuro, 1994) e di A. Trapiello (n. 1953: Acaso una verdad, 1993). Particolarmente feconda, negli ultimi anni, è anche la raffinata poesia erotica di scrittrici come A. Rossetti (n. 1950) e J. Castro (n. 1945). Ma è soprattutto nella linea della cosiddetta poesía de la experiencia che si avvertono le innovazioni di maggior interesse: questa lirica realista e figurativa, con una base narrativa o aneddotica, parla di temi quotidiani e universali ma sempre dal punto di vista del singolo individuo, ed è aliena da ogni impostazione ideologica; pur privilegiando un linguaggio al limite del colloquiale, ama la citazione colta e ricercata, e dialoga in modo originale con la tradizione di cui riesuma metri e forme. Tra i giovani esponenti di tale tendenza ricordiamo: A. García (n. 1965: Intemperie, 1995); A. Paniagna (n. 1965: Si la ilusión persiste, 1990; Treinta poemas, 1997); L. Plana (n. 1965: Ancla, 1995); L. Muñoz (n. 1966: Septiembre, 1991; Manzanas amarillas, 1995); A. Tesán (n. 1971: El mismo hombre, 1996); C. Pardo (n. 1975: El invernadero, 1995).

Le esperienze degli ultimi vent'anni, dunque, sono ben lontane dall'apparire omogenee; anzi, lirica, narrativa e teatro si connotano per una vasta eterogeneità di temi e forme, come se alla libertà definitivamente acquisita sul piano politico corrispondesse una libertà artistica che spinge nelle più svariate direzioni. Pur nel ritorno a una l. che parli essenzialmente dell'individuo e delle sue esperienze, certe sofisticate prove linguistiche degli anni Settanta restano acquisizioni di fondo, così come appaiono ormai irrinunciabili l'apertura cosmopolita, lo sguardo rivolto alla Francia e all'Inghilterra, le soluzioni strutturali ereditate dal romanzo e dal teatro degli anni Settanta, ma maturate e impiegate ora con dosata sapienza.

In America Latina, la l. dell'ultimo ventennio ha ereditato il peso di tradizioni contrastanti: da un lato una tendenza mimetica che ha radici antiche e non ha mai smesso di alimentarsi, che fa della parola e della sua forza oggettiva una modalità di denuncia e di trasformazione, dall'altro l'eredità del 'realismo magico', del 'reale meraviglioso', ossia di una l. prevalentemente antimimetica. Analogamente, la poesia oscilla tra una vocazione epica, eroica e rivoluzionaria, dove c'è identità assoluta tra realtà e ideologia, e un destino che si gioca tutto sul piano verbale, sul potere della parola poetica, dei suoi molteplici significati e delle infinite letture possibili.

Un linguaggio svincolato da messaggi referenziali è quello proposto, negli ultimi anni, dalle riviste argentine Xul e Último Reino, che annoverano tra i loro collaboratori più noti V. Redondo (n. 1953: Circe. Cuaderno de trabajo, 1985) e N. Perlongher (1949-1993: Alambres, 1987; Parque Lezama, 1990). Una poesia di rottura che vuole rendere la schizofrenia della civiltà contemporanea e la sua decomposizione tramite un linguaggio disarticolato e stridente è anche quella dei cileni J.L. Martínez (n. 1942), H. Navarro (n. 1942), D. Maqueira (n. 1951) e T. Calderón (n. 1955). La libertà verbale e il rapporto ludico con la parola creativa si traducono, non di rado, in una contaminazione con i modi della lingua colloquiale (come nei colombiani V.M. Gaviria, n. 1955, e H. I. Rodríguez, n. 1963) o in esperimenti che rispondono alle suggestioni provenienti dai linguaggi visivi e musicali (come accade nei versi del colombiano S. Mutis Durán, n. 1951). Sono tratti, questi, che connotano anche l'opera dei poeti che in Argentina fanno capo alla rivista Diario de poesía, tra cui D. Freidenberg (n. 1945: Diario en la crisis, 1986), J.R. Aulicino (n. 1949), M. Prieto (n. 1961), D. García Helder (n. 1961). La tendenza attuale, dunque, sembra quella di essere aperti a ogni esperimento, di non eludere nulla, neppure il ritorno alle forme liriche tradizionali e tanto meno il confronto con la tradizione, anche sotto le spoglie di una marcata intertestualità; confronto che significa anche e ancora una volta dialogo critico con la poesia spagnola del passato (come appare, per es., nei versi dell'argentino O. Schiavetta). Né manca una poesia più distesa, attenta alla realtà circostante, che recupera toni elegiaci (come quella dei colombiani W. Ospina, n. 1954, e F. Linero, n. 1957; o del messicano J.L. Rivas, n. 1950) o che si apre alla riflessione (i versi dei colombiani R. Durán, n. 1948, J.L. Porras, n. 1959, R. del Castillo, n. 1962; e dei messicani J. Reyes, n. 1947, F. Morábito, n. 1955, L.M. Aguilar, n. 1956). Una nota di disincanto, legata anche alla consapevolezza di vivere alla periferia del mondo occidentale, traspare dalla lirica dei peruviani C. López Degregori (n. 1952), M. Montalbetti (n. 1953), J. Eslava (n. 1953), R. Mendizábal (n. 1956), J. Frisancho (n. 1967).

Per quanto riguarda la l. drammatica, sembra attenuarsi l'esperienza del teatro di gruppo, che aveva caratterizzato lo sperimentalismo degli anni Settanta con il Teatro Experimental de Cali in Colombia, il Grupo Teatro Escambray a Cuba, Rajatabla in Venezuela, Cuatrotablas e Yuyachkani in Perù ecc. Rispetto a tali formazioni, che pure hanno continuato a promuovere interessanti lavori d'avanguardia, ritorna in primo piano la figura dell'autore con la sua individualità. In particolare, dagli anni Ottanta si assiste a una fase di rinnovamento in quei paesi dove il teatro era stato soffocato dalla dittatura: in Argentina, l'esperienza di Teatro Abierto (1981-83), festival dedicato a opere nuove, ha determinato una ripresa dell'attività teatrale favorendo l'apparizione di una generazione di autori formatasi negli anni della dittatura (E. Griffero, M. Soto, P. O'Donnell, B. Barea); in Chile, l'attività del gruppo Ictus e di nuovi teatri indipendenti ha promosso autori come M.A. de la Parra, J. Miranda, R. Griffero. Né mancano voci di rilievo in Messico: H. Hiriart (n. 1942), J. Tovar (n. 1941), O. Liera (1946-1990).

Nella narrativa, alcuni degli elementi innovativi, di rottura, che furono conquista degli autori degli anni Sessanta-Settanta, si sono convertiti in tradizione, altri sono stati rifiutati. Predomina, comunque, una certa volontà di lasciarsi alle spalle la l. che aveva dato origine al cosiddetto boom latinoamericano, mentre si fa strada una sempre maggiore rivalutazione dei grandi maestri degli anni Quaranta e del loro ruolo nell'ambito della cultura ispanoamericana. In questa prospettiva, temi tradizionali sono ripresi e attualizzati: così, per es., la riflessione sullo spazio e, in particolare, l'immagine della città sono al centro di narrazioni spesso labirintiche che tentano di rappresentare il caos delle moderne metropoli sudamericane attraverso una struttura frammentaria che ne riproponga il disordine, le frontiere interne, le continue metamorfosi. Una vena onirica e toni allucinati ci restituiscono un mondo urbano dalla realtà violenta, prossima all'incubo, alla catastrofe, alla decomposizione. È quanto propone la recente narrativa messicana con i romanzi El desfile del amor (1984) di S. Pitol (n. 1933), El disparo de argón (1991) di J. Villoro (n. 1956), Pasado presente (1993) di J. García Ponce (n. 1932), i racconti Amores de segunda mano (1994) di E. Serna (n. 1959). Analogamente, nella narrativa argentina nuove sfumature arricchiscono la tradizionale antitesi città/campagna (El vestido rosa, 1982, di C. Aira; Kincón, 1993, di M. Briante; La inundación, 1993, di E. Cross). Né ha perso interesse il tema dell'identità nazionale: in Messico, per es., tale problematica trova nuovo alimento nella riflessione attuale sulla transnazionalità, sulla cultura della frontiera e del mestizaje, e si esprime attraverso ardite invenzioni linguistiche, contaminazioni di codici, lingue, gerghi (si vedano, per es.: Llanto. Novelas imposibles, 1992, di C. Boullosa; Una de dos, 1994, di D. Sada; El dedo de oro, 1996, di G. Sheridan). Anche a Cuba la narrativa è percorsa da interrogativi sul significato della rivoluzione vista alla luce dell'attuale contraddittoria situazione sociopolitica e delle personali e variegate esperienze individuali, come nei romanzi e racconti di M. Yáñez (n. 1947), S. Paz (n. 1950), M. Bobes (n. 1955), K. Suárez (n. 1969), Yoss (pseud. di J.M. Sánchez Gómez, n. 1969). Altrettanto viva si mantiene la riflessione metaletteraria sulla scrittura, sulla genesi e la struttura dell'opera letteraria, intrecciata con la storia dell'individuo, come nelle opere dei messicani E. Seligson (n. 1941: Tríptico, 1993), J. Moreno Villareal (n. 1956: Linealogía, 1988), F. Morábito (Caja de herramientas, 1989). Pur nella brevità di questo panorama, inevitabilmente parziale, si coglie la tendenza a una visione della realtà frammentata, legata all'esperienza individuale, senza ambizioni totalizzanti, che lascia ampio margine alla critica e all'ironia e che forse contribuisce, in parte, alla fioritura in questi ultimi anni del racconto, genere peraltro di grande tradizione in America Latina. A questo proposito, sempre più presente si avverte la voce femminile, e sono ormai celebri anche fuori dai confini americani autrici come le messicane E. Poniatowska (n. 1933) e B. Jacobs (n. 1947), la colombiana M. Moreno (1939-1995), la nicaraguense G. Belli (n. 1949), la portoricana J.R. Ferré (n. 1942).

Tale vitalità trova un riflesso sugli scenari internazionali; in particolare in Italia, si registrano oggi una rinnovata curiosità e un accresciuto interesse nei confronti della narrativa ispanoamericana: si moltiplicano le traduzioni non solo di autori dalla fama ormai consolidata (per es., Á. Mutis o A. Monterroso), ma anche di scrittori impostisi per il successo di pubblico e di mercato (come, per es., I. Allende, L. Sepúlveda, P.I. Taibo ii, Á. Mastretta). Di non minore rilievo, seppure di minori proporzioni, appare il recente interesse dell'editoria europea per la narrativa spagnola contemporanea che, a lungo trascurata (se non addirittura ignorata), sembra finalmente vivere una stagione fortunata.

Guardando al futuro, se si vuole tentare di individuare una possibile cifra comune delle l. di lingua spagnola, questa va probabilmente cercata proprio nei territori della libertà e della contaminazione: nell'affrancamento da ogni ideologia totalizzante e da ogni normativa estetica in nome di una l. onnivora che non tollera mode od orientamenti imposti e che tutto ingloba. Molteplicità ed eclettismo sembrano rivelarsi le chiavi di lettura più adatte a indagare e conoscere le eterogenee tendenze di fine millennio.

bibliografia

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El teatro: género y espectáculo. Teatro español ante el fin de siglo, in Ínsula, 1997, 601-02, nr. monografico.

Letterature di lingua portoghese

di Luciana Stegagno Picchio

I paesi di espressione portoghese costituiscono un blocco di oltre duecento milioni di parlanti, il cui peso linguistico, letterario e latamente culturale appare enormemente cresciuto negli ultimi decenni rispetto soltanto agli inizi degli anni Settanta. Il Portogallo metropolitano, ivi comprese le isole Azzorre e la regione autonoma di Madeira, con i suoi complessivi dieci milioni di abitanti circa, parrebbe oggi in posizione minoritaria rispetto al Brasile, con i suoi oltre centocinquanta milioni, e anche rispetto ai territori che fino al 1974 erano colonie portoghesi, dove peraltro esistono, parallelamente a l. di espressione portoghese, l. creole, in cui si manifesta l'odierna, variegata realtà linguistica di quei paesi; senza contare le zone asiatiche di antica occupazione portoghese come Goa, Damão e Diu sulla costa occidentale dell'India, o Macao e Timor dove pure sopravvivono piccole isole lusofone, anche se oggi la lusofonia asiatica, rispetto all'antico insediamento portoghese in quelle zone, non è che un ricordo. Il Portogallo metropolitano, per la sua antica tradizione, continua tuttavia a essere il primo referente di questo blocco culturale e linguistico, ancora straordinariamente unitario anche per l'opera dei governi che, liberi ormai da complessi colonialistici, cercano di salvare o anche di ricostituire al di sopra delle differenze locali (problemi di pronuncia e di grafia) l'unità linguistica dei loro paesi. Ed è estremamente interessante, per es., dopo anni d'isolamento, l'intercambio fra le due sponde dell'Atlantico, tra il Portogallo e il Brasile che, usciti ambedue da regimi totalitari, negli ultimi decenni si sono mutuamente riscoperti, con l'attenuarsi del sussiego purista da parte della metropoli e della irriverenza giovanilistica da parte dell'antica colonia, e con un livellamento espressivo forse depauperante, ma insieme fruttuosamente operativo. Quanto alle antiche colonie africane, in esse il portoghese è per lo più lingua ufficiale, conservando una purezza grammaticale di area marginale, pur con l'immissione di modismi lessicali tipicamente africani. È un fatto, comunque, abbastanza sorprendente che si sia dovuti arrivare al 1998 perché un autore di un così ampio universo linguistico e culturale, J. Saramago, fosse insignito del premio Nobel per la letteratura: quasi a voler smentire tardivamente quanto oltre un secolo fa aveva affermato il brasiliano J.M. Machado de Assis, che scrivere in portoghese fosse come nascondere tesori in una tomba.

Letteratura portoghese

Nel 1998 Lisbona ha ospitato l'ultima grande Esposizione internazionale del secolo. E se, in vista dell'avvenimento, la città è stata trasformata in un grande cantiere, con la bonifica di tutta una zona espositiva sulla sponda destra del Tago, a monte di quel Terreiro do Paço che rappresentava finora l'epicentro della ricostruzione pombalina della città dopo il terremoto del 1776, anche la l., esaltata nel 1997 dal posto di spicco concesso al Portogallo dalla Fiera di Francoforte, e un anno dopo dal citato premio Nobel a Saramago, si è aperta a nuovi spazi immaginativi.

Scomparsi gli ultimi neorealisti, tra cui C. de Oliveira (1921-1981), F. Namora (1919-1989), M. Dionísio (1916-1993), che avevano costituito lo 'zoccolo duro' della resistenza alla dittatura salazarista; scomparsi grandi poeti e narratori come M. Torga (1907-1995), V. Ferreira (1916-1996) e D. Mourão Ferreira (1927-1996); assimilati e reinterpretati internazionalmente gli ultimi surrealisti, il cui caposcuola è ancora il poeta e pittore M. Cesariny de Vasconcelos (n. 1923); il Portogallo culturale da un lato si volge al passato per recuperare la memoria nazionale in un bilancio di fine secolo e dall'altro guarda al futuro come chi, con l'entrata in Europa, si è tolto da un isolamento di secoli. Il passato marinaro del paese è emblematizzato nel titolo dell'Expo '98: Oceani. In l., secondo una tendenza presente del resto in ogni paese, si verifica una rivalutazione, a livello di ristampe ma anche di ricreazioni poetiche e in ogni forma artistica - dallo spettacolo teatrale al balletto, al cinema - di tutta la l. di viaggi del Portogallo dal Quattrocento a oggi, a cominciare dal poema nazionale e collettivista Os Lusíadas (1572), di L. Vaz de Camões (1514 -1580), e dall'antipoema individualista Peregrinação (1614) di F. Mendes Pinto (1510-1583), dalle relazioni di viaggi (i 'libri di marinaria', scritti per i piloti, ma anche semplici racconti di traversata e scoperta), fino alle storie di naufragi raccolte nella settecentesca História trágico-marítima (1735-36).

In poesia, del tema rievocativo marinaro s'impadroniscono poeti bardi come S. de Mello Breyner Andresen (n. 1919: Navegações, 1983; Ilhas, 1989) o M. Alegre (n. 1937: Atlântico, 1989), mentre la recente avventura africana del Portogallo salazarista è ricordata in romanzi antifrastici e disincantati da scrittori partecipi degli avvenimenti come A. Lobo Antunes (n. 1942: Os cus de Judas, 1979; As naus, 1988) o L. Jorge (n. 1946: A costa dos murmúrios, 1988). Passato e futuro si sono sempre fusi nella spiritualità portoghese dando origine a movimenti sorti nel nome della saudade, che è nostalgia di cose perdute e desiderio di beni futuri. S'inserisce qui il sebastianismo messianico dei Portoghesi che, dal 1578, quando il Portogallo fu sconfitto nella battaglia africana di Alcácer Quibir, dove scomparve il giovane re Don Sebastiano, profetizza sempre il ritorno metaforico del monarca per un futuro di rivalsa. E qui la voce del profetico Padre A. Vieira (1608-1697) si fonde con quella del poeta che in questi ultimi trent'anni è divenuto, a livello nazionale e internazionale, il simbolo del Portogallo novecentesco, F. Pessoa (1888-1935). Il Portogallo di oggi affida peraltro la sua memoria di nazione prevalentemente a romanzi storici di recupero del passato, in chiave di un presente critico e disilluso.

I nomi principali sono sempre quelli di J. Cardoso Pires (1925-1998: da O delfim, 1968, a A balada da praia dos cães, 1982), Lobo Antunes e, specialmente, J. Saramago (n. 1922: da Memorial do convento, 1982, a Todos os nomes, 1997). La classe intellettuale portoghese, aperta al futuro e al dialogo con gli altri paesi, non conosce rigidi comparti stagni per poeti, narratori, critici militanti o accademici. Sono tutti 'scrittori', tesi a rappresentare l'intelligenza di un paese in rigoglioso recupero culturale dopo gli anni oscuri della dittatura. E questo vale per poeti come E. de Andrade (n. 1923), A. Ramos Rosa (n. 1924), H. Helder (n. 1930), fino ai più giovani V. Graça Moura (n. 1942) o N. Júdice (n. 1949), ma anche per storici come J. Mattoso (n. 1933) o per critici e saggisti come E. Lourenço (n. 1923).

C'è fra loro anche un folto gruppo di narratori, poeti e critici donne (da A. Bessa Luís a M.J. de Carvalho e M. Velho da Costa, da M.G. Llansol a H. Correia, da M.T. Horta a F. Hasse Pais Brandão, da I. Centeno a M. Ondina Braga), le quali, pur non rinunciando alla loro specificità stilistica, s'inseriscono con naturalezza nel dialogo comune. In retroguardia, come sempre, il teatro che, esaurita la vena protestataria degli anni della dittatura, in cui si erano affermati autori come B. Santareno, J. Cardoso Pires o L. de Sttau Monteiro, vive tra difficoltà economiche e povertà d'invenzione, pur se in esso si distinguono attori di livello internazionale (L. Miguel Cintra). Fa da contrappunto a questo teatro in difficoltà una cinematografia abbastanza originale ed esportabile (M. de Oliveira).

Letteratura gallega

Quantunque la Galizia faccia parte politicamente della Spagna, la comunanza linguistica con il Portogallo, con idiomi galleghi separati solo da poche differenze grafiche, fonetiche e lessicali dal portoghese di Portogallo, giustifica l'inserimento di un capitolo gallego entro un panorama letterario dei paesi di espressione portoghese. E questo anche se i galleghi, nel pluralismo dialettale che li caratterizza, non si sono ancora messi totalmente d'accordo sulla modalità di gallego da eleggere a loro forma espressiva nazionale. La l. gallega del Novecento, continuando il processo di rinascita iniziato nel secolo precedente, è andata sempre più affermando la propria specificità nei confronti delle altre l. della Spagna, in primo luogo della castigliana. Sono ormai divenuti mitici i poeti galleghi dell'Ottocento, a cominciare da R. de Castro (1837-1885), e assurti a modello i prosatori della generazione raccoltasi negli anni Venti attorno alla rivista Nós, da R. Otero Pedrayo (1888-1976) a V. Risco (1883-1963) e ad A. Rodríguez Castelao (1886-1950), insieme a L. Seoane (1910-1979), portavoce del Nuovo Mondo dei galleghi della diaspora. L'imposizione del castigliano come unica lingua durante il franchismo si era già venuta attenuando con la fondazione della rivista Grial, che dal 1952 rappresenta il baluardo del galleghismo, promuovendo la pubblicazione di opere di poeti e prosatori galleghi: tra questi primeggia Á. Cunqueiro (1911-1981), affiancato da esiliati come E. Blanco Amor (1897-1979) o da autori più giovani come X. Mendez Ferrín (n. 1938) e C. Casares (n. 1941), che da un lato hanno saputo superare la tematica contadina, appannaggio della prima letteratura gallega, e dall'altro hanno contribuito al recupero di una tematica celta divenuta per le ultime generazioni segno della nuova e antica realtà gallega. Entro il pluralismo linguistico che distingue la politica di autonomie regionaliste della nuova Spagna, la l. gallega, coltivata oltre che nella Galizia metropolitana anche dagli eredi di una diaspora americana, argentina e cubana, avrà senza dubbio nel futuro un suo posto nel panorama mondiale.

Letteratura brasiliana

Alla fine del secolo l'intellettuale brasiliano, reduce dagli anni della dittatura (1964-80), può finalmente reinserirsi nel dialogo internazionale. Il che, se contribuisce a un allargamento di confini per l'intelligenza locale e a una maggior conoscenza della realtà culturale brasiliana per il resto del mondo, porta anche a un livellamento tematico e stilistico con un adeguamento ai grandi modelli europei e nordamericani. Ci sono, parallele, una dislocazione e una diffusione per tutto il corpo dell'immenso territorio nazionale dei centri culturali rappresentati un tempo solo dall'asse Rio de Janeiro-San Paolo e ora presenti nelle università, nella stampa quotidiana e nelle case editrici sparse dalle terre gauchas del Sud al Nord-Est di Recife e di Bahia fino all'Amazzonia. La classe intellettuale, del resto, in un paese giovane come il Brasile, si presenta in continuo movimento e qui più che altrove sembra intenso l'avvicendamento generazionale.

Scomparse alcune grandi figure di antropologi come G. Freire (1900-1987) e D. Ribeiro (1922-1997) o di poeti e narratori come C. Drummond de Andrade (1902-1987) e A. Callado (1917-1997), ancora tutti intrisi di impegno politico e sociale, si mantengono sulla scena personaggi come J. Amado (n. 1912) o R. de Queirós (n. 1910) o J. Montello (n. 1917). Ma emergono anche scrittori come R. Fonseca (n. 1925), maestro del giallo e del noir alla maniera carioca, nonché cultore di un romanzo storico d'ambiente che lo fa caposcuola di nuovi scrittori ripiegati come lui sulla realtà nazionale. Segnaliamo fra questi il nome di A.M. Miranda (n. 1951), affermatasi con Boca do inferno, (1989), cui sono seguiti O retrato do rei (1991) e A última quimera (1995). Fanno loro da controcanto, dal Sud, la voce di un romanziere psicanalista come M. Scliar (n. 1937: Os deuses de Raquel, 1975; A estranha nação de Rafael Mendes, 1983), che immette nell'immaginario collettivo la problematica dell'immigrato ebreo non ancora perfettamente integrato nel tessuto nazionale; dal Nord, quella di M. Hatoum (n. 1952), che evoca con accenti proustiani il mondo dei Libanesi d'Amazzonia (Relato de un certo Oriente, 1989). A modo loro instaurano questo controcanto anche i molti scrittori e poeti donne, da R. de Queirós a L. Fagundes Telles (n. 1923) e a N. Piñón (n. 1934), giunte tutte ai fastigi dell'Academia brasileira de letras, o anche i poeti 'difficili', creatori della propria forma, al di là di ogni tradizione tematica e stilistica, come J. Cabral de Melo Neto (n. 1920). Come a dire che la l. del Brasile alle soglie del Duemila è una l. di minoranze che cercano finalmente nella differenza la loro collettiva identità nazionale. In questo senso, identificando e connettendo le diverse tendenze, operano una critica e una saggistica sempre più scaltrite che, dopo l'immersione in tutte le mode straniere di fine secolo, dal postmodernismo al decostruzionismo, si volgono di nuovo alla realtà nazionale vista nella sua specificità antropologica e politica (Bosi 1992).

Letterature africane di espressione portoghese

I paesi africani di lingua ufficiale portoghese sono l'Angola, il Mozambico, il Capo Verde, la Guinea-Bissau e le isole São Tomé e Príncipe. In tutti questi paesi, il portoghese ha subìto modificazioni assorbendo elementi lessicali e sintattici locali; inoltre, nel contatto con le lingue africane, ha dato origine alla formazione di idiomi creoli.

La l. angolana formatasi dalla metà del 19° sec. in seno alla società creola di Luanda (i filhos da terra) ha subito iniziato a rivendicare la sua specificità culturale nei confronti del Portogallo. Dopo l'indipendenza (1975) e nonostante la guerra civile non ancora del tutto risolta, la l. ha continuato a svilupparsi con narratori già affermati come L. Vieira (n. 1935), cui fin dai racconti di Luuanda (1964) si deve la ricerca più originale in campo linguistico (Nós os do Makulusu, 1975), o Pepetela (pseud. di A.C.M. Pestana dos Santos, n. 1941: A geração da Utopia, 1992), attento ai fenomeni politici e alle tappe della formazione nazionale del suo paese. Fra i poeti, il nome più interessante appare quello di R. Duarte de Carvalho (n. 1941: Memória de tanta guerra, 1992).

Il Mozambico, anch'esso teatro di una guerra civile dopo la conquista dell'indipendenza dal Portogallo (1975), sembra aver trovato una relativa stabilità nella necessità di risolvere i gravi problemi di sopravvivenza e nella difesa quotidiana nei riguardi di un vicino ingombrante come il Sudafrica. Gli scrittori, tutti reduci dalla lotta politica anticolonialista, e, dopo la liberazione, spesso chiamati a incarichi di responsabilità nei nuovi governi, proclamano la cultura indigena base ineludibile di ogni l. nazionale. Spicca su tutte la voce del poeta J. Craveirinha (n. 1922: Xigubo, 1964; Bobolaze das hienas, 1997). Fra i narratori i nomi più significativi sono quelli di R.B. Honwana (n. 1942) e di M. Couto (n. 1955: Contos do nascer da terra, 1997), creatore di una prosa originale nell'utilizzazione di un linguaggio poetico impregnato di attualità.

Nella l. del Capo Verde, il movimento di affrancamento da Lisbona risale alla cosiddetta generazione di Claridade, dal nome della rivista che dal 1936 a tutti gli anni Cinquanta avrebbe funzionato come centro di aggregazione degli intellettuali dell'arcipelago.

I romanzi di B. Lopes (1907-1989), di M. Lopes (n. 1907), di L. Romano (n. 1922) e la poesia di J. Barbosa (1902-1971) registrano esemplarmente i temi della povertà, dell'isolamento, della siccità e dell'emigrazione. Gli scrittori dell'ultimo decennio, fra cui si segnala G. Almeida (n. 1945), recuperano i temi cari alla musica nostalgica delle mornas, danze rese celebri dagli emigranti capoverdiani in tutto il mondo. Va ricordato che le due varietà di creolo (de Barlavento e de Sotavento) che in Capo Verde convivono più o meno pacificamente col portoghese (lingua ufficiale appannaggio degli alfabetizzati) alimentano una cospicua produzione letteraria che veicola soprattutto i racconti tradizionali con accompagnamento delle espressioni musicali più tipiche.

In Guinea-Bissau l'amministrazione portoghese si è stabilita solo negli anni Venti del 20° secolo, introducendo con notevole ritardo, anche rispetto agli altri paesi dell'Africa, la stampa e la scolarizzazione. Una l. scritta in portoghese è fenomeno degli ultimi trent'anni, con una schiera di poeti e con un patrimonio letterario ancora legato all'oralità: posti di rilievo spettano alla storia-indovinello raccontata nelle veglie e alle narrazioni a sfondo storico, più recentemente legate a episodi della lotta anticoloniale. L'archivio del sapere tradizionale, elemento di coesione nazionale, affidato alle leggende e ai proverbi, comincia ora a essere raccolto esercitando grande influenza sulle nuove generazioni di poeti e compositori. Specie nelle zone rurali, la divulgazione è ancora affidata al Jidiu, trovatore errante che utilizza le lingue locali e il creolo accompagnandosi col rullo dei tamburi.

Nella l. delle isole di São Tomé e Príncipe i temi ruotano intorno alle opposizioni città/campagna (piantagioni di cacao, perno dell'economia delle isole) e immigrati/forros (gli uni lavoratori a contratto provenienti da Angola o Capo Verde, gli altri discendenti di schiavi africani da secoli stanziati nell'arcipelago). Padri della l. delle isole sono stati i poeti C. da Costa Alegre (1864-1890) e F.I. Tenreiro (1921-1963), il maggior rappresentante del movimento della negritude nell'Africa lusofona, che nel 1953 pubblicò insieme a M. de Andrade il celebre Caderno de poesia negra de expressão portuguesa. Gli scrittori delle ultime generazioni danno voce al plurilinguismo del paese, dove il portoghese e le lingue africane coesistono con ben tre diversi creoli. Una forma di teatro popolare caratteristica dell'arcipelago è il tchiloli, in cui storie del ciclo carolingio sono rappresentate, con accompagnamento di musica e danza, in una mescolanza di versi sciolti in portoghese cinquecentesco e prosa moderna.

La tradizione portoghese in Asia

Il ritorno alla Cina di Macao, avvenuto il 20 dicembre 1999, sembra chiudere simbolicamente i cinquecento anni di presenza portoghese in Asia. Nel maggio del 1498, l'arrivo in India, a Calicut, della flotta di Vasco da Gama aveva aperto quel periodo dell'India 'portoghese', con capitale nel territorio di Goa, che doveva chiudersi nel 1961 con l'annessione da parte dell'India dei territori di Goa, Damão e Diu. Oggi, nonostante che non ci siano più paesi ufficialmente lusofoni sul territorio asiatico, la cultura portoghese persiste come eredità sommersa di gruppi euroasiatici incrociati che conservano nel lessico il ricordo di quella che era divenuta nelle loro regioni la lingua franca del commercio, della vita religiosa, delle tradizioni locali. E lo conservano nelle loro usanze, nella cucina, nella danza, nel folklore, nell'architettura barocca delle chiese della vecchia Goa e nella l. orale documentata dai canzonieri creoli dalle coste dell'India a Srī Laṅkā e a Timor Est. A livello letterario, rimangono per esempio, in queste tradizioni asiatiche, ballate ispaniche, di tema arturiano o carolingio, drammi agiografici e biblici di tradizione gesuitica e, soprattutto, un Romanceiro che ancor oggi fa risuonare la Ballata della Bela Infanta, testi e ritmo, in suggestive ricreazioni creole.

bibliografia

Per il complesso di tutte le l. lusofone:

Storia della civiltà letteraria dei paesi di lingua portoghese, a cura di L. Stegagno Picchio, Torino (in corso di pubbl.).

Per la l. portoghese:

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Per la l. gallega:

R. Carballo Calero, História da literatura galega contemporânea, Vigo 1963, 1975².

Per la l. brasiliana:

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Per le l. africane lusofone:

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A. Gomes, F. Cavacas, Dicionário de autores de literaturas africanas de língua portuguesa, Lisboa 1997.

Per la tradizione portoghese in Asia:

K. David Jackson, A presença oculta - A hidden presence. 500 anos de cultura portuguesa na India e no Sri Lanka - 500 years of Portuguese culture in India and Sri Lanka, Fundação Macau 1995.

Letterature di lingua tedesca

di Antonella Gargano

A chi voglia tentare un bilancio, a partire naturalmente dalla Germania, della l. degli anni Novanta sembra offrirsi un fin troppo facile punto prospettico, e cioè quel Was bleibt cui proprio nel 1990 (ma il testo era stato scritto già nel 1979) Ch. Wolf (n. 1929) consegnava in forma di racconto le sue considerazioni sul ruolo dell'intellettuale e sulla funzione della scrittura nel momento del crollo delle utopie. Così condizionato dalla storia concreta del socialismo reale, eppure così assoluto e sovratemporale - anche senza voler risalire a un precedente in tutti i sensi lontanissimo come lo hölderliniano "Ma ciò che resta fondano i poeti" - il "Cosa resta" formulato dalla Wolf, nella speranza di un nuovo linguaggio contrapposto a quello dell'ufficialità e del potere, può costituire uno snodo dal quale guardare alla nuova realtà della Germania unificata.

La svolta del 1989, di là dalla sua evidente portata storica, è infatti un dato imprescindibile con il quale, nella molteplicità e disparità di esperienze, gli scrittori dell'Ovest e dell'Est si confrontano, trasformandolo in oggetto privilegiato della stessa ricerca letteraria. Già sintomatiche potrebbero ritenersi le ossessioni della storia (Stalin, Lenin, Trockij e Hitler) rivisitate dal tedesco-orientale H. Müller (1929-1995) nello spettrale grottesco Germania 3 - Gespenster am toten Mann (1996) o la rilettura dell'unificazione tedesca suggerita dall'occidentale G. Grass (n. 1927; premio Nobel per la letteratura nel 1999) nel romanzo Ein weites Feld (1995), alla luce di un'ampia ricostruzione del passato tedesco. La messa in discussione della svolta non resta dunque limitata alle vicende storiche più recenti, ma diventa spesso occasione per un'analisi critica a più largo raggio che coinvolge l'esistenza individuale oltre alla storia dell'intero paese. Realizzata sul terreno politico, l'unità nazionale sembra ancora lontana dall'essere compiuta nelle coscienze dei singoli.

E la l. ripercorre sia in forma creativa sia in interventi saggistici e di discussione le conflittualità che tuttora dividono la Germania e i problemi nati proprio a seguito dell'unificazione: si pensi ai più noti, numerosi e ostinati contributi di Grass e di H.M. Enzensberger (n. 1929), ma anche alle interviste, ai discorsi, alle riflessioni di G. de Bruyn (n. 1926: Jubelschreie, Trauergesänge. Deutsche Befindlichkeiten, 1991), G. Kunert (n. 1929: Der Sturz vom Sockel. Feststellungen und Widersprüche, 1992), M. Maron (n. 1942: Nach Massgabe meiner Begreifungskraft, 1993), H. Müller (Jenseits der Nation, 1991) e Ch. Wolf (Auf dem Weg nach Tabou. Texte 1990-1994, 1994). F.X. Kroetz (n. 1946: Ich bin das Volk, 1994) e l'austriaca E. Jelinek (n. 1946: Wolken. Heim, 1990; Totenauberg, 1991; Ein Sportstück, 1998) hanno rappresentato in teatro l'emergere di inquietanti atteggiamenti xenofobi insieme ai rigurgiti di nazionalismo ed estremismo di destra; R. Hochhut (n. 1931) ha dato forma di tragicommedia (Wessis in Weimar, 1992) alla 'svendita' del paese; alle speculazioni immobiliari sui territori orientali, da parte di holdings prive di scrupoli, Ch. Hein (n. 1944) ha dedicato le 14 scene che compongono Randow (1994); mentre alla tragica constatazione di una indistinguibilità tra vincitori e vinti si era già rifatto nel 1992 V. Braun (n. 1939) nel testo scenico Iphigenie in Freiheit.

Ma, di là dai fenomeni sociali che hanno accompagnato il costituirsi della nuova realtà tedesca, è soprattutto nella dimensione privata e quotidiana che si registra l'incapacità, o almeno l'estrema difficoltà, a fare i conti con il processo di unificazione. L'essere cittadino di due Stati - così dichiarava nel gennaio 1990, alle soglie dell'unificazione, E. Loest (n. 1926) in Als wir in den Westen kamen (1997) - rappresentava una chance e insieme una difficoltà. Alla prima euforia, definita da H. Königsdorf (n. 1938) "il momento della bellezza" (1989, oder ein Moment der Schönheit: eine Collage aus Briefen, Gedichten, Texten, 1990), segue il senso di disagio, un forte disorientamento indipendente dall'atteggiamento di adesione o rifiuto verso il regime liquidato, e dall'attesa della svolta nel segno della perplessità o dell'entusiasmo. Si diffonde la "sindrome della perdita", per dirla col sociologo H.-J. Maaz, e di conseguenza il bisogno di legittimare la propria identità smarrita. Tale problematica, rispecchiata nel copione di J. Becker (1937-1997) per la serie televisiva Wir sind auch nur ein Volk (1994), e dunque resa familiare anche a un pubblico di massa, scopre confini psicologici resistenti ben oltre quelli politici, porta in superficie disinganni e delusioni, come in Unter dem Namen Norma (1994) di B. Burmeister (n. 1940), e innesca soprattutto il furor melancholicus che nasce dal fallimento delle utopie. La perdita della sicurezza con la scomparsa di luoghi, persone e cose consuete si riflette anche nel romanzo Abschied von den Feinden (1995) del berlinese orientale R. Jirgl (n. 1953) e ha un esito di portata più generale per chi, nato all'Ovest, vive intensamente la spaccatura non ricomposta. Mettendo a confronto le due realtà dell'Ovest e dell'Est "restiamo perennemente divisi", spiega B. Oleschinski (n. 1955) dal suo osservatorio occidentale in una poesia del volume Your passport is not guilty (1997); e il fenomeno si ripete, analogamente, per chi come K. Drawert (n. 1956), cresciuto tra il Brandeburgo e Lipsia, è entrato del tutto senza illusioni nella nuova realtà occidentale, lasciandosi alle spalle solo "spazi malati", ma soprattutto una "provenienza" e non una "patria". La ricerca disperata della propria verità biografica è un percorso comune a molti e in particolare alle generazioni degli autori più giovani, che vivono il loro esordio letterario pressoché parallelamente al crollo delle utopie socialiste.

L'analisi di situazioni esistenziali viene allora filtrata attraverso la strenua distillazione formale (Jirgl) o la tensione verso una lingua individuale, privata, che superi finzioni, autoritarismi e la perdita di significato del linguaggio ufficiale: così, sintomaticamente, in Drawert (Spiegelland. Ein deutscher Monolog, 1992; il volume di liriche Wo es war, 1996). Il senso di espropriazione che segue al convincimento della 'svendita' del proprio paese all'Occidente si manifesta anche sul piano specificamente linguistico con un vocabolario che elenca proprietà, cambi di luogo, necrologi e 'perdite': Privateigentum si intitolava il volume di poesie pubblicato da Drawert nel 1989; l'unica dimensione che resta da rivendicare è quella interiore, denuncia una lirica di V. Braun, già pubblicata col titolo Nachruf, necrologio, e poi Das Eigentum (1990), la proprietà: "La mia proprietà, adesso, siete voi ad averla in pugno". Dal canto suo, M. Titze (n. 1953) intitola il suo primo romanzo Unbekannter Verlust (1994), citando non a caso Freud e la sua definizione della malinconia. Analogamente, ancora, Drawert si confida: "In nessun luogo sono arrivato. / In nessun luogo ero a casa" (1993); e H. Müller in Mommsens Block (1992) definisce gli "eroi della nuova era" come i "lemuri del capitale cambiavalute e mercanti".

Berlino continua a essere lo sfondo inevitabile, carico di tutta la sua simbolicità, del discorso sull'identità smarrita, quella personale e quella storica. La 'città siamese', la metropoli raddoppiata e attraversata da una cicatrice lunga oltre 40 chilometri e antica di quasi trent'anni, resta comunque ancora il luogo destinato a rappresentare l'equilibrio non raggiunto e un'unità soltanto artificiosa. Amanda herzlos (1992) di J. Becker, che pure, con una scelta non meno simbolica, lascia cronologicamente fuori la svolta, stilizza l'esperienza della divisione che attraversa e segna la vita quotidiana, assumendo come scenario Berlino Est; nello stesso anno Paarungen di P. Schneider (n. 1940) si colloca nella prospettiva dell'Ovest ed è ambientato nella capitale occidentale di una Germania ancora divisa. Ma l'esplorazione comincia ad allargarsi anche ad altre prospettive, includendo gli scorci sulla provincia: sia essa un luogo d'invenzione che funga da metafora, magari per tutta la Germania - quella orientale - nel racconto Tanz am Kanal (1994) di K. Hensel (n. 1961); sia che si tratti della realtà geografica e politica, come in E. Loest (Nikolaikirche, 1995). A descrivere la nuova Germania vale quasi più una rappresentazione in chiave minimalista; e proprio nella piccola provincia, la Turingia tedesco-orientale, si svolge quello che è stato considerato il primo autentico romanzo della svolta: Simple Storys (1998) del sassone I. Schulze (n. 1962), che registra in uno stile appunto da short story l'altra faccia dell'unificazione, da una visuale non appariscente, antispettacolare e decisamente periferica. Nel romanzo In Berlin (1994) di I. Liebmann (n. 1943) il nodo centrale è invece ancora il confine tra la città occidentale e quella orientale, prima attraversato sotto la spinta di un'esigenza di libertà, poi continuamente ripercorso sotto la sollecitazione di un ineliminabile senso di tradimento. Il lavoro di scavo alla ricerca del passato si realizza anche nella compilazione rigorosamente analitica della propria anamnesi: D. Grünbein (n. 1962: Schädelbasislektion, 1991; Falten und Fallen, 1994), originario di Dresda, viviseziona i rapporti tra l'Io e il linguaggio, traducendoli in formule schematiche quanto sofisticate. Ma l'esigenza di ritrovare il proprio passato non è evidentemente solo legata al clima della svolta né a forme di manipolazione letteraria di materiali autobiografici. E se può essere esagerato supporre che l'approssimarsi della fine del secolo solleciti in modo particolare le riconsiderazioni e i bilanci complessivi, certo è che negli anni Novanta conoscono una singolare diffusione i classici libri di memorie, nei quali l'esperienza di vita individuale si intreccia con la storia e, insieme, si fa monito per il presente.

E. Jünger (1895-1998) prosegue nella registrazione dei suoi diari da testimone di un'intera epoca (Siebzig verweht i-v, 1980-97); F. Wander (n. 1917) racconta di un'esistenza tra esilio in Francia e deportazione ad Auschwitz e a Buchenwald, nonché degli anni nella RDT e del successivo trasferimento a Vienna (Das gute Leben, 1996); G. de Bruyn, che con Zwischenbilanz (1992) aveva ricostruito in una cronaca asciutta la giovinezza durante il nazionalsocialismo, in un secondo volume, Vierzig Jahre. Ein Lebensbericht (1996), interroga se stesso offrendo, più che un'autobiografia in senso stretto, uno studio di carattere psicologico che scava non senza ironia nei suoi rapporti con lo Stato tedesco-orientale. F.R. Fries (n. 1935), anche lui dell'Est, poco prima di essere travolto dalla polemica scatenata dalle sue compromissioni con i servizi segreti orientali, pubblica i propri selezionati e discontinui appunti degli anni fra il 1979 e il 1995 (Im Jahr des Hahns, 1996); H. Müller, spregiudicato e irriverente fino a leggere la vita quasi in chiave di farsa tragicomica, parla della sua esistenza tra due dittature (Krieg ohne Schlachten. Leben in zwei Diktaturen, 1992); mentre i diari di B. Reimann (1933-1973: Ich bedaure nichts. Tagebücher 1955-1963, post., 1997; Alles schmeckt nach Abschied. Tagebücher 1964-1970, post., 1998) redigono un preciso resoconto della scena politica e culturale nella RDT, oscillando tra l'entusiasmo incondizionato per le idee sulle quali era sorto lo Stato socialista e le delusioni della vita quotidiana, stretta tra censura e pressioni politiche. Costituisce un'integrazione alle fitte pagine diaristiche e un'ulteriore testimonianza sul passato lo scambio epistolare tra Reimann e Wolf, che copre una fase di comune crisi individuale dal 1964 al 1973 (Sei gegrüsst und lebe. Eine Freundschaft in Briefen, 1993). Per quella che egli chiama una personale "spedizione nel passato", Kunert, che aveva lasciato la RDT già nel 1979, mette in campo con Erwachsenenspiele, Erinnerungen (1997) un manuale tragicomico che gioca sui toni dell'ironia amara e dell'impietoso sarcasmo. Il suo punto di partenza si trova là dove "Berlino è più Berlino", vale a dire nel cuore della città orientale; la citazione da Montaigne, che fa da motto a queste memorie ("Non ci sentiamo mai davvero a casa; siamo sempre come sospesi al di sopra della realtà. Timori, speranze, desideri ci distolgono sempre dalla possibilità di sentire e di accorgerci di ciò che accade adesso; e invece ci fanno balenare cose che dovranno venire, forse, solo quando non esisteremo più. Infelice è colui che si preoccupa del futuro") potrebbe legittimamente essere posta a epigrafe di tutta questa memorialistica del periodo successivo al crollo del muro di Berlino.

E tuttavia non è soltanto l'abbattimento del muro a scoprire un paesaggio di rovine. Il senso della fine delle certezze, di là dalle ideologie, ha la sua origine in un più generale disorientamento epocale, quale è documentato da P. Schneider (Vom Ende der Gewissheit, 1994): non c'è solo la malinconia postsocialista, ma anche quella metafisica. Lo testimonia H. Lange (n. 1937), vero e proprio archivista della malinconia e del senso di morte (Die Reise nach Triest, 1991; Schnitzlers Würgeengel, 1995; Der Herr im Café, 1996); mentre si direbbe che al posto degli attraversamenti di confine subentrino altre strategie di sopravvivenza e altre fughe esistenziali: come in R. Lettau (1929-1996: Flucht vor Gästen, 1994), che è vissuto per circa trent'anni negli Stati Uniti prendendo la cittadinanza americana. Attraversamenti e fughe verso spazi altri, che possono significare l'estremo isolamento: il perdersi nell'amore e nella musica del protagonista di Schlafes Bruder (1992) dell'austriaco R. Schneider (n. 1961); o magari nella scrittura come esperienza quotidiana, quale è attestata, ancora fra gli austriaci, da P. Handke (n. 1942: Mein Jahr in der Niemandsbucht, 1994) e da P. Rosei (n. 1946: Der Mann, der sterben wollte, 1991). Può accadere così che alla Storia e alle sue tragedie vengano contrapposte le microstorie, le vicende innocue e poco appariscenti di personaggi marginali. Lo svizzero P. Bichsel (n. 1935), che sul raccontare e sull'inventare aveva costruito la sua poetica, elabora biografie improbabili in Zur Stadt Paris (1993), sostenendo come "il senso della letteratura non stia nel raccontare contenuti, ma nel fare in modo che il raccontare stesso sia conservato". A esorcizzare il senso sempre più tangibile di perdita della propria biografia valgono anche i tentativi di costruire mitologie private, come nell'austriaco W. Kofler (n. 1947: Herbst, Freiheit: ein Nachtstück, 1994); o di conservare ritagli della memoria, come nel caso di W. Genazino (n. 1943: Die Obdachlosigkeit der Fische, 1994; Das Licht brennt ein Loch in den Tag, 1996).

La ricognizione del passato non è dunque avviata solo dalla problematicità del rapporto intertedesco. Anche l'Austria ha vissuto, solo qualche anno prima, nel luglio del 1986, la sua cesura politica, con ricadute molto significative sul terreno della letteratura. Le elezioni presidenziali, trasformate ben presto nell'"affare Waldheim", e il cinquantenario dell'Anschluss (marzo 1938-marzo 1988) sono state le occasioni per un processo di analisi del "passato che non passa", che ha investito anche la letteratura. La linea antiaustriaca, tradizionale nella cultura del paese, ha acquisito una connotazione politica nel momento in cui si è riflettuto - come già Th. Bernhard (1931-1989) - sull'assenza di un riesame critico del passato fiancheggiamento del nazionalsocialismo; ma si è sviluppata contemporaneamente in forma di reazione agli ambienti asfittici e claustrofobici della provincia e delle zone alpine. Gli scrittori, del resto, non cessano d'interrogarsi sull'identità austriaca o su quella ebraica - come R. Schindel (n. 1944: Gebürtig, 1992) - con un'ossessività non dissimile, e forse più esasperata, rispetto agli interrogativi e alle indagini introspettive di parte tedesca. Ma anche la Svizzera fa i conti con il passato, affrontando il suo ruolo nella Seconda guerra mondiale con U. Widmer (n. 1938: Im Kongo, 1996); e insieme continua sulla linea, piuttosto forte nella sua tradizione, di una ferma negazione d'ogni tendenza evasiva e idillica.

I grandi temi della contemporaneità, la mercificazione dei rapporti interpersonali, l'emarginazione e la precarietà esistenziale sono, come è facile intendere, trasversali nell'intera area delle l. di lingua tedesca. Lo provano i testi teatrali dell'austriaca M. Streeruwitz (n. 1950: Waikiki-Beach, 1992; Top Dogs, 1996) e del già ricordato svizzero Widmer; per la Germania, quelli di K. Specht (n. 1956: Amiwiesen, 1990) e di T. Dorst (n. 1925: Herr Paul, 1993). La crisi del mondo moderno, intanto, prende forma anche in una visione apocalittica. Ciò significa l'aprirsi della l. ai problemi di carattere ambientale, mentre si inaugura il filone specificamente ecoapocalittico rappresentato da Grass (Die Rättin, 1986), e quindi da W. Hilbig (n. 1941: Die Kunde von den Bäumen, 1994), fino alla lirica di H. Czechowski (n. 1935: Nachtspur, 1994), volta a metaforizzare il tema ecologico estendendolo nei termini di un'imminente minaccia all'esistenza umana.

Ma l'interrogazione del presente e dell'immediato passato può percorrere anche la strada della rivisitazione del mito, dando luogo a vere e proprie riscritture e riabilitazioni. Si pensi alla figura di Cassandra e successivamente a quella di Medea nei romanzi di Ch. Wolf (Kassandra, 1983; Medea. Stimmen, 1996), dove l'intrinseca malleabilità della materia mitologica, e dunque la sua tendenziale perennità, possono consentire di smascherare le manipolazioni del potere. Gli stessi materiali del mito, impiegati da H. Müller per rappresentare in frammenti la moderna apocalisse, vengono ripresi da B. Strauss (n. 1944) e ricomposti in una serie di associazioni, analogie, memorie (Ithaka. Schauspiel nach den Heimkehr-Gesängen der Odyssee, 1996).

Con l'approssimarsi della fine del secolo parrebbero esaltarsi certe perversioni, deformità e violenze: la l. le riproduce con linguaggi ora lucidamente cinici ora virtuosisticamente barocchi, e sulle tracce di un'immaginazione estrema e radicale. È quanto si verifica nella maniacale registrazione delle voci che raccontano la follia nazionalsocialista in Flughunde (1995) di M. Beyer (n. 1965); o nella grande metaforizzazione di quella stessa catastrofe in Morbus Kitahara (1995) di Ch. Ransmayr (n. 1954). La solitudine diventa estraneità totale, senza scampo, in A. Mitgutsch (n. 1948: In fremden Städten, 1992), mentre le durezze quotidiane si esasperano nel romanzo Verführungen (1996) di M. Streeruwitz, dove emerge il nesso tra crimine, sessualità e potere, al centro anche di Raststätte oder Sie machens alle (1994) della Jelinek.

Nel febbraio 1990 G. Grass teneva la sua lezione di poetica presso la Johann Wolfgang Goethe-Universität di Francoforte, dando il suo apporto a quell'autentica officina di scrittura nata nel 1959 con l'istituzione delle 'Lezioni di poetica' affidate a scrittori e poeti. Alle soglie ormai del nuovo secolo, Grass costruisce la sua lezione intitolandola, con evidente richiamo ad Adorno, Schreiben nach Auschwitz. Egli rilegge così la propria biografia e il proprio itinerario di scrittore a partire da quella cesura storica "che non ha fine" e presenta se stesso come l'uomo dell'oggi, il cui compito è quello di rendere testimonianza anche riflettendo sulla Germania contemporanea. Le lezioni francofortesi di Ch. Wolf, più remote nel tempo (1982), nel loro vagabondaggio dietro le suggestioni della figura paradigmatica di Cassandra, avevano aperto il dialogo con I. Bachmann (1926-1973), entro le maglie di un testo - la poesia bachmanniana Erklär mir, Liebe! - convenientemente scomposto e interrogato. Al centro si era posta la concezione di una scrittura aperta, che non compone ma al contrario esibisce le contraddizioni, e questo in un ambito di evidenti consonanze con la scrittrice austriaca. Nell'anno della svolta J. Becker, anche lui invitato dall'università di Francoforte a tenere le sue 'Lezioni di poetica', individuava quale presupposto e condizione della scrittura il dolore e l'esperienza traumatica. L'infelicità aveva qui la sua chiara matrice nella condizione di ebreo e nella precoce conoscenza del ghetto di Łódź; ma tale affermazione ricordava da vicino la prima "cognizione del dolore" - di memoria gaddiana - a cui ancora la Bachmann aveva legato l'esercizio letterario radicandolo nella soggettività e istituendo una relazione stretta fra il conoscere e il soffrire. Da parte sua, nelle lezioni presso l'università di Paderborn (1989-90), la tedesco-rumena H. Müller (n. 1953) - autrice di Herztier (1994), memoriale sui generis della dittatura di Ceauşescu - avrebbe presto elaborato una sua poetica dell'estremo: la percezione del mondo esterno come di quello interno si sarebbe allora piegata alla prospettiva di una definitiva radicalizzazione e marginalità, nell'esagerata attenzione al dettaglio, nell'inesorabilità dello sguardo che scopre gli orrori e le apocalissi quotidiane.

In tali riflessioni teoriche e di poetica, così varie e differenziate, è pure la conferma della sotterranea persistenza del dialogo degli scrittori col tempo, quale si è andato sviluppando nella più recente l. di lingua tedesca, in un nodo di interrogativi e di sollecitazioni, fra le intersezioni, le fratture e le ragioni di continuità che ne costituiscono la trama.

bibliografia

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Letterature di lingua inglese. Gran Bretagna

di Maria Stella

La vita culturale britannica negli anni Novanta mostra i segni di una vivace ripresa: aumentano gli interventi pubblici di promozione, proliferano nuove compagnie teatrali, festival, piccole case editrici, si diffondono riviste specialistiche e produzioni multimediali. Il ricambio generazionale ai vertici accademici ed editoriali contribuisce a modificare ulteriormente produzione, circolazione e ricezione letteraria. Ciò che era invisibile e marginale, sia a livello delle culture regionali e locali sia sul piano internazionale, viene assumendo progressiva visibilità e centralità: la Scozia, il Galles, l'Irlanda del Nord balzano in primo piano con autori, scuole e problematiche specifiche; mentre l'uso della lingua, il contatto con le università, talora la residenza, legano alla Gran Bretagna alcuni degli scrittori più rappresentativi delle diverse aree postcoloniali, dall'Asia all'Oceania all'Africa ai Caribi. La rappresentazione del contesto culturale britannico è oggi costantemente deformata e arricchita da questi sguardi 'altri' e la nozione stessa di lingua inglese appare profondamente trasformata dalla varietà delle tradizioni che in essa si esprimono: basti pensare all'assimilazione della poesia dell'irlandese S. Heaney (n. 1939) e del caribico D. Walcott (n. 1930), premi Nobel per la letteratura rispettivamente nel 1995 e nel 1992, o alla ricchezza del solo apporto africano con i romanzi di Ch. Achebe (n. 1930), e il teatro e la poesia di W. Soyinka (n. 1934), anch'egli vincitore del premio Nobel per la letteratura nel 1986.

Tali 'sguardi', sia che si posino sul passato, come nel caso del fortunato romanzo The remains of the day (1989) dell'anglogiapponese K. Ishiguro (n. 1954), sia che indulgano su una rappresentazione vivida della contemporaneità, come nei romanzi dell'anglopakistano H. Kureishi (n. 1954: The Buddha of suburbia, 1990; The black album, 1995; Love in a blue time, 1997), sottolineano, oltre alle differenze etniche, quelle generazionali e di gender, contribuendo a evidenziare contraddizioni e contaminazioni. Più distaccata la luce che T. Mo (n. 1950) getta sia sulla collettività anglocinese di Londra cui appartiene (Sour sweet, 1982), sia sul ricostruito passato di Hong Kong (An insular possession, 1986). Dalla clandestinità - seguita alla condanna khomeinista dei suoi Satanic verses (1988), che concludevano la cosiddetta trilogia indiana cominciata in chiave di realismo magico con Midnight's children (1981) - ha continuato a scrivere S. Rushdie (n. 1947: East, West, 1994; The Moor's last sigh, 1995). Completa il quadro lo scambio bidirezionale con gli Stati Uniti e i paesi del vecchio Commonwealth, evidente nelle scelte 'americane' di Th. Gunn (n. 1929), che racconta dalla California, tra mito e realismo, la dura vita di strada (Collected poems, 1993; Shelf life. Essays, memoirs and an interview, 1993), o in quelle 'inglesi' delle poetesse americane R. Fainlight (n. 1931) e A. Stevenson (n. 1933: Collected poems 1955-1995, 1996), autrice dell'interessante epistolario in versi Correspondences (1974). Attratto dall'antica cultura europea e latina continua a rivelarsi l'australiano P. Porter (n. 1929), mentre nell'opera della neozelandese F. Adcock (n. 1934) il paesaggio originario si assimila a quello wordsworthiano, e l'identità scissa precipita problematicamente nella prescelta dimensione metropolitana londinese.

Aumentano le ibridazioni con altre l., come quelle dell'Est europeo, che diventano accessibili in traduzioni d'autore (M. Cvetaeva tradotta dalla poetessa E. Feinstein, n. 1930) o tramite la naturalizzazione di autori provenienti da quelle aree, come il poeta di origine ungherese G. Szirtes (n. 1948), o l'affermato drammaturgo di origine ceca T. Stoppard (n. 1937). Altre trasformazioni sono indotte dall'affacciarsi sulla scena letteraria di una nuova generazione: basterebbe ricordare i Martian poets (C. Raine, n. 1944; Ch. Reid, n. 1949), così detti per lo sguardo alieno e straniato che rivolgono alla società dei consumi.

Sempre più autorevole è la presenza della scrittura delle donne, anche nei generi in passato meno praticati, come il teatro, la saggistica e la critica letteraria: molte delle nuove romanziere sono anche note studiose. A. Carter (1940-1992), prematuramente scomparsa, è stata tra le prime a riscrivere, oltre alle fiabe (The bloody chamber, 1979), le vite immaginarie di alcuni dei più intriganti personaggi letterari (Black Venus, 1985; Wise children, 1991). Ch. Brooke-Rose (n. 1923), espatriata in Svizzera, ha elaborato una sua originale forma romanzesca, pervasa da riferimenti metaletterari all'informatizzazione (Thru, 1975) e alla crisi della testualità (Textermination, 1991; Remake, 1996), inserendosi con forza nella sperimentazione post-strutturalista. A. Brookner (n. 1928), storica dell'arte, racconta con disillusione e approfondimento analitico difficili formazioni femminili (Hotel du Lac, 1984; Fraud, 1992; Family romance, 1993).

Benché si percepisca una tensione verso l'interdisciplinarità, la multimedialità e il plurilinguismo, la fortuna di alcuni generi letterari resta legata ad alcune specifiche modalità di produzione: sulla circolazione della poesia, per es., incidono ancora largamente la frammentazione editoriale, il circuito delle riviste, la ridotta dimensione del mercato, compensata solo in parte dalla fortuna di poetry readings, premi, concorsi e festival.

Su uno sfondo sempre più composito, continuano a stagliarsi con l'individualità della loro voce alcune figure dominanti fin dai tardi anni Sessanta: T. Hughes (1930-1988), Poet laureate, persegue in toni più pacati la sua indagine sui poteri visionari della natura (Collected animal poems, 4 voll., 1995), mentre nelle Birthday letters (1998) recupera alla parola poetica il tragico amore per S. Plath. Progressivo rilievo assume la poesia storica di G. Hill (n. 1932), che attraverso un linguaggio aspro e indiretto, sostenuto da una struttura di cornici, barriere e maschere metapoetiche, ricrea personaggi ed eventi di epoche passate (Collected poems, 1985; Canaan, 1996). La generazione degli anni Trenta, scomparso G. MacBeth (1932-1992), è ancora degnamente rappresentata da poeti come Ch. Tomlinson (n. 1927), R. Fisher (n. 1930) e P. Redgrove (n. 1932).

Alla lezione scettica e ironica delle 'cronache istantanee' di D. Enright (n. 1920: Collected poems, 1981; Under the circumstances, 1991), ai suoi reportage di tipo giornalistico dall'altrove, s'ispira invece il più giovane J. Fenton (n. 1949), che riflette con scabra intensità sui conflitti politici e generazionali europei (A German requiem, 1981) e internazionali (The memory of war and Children in exile: poems 1968-1983, 1983; Manila envelope, 1989; Out of danger, 1993; On statues, 1995). Analogo interesse per la restituzione istantanea dell'evento storico e per una rinnovata forma di poesia narrativa si riscontra in altri poeti, come P. Scupham (n. 1933), P. Reading (n. 1946), B. Morrison (n. 1950) e A. Motion (n. 1952: Love in a life, 1991). Tra i poeti più giovani e promettenti si è segnalato G. Maxwell (n. 1962) con Tale of the mayor's son (1990), Out of the rain (1992), Rest for the wicked (1995).

Impegnata in una consapevole valorizzazione della cultura locale appare la scuola poetica scozzese, che ha oggi il suo maggiore e più efficace interprete in D.E. Dunn (n. 1942). Se in Terry Street (1969) e Barbarians (1979) Dunn restituiva vividamente la vita e l'espressività delle classi lavoratrici di Hull, nelle successive raccolte (Elegies, 1985; Northlight, 1988; Dante's drum kit, 1993) è venuto elaborando tonalità più intime. Ma la rivendicazione più radicale di un'identità nordica ibrida e marginale s'incontra nell'opera di T. Harrison (n. 1937: The gaze of the Gorgon, 1992; Black daisies for the bride, 1993; Permanently bard: selected poetry, 1995), che ha cantato in densissime sequenze di sonetti i conflitti culturali generazionali e linguistici legati alle sue origini di proletario di Leeds, e ha elaborato un suo idioma particolare, un impasto aspro ed efficace, denso di riferimenti colti e popolari a un tempo.

A un universo rurale gallese, in cui s'intrecciano lavoro agricolo e meditazione spirituale, continua a fare riferimento R.S. Thomas (n. 1913), una delle voci presenti con maggiore continuità e inalterato vigore nel panorama del dopoguerra (Counterpoint, 1990; Collected poems 1945-1990, 1993; No truce with the Furies, 1995). Più scettica è l'indagine sulle condizioni del Galles nelle poesie di D. Abse (n. 1923) e di G. Clarke (n. 1937).

Non mancano, nel rinnovato quadro della poesia degli anni Novanta, particolari tendenze come quella 'verde' o quella 'tecnologica', in cui il computer si fa erede degli esperimenti della poesia concreta degli anni Sessanta. Anche la tradizione poetica femminile novecentesca comincia a chiarirsi nel succedersi delle generazioni, nel momento in cui le vengono dedicati, soprattutto a opera delle donne stesse, nuovi studi. L'ironica ed ermetica lezione di S. Smith (1902-1971), misconosciuta negli anni Cinquanta e Sessanta, si qualifica così come sempre più rilevante. Tuttavia se, grazie alle ripetute antologizzazioni dagli anni Ottanta in poi, le ultime generazioni possono godere di una maggiore visibilità, più schiacciate restano le generazioni precedenti, alle quali appartengono poetesse dalle voci interessanti e diversificate come U.A. Fanthorpe (n. 1929), C. Rumens (n. 1944) e D. Riley (n. 1948).

Sicuramente destinata a sviluppi futuri originali è l'insolita fisionomia della poetessa J. Kay (n. 1961), dalla complessa identità di scozzese, nera e omosessuale, autrice della sequenza a tre voci di donne The adoption papers (1991) e di Other lovers (1993). Pure dalla Scozia proviene la voce di L. Lochhead (n. 1947), ironica riscrittrice in versi di fiabe e di testi fantastici (The Grimm sisters, 1981; Dreaming Frankenstein and collected poems, 1984).

Scomparsi dalla scena alcuni grandi padri, come L. Durrell (1912-1990), W. Golding (1911-1993) e A. Burgess (1917-1993), che garantivano la tradizione inglese del romanzo, conservatrice e sperimentale, individualista e polifonica, trasgressiva ed eticamente impegnata, è rimasta visibile la continuità del canone nelle opere di M. Spark (n. 1918: A far cry from Kensington, 1988; Symposium, 1990) e di I. Murdoch (1919-1999), mentre D. Lessing (n. 1919: The real thing: stories and sketches, 1992) ha continuato a sperimentare vari generi: dalla fantascienza, al romanzo sociopolitico, al racconto fantastico. Il romanzo sembra così ulteriormente frammentarsi o disperdersi confluendo in altre forme e tradizioni: la sperimentazione formale di G. Josipovici (n. 1940: In a hotel garden, 1993) svela, per es., le sue radici nel nouveau roman; mentre su modelli americani si articola la narrativa di M. Amis (n. 1949), che lavora su tempo, età e memoria (Time's arrow, or The nature of the offence, 1991; The information, 1995; Night train, 1997).

Col contributo di J. Symons (n. 1912) e della 'giallista' P.D. James (n. 1920), si arricchisce la tradizione della detective story. Il 'nuovo gotico' si rianima nelle inquietanti ambientazioni londinesi di I. McEwan (n. 1948: The innocent, 1990; Black dogs, 1992) e in quelle scozzesi di A. Gray (n. 1934: Poor things, 1992), nonché nelle psicoanalisi di P. McGrath (n. 1950: Asylum, 1996). Con B. Aldiss (n. 1925: Frankenstein unbound, 1973) si rafforza la linea impegnata del romanzo fantascientifico, sostenuta anche dall'ampia produzione di J.G. Ballard (n. 1930), sempre più esplicita nel riferimento intertestuale e metaletterario. Tale caratteristica, già presente nel romanzo autobiografico Empire of the sun, pubblicato da Ballard nel 1984 e sceneggiato per il cinema da T. Stoppard nel 1987, è confermata dai saggi critici (A user's guide to the millennium: essays and reviews, 1996), ricchi di riflessioni sulla letteratura del presente e del futuro.

A questo disseminarsi della prosa nei generi e nelle forme della l. di massa, corrisponde una rinnovata tendenza del romanzo alla rappresentazione della 'scena locale': sia in chiave ironica - come nel caso della satira del mondo accademico britannico avviata da T. Sharpe (n. 1928) e da M. Bradbury (n. 1932) e portata vivacemente avanti da D. Lodge (n. 1935) con la sua trilogia (A David Lodge trilogy: Changing places, Small word, Nice work, 1993) -, sia in chiave simbolica, con l'intensa prosa di G. Swift (n. 1949: Learning to swim and other stories, 1982; Ever after, 1992; Last orders, 1996), che ha dedicato Waterland (1983) alla microstoria del territorio dei Fens, venandola tuttavia di riflessioni metafisiche.

La tendenza alla contaminazione, alla riscrittura e al pastiche, che già si era manifestata nel 1969 con The French lieutenant's woman di J. Fowles (n. 1926), è la caratteristica dominante della prosa contemporanea, evidente tanto nelle ricostruzioni storico-biografiche di P. Ackroyd (n. 1949) quanto nei complessi intrecci storico-fanta-letterari dei romanzi di A. Byatt (n. 1936: Possession, 1990; Angels and insects, 1992; The Matisse stories, 1993; Babel tower, 1996). Ricco di ironia e originalità il rapporto che J. Barnes (n. 1946) istituisce tra romanzo e critica letteraria nel suo Flaubert's parrot (1984). Rifacimenti biblici e fiabeschi si legano in J. Winterson (n. 1959) alle tematiche autobiografiche e femministe (Oranges are not the only fruit, 1985; Sexing the cherry, 1989; Written on the body, 1992; Gut symmetries, 1997), nel tentativo di ridefinire tutte le problematiche che ruotano attorno al rapporto tra scrittura, genere e gender (Art objects: essays on ecstasy and effrontery, 1995). A Wilde e Genet si rifà invece la promettente narrativa di A. Hollinghurst (n. 1954: The folding star, 1994). Identificare generi e forme precise diventa insomma, in questo contesto, altrettanto difficile che distillare una precisa identità etnica e linguistica.

La dimensione prevalente della drammaturgia contemporanea inglese è quella storico-politica. Le tematiche sociali vi vengono affrontate in due chiavi fondamentali, che sia pur attraverso trasformazioni e innovazioni tendono a mantenersi reciprocamente in gioco: l'una realistico-ironica, come già nel teatro di A. Wesker (n. 1932), l'altra a dominanza atemporale e metafisica, come in H. Pinter (n. 1930).

Raggiunto il limite dell'afasia e della disarticolazione della parola drammatica, Pinter volge a una rinnovata interrogazione politico-morale sul nesso tra parola e oppressione (One for the road, 1984; Mountain language, 1988; Moonlight, 1993). Alla riscoperta di un teatro politico muove nello stesso periodo anche la produzione di J. Arden (n. 1930), mentre il teatro di E. Bond (n. 1943), già caratterizzato negli anni Settanta dalla denuncia della violenza, dal gusto della riscrittura e della contaminazione metateatrale, approda nel 1990 a un ulteriore impegno politico nella contemporaneità (Two post-modern plays, 1990; Coffee, 1995; Plays, 1996).

Nel corso degli ultimi anni si è intensificata quell'interazione tra scrittura teatrale, dramma televisivo, radiodramma e sceneggiatura cinematografica già largamente avviata negli anni Cinquanta e Sessanta. Si pensi, per es., a T. Stoppard, che nel 1990 ha curato la versione cinematografica del suo Rosencrantz and Guildenstern are dead (1967). Negli esiti più recenti del suo teatro (Arcadia, 1993), si mantiene un sottile senso di minaccia e di angoscia. In radicale contrapposizione al thatcherismo, in polemica con la situazione irlandese e con il collasso delle istituzioni, il teatro di H. Brenton (n. 1942: The Romans in Britain, 1980), T. Griffiths (n. 1935), D. Hare (n. 1947: Plenty, 1985; Amy's view, 1997; Plays, 1997) e D. Edgar (n. 1948: Maydays, 1983) trova nuovi obiettivi politici nella rappresentazione della contemporaneità, anche se non sempre raggiunge l'efficacia drammatica e l'impatto politico che si prefigge. La drammaturga C. Churchill (n. 1938) propone una più attenta e ironica riflessione sul rapporto tra capitalismo e oppressione di razza e di gender (Top girls, 1982) e indaga su alcuni momenti chiave della vita economico-politica della società di massa (Serious money, 1987; Hotel, 1997). Grande successo riscuote A. Ayckbourn (n. 1939), capace di provocare e divertire il tradizionale pubblico dei teatri londinesi riflettendone vizi e nevrosi (A chorus of disapproval, 1986; Wildest dreams, 1991; Communicating door, 1995).

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Letterature di lingua inglese. Irlanda

di Maria Stella

L'affacciarsi alla l. di giovani generazioni, meno pressate dalla questione del terrorismo, più avvezze alla ricerca di soluzioni politiche e più omologate tra loro in termini di linguaggio e cultura, impedisce oggi ogni contrapposizione frontale dei panorami culturali dell'Ulster e della Repubblica Irlandese. L'appello all'unità dei narratori della prima generazione - da F. Stuart (n. 1902) a B. Moore (n. 1921), A. Higgins (n. 1927), W. Trevor (n. 1928), J. Johnston (n. 1930), tutti volti a un lucido riconoscimento del male e del negativo, sia nella realtà storico-sociale, sia sul piano metafisico, etico ed estetico - è stato in certo senso raccolto, e la complessità dei legami tra cattolici e protestanti, città e campagna, irlandesi e angloirlandesi, gaelico e inglese balza in primo piano come tratto caratterizzante la l. di entrambi i contesti. La pluralità culturale e linguistica, con le inevitabili frammentazioni e discontinuità locali e generazionali, consente alla l. irlandese di affacciarsi al 21° secolo con un'identità 'postcoloniale' forte, rinnovata ed estremamente consapevole di sé. I tratti insulari, di ripiegamento sulla propria arretratezza e decadenza, si aprono nei temi e nelle forme di una civiltà di massa urbana e internazionale vivacemente e autonomamente rielaborata.

Si pensi alla produzione più recente di E. O'Brien (n. 1932: Down by the river, 1996), rispetto alla forte focalizzazione 'locale' della sua fortunata trilogia degli anni Sessanta (iniziata con The country girls, 1960). Il romanziere J. McGahern (n. 1934: The power of darkness, 1991; The collected stories, 1992) propone analisi sempre più impietose dei conformismi vecchi e nuovi degli Irlandesi, saldando polemica sociale e artistica a una sorta di critica radicale della contemporaneità, attraverso l'uso di uno stile limpido e raffreddato e di strutture narrative a incastro. J. Banville (n. 1945: Ghosts, 1993; Athena, 1995; The untouchable, 1997) continua a esercitare la sua lucida decostruzione delle forme narrative e dei generi convenzionali, confrontandosi con i saperi scientifici, artistici e linguistici di epoche e paesi diversi, e forzando sempre più la tenuta della forma romanzesca contro l'annullamento di ogni criterio di verità, unità, bellezza, donde un'intensificazione problematica del rapporto tra l. e storia (come già in Kepler, 1981, e in The Newton letter: an interlude, 1982). B. MacLaverty (n. 1942: The great profundo and other stories, 1987; Walking the dog and other stories, 1994), assumendo punti di vista inconsueti e minoritari, racconta storie di improvvisa solidarietà tra i deboli e gli emarginati dell'Ulster, e di strenua resistenza alla repressione politica ed espressiva.

Ma è soprattutto la produzione delle nuove generazioni a evidenziare quell'originale contaminazione di forme e di linguaggi che rende riconoscibile a livello internazionale l'immagine e l'identità della cultura irlandese contemporanea. Si pensi a N. Jordan (n. 1953) e al suo intreccio tra cinema (The crying game, 1992; Michael Collins, 1996) e narrativa (The collected fiction of N. Jordan, 1997); o all'intenso legame tra poesia, musica, canzone, danza e arti figurative già presente nel lavoro di artisti diversi come T. MacIntyre (n. 1933: The bearded lady, 1984), P. Durcan (n. 1944: Crazy about women, 1991), S. Parker (1941-1988: Northern star, Heavenly ladies, Pentecost: three plays for Ireland, post., 1989). Tale capacità di assimilazione, riproduzione e riflessione sui linguaggi della contemporaneità resta al centro dei diversi esperimenti degli autori più giovani e si rende evidente, sul piano culturale generale, anche in quel processo tipicamente irlandese di diffusione della cosiddetta rivoluzione informatica.

Si hanno così i differenziati universi urbani di A. Matthews (n. 1956: Muesli at midnight, 1990), che si concentra sulla piccola borghesia di Dublino, e di D. Bolger (n. 1959: The woman's daughter, 1987; The journey home, 1990; A second life, 1994), che illustra invece, con un forte senso del peso della storia, gli sradicamenti dei giovani proletari delle periferie. Sospesa tra ironia e violenza è l'adolescenza disincantata che P. McCabe (n. 1955) racconta nei suoi romanzi (Music on Clinton street, 1986; The butcher boy, 1992). Ma è a R. Doyle (n. 1958), alla creativa dissacrante intertestualità dei suoi romanzi, a partire da The Barrytown trilogy (1992), così detta dal nome del sobborgo proletario di Dublino in cui le storie sono ambientate (The Commitments, 1987; The snapper, 1990; The van, 1991), che si deve il contributo più convincente. La ricostruzione paradossale e ricca di humour della cultura metropolitana, non solo giovanile, con le sue peculiari forme espressive, musicali, multimediali e linguistiche (il neoirlandese gergale delle periferie), contribuisce alla creazione di una nuova mitologia dei 'Dublinesi', in un duplice processo di trasformazione e continuità con la grande tradizione. Nell'allucinata prospettiva infantile del successivo Paddy Clarke ha-ha-ha (1993), la realtà di emarginazione e di degrado, restituita da Doyle con viva umanità, si riscatta nel suo stesso inventivo esprimersi, come accade anche nel suo lavoro successivo (The woman who walked into doors, 1996). In una direzione altrettanto trasgressiva e dissacratoria muove anche il lavoro del giovane J. O'Connor (n. 1963), che racconta eccentriche immersioni in mondi alternativi conseguenti all'abbandono avventuroso di ogni sicurezza domestica, provinciale, culturale (Cowboys and Indians, 1991; True believers, 1992; Desperadoes, 1994; Sweet liberty, 1996; The salesman, 1997).

Nel panorama dei rinascimenti locali degli ultimi quindici anni va segnalata la straordinaria fioritura poetica nell'Ulster - per la quale si è parlato di un primato di Belfast su Londra come capitale della poesia - all'interno di un processo di crescita che ha coinvolto di riflesso anche il teatro, nelle cui forme si sono meglio espressi i conflitti storici, politici, interiori legati alla ridefinizione dell'identità nazionale.

Da quando, nel corso degli anni Settanta, vennero fondate a Derry - a opera del drammaturgo B. Friel (n. 1929), del poeta S. Heaney (n. 1939) e del critico S. Deane (n. 1940, autore anche di poesie e del recente splendido romanzo Reading in the dark, 1996) - una casa editrice, la compagnia teatrale Field Day e la rivista di poesia The crane bag, si sono avvicendate sulla scena letteraria nord-irlandese almeno due generazioni di poeti. Alla prima si devono sia la lezione 'internazionale' di D. O'Grady (n. 1935) che, vissuto lungamente all'estero, elabora un linguaggio poetico dove sono riconoscibili gli influssi di altre tradizioni profondamente assimilate, da quella italiana a quella greca, egiziana e araba (Tipperary, 1991; My fields this springtime, 1993), sia il radicalismo beckettiano di D. Mahon (n. 1941), che avvicina la parola poetica alle frontiere del silenzio ed equipara l'umano agli altri elementi della natura (Selected poems, 1990; The yaddo letter, 1992; The Hudson letter, 1995). Sui confini di più culture, ma con un'acuita consapevolezza delle responsabilità politiche e morali della voce poetica, e con un impegno a un più stretto rapporto tra storia e natura, si situa anche l'opera di M. Longley (n. 1939: Gorse fires, 1991; Birds and flowers, 1994). Ma la voce più alta della generazione nata negli anni Trenta è quella di Heaney (New selected poems 1966-1987, 1990; Seeing things, 1991; The spirit level, 1996), vincitore del premio Nobel per la letteratura nel 1995, voce che appare capace di infinite variazioni, sempre tesa alla ricerca di un doloroso, problematico equilibrio tra violenza, esilio, mito e storia.

Dedicatosi inizialmente a una sorta di archeologia della mente irlandese - riprendendo i motivi antichi della ruralità, della guerra e dell'assoggettamento (politico, etnico, sociale e sessuale), in un linguaggio al tempo stesso quotidiano e visionario - Heaney lega sempre più il suo senso della storia alle drammatiche lacerazioni della contemporaneità, sullo sfondo delle più vaste trasformazioni della scena culturale internazionale, con una particolare attenzione anche alla corruzione linguistica che deriva dai traffici e dai commerci del capitalismo internazionale. Il tessuto del verso appare traversato da ambivalenze ritmiche e stilistiche, in un'enfatizzazione della dimensione tecnica e autoreferenziale della poesia che Heaney ama riprendere anche nelle sue riflessioni teoriche (The government of the tongue, 1988; The redress of poetry: Oxford lectures, 1995).

Nella generazione successiva queste problematiche trovano eco diretta nella poesia di P. Muldoon (n. 1951: Madoc: a mistery, 1990; New selected poems, 1968-1994, 1996), che, con il suo gusto del doppio linguistico, dell'autotraduzione e del pun, allude a un altrove della lingua stessa. Più ripiegato su un uso enigmatico e ironico del linguaggio (e talora del dialetto) appare T. Paulin (n. 1949: Liberty tree, 1983; Minotaur: poetry and the Nation State, 1992; Walking a line, 1994), la cui poesia vibra delle doppie contraddizioni di un presente politicamente impegnato e di un anelito universale. Immersi nelle problematiche conflittuali dell'identità nordica sono C. Carson (n. 1948: Belfast confetti, 1989; First language: poems, 1993; Letters from the alphabet, 1995) e F. Ormsby (n. 1947).

Tra i poeti della Repubblica Irlandese, P. Durcan (n. 1944: A snail in my prime, 1993; Give me your hand, 1994) si rivela abile contaminatore di linguaggi alti e bassi, autore di collage linguistici, instancabile dicitore pubblico della propria poesia; mentre la poetessa E. Ní Chuilleanáin (n. 1942: The Madgalene sermon, 1989), facendo prevalere la necessità dell'ibridazione sulla scelta monolinguistica, si richiama per via di immagini e di metafore al wit metafisico. Solo in gaelico - senza valenze salvifiche, ma recuperando i linguaggi, i silenzi, le tradizioni delle madri e delle antenate - scrive N. Ní Dhomhnaill (n. 1952: Feis, 1991; The astrakhan cloak, 1992; Cead Aighnis, 1997), autrice di fini poesie oniriche, di vertiginosi passaggi dal mito alla storia, tradotta in inglese da poeti come Mahon e Heaney.

Interessante e variegato è il panorama della poesia femminile: M. McGuckian (n. Belfast 1950: Marconi's cottage, 1991; The flower master, and other poems, 1993; Selected poems 1978-1994, 1997), attraverso ritmi scarni e un linguaggio criptico e intenso, affronta tematiche impegnative sul piano teorico e concettuale, sempre attenta a restituire un'immagine lavorata al massimo. E. Boland, dublinese (n. 1944: Selected poems, 1989; In a time of violence, 1994; Penguin modern poets. Volume two, 1995; Collected poems, 1995), fa risuonare echi del passato e della tradizione celtica nei ritmi della vita e della storia quotidiana. P. Meehan (n. 1955: Pillow talk, 1994) illumina con precisione e calore le grigie periferie dublinesi; mentre R.A. Higgins (n. 1955: Witch in the bushes: poems, 1988; Philomena's revenge, 1992; Sunny side plucked: new and selected poems, 1996), coinvolge il lettore nella restituzione dolorosa e ironica della realtà sociale.

Nell'ambito della produzione drammatica, è continuata la tradizione irlandese di un teatro di forme miste, che unisca musica, canto e danza, già rinnovata nell'Ulster da S. Parker.

A un teatro gestuale e pittorico, ricco di richiami all'inconscio, punta il già citato MacIntyre. Th. Murphy (n. 1936: Bailegangaire, 1986; Too late for logic, 1990; Plays, 4 voll., 1992-97) adopera il flusso ininterrotto della comunicazione come una sorta di sottofondo musicale designificante per le sue amare commedie provinciali; mentre T. Kilroy (n. 1934: Double cross, 1986) organizza i suoi drammi sull'alternarsi di dinamiche interiori, morali e religiose, a conflitti apertamente politici. Violenza reale e surrealismo convivono nella Belfast che fa da sfondo ai drammi di G. Reid (n. 1945). A riscritture del conflitto irlandese mascherate sotto altre vesti storiche s'ispira il teatro di F. McGuinness (n. 1956: Observe the sons of Ulster marching toward the Somme, 1986; Carthaginians, 1988).

Il maggior drammaturgo rimane comunque B. Friel, nei cui drammi il problema della lingua è centrale: in Translations (1981), il conflitto tra gaelico e inglese sulla toponomastica, reincarnandosi e riverberando in varie situazioni storiche, affettive, culturali, diventa protagonista dell'azione. Anche successivamente Friel ha continuato a speculare sulla funzione conoscitiva e comunicativa della lingua (Communication cord, 1983), sull'incertezza della storia (Making history, 1989), sulla sostituzione della parola col silenzio, con la musica e la danza (Dancing at Lughnasa, 1990). La sua più recente produzione include Molly Sweeney (1994) e Give me your answer, do! (1997).

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Letterature di lingua inglese. Stati Uniti

di Valerio Massimo De Angelis

Tra gli anni Cinquanta e Sessanta, negli Stati Uniti è nata quella che ormai viene chiamata letteratura postmoderna, grazie ad autori come K. Vonnegut (n. 1922), W. Gaddis (n. 1922), J. Hawkes (1925-1998), J. Barth (n. 1930), R. Coover (n. 1932) e Th. Pynchon (n. 1937). Nella loro opera si esprime il disagio di chi ha smarrito i punti di riferimento con cui orientarsi nel mondo e al tempo stesso l'ebbrezza di chi può proprio per l'assenza di quegli ancoraggi fluttuare liberamente in uno spazio dove tutto è possibile. Ma questi e altri autori del mainstream postmoderno hanno potuto e possono scardinare con la massima sfrontatezza tutti i perni su cui si erigono le costruzioni psico-cognitive e culturali dell'individuo occidentale appunto perché la loro identità di individui occidentali non è mai stata seriamente posta in forse 'nei fatti', oltre che nel linguaggio. Assai diversa è la situazione di chi, invece, un'identità salda e riconosciuta ha dovuto conquistarsela a caro prezzo, e nemmeno può darla per acquisita una volta per tutte. Se, infatti, la cultura statunitense del secondo dopoguerra si è diffusa su scala globale pervadendo ogni angolo del pianeta, di converso è stata invasa da stranieri (aliens) provenienti da ogni dove, in aggiunta ai milioni di immigrati che nei secoli precedenti erano andati a popolare le terre di un mondo nuovo solo per loro, e invece da tempo ben più che noto agli Indiani d'America.

Tutti costoro - native Americans espropriati del proprio mondo e della propria cultura, afro-americani discendenti dagli schiavi delle piantagioni del Sud, immigrati 'storici' (ebrei, italiani, cinesi, europei dell'Est) per lungo tempo considerati come un corpo estraneo, nuovi immigrati provenienti dalle regioni condannate all'impoverimento dalle leggi della globalizzazione economica e tuttora alla ricerca di un'integrazione qualsivoglia - hanno vissuto l'esperienza di un'identità frammentata senza necessariamente aver conosciuto le gioie e i dolori della postmodernità. Per lo scrittore wasp (ovvero white, Anglo-Saxon, protestant) la perdita del sé è un approdo simbolico, l'effetto di una lacerazione che resta comunque metaforica. Per gli Americani hyphenated (l'hyphen è il trattino che connette la provenienza etnica alla nazionalità d'adozione, come in Jewish-American, Afro-American, e via dicendo) tale perdita è invece il punto di partenza, un'origine impossibile da dimenticare perché viene continuamente enfatizzata proprio da quei mezzi di comunicazione che, invece, dovrebbero garantire, con il loro vorticoso gioco di messaggi frammentati e caotici, lo scambio e la confusione delle identità: nel descrivere i protagonisti di un evento, pressoché tutti i mass media procedono dall'identificazione della provenienza etnico-religiosa, tranne - ovviamente - quando tali protagonisti siano, se non proprio wasp, quantomeno bianchi, di origine europea e cristiani.

Le l. delle minoranze - che messe assieme costituirebbero una solida maggioranza - da un lato operano come voce critica nei confronti di un certo ottimismo irresponsabilmente affascinato dai miraggi di libertà offerti dai mondi virtuali; dall'altro offrono esse stesse gli elementi che consentono all'identità postmoderna di ibridarsi, di forzare il concetto di appartenenza, di sovvertire definitivamente il senso stesso di nazionalità. L'americanità, allora, non potrà più essere una nozione ideologico-metafisica derivante dalla condivisione di un sistema di valori saldamente codificato né un concetto meramente etno-sociologico, ma il risultato degli incontri e delle negoziazioni di chi si trova a calcare il suolo statunitense, da dovunque provenga e qualunque sia il proprio retaggio culturale.

Questo duplice carattere della condizione postmoderna - perdita d'identità ma anche contaminazione delle identità - si riflette in tutte le espressioni della l. statunitense degli ultimi vent'anni. Al livello più squisitamente formale si palesa nella disgregazione delle frontiere che separano generi e codici letterari, mentre al livello teorico-critico si realizza nella ridefinizione degli ambiti e dei limiti del canone, che arriva ormai a comprendere voci per lungo tempo rimaste inascoltate, come quelle della tradizione orale native American prima e durante l'era della colonizzazione, della cultura afro-americana durante e dopo la schiavitù, della l. femminile per tanto tempo condannata senz'appello dal common sense critico in quanto banalmente sentimentale, delle forme di comunicazione popolare (nel duplice senso di folklorica e pop) escluse dall'empireo letterario perché troppo preoccupate del rapporto con un pubblico poco o nulla acculturato.

Il postmoderno, secondo quel che ne scrive J.-F. Lyotard, nasce dalle ceneri delle 'grandi narrazioni' che volevano cogliere il senso e il significato della storia universale, nel momento in cui la storia sembra essersi esaurita per precipitare in un eterno presente che esorcizza la possibilità di rivoluzioni epocali per via di meno imponenti ma continui e inarrestabili mutamenti quotidiani. Logica vorrebbe che con le grandi narrazioni svanissero anche le piccole, prima tra tutte quella forma-romanzo che è sorta con la borghesia moderna e che a essa è servita come principale strumento di autoidentificazione simbolica; e invece la l. postmoderna statunitense non soltanto è dominata da romanzi maestosi per dimensioni e ambizioni, ma sovente predilige, tra tutte le varianti, proprio quella del romanzo storico: il più inadatto, a prima vista, a esprimere la condizione esistenziale di un'era ormai senza storia. Non più un incubo dal quale tentare di svegliarsi come per lo Stephen Dedalus di J. Joyce, la storia sembra piuttosto un gigantesco repertorio di eventi e personaggi che possono essere collegati tra loro secondo modalità imprevedibili, ignorando gerarchie di rilevanza e nessi logico-temporali. Quella che L. Hutcheon ha definito, con una felice formula, historiographic metafiction (metanarrativa storiografica) fabbrica, per dirla con E.L. Doctorow (n. 1931), 'documenti falsi' che aspirano non tanto a rivendicare una superiore verità, quanto a decostruire le stesse basi teoriche di quelle narrazioni prodotte dall'ideologia dominante, che comunque continuano a determinare la visione del mondo di gran parte delle società postcapitalistiche.

Lo stesso Doctorow, nel corso della sua intera carriera, ha ricostruito i momenti più importanti della storia statunitense, dal West pionieristico degli esordi con Welcome to hard times (1960) agli anni Venti e Trenta di World's fair (1985) e Billy Bathgate (1989), per tornare più di recente alla ricostruzione post-guerra civile di The waterworks (1994). Vonnegut struttura invece i suoi ultimi romanzi secondo una prospettiva inversa, tipica della narrativa fantascientifica, postulando un narratore-storico che racconta dal futuro gli effetti disastrosi della presunzione umana, come in Galápagos (1985) e Hocus Pocus (1990), per arrivare a Timequake (1997), in cui la storia collassa su se stessa e condanna l'umanità a ripetere, dopo un inspiegabile salto all'indietro di dieci anni, esattamente tutto ciò che ha già compiuto. Ancor più radicale è l'opera di destoricizzazione condotta da Pynchon, non tanto nel 'tradizionale' postmodernismo cibernetico di Vineland (1990) quanto nel funambolico filologismo di Mason & Dixon (1997), che rispetta persino nella dizione la lingua del tempo storico rappresentato, il Settecento della ragione illuministica (graficamente raffigurata dalla linea di demarcazione tracciata da Mason e Dixon per separare gli Stati schiavisti da quelli dove la schiavitù sarà proibita). La dipendenza della contemporanea coscienza storica dal flusso di informazioni apparentemente incontrollato che i mass media riversano sul pubblico è esplorata a fondo e condotta alle sue estreme conseguenze nella suprema parodia di romanzo storico elaborata da D. De Lillo (n. 1936) in Mao ii (1991): proprio il tipo di romanzo contro cui combattono l'ambizioso N. Mailer (n. 1923) di Ancient evenings (1983) e il G. Vidal (n. 1925) più convenzionale, quello di Lincoln (1984) ed Empire (1987).

L'enciclopedismo universalizzante, l'autoriflessività metaletteraria e la contaminazione con le tecniche multimediali delle comunicazioni di massa sono motivo centrale anche in autori meno interessati alle dinamiche storiche e alle tecniche storiografiche, e si esprimono nei modi più diversi: per es., nella narrativa metacritica di R. Sukenick (n. 1932: Long talking bad conditions blues, 1979; Blown away, 1986) e di R. Federman (n. 1928), che la teorizza in Surfiction (1975) e la realizza in The twofold vibration (1982) e To whom it may concern (1990); nella sfida a ogni protocollo interpretativo che il lettore può assumere lanciata da G. Sorrentino (n. 1929); nei vorticosi giochi linguistici e filosofici di How German is it (1980) di W. Abish (n. 1931); nelle avventure romanzescamente marinare che sommergono il lettore in un profluvio di riferimenti intertestuali del J. Barth di The last voyage of somebody the sailor (1991); nella fantascienza sbilenca e delirante dell'ultimo W. Burroughs (1914-1997), paranoicamente scettico verso qualsiasi nozione di verità (Cities of the red night, 1981; Interzone, 1989).

Se proprio la fantascienza sembrerebbe dover essere il genere postmoderno per eccellenza, specularmente al romanzo storico, altri generi provenienti dal sottobosco del pop e del pulp competono per acquistare dignità letteraria: tra questi, in primo luogo l'horror e il detective novel. Che due tra i generi più rigidamente codificati quanto a composizione, e più epidermici quanto a tipologie di fruizione, siano strumenti per alcune tra le più complesse esplorazioni del rapporto tra realtà e finzione è tipico paradosso del postmodernismo; il quale del resto - come nota F. Jameson (n. 1934), uno dei maggiori teorici americani contemporanei, in Postmodernism (1991) - si è dotato di una poetica del riuso decontestualizzato dei materiali del passato che mette capo a una vera e propria estetica della superficie.

Così, è lo scheletro architettonico del gotico a sorreggere l'ostico e intricato gioco di specchi che rimanda all'infinito immagini illusorie, con una vertiginosa mise en abyme, in Carpenter's Gothic (1985) di W. Gaddis; è la sua versione sudista e post-faulkneriana a innervare l'orrore etico di W. Percy (n. 1916), J. Dickey (n. 1923), J. Purdy (n. 1923), W. Styron (n. 1925) e C. McCarthy (n. 1933); è il topos della casa stregata a sostenere la raffinata tessitura metaletteraria di Mickelsson's ghosts (1982) di J. Gardner (1933-1982); per non parlare del grottesco fine a se stesso di tutta la produzione di Ch. Bukowski (1920-1994) e della titanica metafora del cuore oscuro dell'America disegnata in decine di romanzi dal re dell'horror, S. King (n. 1947). L'indecifrabilità del reale nel mondo contemporaneo giustifica la proliferazione di detective alla ricerca di verità irraggiungibili, come quelli che popolano il vorticoso e stratificato Odd number (1985) di G. Sorrentino, la New York trilogy (1985-87) di P. Auster (n. 1947) o il Gerald's party (1986) di R. Coover. A questi vanno aggiungendosi i più canonici ma sempre meno prevedibili investigatori di E. Leonard (n. 1925), J. Ellroy (n. 1948) e Th. Harris (n. 1940).

Gli anni Ottanta sono però stati anche gli anni di una sorta di ritorno alla realtà e al quotidiano, teorizzato e realizzato, in direzioni più giornalisticamente dure e polemicamente anti-intellettualistiche, dal T. Wolfe (n. 1931) di The bonfire of the vanities (1987). Si è persino giunti al conio di una nuova etichetta, minimalismo, per descrivere quella specie di reazione al virtuosismo stilistico che accomuna la ricerca attenta e sofferta di R. Carver (1938-1988), in What we talk about when we talk about love (1981) e Cathedral (1983), e quella dei suoi successori R. Ford (n. 1944), J. McInerney (n. 1955), R. Banks (n. 1940), D. Leavitt (n. 1961) e B.E. Ellis (n. 1964).

Un atteggiamento non dissimile si può riscontrare in campo poetico, dove alle fiammeggianti sperimentazioni degli anni Sessanta e Settanta - ancora operanti, comunque, negli irriducibili A. Ginsberg (1926-1997: The ballad of the skeletons fu scritta nel 1995), L. Ferlinghetti (n. 1919: These are my rivers, 1993) e G. Corso (n. 1930: Mindfield, 1989) - si sono alternate le più quiete meditazioni esistenziali di K. Shapiro (n. 1913: The old horsefly, 1992), R. Wilbur (n. 1921: New and collected poems, 1988) e R. Creeley (n. 1926: Echoes, 1994), il surrealismo ironico e quasi domestico di M. Strand (n. 1934: Dark harbor, 1993), la religiosità raccolta di R. Duncan (n. 1919: Ground work II, 1987) e G. Snyder (n. 1930: No nature, 1992). Anche i poeti più affascinati dalla potenza del mito - come J. Dickey (The whole motion, 1992), A. Hecht (n. 1923: The transparent man, 1990), J. Merrill (1926-1995: The inner room, 1988) e W.S. Merwin (n. 1927: The rain in the trees, 1988) - sembrano optare per una forma maggiormente controllata e compatta. E nemmeno esponenti radicali della scuola della 'immagine profonda', quali R. Bly (n. 1926: Iron John, 1990) e J. Ashbery (n. 1927), si permettono più i voli senza rete di qualche anno prima, sebbene il secondo, con Flow chart (1991), recuperi un'audacia formale e tematica che forse non si era più avvertita dai tempi della scuola della Black Mountain.

Il teatro contemporaneo, superate le divisioni tra teatro commerciale e teatro d'avanguardia che avevano contrapposto la scena di Broadway alla scena off e poi, quando quest'ultima si era 'normalizzata', tutt'e due all'off-off-Broadway, si caratterizza per l'eterogeneità dei fini e dei mezzi, doveroso riconoscimento alla multimedialità onnipresente dell'odierna società della comunicazione totale.

Al fragore passionale del postespressionismo di S. Shepard (n. 1943) in States of shock (1991) e Simpatico (1994) risponde la gelida anatomia delle modalità linguistiche che organizzano la comunicazione interpersonale nella produzione di D. Mamet (n. 1947), per es. in Oleanna (1992); il teatro ancora tradizionalmente di parola di A. Miller (n. 1915) ed E. Albee (n. 1928) trova il suo contraltare nelle sperimentazioni collettive, centrate soprattutto sul lavoro scenico, dei gruppi diretti da J. Beck (1925-1985) e J. Malina (n. 1926), fondatori del leggendario Living Theatre, da R. Foreman (n. 1937), da R. Wilson (n. 1943), da P.Schumann (n. 1934). Tuttavia, il teatro degli ultimissimi anni sembra recuperare una misura più classicamente autoriale, grazie a esponenti di rilievo quali L.Wilson (n. 1937), J. Guare (n. 1938), D. Rabe (n. 1940) e A. Innaurato (n. 1948).

Lungo quelli che una volta erano i margini dell'universo letterario statunitense, e che oggi si configurano piuttosto come una serie quasi infinita di frontiere a esso interne e tutt'altro che invalicabili, si muovono e si intersecano dialogando tra se stesse e con le voci della cultura egemone le figure delle l. 'altre', ovvero non bianche e non maschili. Nel corso dell'ultimo quarto di secolo, e non solo grazie alla rivoluzione del femminismo, è diventato, per es., persino improprio parlare di l. femminile, almeno per sancire una deviazione dalla norma di una l. che non ha bisogno di definirsi maschile perché si dà per scontato che non altro potrebbe essere: le autrici contemporanee rivendicano a buon diritto una più che pari dignità, e, se non rinnegano mai il carattere distintamente femminile della loro produzione, rifiutano recisamente questa categoria quando si presta a una relativizzazione che troppo spesso può risolversi in ghettizzazione.

La ricerca espressiva delle scrittrici statunitensi, comunque, s'intreccia sempre in profondità con riflessioni di carattere teorico, volte a ridefinire il ruolo delle donne quali generatrici di vita culturale, dopo secoli di riduzione a semplici generatrici di vita biologica. È questo il nucleo centrale dell'opera di alcune tra le figure più interessanti della l. statunitense, a partire da T. Olsen (n. 1913), che solo nel 1974 recupera il romanzo Yonnondio, scritto negli anni Trenta, e inaugura una stagione di fervida riflessione sul senso e sulla funzione del 'silenzio' cui le donne per troppo tempo sono state costrette, e dal quale sono dovute partire per fondare un proprio, muto, discorso alternativo: ed è questo il tema di Silences (1978), raccolta di saggi quasi divenuta un manuale del femminismo letterario d'oltreoceano. La stessa preoccupazione traspare in tutta l'opera di A. Rich (n. 1929), la poetessa femminista per eccellenza, che eredita anche il recupero della dimensione più concretamente corporea dell'essere donna operato dalla pioniera M. Rukeyser (1913-1980), e lo teorizza nel celebre Of woman born (1976). Una lucida visione dei problemi storici e politici si esprime, nella poesia di Rich, mediante una radicale revisione del linguaggio ereditato dalla tradizione, depositario della struttura dei rapporti di potere uomo-donna così come si sono costituiti prima dell'avvento della rivoluzione femminista; ne risulta una totale rideterminazione non tanto dell'identità femminile in sé quanto dell'immagine che la cultura fallocentrica (o 'fallogocentrica', nel neologismo che unisce l'imperio del logos a quello della sessualità maschile) ha voluto diffondere per giustificare la marginalizzazione della donna.

Grazie alla lezione di Olsen, Rukeyser e Rich, altre autrici già affermate hanno nel corso degli anni accentuato i toni femministi: D. Levertov (n. 1923) ha dato un taglio più esplicitamente di gender alle sue indagini poetiche sull'alienazione, iniziate ai tempi del Black Mountain college; C. Kizer (n. 1925), in Yin (1985), ha trasformato la raffinata eleganza dello stile degli esordi nell'appassionata ricerca del principio della creatività femminile, sintetizzata già nello stesso titolo del libro; e anche una poetessa dichiaratamente più domestica e meno aggressiva come Sh. Olds (n. 1942) riconosce il suo debito con Rukeyser, che si può intravedere nei modi in cui i rapporti d'amore eterosessuali sono sottilmente destabilizzati, nelle sue poesie, dalla maniera franca e aperta con cui vengono descritti i corpi degli uomini. Nelle regioni del silenzio femminile si localizzano invece i luoghi narrativi di G. Paley (n. 1922), che con i racconti di Later the same day (1985) mostra una sottile conoscenza dell'universo del non-detto che si cela dietro alle complesse mediazioni dialogiche tra uomini e donne coinvolti in relazioni sentimentali. Ed è sempre il silenzio, inteso non come assenza di comunicazione ma viceversa come modalità non verbale che consente di trasmettere informazioni altrimenti indicibili, a regnare sulle scene dei testi teatrali di autrici come T. Howe (n. 1937), M. Norman (n. 1947) e B. Henley (n. 1952); un atteggiamento fragorosamente iconoclasta contraddistingue, casomai, le compagnie femministe At the foot of the Mountain, Feminist Amerikan theater e New York feminist theater, tutte figlie dello storico Wooster Group di E. LeCompte (n. 1944).

Anche perché sollecitata dalle ricerche di S. Sontag (n. 1933) sulla nozione di camp - termine intraducibile che indica, grosso modo, la sfrontatezza nell'esibire gusti spesso stravaganti o poco consoni alla pruderie del senso comune -, la l. femminile degli ultimi decenni ha spavaldamente recuperato le forme meno nobili ed elevate della l. di genere, piegandole a fini estetici e ideologici del tutto peculiari. Parodia e insieme omaggio affettuoso alla narrativa sentimentale più pop, i romanzi di A. Tyler (n. 1941) e N. Ephron (n. 1941) trovano una risposta uguale e contraria nelle sperimentazioni radicalmente antimaschili, ma altrettanto debitrici nei confronti della cultura di massa, elaborate da M. Piercy (n. 1936), J. Russ (n. 1937), A. Dworkin (n. 1946) e K. Acker (n. 1948). Né restano indenni dalle incursioni delle donne i territori narrativi che un certo superficiale manicheismo critico vorrebbe più ostinatamente maschili, quelli contraddistinti dal segno dell'avventura come il poliziesco, la fantascienza, l'horror: i nomi, rispettivamente, di P. Highsmith (1921-1995), U.K. Le Guin (n. 1929) e A. Rice (n. 1941) si sono imposti da tempo all'attenzione sia dell'appassionato del genere sia del lettore sofisticato. Non tanto all'horror più canonico - ma si veda Haunted: tales of the grotesque (1994) - quanto alla sua versione tutta americana in stile Southern gothic alla Faulkner (del quale imita la creazione di una contea immaginaria, l'Eden county nello Stato di New York), appartiene gran parte dell'opera di J.C. Oates (n. 1938), che però non si esime dal cimentarsi con la saga familiare, con la detective story, con il thriller.

Il ripensamento di ciò che significa essere donna ha recato con sé, come necessaria conseguenza, una ristrutturazione globale di quel che è o dovrebbe essere l'identità sessuale, a qualunque sesso biologicamente si appartenga (e ormai nemmeno questo è più un dato immutabile). Di qui l'affermazione di una l. omosessuale, tanto femminile quanto maschile, che minaccia tutti i luoghi comuni sul sentimento e sul desiderio. Se le donne, forti delle conquiste del femminismo, portano questa sfida sui terreni estremi, giungendo a prefigurare una condizione di trans-gender che travolge tutte le barriere di sesso (a partire dal profetico The female man, 1975, di J. Russ), gli uomini hanno dovuto conquistare una visibilità letteraria per gradi, riuscendo solo negli ultimi anni a consolidare una tradizione gay. I primi passi, pionieristici e ancora esitanti, di G. Vidal e T. Capote (1924-1984) nel campo narrativo sono stati seguiti dalle ben più aperte violazioni dei codici della normalità sessuale compiute da W. Burroughs, J. Rechy (n. 1934), E. White (n. 1940) e D. Leavitt. In ambito poetico, l'omosessualità innerva la produzione di A. Ginsberg e J. Ashbery, ma è forse nel teatro che il coming out (l''uscir fuori', rivelandosi per quel che si è) del maschio omosessuale si realizza nel modo più pertinente, proprio perché di per sé più spettacolare: dopo gli ambigui accenni di T. Williams (1914-1983), W. Inge (1913-1973) e, meno obliquamente, E. Albee, la tematica omosessuale si afferma sulle scene con le produzioni di H. Fierstein (n. 1954), L. Wilson e D. Rabe, oltre che della pirotecnica Ridiculous Theatrical Company.

Negli stessi anni in cui la dignità letteraria femminile e omosessuale riusciva a consolidarsi, altre minoranze, sulla spinta del movimento per i diritti civili, sapevano finalmente far circolare le proprie, alternative, visioni del mondo. L'etnia che si impone per numero e influenza culturale è senz'altro quella afroamericana: grazie a una poderosa opera di ricostruzione e riformulazione dell'esperienza della schiavitù e dell'emarginazione, gli scrittori neri d'America hanno saputo rileggere la storia statunitense secondo un punto di vista dolorosamente antiutopico. E se nella prima metà del secolo l'ingresso nell'agone letterario si è realizzato quasi esclusivamente grazie all'impegno di scrittori maschi (come L. Hughes, R. Ellison, J. Baldwin, R. Wright e L. Jones/A. Baraka), le generazioni successive hanno visto le donne, fino ad allora rappresentate da singole e controverse figure come Z. Neale Hurston (1901-1960; non per nulla recuperata solo negli anni Settanta), impadronirsi della leadership: una leadership posta in discussione, forse, soltanto dalla narrativa postmodernamente multiculturale di I. Reed (n. 1938) e dai solidi drammi storici di A. Wilson (n. 1945).

Nella produzione delle scrittrici afroamericane le tematiche dell'emarginazione razziale si fondono con quelle della guerra dei sessi, che assume caratteri davvero drammatici proprio nella comunità nera. Ha iniziato G. Brooks (n. 1917), unendo un'elegante dizione posteliotiana alla durezza descrittiva con cui rappresenta la vita nei ghetti; essa si pone a capo di una linea di poetesse che lavorano su sofisticate forme poetiche, scandite dal passo sincopato del black English delle donne afroamericane (meno baldanzoso di quello reinventato dai colleghi maschi e più attento ai silenzi interni alla frase), sporcandole con la quotidianità di esistenze costrette al 'retro' della vita (nelle cucine, nei retrobottega, nelle lavanderie degli alberghi: si veda Gottschalk and the grande tarantelle, 1988). La strada aperta dalla Brooks conduce alla sovversività esibita di J. Jordan (n. 1936), di N. Giovanni (n. 1943) e di A. Lorde (1934-1991). Anche A. Walker (n. 1944) ha esordito come poetessa, insistendo fin dall'inizio sulla differenza dell'esperienza delle donne afroamericane rispetto a quella degli uomini, e attirandosi quindi le critiche di chi la ritiene una traditrice della propria razza, perché ne enfatizza le interne divisioni: una reazione che non risparmierà nemmeno il celebre romanzo The color purple (1982). Il potere mitopoietico della cultura orale afroamericana, che si trasferisce anche sul piano eminentemente linguistico, trova eco maggiore nella narrativa di T. Morrison (n. 1931; premio Nobel per la letteratura nel 1993), dove la componente del fantastico non offusca ma anzi fa risaltare i nessi che collegano la storia passata, in primo luogo quella della schiavitù, con il presente (Beloved, 1987, ne è l'esempio più eloquente; ma si veda anche Paradise, 1998), e l'obliquità del linguaggio della fiaba e della leggenda segnala i paradossi e le ambiguità di una condizione umana - universale e assolutamente particolare come quella degli Afroamericani- resa attraverso un linguaggio che usa con raffinata sapienza ritmi verbali mutuati dalla sintassi del jazz e del blues (Jazz, 1992). E ugualmente affascinate dall'incanto e dal mistero delle leggende orali appaiono N. Shange (n. 1948), G. Jones (n. 1949) e G. Naylor (n. 1950).

Il ricorso a forme di linguaggio - come quelle del fantastico e del mitico - che richiedono un alto coinvolgimento emotivo (e soprattutto etico) è un tratto che accomuna gran parte delle espressioni letterarie delle minoranze: cancellati a lungo dal discorso pubblico ufficiale (quello che predilige la ragionata esposizione degli argomenti), Indiani d'America, Ebrei, Latinos e Asian-Americans (trascurando altre minoranze che pure meriterebbero attenzione) hanno fatto ricorso alle 'proprie' modalità di comunicazione, provenienti da tradizioni culturali rimosse e negate. La serietà con cui queste forme d'espressione vengono coltivate contrasta con quella insostenibile leggerezza che contrassegna l'ironico disincanto dei pastiches postmoderni. Non che il gusto per l'intreccio di materiali incongrui e decontestualizzati sia del tutto assente, per es., nella l. native American, peraltro così dedita alla difesa di un'autenticità dimenticata: il punto è che per scrittori e scrittrici come N. Scott Momaday (n. 1934), L. Marmon Silko (n. 1948: Almanac of the dead,1991), L. Erdrich (n. 1954: The Bingo palace, 1994), J. Welch (n. 1940: Fools crow, 1986) o Sh. Alexie (n. 1966: Reservation blues, 1995) l'orgia ipercomunicativa, lungi dal privare di legittimità i tentativi di rifondare una propria identità, costituisce l'ineludibile orizzonte entro e contro il quale quei tentativi si stagliano.

In questo senso, l'autenticità delle proprie tradizioni culturali sorge non dall'essere rimaste miticamente intatte, ma dall'aver interagito con la cultura egemone, modificandosi e modificandola. I detective indiani di T. Hillerman (n. 1925) non sono né più veri né più falsi dei Sioux di autori bianchi come Th. Berger (n. 1924): gli uni e gli altri hanno una loro credibilità appunto perché sono il risultato dell'interscambio intrattenuto dalle due culture. E il linguaggio della leggenda, se da un lato risponde alle esigenze di preservazione culturale, dall'altro attira i lettori non-indiani grazie all'esotismo di superficie, per poi invischiarli in reti di significato sorprendentemente complesse, in giochi d'identità sottili e imprevedibili.

Laddove la l. contemporanea degli Indiani d'America nasce dalla necessità della resistenza, dall'esigenza di non essere condannati al ruolo residuale di museo vivente di un passato che già non è più, quella dei Latinos procede dall'urgenza opposta, il riconoscimento di un ruolo la cui importanza aumenta di giorno in giorno, giungendo addirittura a prospettare per un futuro non lontano, in alcune regioni degli Stati Uniti, una nuova maggioranza etnica. Ciò nonostante, anche perché in buona parte della cultura latinoamericana sono ancora attivi e anzi sempre più forti gli elementi della cultura india, le linee di ricerca e gli esiti formali presentano analogie spesso profonde, a partire dalla centralità accordata al problema del rapporto con la cultura dominante, nei confronti della quale si dimostrano ugualmente destinate al fallimento le opposte opzioni dell'assimilazione e della difesa integrale dell'identità originaria, e comunque ardue le scelte intermedie, che propongono una comunicazione sovente anche conflittuale. Nel loro agire sulla frontiera che separa due o più lingue e culture, questi scrittori si trovano a dover riprospettare anche il proprio rapporto con i generi letterari, sottoposti allo stesso procedimento di mestizaje (meticciato) nel quale si trova coinvolto, volente o nolente, ogni latino-americano residente negli Stati Uniti.

La fusione di realismo e fantastico (influenzata dal realismo magico della nuova narrativa iberoamericana) su cui lavora R. Anaya (n. 1937: Tortuga, 1979), la riedizione contadina del teatro brechtiano proposta da L. Váldez (n. 1940) con il Teatro campesino, l'impiego della estampa (sketch) da parte di S. Cisneros (n. 1954: The house on Mango street, 1984), in una chiave di femminismo minimalista, sono i risultati più interessanti della l. chicana, mentre i Portoricani di New York, oltre a realizzare le potenzialità creative della contaminazione tra inglese e spagnolo (il Nuyorican Spanglish), si dedicano a caustiche provocazioni nei confronti della cultura ufficiale, per es. con la predilezione per una poesia di strada che non teme di ricorrere a riferimenti mitico-simbolici per descrivere le condizioni di vita nei quartieri-ghetto della metropoli postmoderna per eccellenza.

Di una contraddittorietà quasi irrisolvibile si nutrono gli scrittori e le scrittrici Asian-American, sottoposti alla straordinaria tensione tra una cultura di provenienza ultramillenaria e dedita al culto della gerarchia e dell'interdetto, da un lato, e dall'altro una cultura di adozione che ha fatto del presente e soprattutto del futuro il proprio orizzonte temporale, che celebra quotidianamente la propria franchezza, e che pretende di aver superato ogni problema legato alle differenze di classe.

Nello sforzo di far comunicare universi così distanti, questi autori sono riusciti nella difficile impresa di destrutturare gli stereotipi che dominano nell'uno e nell'altro mondo, condizionando la percezione di sé e degli altri. È grazie a personalità come i sinoamericani M. Hong Kingston (n. 1940: Tripmaster monkey, 1989) e D.H. Hwang (n. 1957; uno dei più importanti autori di teatro degli ultimi anni, rivelatosi con quel capolavoro d'ambiguità anche sessuale che è M. Butterfly, 1988) - ma non andrebbero ignorate nemmeno le voci delle comunità giapponese, filippina e coreana - che il pubblico statunitense ha dovuto rivedere a fondo i presupposti e le conseguenze del proprio atteggiamento nei confronti delle minoranze d'origine asiatica, specchiandosi nell'ironico riflesso che la decostruzione dell'immagine dell'altro gli rimanda.

È del resto tratto distintivo dell'estetica postmoderna quello di un'ironia che sorge dalla consapevolezza (vera o presunta) che il sé è stato ormai smantellato dal rifrangersi senza fine di immagini di cui si è smarrita l'origine. Paradossalmente (ma anche il paradosso è un segno dei tempi) questo tipo particolare d'ironia caratterizza in maniera profonda la scrittura degli Ebrei d'America, appartenenti a quel popolo che più dolorosamente di qualsiasi altro ha vissuto l'esperienza della cancellazione dell'identità. Forse, proprio l'indicibilità di un'esperienza che si vorrebbe irreale, e di cui si è obbligati a difendere la realtà di fronte alle ipotesi revisioniste che intenderebbero negarla, porta alla scelta del modo ironico come unico filtro che possa dire senza dire, distanziando colui che parla/scrive dall'oggetto rappresentato nella scrittura.

Di qui l'insieme di tratti che dà immediata riconoscibilità all'opera di questi scrittori: il sorriso amaro di S. Bellow (n. 1915), ancora capace di sublime leggerezza in The Bellarosa connection (1989); il sarcasmo apocalittico dell'ultimo B. Malamud (1914-1986) in God's grace (1982); il proteismo autocritico di Ph. Roth (n. 1933), che gioca con la maschera del suo doppio, N. Zuckermann, fingendo un'irresponsabilità che nasconde ben altro; la magia comica di I.B. Singer (1904-1991; premio Nobel per la letteratura nel 1978), continuatore della tradizione letteraria in lingua yiddish; e poi l'humour sofferto e leggero di H. Gold (n. 1924) e quello duro e nero di J. Heller (n. 1923) e S. Elkin (n. 1930). L'orrore dell'olocausto torna però con tutto il suo lutto impossibile da elaborare nei racconti di C. Ozick (n. 1928: The shawl, 1989) e resta sullo sfondo come fattore fondamentale della costruzione dell'identità ebraica contemporanea anche nell'opera di autori che meno sembrano disposti a caratterizzarsi, in primo luogo, in senso etnico-religioso, quali E.L. Doctorow, G. Paley, A. Ginsberg, A. Hecht, K. Shapiro. Al contrario, l'ebraismo di H. Roth (1906-1995) riemerge con toni quasi propagandisticamente filoisraeliani nell'autobiografica esalogia Mercy of a rude stream, che ha iniziato le sue apparizioni in libreria nel 1994 e le proseguirà da romanzo postumo.

La complessità della scena letteraria statunitense contemporanea è dunque in perenne tensione tra la fascinazione per le sirene del mercato o dei mass media e l'orgogliosa rivendicazione di una specificità estetica tuttora intatta, tra la decomposizione dei generi in frammenti privi di ogni coerenza e i progetti utopici di edificare opere enciclopediche che ancor prima di raccontare il mondo lo inventano, tra il piacere talvolta masochistico prodotto dalla confusione delle identità e la ricerca dolorosa di un radicamento in tradizioni sommerse dal rumore di fondo dell'universo della comunicazione. In essa si riflette una situazione globale in cui gli Stati Uniti sono divenuti una sorta di grande sintesi di tutte o quasi le dinamiche socioculturali che determinano il corso della storia mondiale, punto obbligatorio di riferimento per ogni previsione e profezia su quel che ci aspetta oltre il 2000. E se ormai non siamo più in grado di distinguere una chiara linea di tendenza e men che mai un movimento ben definito di qualsiasi tipo (per non parlare della continua ridiscussione su ampiezza, caratteri e soprattutto autori e testi del canone), quel che resta indiscutibile è la multiforme capacità della l. americana di registrare, celebrandoli o stigmatizzandoli, i mutamenti, superficiali o profondi che siano, che stanno ridisegnando il volto e le viscere del mondo.

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Letterature di lingua inglese. Canada

di Valerio Massimo De Angelis

Nell'ultimo terzo di secolo, il dibattito sull'identità culturale e letteraria del Canada si è sviluppato seguendo, o viceversa combattendo, le linee interpretative tracciate dal più influente intellettuale canadese, N. Frye (1912-1991), soprattutto nei saggi raccolti in The bush garden (1971) e in Divisions on a ground (1982). Fra queste si poneva la centralità del rapporto con la natura: spazio della purezza incontaminata, luogo mitico ove fondare un'Arcadia altrove impossibile, anche quando essa si presen- ta come ostile wilderness (letteralmente "luogo desolato e selvaggio"). Già nel 1972, in Survival: a thematic guide to Canadian literature, M. Atwood (n. 1939) ribaltava la prospettiva pastorale di Frye recuperando e sistematizzando la nozione di garrison mentality ("mentalità da fortino") per interpretare la reazione di chi, come lo scrittore canadese, è costretto ad abbandonare i siste- mi di decifrazione e rappresentazione della realtà predisposti dalla civiltà occidentale; inadeguati, questi, a comprendere l'ambiente totalmente alieno di una sconfinata wilderness nel quale l'unica condizione possibile è quella del sopravvissuto o, viceversa, quella della vittima (nel caso in cui il soggetto non sia il colonizzatore bianco e maschio, ma la donna che volente o nolente ne segue faticosamente i passi, o l'indiano che si vede espropriato della propria terra e della propria cultura).

Il volume della Atwood giunge all'apice della prima fase del cosiddetto Rinascimento canadese, caratterizzata da un'estrema varietà e ricchezza di aperture tematiche e formali tanto nell'ambito della poesia quanto in quello della prosa.

In campo poetico, la stessa Atwood, A. Purdy (n.1918), R. Kroetsch (n. 1927), L. Cohen (n. 1934), G. Bowering (n. 1935) e M. Ondaatje (n. 1943) sovrappongono a un interesse comunque costante per il mondo naturale (ora attraversato da una più moderna preoccupazione ecologista) l'impegno politico per i diritti civili e la difesa delle minoranze, l'attenzione alla cultura popolare e di massa, il recupero delle tradizioni orali indiane, il tutto mediante un uso spregiudicato della parola poetica, che raggiunge le sue punte estreme con l'opera di bp nichol (propr. Barrie Phillip Nichol, 1944-1988; la scelta delle iniziali minuscole tradisce, nell'attenzione per la forma grafica, il debito nei confronti di E.E. Cummings). Nel corso degli anni Ottanta la dimensione del multiculturalismo assume una rilevanza ancora maggiore, e si esplica pienamente grazie alle voci degli indiani B. Abel (n. 1938), G. Kenny (n. 1952) e D. Redbird (n. 1939), dell'ebreo E. Mandel (n. 1922), della italo-canadese M. Di Michele (n. 1949), della viet-canadese Thuong Vuong-Riddick (n. 1940).

È tuttavia nella narrativa che meglio sembra esprimersi il nuovo senso dell'identità collettiva canadese, e non è casuale che molti degli scrittori appena nominati, dopo aver esordito in qualità di poeti, si siano dedicati soprattutto alla prosa, contribuendo a gettare le basi per la successiva evoluzione del romanzo postmoderno canadese, soprattutto per quanto concerne lo sperimentalismo linguistico: basti ricordare il Cohen di The favourite game (1963), il Bowering di A mirror on the floor (1967) e il Kroetsch di Badlands (1975). Gli anni Sessanta e Settanta segnano anche il momento in cui la letteratura femminile assume un ruolo di primo piano, giungendo persino a identificare nella condizione femminile una metafora più generale dell'identità canadese grazie all'opera dell'onnipresente Atwood, che in Alias Grace (1996) ha proseguito la sua esplorazione della situazione esistenziale della donna canadese impiegando lo strumento investigativo del romanzo storico-poliziesco.

M. Laurence (1926-1987) regionalizza la questione femminile ambientando i suoi primi romanzi nell'immaginaria cittadina di Manawaka, ma poi sceglie la strada della narrativa per l'infanzia (genere che in Canada ha una lunga e insigne tradizione), come in The Christmas birthday story (1980). A. Munro (n. 1931) tesse una sottile rete di interrelazioni tra lo 'spirito del luogo' e il difficile processo di emancipazione delle donne dalla cultura patriarcale (si veda la raccolta di racconti The moons of Jupiter, 1982). M. Gallant (n. 1922) si dedica soprattutto alla narrativa breve, e ricorre con frequenza all'alternanza dei punti di vista per mostrare la frammentarietà dell'esperienza nell'era dell'alienazione. Numerose sono infine le figure che, giunte alla ribalta nel corso degli anni Novanta, hanno conquistato un ruolo di assoluta preminenza, come C. Shields (n. 1935), N. Huston (n. 1953) e A.-M. MacDonald (n. 1958).

Un altro fattore che caratterizza la produzione narrativa anglocanadese contemporanea è l'impiego del linguaggio mitico. Di fronte alla difficoltà di individuare fondamenti sicuri su cui erigere la costruzione della propria identità, Kroetsch fa appello alle potenzialità simboliche del mito per trovare un qualche principio di unità e coerenza narrativa (si veda What the crow said, 1978), ma riesce solo a raggiungere la consapevolezza che l'unica funzione possibile per lo scrittore è quella del trickster (altra figura del mito assai viva nella tradizione indiana), il burlone-stregone, o burattinaio come in The puppeteer (1992), che gioca con la realtà per non esserne sconfitto. Il mito, del resto, serve non solo a scardinare metodi di riproduzione mimetica della realtà che ormai non hanno più grande utilità, ma anche e soprattutto ad affrontare il problema della rappresentazione e dell'interpretazione di un'esperienza storica costellata di paradossi e contraddizioni, e sempre - finora - descritta secondo un'unica prospettiva, quella dei colonizzatori anglo-francesi.

Bowering impiega tutti i procedimenti della narrativa postmoderna (pastiche di materiali decontestualizzati, ibridazione dei linguaggi, dismissione del confine tra fatto e finzione e tra originale e copia) per erigere attorno alla figura fondante del capitano George Vancouver, in Burning water (1980), una sorta di monumento funebre al romanzo storico tradizionale. Tecniche analoghe, anche se meno radicali, si ritrovano in The wars (1977) e Famous last words (1981) di T. Findley (n. 1930), romanzi sulle due guerre mondiali segnati da una profonda coscienza etica. R. Wiebe (n. 1934) insiste sui margini della storia ufficiale, salvando dall'anonimato o dalle mistificazioni dell'ideologia dominante le storie della minoranza mennonita e soprattutto degli Indiani (The temptations of Big Bear, 1973) o dei meticci (The scorched-wood people, 1977). J. Hodgins (n. 1938) opta invece per un registro decisamente comico in The invention of the world (1977) e The resurrection of Joseph Bourne (1979), esempi di romanzi locali (il mondo rappresentato è sempre e solo quello dell'isola di Vancouver) che sfuggono però a ogni provincialismo, in linea con una tendenza tipica della letteratura canadese recente.

L'emergere delle minoranze etniche ha condotto a una ricchissima produzione narrativa, tutta diretta a rivendicare la dignità della differenza, il cui riconoscimento deve essere il primo passo verso una reale comunicazione e una positiva contaminazione interetnica. Dall'indiano B. Johnston (n. 1929) all'eschimese P. Markoosie (n. 1942), e dalla nippo-canadese J. Kogawa (n. 1935) alla nativa del Bengala Bh. Mukherjee (n. 1940) e all'italo-canadese N. Ricci (n. 1959), il tema dell'integrazione è vissuto a partire da un senso di displacement (termine che evoca lo spiazzamento di chi subisce l'esperienza della separazione dal luogo di origine), cui segue non tanto l'accettazione o il rifiuto della cultura dominante quanto la richiesta a essa rivolta di modificarsi in modo da poter accogliere e far interagire identità così distanti tra loro. Si tratta di un tentativo che trova in M. Ondaatje, nato a Colombo (Ceylon) ed educato in Gran Bretagna, un interprete di fama ormai mondiale, capace di rappresentare nei suoi personaggi (il bandito-bambino Billy the Kid di The collected works of Billy the Kid, 1970; il jazzista nero Buddy Bolden di Coming through slaughter, 1976; il misterioso soldato ferito di The English patient, 1992) una condizione di irriducibile diversità che sembra accomunare, alla fine del secondo millennio, ogni abitante del mondo.

La scena teatrale, dominata per decenni dalla personalità di R. Davies (n. 1913), offre per tutti gli anni Settanta le radicali sperimentazioni collettive del 'teatro alternativo', ma si dedica anche al recupero di un realismo scenico che nel teatro canadese non si era mai imposto con la forza del teatro borghese europeo. È il caso della produzione comico-grottesca di E. Nicol (n. 1919), della drammaturgia femminista di Sh. Pollock (n. 1936), M. Hollingsworth (n. 1940), C. Bolt (n. 1941) ed E. Ritter (n. 1948), del teatro impegnato di D. French (n. 1939), D. Freeman (n. 1945) e D. Fennario (n. 1947). Più audace nelle sperimentazioni formali, R. Salutin (n. 1942) è anche più franco nelle prese di posizioni politiche. Una tendenza importante è quella programmaticamente omosessuale, che ha il suo miglior esponente nel québécois M. Tremblay (n. 1942). Nel corso degli anni Ottanta e Novanta il 'teatro alternativo' si è ulteriormente estremizzato, assumendo la denominazione di fringe ("margine") e contraddistinguendosi per l'audacia delle sperimentazioni con i nuovi media e per l'enfasi metateatrale.

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Letterature di lingua inglese. Australia

di Maria Stella

Negli ultimi quindici anni la storia della cultura australiana è storia di un progressivo ma mai definitivo distacco dalla cultura europea, e di un ricentramento problematico su di sé come ponte naturale, culturale e politico tra l'Asia, l'America e il vecchio continente. A ridefinire l'identità australiana, con i suoi caratteri plurilinguistici e multiculturali, contribuiscono due movimenti essenziali e complementari. Il primo consiste nella progressiva assunzione, da parte della cultura anglosassone dominante, di una posizione debole, di una prospettiva 'dai margini', che viene considerata significativa sia in se stessa, sia in quanto capace di fornire un'ottica nuova e necessaria all'intera nazione.

Muovono in questa direzione sia il narratore partecipe e pieno di sensi di colpa dei romanzi di Th. Keneally (n. 1935: The playmaker, 1987; Women of the Inner Sea, 1992; A River Town, 1995), sia i narratori outsiders e inetti dei racconti di F. Moorhouse (n. 1938: Selected stories, 1982; Forty seventeen, 1988; Late shows, 1990), sia quelli inattendibili di uno scrittore come D. Malouf (n. 1934: Johnno, 1975; Antipodes, 1985), autore anche di drammi e di poesie (Poems 1959-89, 1992). La fiction di quest'ultimo, inoltre, prospetta un'ulteriore relativizzazione del punto di vista bianco, del concetto di verità, del senso della storia internazionale e locale (Fly away Peter, 1982; Harland's half acre, 1984; The great world, 1990; Remembering Babylon, 1993). Anche nei racconti di M. Wilding (n. 1942: The man of slow feeling: selected short stories, 1985; Under Saturn: four stories, 1988; Great climate, 1990) e nell'ampia produzione narrativa di P. Carey (n. 1943: War crimes, 1979; Oscar and Lucinda, 1988; Collected stories, 1994; Jack Maggs, 1997) un elemento ossessivo e surreale deforma la realtà, smitizza la storia svelandola come finzione e gioco: un realismo mitico, dal passo veloce e allusivo, si sostituisce alla tradizionale narrativa documentaria, rinnovandone le percezioni.

Il secondo movimento è costituito invece dall'autonoma rivendicazione di centralità da parte di chi finora proprio i margini occupava, e quindi dall'emergere dei temi e delle forme della 'aboriginalità' nella l. degli autori della prima generazione: J. Davis (n. 1917: Jagardoo, 1978; John Pat and other poems, 1988), Oodgeroo Noonuccal (nome aborigeno assunto dalla scrittrice K. Walker, 1920-1993: My people: a Kath Walker collection, 1970; Master of the ghost dreaming, 1991) e K. Gilbert (1933-1993: The blackside, 1990), autore anche di un famoso testo di storia orale e interviste (Living black: blacks talk to Kevin Gilbert, 1984).

Al prevalere dei temi dell'impegno politico e della denuncia, di un'idea della poesia come azione nella prima produzione poetica di Noonuccal e di Davis, segue una più intensa ricerca ritmico-formale che, coinvolgendo varie fonti orali, musicali e mimiche, approda a un linguaggio espressivo originale, lontano dalle convenzioni occidentali. Anche nel teatro (si vedano i drammi dello stesso Davis: No sugar, 1986; Barungin, 1989), attraverso il richiamo al canto, al rito e al mito, l'azione drammatica si riverbera sul pubblico con una capacità di coinvolgimento estranea alla tradizione europea. Mudrooroo Narogin (nome aborigeno assunto da C. Johnson, n. 1938), poeta, saggista (Writing from the fringe, 1990) e romanziere (Doin Wildcat. A novel Koori script, 1988), unisce a una visione essenzialmente tragica e pessimista dei rapporti sociali una capacità di rielaborare il romanzo storico in vari contesti, attraverso l'uso di un inglese fortemente commisto di elementi aborigeni. A forme linguistiche più difficili, stranianti e autoreferenziali, ricorre invece il più giovane L. Fogarty (n. 1958: Kudjela, 1983; Nguti, 1984), che aspira a ricollocare al centro della poesia il discorso aborigeno. A. Weller (noto anche con lo pseudonimo di R. Chee, n. 1958: The day of the dog, 1981) preferirà concentrarsi, nei suoi romanzi, sulla realtà metropolitana in toni più cupi e scettici, mentre nei racconti Going home (1986) mette a fuoco le culture giovanili aborigene. Alla ricostruzione globale di una storia familiare, su più generazioni e attraverso deposizioni in lingue e forme diverse, approdano i romanzi di S. Morgan (n. 1951: My place, 1987; Danamurragany, 1989), il cui lavoro s'inserisce in un fitto tessuto letterario femminile aborigeno.

Sulla tendenza recente a situare pienamente l'Australia nell'ambito dei paesi appartenenti alla sfera pacifico-asiatica, aprendola ai loro influssi culturali - come nell'opera di B. D'Alpuget (n. 1930: Turtle beach, 1981), C.J. Koch (n. 1932: The year of living dangerously, 1978; Highways to war, 1995) e T. Maniaty (n. 1949: The children must dance, 1984; All over the shop, 1993) -, influiscono sicuramente le tradizioni della narrativa di viaggio e di quella di guerra, tradizioni che negli ultimi anni si sono venute ridefinendo secondo nuove coordinate.

Connotazioni fanta-politico-religiose sono percepibili nei viaggi italiani del cattolico M. West (n. 1916: Vatican trilogy, 1963-90; Lazarus, 1990; Vanishing point, 1996), mentre caratteristiche legate alla problematica di gender emergono nella narrativa d'espatrio di J. Anderson (n. 1916: Tirra Lirra by the river, 1978; Stories from the warm zone and Sydney stories, 1987). Note ironiche e malinconiche sono riscontrabili nella narrativa autoriflessiva e postmodernista di M. Bail (n. 1941: Homesickness, 1980; The drover's wife and other stories, 1986; Holden's performance, 1987), focalizzata sul mitizzato turismo europeo. Nei racconti e nei romanzi di Sh. Hazzard (n. 1931: The transit of Venus, 1980) analisi d'ambiente e notazioni di costume cosmopolite si fondono a un'idea del viaggio come scoperta di nuovi territori interiori. Anche la narrativa di guerra, legata a quello stesso rinnovato interesse per la storia che si percepisce nella l. drammatica, assume valenze diverse: Th. Keneally (Schindler's ark, 1982, poi col tit. Schindler's list, 1994, da cui è stato tratto l'omonimo film di S. Spielberg; Acts of Grace, 1988; Chief of staff, 1991) ripropone un gusto dell'avventura e del melodramma tipicamente australiano, già espresso nei romanzi di ambiente locale. In R. Hall (n. 1935: Kisses of the enemy, 1987) la guerra è ricca di riverberi fantapolitici e risente del trattamento ironico-satirico che l'autore riserva anche altrove ai suoi temi e al suo lettore (Just relations, 1982; Captivity captive, 1988).

La narrativa australiana, come già la ballata ottocentesca da cui nasce, rivela una caratteristica oscillazione tra realismo e romance, una compresenza di elementi elegiaci e grotteschi, ben esemplificata nell'ultima produzione del maestro P. White (1912-1990: Memoirs of many in one, 1986; Three uneasy pieces, 1987). Partecipazione e distacco si rendono percepibili sia nelle forme soggettive dell'autobiografia, del diario, del romanzo di formazione (dove la costruzione dell'identità individuale diventa metafora del più vasto processo di acquisizione di quella nazionale e collettiva), sia nelle storie corali di famiglie e comunità periferiche e/o metropolitane.

Il romanzo femminile accentua l'assunzione di prospettive poco convenzionali, trasgressive e dal basso: uno sguardo infantile privo di sentimentalismi in O. Masters (1919-1986: A long time dying, 1985; Amy's children, 1987; The rose fancier, 1988) e in B. Hanrahan (n. 1939: Kewpie doll, 1984; Chelsea girl, 1989); un approccio autobiografico, non eroico e dichiaratamente omosessuale in E. Jolley (n. 1923: The newspaper of Claremont Street, 1981; Palomino, 1987; The sugar mother, 1988; My Father's moon, 1989), le cui protagoniste si sentono esiliate nel tempo e nello spazio. Lo sguardo solitario, ironico e paradossale di Th. Astley (n. 1925: It's raining in Mango, 1987; Reaching tin river, 1990; Vanishing points, 1992; Coda, 1994) indaga la realtà dei deboli e degli emarginati, donne, bambini, aborigeni e outsiders, mentre sulle degradate abitanti delle periferie metropolitane si concentra la rappresentazione di H. Garner (n. 1942: The children's Bach, 1984; Postcards from surfers, 1985; Cosmo Cosmolino, 1992). Una ricerca di nuovi ritmi e motivi costruttivi, che scandiscano quasi musicalmente la narrazione mentre i toni della commedia si affiancano a quelli del gotico e dell'assurdo, si riscontra in E. Riley (n. 1945: All that false instruction, 1975) e in B. Farmer (n. 1941: Alone, 1980; Place of birth, 1990). Nei racconti e nei romanzi di K. Grenville (n. 1951: Bearded ladies, 1984; Joan makes history, 1988; Dark places, 1994), donne marginali si ricollocano al centro della propria vita scrivendo dei desideri e delle frustrazioni dei loro corpi.

L'emergere di problematiche legate all'industrializzazione, allo sviluppo tecnologico e al maturare di una coscienza ecologica rafforza l'antica ambivalenza nei confronti di una natura di cui non si vede più solo l'esuberanza o la sfida, ma lo svuotamento e la perdita. Priva della presenza essenziale della cultura aborigena, la natura appare minacciata nella sua stessa sopravvivenza, com'è evidente sia nella narrativa più cupa e pessimista di J. McQueen (n. 1934: The clocks of death, 1990-92; Travels with Michael and me: stories from the outback and beyond, 1992), dove alla distruzione del mondo naturale s'accompagna la disintegrazione dell'io e del senso della storia, sia nei romanzi di T. Winton (n. 1960: An open swimmer, 1982; That eye, the sky, 1986; In the winter dark, 1988; Cloudstreet, 1991; The riders, 1995), in cui il discorso sulla realtà naturale introduce metaforicamente una riflessione sulla libertà, sui legami generazionali, sulla formazione spirituale. Frammentarietà e sovversione della linearità romanzesca caratterizzano il lavoro dell'arrabbiato e prolifico D. Ireland (n. 1927: City of women, 1981; Archimedes and the seagle, 1984; Bloodfather, 1987) e di P. Mathers (n. 1931: A change for the better, 1984), autori in cui una dimensione visionaria e sperimentale della scrittura investe le tematiche tradizionali.

Mentre la forma del racconto, lungamente saggiata fin dalle origini, continua a prestarsi all'inclusione dei temi e delle sperimentazioni più varie, sul versante delle forme letterarie di massa il thriller e la detective story sembrano rinunciare agli armamentari complessi e alle violenze esasperate dei modelli americani per concentrarsi piuttosto sul piccolo orrore quotidiano, anche in questo riprendendo la tradizionale rappresentazione australiana della violenza come implicita in tutte le istituzioni, anche le più rassicuranti.

Si acuisce l'ambivalenza nei confronti della lingua inglese, da un lato incapace di rendere conto della complessità linguistica del continente (le lingue aborigene, innanzitutto, ma anche quelle asiatiche ed europee), dall'altro strumento insostituibile per un approfondimento autentico e per la mediazione con altre culture (si pensi al romanzo Oh, lucky country, 1984, dell'italiana R.R. Cappiello). Duplice anche il rapporto con la tradizione poetica, di cui si riutilizzano le forme chiuse (la strofa, la rima, il blank verse e i metri regolari) in funzione di rassicurante raccordo col passato, ma in cui insieme si ricercano scansioni ritmiche e simboliche diverse, richiamandosi da un lato a una rinnovata visionarietà romantica o a una metafisica modernista, dall'altro a un'estetica postmoderna dove convivono più linguaggi, da quello dell'oralità a quello dei media e dell'immagine.

La produzione poetica di D. Malouf e L.A. Murray (n. 1938), sebbene aperta agli influssi americani ed europei (da Th.S. Eliot a E. Pound, da D. Thomas a W. Stevens), non si spiegherebbe senza la lezione autoctona di A.D. Hope, D. Campbell, F. Webb, J. McAuley, D. Stewart, dove tragedia e satira, surrealismo e realismo, natura e storia convivono e si intrecciano. Sia pur privo di idealizzazioni e valenze salvifiche e costantemente affiancato da citazioni da altre e più vicine culture, anche il mondo della classicità è presenza facilmente riconoscibile in poesie e romanzi (basti pensare a Malouf, che dà ai suoi protagonisti nomi come Ovidio o Dante, immettendoli all'interno di una concezione dichiaratamente filosofica e speculativa del romanzo).

Il teatro, più degli altri generi, ha risentito della dispersione dell'audience, delle grandi distanze, dell'inadeguatezza della scena tradizionale a convogliare il particolare senso del sublime, del mito e della commedia incarnato dai laconici eroi del bush. Solo negli anni Sessanta e Settanta si avviava la cosiddetta new wave teatrale, legata al La Mama di Sydney e al Ram Factory di Melbourne: una lezione di autoironia, vis comica e tecnica drammatica, che si colora di maggiore impegno nella produzione successiva degli stessi autori e in quella della generazione nata negli anni Cinquanta.

La struttura episodica cabarettistica ereditata dagli esperimenti degli anni Sessanta - fatta di sequenze brevi continue, miste di monologhi, musiche, dialoghi - si adatta bene alla serrata critica del mondo accademico, legale e dello spettacolo che D. Williamson (n. 1942) continua a mettere in scena (Don's party, 1973; Emerald City, 1987; Top silk, 1989; Siren, 1990). Effetti analoghi, anche attraverso un sistema di citazioni metateatrali, da Eschilo a Shakespeare, e più ampi riferimenti alla storia, ottiene M. Gow (n. 1955: Away, 1986; Europe, 1987; On top of the world, 1987; 1841, 1988); mentre S. Sewell (1953-1991: Welcome the bright world, 1982; Dreams in an empty city, 1986; Hate, 1989; Sisters, 1991) dinamizza il proprio linguaggio scenico sul confronto con i testi classici, e lo misura con i recenti e drammatici eventi della storia dell'Europa Orientale. Al blocco della parola, al preverbale, punta la riflessione teatrale di L. Nowra (n. 1950: Inner voices, 1977; The precious woman, 1981; The golden age, 1985), che usa maschere, straniamenti brechtiani e tecniche della drammaturgia orientale. Notevole per varietà e spigliatezza stilistica è la produzione della drammaturga D. Hewett (n. 1923: The man from Mukinupin, 1979; The fields of heaven, 1983), in cui l'osservazione sociale e femminista si salda a contaminazioni formali che prevedono l'uso ripetuto del musical e del teatro nel teatro. In seguito, la Hewett si è dedicata anche alla scrittura autobiografica e poetica (Wild card, 1990; Alice in Wormland, 1990).

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Letterature di lingua inglese. Nuova Zelanda

di Maria Stella

Il panorama letterario neozelandese appare segnato sia in prosa sia in poesia da un'ineliminabile, costitutiva tensione tra prospettiva locale e influsso internazionale, voce individuale e storia collettiva, concretezza e metapoesia, visione e narrazione. Legata negli anni Sessanta ai modelli americani della open form, del confessionalismo, della cultura beat e popolare, della performance orale, la poesia neozelandese aveva assunto negli anni Ottanta un'ulteriore configurazione in senso metanarrativo e fantastico, sull'onda del postmoderno americano, ma anche di un evidente influsso delle poetiche di Borges, Calvino, Beckett. Si precisavano inoltre le linee di influenza interne dei due massimi poeti neozelandesi, lo sperimentatore 'modernista' A. Curnow (n. 1911) e il profeta 'romantico' J.K. Baxter (1926-1972). L'internazionalizzarsi delle prospettive, l'incrociarsi multimediale delle forme e dei generi, l'acuita consapevolezza del relativo, dell'effimero e del marginale, l'emergenza delle nuove voci della poesia femminile e di quella in lingua maori rendono inutilizzabili e irriconoscibili i modelli esterni e obbligano a considerare con maggiore fedeltà oscillazioni e sfumature.

Vicine all'interiorizzazione baxteriana, permeate da un senso di svuotamento e di perdita, appaiono le produzioni di L. Johnson (1924-1988) e di A. Campbell, poeta di discendenza mista, scozzese-maori (n. 1925: Collected poems, 1947-1981, 1981; Stone rain. The Polinesian strain, 1992). L'opera di K. Smithyman (n. 1922: Selected poems, 1989; Auto/Biographies, 1992) è caratterizzata da stilizzati giochi verbali, astrazione e tecnicismo. A Curnow, alla sua oscillazione tra approfondimento della scena locale e fascinazione per il tema internazionale, si rifanno, oltre a H. Witheford (n. 1921), i poeti nati negli anni Trenta, tra cui da ricordare gli espatriati K. Ireland (n. 1933: Selected poems, 1987) e F. Adcock (n. 1934: Selected poems, 1983; Time-Zones, 1991; Looking back, 1997), che da anni vive e pubblica in Inghilterra, esprimendo tuttavia il disagio di una mai raggiunta coincidenza con la cultura d'approdo, di una non-appartenenza metafisica. Tra i poeti che restano c'è chi come B. Turner (n. 1944: Beyond, 1992) si isola nel sofisticato primitivismo regionale di una poesia naturale e metafisica; chi come M. Jackson (n. 1940: Duty free: selected poems 1965-88, 1989; Skinning a fish, 1994) coltiva forme insolite come la lirica di viaggio; mentre acquista grande notorietà per le sue letture pubbliche in tutto il paese S. Hunt (n. 1946: Collected poems 1963-80, 1980).

Capaci di coniugare parole e cose, poesia di immagini e di concetti, sperimentalismo e realismo, sono altri poeti nati negli anni Quaranta. I. Wedde (n. 1946: Tendering: new poems, 1988), sperimentatore in metro libero e sonetti, maestro nei toni lirici dimessi e colloquiali come in quelli alti, è anche autore di un romanzo avventuroso sulla marineria nell'isola (Symmes hole, 1986) e di un fortunato 'romanzo popolare' (The drummer, 1993). Nelle liriche brevi e intense di B. Manhire (n. 1946: Milky way bar, 1991), l'orizzonte della quotidianità è attraversato da improvvisi squarci surreali. Tra i più giovani, G. O'Brien (n. 1961: Days beside water, 1993) si concentra sui legami con la famiglia, l'arte, la religione cattolica; mentre la poesia di J. Bornholdt (n. 1960: This big face, 1988; How we met, 1995) si caratterizza per la sua dimensione autoironica. Molte le voci femminili: dall'io diviso di L. Edmond (n. 1924: Collected poems, 1994) all'impalpabile io lirico di J. Kemp (n. 1949); dall'intensità emotiva di R. McAlpine (n. 1940: Selected poems, 1988) al wit reticente di E. Smithers (n. 1941: The Tudor Style: poems, new and selected, 1993); dall'ironica intermedialità di C. McQueen (n. 1949: Crickey: new and selected poems 1978-94, 1994) al conflitto di gender nei versi di A. French (n. 1956: The male as evader, 1988; Seven days on Mykonos, 1993). Altrettanto innovativo da un punto di vista linguistico e ritmico appare il contributo della poesia maori, con l'intensa lezione di H. Tuwhare (n. 1922: Mihi: collected poems, 1987; Short back and sideways: poems and prose, 1992), che riprende nel grigio contesto dell'urbanizzazione proletaria le antiche forme del tangi (lamento funebre); non meno interessante il lavoro sulla memoria poetica di K. Hulme (n. 1947: Strands, 1991), autrice anche di romanzi (The bone people, 1983).

La divisione netta tra realismo locale e postmodernismo americano, già evidenziata nei racconti di O. Marshall (n. 1941: The divided world: selected stories, 1989), si stempera nelle storie del più giovane R. Haley (n. 1961: Beside myself, 1990), caratterizzate da risvolti metanarrativi e humour. Il provincialismo e la grettezza materialista e puritana dell'isola vengono denunciati da Haley nei toni graffianti di una satira che investe ogni forma di compromesso e non risparmia il narratore stesso. Isolamento e ripiegamento sulle proprie radici, anziché dare sicurezza, svelano la precarietà della propria collocazione.

Mentre la narrativa di J. Frame (n. 1924) volge verso le angosce fantascientifiche di The Carpathians (1988), l'interesse per l'horror e la detective story, delineatosi nei romanzi di R.H. Morrieson (1922-1972) negli anni Sessanta, si accentua nella narrativa di M. Gee (n. 1931: The crime story, 1994), che in precedenza aveva privilegiato la storia locale con la trilogia sulle vicende di una famiglia neozelandese (Plumb, 1978). Le forme del conflitto interculturale vengono riprese in chiave tragicomica da M. Shadbolt (n. 1932), sia nei racconti The New Zealanders (1959), sia nei tre romanzi (Season of the Jew, 1986; Monday's warriors, 1990; The house of strife, 1993) centrati sulla narrazione delle guerre ottocentesche tra coloni pakeha ("europei") e Maori. Anche C.K. Stead (n. 1932: In the glass case, 1981; Answering to the language, 1989), la cui limpida prosa critico-letteraria è nota a livello internazionale, ha scritto un romanzo storico sulla spoliazione delle terre maori, The singing Whakapapa (1994). Nella complessa situazione presente, la storia deve tuttavia fare i conti con l'uso politico della testimonianza e la dimensione utopica e didattica della scrittura. Il contributo delle scrittrici appare determinante per illuminare zone ancora oscure della coscienza e della vita sociale. Sui problemi e sui condizionamenti delle comunità familiari e religiose indagano scrittrici come B. Anderson (n. 1926: All the nice girls, 1992), F. Kidman (n. 1940: True stars, 1990) e E. Knox (n. 1959: Treasure, 1992). Sui rapporti interrazziali si concentra S. McCauley (n. 1941: Bad music, 1990), mentre all'infanzia sono dedicati i romanzi di N. Virtue (n. 1947: The redemption of Elsdon Bird, 1987; In the country of salvation, 1990).

Divenuti fin dalla fine degli anni Settanta soggetti della loro stessa narrazione, e non più solo oggetto di osservazione da parte del narratore pakeha, gli scrittori maori contribuiscono a definire e dinamizzare il quadro culturale e letterario, sia attraverso una consapevole ripresa politica della tradizione in lingua maori, essenzialmente orale, sacrale, performativa, quasi estinta attorno agli anni Venti per l'imposizione dell'inglese, sia restituendo visibilità a una l. maori in lingua inglese, rimasta a lungo sommersa e oggi sempre più consapevole di muoversi in un contesto multiculturale polinesiano.

La vivace ricezione dell'opera di J.C. Strum (n. 1927) e di D. Awatere (n. 1930: Maori sovereignty, 1984), il successo del duro romanzo di A. Duff (n. 1950: Once were warriors, 1990) e della saggistica rivoluzionaria di R. Walker (n. 1932: Struggle without end, 1990) rivelano all'inizio degli anni Novanta una tradizione politico-letteraria sempre più consapevole di sé, rispetto alle prime voci emerse negli anni Settanta dalla forzata immigrazione in città, con i racconti e i romanzi brevi di W. Ihimaera (n. 1944: Pounamou, Pounamou, 1972; Tangi, 1973; Whanau, 1974) e di P. Grace (n. 1937: Mutuwhenua: the moon sleeps, 1978; Potiki, 1986).

In brillante ripresa appare il teatro. Già nel contesto multimediale degli anni Ottanta si era rinnovata la fortuna di quelle forme 'minori' che avevano connotato lo sviluppo del genere: i drammi poetici nei modi di Curnow e Baxter, gli atti unici alla J. Mulgan (1911-1945), i radiodrammi di J. Musaphia (n. 1935: The hangman, 1978; Mates, 1986), la commedia leggera d'impegno sociale di R. Hall (n. 1939) e di P. Bland (n. 1934). G. McGee (n. 1959: Out in the cold, 1984) si rivela capace di inscenare con leggerezza i conflitti più acuti della società contemporanea. L'impegno politico su problematiche interrazziali e di gender, che fin dagli anni Sessanta si poteva leggere nel teatro itinerante di B. Mason (1921-1982), si ripropone nel teatro d'investigazione storica di V. O'Sullivan (n. 1937: Shuriken, 1985; Billy, 1990), che muove nella stessa direzione conoscitiva. Continuano a essere rappresentati con successo i drammi femministi di Renée (n. 1929: la trilogia Wednesday to come, 1984).

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Verso gli antipodi. Le nuove letterature di lingua inglese: India, Australia, Nuova Zelanda, a cura di A. Lombardo, Roma 1995.

Letterature di lingua inglese. L'area caribica

di Maria Stella

Fin dalle prime rappresentazioni nella narrativa degli schiavi liberati tra la fine del Settecento e gli inizi dell'Ottocento, le Indie Occidentali (Guiana, Trinidad, Giamaica, Barbados e isole minori) si configurano come un contesto estremamente diversificato, dove alle provenienze da vari paesi africani si uniscono quelle minoritarie, ma non meno influenti, dall'India, dalla Cina e dalle culture amerindie. Vi si aggiungono nel tempo le contaminazioni 'esterne', legate alla presenza dell'intera gamma della colonizzazione euro-americana e ai contatti sempre più frequenti con le culture dei vari paesi d'origine. Nella stratificata memoria caribica molteplici forme linguistiche, artistico-espressive, religiose e culturali coesistono con la terribile omologazione della schiavitù e della dominazione politica.

Attraverso il lungo, combattivo percorso dell'Ottocento, ricco di volontà di riscatto dalla colonizzazione sia sul piano politico-sociale sia sul piano espressivo e dell'immaginario, arrivano le prime voci novecentesche, tra cui quella di C. McKay (1890-1948), poliedrico precursore di tutta la narrativa e poesia caribica, e quelle, di poco posteriori, delle poetesse giamaicane U. Mason (1905-1965) e L. Bennett (n. 1919: Selected poems, 1982), entrambe consapevoli della capacità di coinvolgimento, anche politico, di una parola dalla forte dimensione teatrale, musicale, religiosa e comico-dissacratoria. Da queste lezioni transitano nella l. successiva una feconda commistione di generi e gender, necessaria per restituire una realtà ricca di conflitti e di contraddizioni, e un uso della parola (orale, scritta, recitata) come azione, che sarà enfatizzato anche dai prosatori.

La giovinezza della l. caribica fa sì che le generazioni e le loro innovazioni convivano e interagiscano produttivamente anziché succedersi. Già negli anni Cinquanta, R. Mais (1905-1955: Black lightning, 1955) aveva rielaborato strutture complesse derivate dalla musica e dalle religioni africane, dalla filosofia rastafariana e dalla lingua creola, per rivendicare l'autonomia della propria identità culturale, mentre A. Salkey (1928-1995) denunciava, attraverso minuziose analisi descrittive, le frustrazioni e le violenze che si accompagnano alla lotta per l'indipendenza, promuovendo una consapevolezza politica destinata a rinnovarsi nel tempo. Altri scrittori - riprendendo un'oscillazione problematica tra proprio ed estraneo che era già stata dell'Ottocento e che caratterizzerà anche l'opera delle maggiori romanziere di discendenza inglese, J. Rhys (1890-1976: The wide Sargasso Sea, 1966) e P. S. Allfrey (1915-1986: The orchid house, 1953) - sceglievano di allontanarsi dall'isola per ritornare poi a rappresentarla con la maggiore incisività data dal distacco: tendenza che era accentuata anche dalla partecipazione diretta ai drammatici eventi internazionali (depressione, guerra, decolonizzazione) e dalla più ampia consapevolezza che ne era derivata. V.S. Reid (1913-1987: The leopard, 1958) spostava sull'Africa il punto per la messa a fuoco dei conflitti locali, mentre il romanziere guianese E. Mittelholzer (1909-1965: Corentyne thunder, 1941) si concentrava dapprima su una comunità delle Indie Orientali per poter poi meglio restituire l'atmosfera soprannaturale e goticheggiante dei Caribi, in una prosa dove la percezione straniata del mondo oggettuale è importante come l'indagine introspettiva per definire il senso angoscioso di non appartenenza, scissione, alienazione (The Kaywana trilogy, 1952-58).

Tra i primi a denunciare con forza i problemi connessi all'emigrazione è stato il barbadiano G. Lamming (n. 1927) nei romanzi The emigrants (1954), The pleasures of exile (1960) e Natives of my person (1972). Nei suoi saggi (Conversations: essays, addresses and interviews 1953-1990, 1992) è vivo l'appello a un'analisi attenta delle contraddizioni della nuova società caribica indipendente, ingabbiata tra le regole distruttive e il depauperamento culturale indotto dall'occidentalizzazione e dal capitalismo. Nella sua produzione più recente, S. Selvon (n. Trinidad 1923), di origini miste indo-scozzesi, vissuto prima a Londra e poi in Canada, si trasforma, da narratore ironico di storie di formazione individuali in ambienti proletari e di lente e complesse integrazioni collettive metropolitane (Moses migrating, 1983; Foreday morning: selected prose, 1989), in autore di radiodrammi (Highway in the sun, 1990), a testimonianza di una continua sperimentazione e integrazione di generi e linguaggi.

Il duplice processo, centripeto e centrifugo, di contaminazione tra culture rilevabile in questi scrittori, si era reso percepibile anche sulla scena poetica londinese degli anni Cinquanta e Sessanta, con le diverse teorizzazioni di J. Berry (n. 1924) ed E. Lucie-Smith (n. 1933), quest'ultimo recentemente impegnato anche come saggista e critico d'arte (Art today, 1995). Nel nuovo ambiente metropolitano e internazionale il poeta caribico avverte di non potersi esprimere appieno nelle rigide forme metriche inglesi: ci vogliono altri suoni, sillabe, immagini - il ritmo del calypso - per restituire la molteplice realtà delle isole. In quest'ottica E. Brathwaite (n. 1930: The arrivants, 1973; X-Self, 1987; Shar, 1990) ed E. Kwesi Johnson (n. 1952: Things an' times, 1991) si fanno convinti sostenitori di una nuova oralità poetica, la cosiddetta dub poetry, dove improvvisazione, trasgressione e reinvenzione della matrice africana del canto convivono in forme duttili e originali. Le tradizioni ritmiche, musicali, folkloriche del proprio nation language vengono così divulgate in performances miste assieme a musicisti reggae e ska. Lo stabilirsi di gruppi teatrali in Guiana e Giamaica aiuta il radicarsi di una tradizione drammatica locale e di una produzione multimediale originale sia sul piano dei contenuti politici sia su quello della sperimentazione formale.

Tra i grandi romanzieri caribici ha scelto di vivere in Inghilterra il guianese Th. W. Harris (n. 1921), visionario autore della tetralogia The Guyana quartet (1985) - oltre che di The four banks of the river of space (1990), The carnival trilogy (1993), Jonestown (1996) - nella cui prosa ibrida coesistono lingue e tradizioni diverse. La volontà è quella di stimolare una percezione precisa della differenza, un rispetto degli scarti tra registri espressivi, piuttosto che di spingere a identificare influenze o a rintracciare analogie con le forme, pur evidenti, del romanzo dello stream of consciousness e della narrativa sudamericana. La dimensione immaginativa e onirica della scrittura di Harris invita a una fruizione aperta, non schematica e non ideologica, così che le voci delle varie etnie risuonino libere, come un'eco dei suoni della natura, del mondo magico degli spiriti, delle antiche tradizioni orali, delle citazioni più colte e lontane: tutti elementi, questi, che partecipano alla stratificazione del suo linguaggio, costituendone la fluida grammatica interna, in un rifiuto programmatico di precostituire significati simbolico-allegorici e interpretazioni a senso unico.

Citazione interna, collage e contaminazione letteraria sono utilizzati anche da D. Walcott (n. St. Lucia 1930: Poems 1965-1990, 1992; The bounty, 1997), autore dei lunghi poemi The fortunate traveller (1981) e Omeros (1990), vincitore del premio Nobel per la letteratura nel 1992. Il suo straordinario contributo inventivo consiste nella capacità di fondere i ritmi dialettali e plurilinguistici della sua cultura con le cadenze della lingua letteraria, di oscillare dall'oralità alla più raffinata padronanza della metrica inglese. Riprendendo gli archetipi della classicità e della grande tradizione (da Omero a Dante, da Shakespeare a De Foe), Walcott si avventura, sia pur consapevole della sua impossibilità, nel sogno di ricostruzione di una storia individuale e collettiva unitaria. La sua poesia vive di questa tensione tra frammentazione, perdita, esilio, ed estrema volontà di sopravvivenza di una parola significativa.

Autore anche di testi per il teatro (Dream on Monkey Mountain and other plays, 1970; The Odyssey, 1992), Walcott ha influito sulla produzione drammatica e sulla poesia del giamaicano D. Scott (1939-1991: Dog, 1978; Dreadwalk. Poems 1970-78, 1982; Strategies, 1989), entrambe permeate da una sottile violenza e conflittualità, e arricchite da un tessuto di esuberanti immagini naturali. Tra i poeti più giovani che raccolgono l'eredità walcottiana di una radicale fedeltà al proprio linguaggio, alla propria linea di ricerca, sono da ricordare il giamaicano A. McNeill (n. 1941) e W. Brown (n. Trinidad 1944: Voyages, 1989), che riprende anche in prosa le immagini, i miti e le forme del viaggio per mare (The child of the sea: stories and remembrances, 1989).

A uno studio generale delle culture postcoloniali contribuisce negli anni, con il complesso intreccio culturale del suo background e la sua lucidità critica, anche il romanziere V.S. Naipaul (The enigma of arrival, 1987; A way in the world, 1994), nato nel 1932 a Trinidad da famiglia indiana e lungamente vissuto in Inghilterra. Rielaborando tra saggio e romanzo le sue esperienze di grande viaggiatore, lo scrittore ci restituisce realtà vivide e molteplici: da quella degli stessi Caribi (The middle passage, 1962), all'India (An area of darkness, 1964), a un'Africa di memoria conradiana (A bend in the river, 1979), all'America (A turn in the South, 1989).

Lo spirito nomade di Naipaul torna spesso all'isola natia, restituendola in termini ora reali, ora immaginari, in una tensione conoscitiva che dal piano referenziale della denuncia e della polemica anticolonialista si sposta su un piano metafisico, dove sono la memoria stessa, il senso di una cultura e di una tradizione a essere corrotti e contaminati. Strumento unico di sopravvivenza resta l'elaborazione di un linguaggio sempre consapevole delle proprie ambivalenze e contraddizioni. Attraverso un'analisi rigorosa e pessimista, condotta con le armi di un'affilata ironia e di una prosa lucida e intensa, Naipaul conferma la sua influenza fondamentale sulle nuove generazioni.

Un percorso ancora diverso, in direzione di una poesia ricca di fantasie erotiche e di ritmi aspri e violenti, viene suggerito dai poeti più giovani: che abbiano un background misto, come D. Dabydeen (n. 1956: Slave song, 1984; Turner: new and selected poems, 1994), guianese di origine indiana; o nati altrove da genitori emigrati, e risospinti verso la terra d'origine, in un doppio movimento di ritorno e di reinvenzione, come accade a F. D'Aguiar (n. 1960: British subjects, 1993; The longest memory, 1994; Dear future, 1996; Feeding the ghost, 1997), nelle cui opere i temi privati - amore, perdita e memoria - si saldano a quelli pubblici.

Il panorama attuale è arricchito dall'emergere della poesia delle donne che, tagliando trasversalmente varie realtà etniche e sociali, illumina storie diverse di oppressioni e silenzi nella comunità locale e in quella espatriata, mentre allo stesso tempo elabora immagini e sonorità inedite. Nella poesia della guianese G. Nichols (n. 1950: I is a long-memoried woman, 1983; Lazy thoughts of a lazy woman, 1989; Sunris, 1996) si riscontra una notevole capacità di reimmaginare in termini tragici il passato collettivo - la deportazione dall'Africa verso la schiavitù - raccordando la parola poetica alle cadenze antiche dei canti di lavoro femminili, ai miti e alle leggende tramandate dalle voci delle antenate; ma anche una volontà di ironizzare sulla propria condizione presente di donna nera in un contesto metropolitano, dissacrando ogni visione convenzionale, idealizzata o esotica, e riproducendo il linguaggio impoverito e aspro della quotidianità, in un impasto ricco di valenze metaforiche e ironiche.

Anche nei racconti e nei romanzi di J. Kincaid (n. 1949), di adozione newyorkese ma nata ad Antigua, i toni alti dell'immaginazione poetica s'intrecciano alla prosaicità del reale e del parlato, sicché il ritmo degli inni può servire a scandire i dettagli di una storia di formazione femminile (At the bottom of the river, 1983; Lucy, 1990; Autobiography of my mother, 1996). Fortemente impegnata sul versante politico e attenta alla questione femminile, M. Collins (n. Grenada 1950), coinvolta nella rivoluzione locale e successivamente espatriata in Inghilterra, è autrice di intensi romanzi (Angel, 1987), racconti (The rain darling and other stories, 1990) e poesie (Because the dawn breaks: poems dedicated to Grenadian People, 1985; Rotten Pomerack, 1992; The colour of forgetting, 1995).

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Letterature di lingua inglese. Letteratura africana di espressione inglese

di Giuseppe Castorina

La fioritura di scritti africani in lingua inglese che, a partire dalla seconda metà del Novecento, ha dato luogo a un corpus letterario di grandissimo valore, come mostrano la vasta bibliografia, il successo internazionale, l'assegnazione di importanti premi compresi due Nobel, è il risultato di un'interazione tra fattori squisitamente creativi e artistici e questioni di carattere storico, sociopolitico, linguistico e culturale estremamente complesse e riferibili a contesti molto diversi. Termini come coloniale o postcoloniale e altre generalizzazioni vanno considerati in relazione ai modi e ai tempi in cui i diversi paesi sono stati colonizzati e hanno raggiunto l'indipendenza. Gli scrittori dei paesi dell'Africa occidentale, i primi a diventare indipendenti, sono anche i primi a sperimentare il trauma degli ideali traditi, delle persecuzioni per mano di governi africani non meno oppressivi e dispotici di quelli dei colonizzatori. Nei paesi dell'Africa orientale e meridionale, che hanno raggiunto l'indipendenza con la lotta armata, come il Kenya, la delusione è stata ancora più cocente. Nella fase postcoloniale si verifica un evento forse più lacerante e psicologicamente devastante del colonialismo e dell'apartheid: coloro che minacciano la vita, infliggono il carcere, spargono terrore e morte, non sono gli Europei come in Sudafrica, ma gli stessi fratelli africani. Come scrive in The writer in a modern African State (1967) W. Soyinka (n. 1934) - il Nobel africano per la letteratura (1986) che ha conosciuto il carcere e l'orrore della guerra civile -, lo scrittore del Sudafrica oppresso dalla minoranza europea è l'unico ad avere ancora la prospettiva di un futuro non compromesso per responsabilità proprie.

L'ultimo scorcio del Novecento presenta un panorama letterario particolarmente ricco, in quanto gli scrittori della prima generazione, nati per la maggior parte negli anni Trenta, sono presenti sulla scena letteraria insieme ai nuovi autori e come loro impegnati nella denuncia dei soprusi e nella ricerca di strategie per curare le ferite aperte del continente. È questa comune matrice d'impegno politico e culturale che attenua le differenze tra le generazioni e anche tra i diversi paesi.

In The open sore of a continent: a personal narrative of the Nigerian crisis (1996), Soyinka, vissuto a lungo in esilio, denuncia con rabbia le dittature che hanno portato il paese sull'orlo del disastro e indica ai Nigeriani un percorso etico per emergere dal caos e dalla disperazione. Ngugi wa Thiong'o (n. 1938), anch'egli esule, in Writers in politics. A re-engagement with issues of literature & society (1997), illumina aspetti fondamentali dei rapporti tra cultura, società e potere. Sulla scia di Sozaboy: a novel in rotten English (1985), del nigeriano K. Saro-Wiwa (1941-1995), A. Kanengoni (n. 1951) riflette sull'insensatezza della guerra civile zimbabweana, in una serie di racconti sulle esperienze di gente comune (Effortless tears, 1993), che si ritrova a morire o a sopravvivere, schierata da una parte o dall'altra non tanto per convinzione quanto per cause accidentali. N. Madanhire (n. 1961), in Goatsmell (1992), un attacco feroce allo sciovinismo etnico, deplora l'incapacità delle due principali etnie dello Zimbabwe, Shona e Ndbele, di agire concordemente per un obiettivo comune, vanificando così i sacrifici fatti durante la lotta di liberazione. Ch.L. Mungoshi (n. 1947) in Walking still (1997) si sofferma sulla perdita di valori e l'angoscia di chi non ha più certezze a causa della guerra.

Significativa l'importanza crescente di opere che presentano con grande sensibilità ed equilibrio la condizione femminile. Le tematiche legate agli aspetti quotidiani della vita, la poligamia, l'infedeltà, il lavoro, vengono riesaminate da B. Emecheta (n. 1944) in Kehinde (1994), ricco di spunti autobiografici come i romanzi precedenti, in cui l'eponima protagonista, una nigeriana che vive e lavora a Londra, sovverte i ruoli che la tradizione assegna alle donne e sceglie di non seguire il marito, deciso a tornare in Nigeria. Tra le giovani scrittrici, la zimbabweana Y. Vera (n. 1963) è indubbiamente una delle più dotate e promettenti, come mostra il successo di Nehanda (1993), Without a name (1994) e Under the tongue (1996), con cui ha vinto il Commonwealth writers prize 1997 per l'Africa. Il romanzo Nehanda, dedicato alla mitica figura di donna che galvanizzò e ispirò i popoli dello Zimbabwe nella lotta contro i colonizzatori nel 1896-97, va al cuore della tragedia dei popoli africani: gli Europei, con l'espropriazione della terra, che non è solo fonte di sostentamento, ma dimora degli antenati e sorgente dei miti e delle credenze religiose, hanno infranto l'integrità della tradizione e della cultura.

Anche la critica manifesta un interesse sempre più intenso per la l. e le tematiche femminili, di cui sono segno la pubblicazione di The Heinemann book of African women's poetry (a cura di S. e F. Chipasula, 1995), o la ristampa nel 1994, dopo oltre un secolo, di My chief and I (1880) di F. Colenso (1849-1887), il primo romanzo di protesta della l. afroinglese. Significativo è anche l'interesse e il modo di trattare i personaggi femminili da parte degli scrittori. Ast, cioè Iside, in Osiris rising (1995) di A.K. Armah (n. 1939), è una studiosa afroamericana di storia, che rinuncia al benessere, all'opulenza dell'Occidente, fondati sulla competizione e la violenza, e ritorna nella terra degli antenati. K. Saro-Wiwa, in Lemona's tale, pubblicato postumo nel 1996, mette a fuoco lo straordinario carattere e il carisma di una donna presa negli ingranaggi di una società deumanizzata, e condannata a morte per un delitto che non ha commesso. S. Sepamla (n. 1932) esalta in Rainbow journey (1996) la capacità delle donne di adattarsi alle avversità e di superarle. In If the wind blew (1996) di N. Madanhire, una giornalista del Guardian, Isis Ndlovu, dopo la scoperta del significato mitico del suo nome, affronta con successo e dignità le difficoltà di un mondo spietato dominato dall'arbitrio e dalla paura. Il romanzo conferma l'interesse per il mito egiziano di Iside, una delle prime grandi figure femminili della tradizione africana.

In generale, la narrativa dell'ultimo ventennio non offre speranze a buon mercato: la costruzione di un mondo più giusto e libero richiede impegno e responsabilità. La funzione della l., come scrive B. Okri (n. 1959) in Dangerous love (1996), uno dei suoi illuminanti romanzi sulla Nigeria odierna, "paesaggio di perdite", "labirinto d'incertezze", è fare in modo che "la gente senta di più, veda di più, senta in modo più pieno e veda in modo più vero". L'esigenza di intervenire sugli aspetti distruttivi della storia e della realtà si manifesta peraltro anche con il ricorso al realismo magico e al meraviglioso, che caratterizza molta l. recente.

L'attività poetica negli anni Novanta ha registrato un forte impulso, che ha interessato in particolar modo i paesi in cui la repressione e la censura sono più virulenti.

S. Cheney-Coker (n. 1945), in The blood in the desert's eyes (1990), satira mordente sulla situazione politica e sui leader della Sierra Leone, esprime la speranza che il sangue sia asciugato dagli 'occhi del deserto' e che il suo paese diventi una nuova Gerusalemme. Sull'esempio di A. Okai (n. 1941), in Ghana si mantiene viva la tradizione dei versi composti per essere recitati, con esperimenti volti a indirizzare la poesia verso la sua originaria condizione di oralità: K. Anydoho (n. 1947) intitola significativamente una sua raccolta Ancestrallogic & Caribbeanblues (1993); lo stesso Okai compone una poesia per la liberazione di Mandela (Mandela the spear, 1990), che ha recitato in presenza del presidente della Repubblica Sudafricana. I poeti nigeriani cercano di dare alla poesia funzioni sempre più definite: N. Osundare (n. 1947), in Waiting laughters (1990) e Midlife (1993), come un griot moderno impiega in modo personale una grande varietà di forme tradizionali per trattare le tematiche più attuali; O. Tanure (n. 1948), con versi vigorosi ed essenziali che non scadono mai in propaganda (The blood of peace, 1991; Daydream of ants and other poems, 1997), assegna alla poesia il compito di annunciare una nuova era, in cui non ci sia posto per dittatori, profittatori e mercenari. L'ugandese T. Wangusa (n. 1942), in Anthem for Africa (1995), anziché parlare dell'Africa, parla all'Africa (Listen, Africa), ed evidenzia come la culla della civiltà moderna sia stata la valle del Nilo, mettendo in contrasto i valori e le conquiste scientifiche dell'antico Egitto con la tragica realtà del presente e la mostruosità delle dittature africane. Il sudanese T.L. Liyong (n. 1939) si conferma acuto commentatore sociale in The cows of Shambat (1992) e in Homage to Onyame (1998). I conflitti di classe sono il motivo centrale di A chequered serenade to mother Africa (1996) del kenyano M. wa Gethoi (n. 1937), dedicata alle future generazioni di un'Africa autenticamente libera e democratica. La realtà del Kenya si rispecchia efficacemente anche nella raccolta A season of blood. Poems from Kenyan prisons (1995), poesie di tortura, degradazione, disperazione di M. wa Kinyatti, un'oppositrice del regime di D.A. Moi. Impiccagioni, carcere, brutalizzazioni fisiche e psicologiche sono temi comuni anche nei poeti malawiani F. Chipasula (n. 1949: Whispers in the wings, 1991) e J. Mapanje (n. 1945: The chattering wagtails of Mikuyu prison, 1993). S. Chimombo (n. 1945), in Napolo and the python (1994), si rifugia nel mito e nei simboli del folklore (Napolo è il serpente mitico che vive sotto le montagne e che è una delle cause delle valanghe, dei terremoti e delle inondazioni in Malawi), in quanto scrivere apertamente ed esplicitamente durante "il regno del terrore di Banda significava proporsi come cibo per i coccodrilli".

Il teatro conserva la sua spiccata matrice ideologica e si pone ancora come strumento di lotta; il dramma storico diventa spesso una satira feroce contro le dittature, mentre la commedia di costume illustra i conflitti psicologici e sociali della nuova borghesia nera.

Soyinka, prendendo spunto da avvenimenti reali, scava nei lati grotteschi e violenti della società contemporanea in From Zia, with love (1992) e in The beatification of area boy. A Lagosian kaleidoscope (1995). Sempre in Nigeria, F. Osofisan (n. 1946) riesce a fondere temi sociali, impegno ideologico e sperimentazione di nuove forme drammatiche con le risorse del teatro tradizionale in An African Antigone (1994) e in Many colours make the thunder-king (1997). B. Sowande (n. 1948) proietta la ricerca di un sincretismo culturale verso il futuro in opere come Ajantala-Pinocchio (1997), che inserisce problemi cruciali della realtà contemporanea, come quello dei ragazzi di strada, nel mondo fantastico della tradizione yoruba e italiana.

In Sudafrica, dopo l'elezione di Mandela, rimane da compiere il più difficile e il meno affascinante di tutti compiti, come afferma N. Gordimer (n. 1923) in Writing and being (1995): la transizione verso un'autentica integrazione e liberazione. La l. sembra volgersi principalmente alla pacificazione. Emblematico, in un poeta come D. wa Mogale (n. 1956), il passaggio dai toni aggressivi dei Prison poems (1992) alla vibrante preghiera di On the eve: 27 April 1994, versi composti alla vigilia delle elezioni: "se ci deve essere guerra / le armi siano le vostre / mani guaritrici / mani sudafricane / di uomini donne e bambini / in difesa della pace / se ci deve essere guerra la vostra chiamata / sia un canto / per la pace".

Come and hope with me (1994) di M.W. Serote (n. 1944) è anch'essa un'invocazione alla pace e alla riconciliazione che il poeta rivolge a tutti i Sudafricani, sullo sfondo lontano, ma sempre ammonitore, dell'apartheid. J. Cronin (n. 1949), in Even the dead: poems, parables and a jeremiad (1997), mette in guardia contro le soluzioni semplicistiche, il facile rainbowism (la metafora dell'arcobaleno), per costruire un nuovo senso morale, che renda giustizia a tutti, compresi coloro che sono morti. A. Fugard (n. 1932) nella sua più recente produzione drammaturgica abbandona i toni corrosivi con cui aveva denunciato la disumanità del regime per esplorare i timori e le speranze della nuova repubblica (A place with the pigs, 1988; Playland, 1993; My life, 1994; Valley song, 1995). In The captain's tiger (1998) Fugard affronta in modo originale il tema del superamento delle differenze culturali tra due personaggi che riescono a comunicare usando una mescolanza di pidgin a base inglese e di una lingua africana. Il personaggio principale, Betty, è una giovane donna che è allo stesso tempo la musa ispiratrice dell'autore e sua madre da giovane.

Una grande questione ancora aperta è l'uso dell'inglese: la maggior parte degli scrittori dell'Africa occidentale ha scelto di usare questa lingua, variamente africanizzata. Soyinka dichiara che raccolte di poesie quali Mandela's earth (1988) devono essere lette da tutte le persone che conoscono l'inglese nel mondo, e non soltanto dal suo gruppo etnico. I Sudafricani hanno adottato l'inglese come lingua di resistenza all'apartheid; in Africa orientale e specialmente in Kenya, dove gli Inglesi hanno imposto la loro lingua, molti scrittori usano le lingue etniche e il swahili: il più noto tra essi è Ngugi wa Thiong'o. Di fatto l'inglese, per la sua larghissima diffusione, ha offerto agli scrittori opportunità in campo accademico, artistico e intellettuale, che non avrebbero avuto utilizzando soltanto le lingue etniche, e ha consentito loro di raggiungere il pubblico di buona parte del mondo

bibliografia

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Letterature scandinave

di Bruno Berni

Nel panorama letterario della Scandinavia contemporanea è difficile identificare uno sviluppo unitario; non c'è dubbio tuttavia che i paesi scandinavi, spesso separati in passato da differenze politiche, economiche e sociali, ma sempre uniti dal punto di vista strettamente linguistico e culturale, conservano un'affinità di massima che a grandi linee si rispecchia anche nella produzione letteraria degli ultimi decenni.

Comune a gran parte della l. scandinava degli anni Settanta è stato un marcato impegno politico e sociale, seguito spesso da una crisi ideologica cui ha fatto riscontro, negli anni Ottanta, una serie di fermenti innovativi, in una linea però più di evoluzione che di vera rottura rispetto al periodo precedente.

In Danimarca, nella seconda metà degli anni Settanta scomparivano alcuni dei rappresentanti più prestigiosi della cultura del dopoguerra, da T. Ditlevsen (1918-1976) a F. Jæger (1926-1977), da H. Scherfig (1905-1979) a L. Panduro (1923-1977), mentre veniva affermandosi la generazione più giovane.

K. Rifbjerg (n. 1931), fra i più prolifici scrittori danesi, ha spaziato dalla narrativa al teatro, ai testi per il cinema e per la televisione, dando forse nella lirica le sue prove più valide. V. Sørensen (n. 1929), pur avendo quasi interrotto la sua produzione narrativa per dedicarsi alla saggistica, è rimasto una figura di primo piano nella l. danese; la sua ricerca di un moderno umanesimo abbraccia lo studio della filosofia classica (Seneca. Humanisten ved Neros hof, 1976; trad. it. Seneca, 1988) così come della mitologia europea: si pensi a opere quali Ragnarok. En gudefortœlling (1982; trad. it. Ragnarok. La caduta degli dèi, 1993), Apollons oprør. De udødeliges historie (1989; trad. it. La rivolta di Apollo, 1997) e specialmente Jesus og Kristus (1992, Gesù e Cristo), che rappresenta una tappa essenziale del suo percorso ideale. Altre figure significative sono S. Holm (n. 1940), autore di fortunati romanzi e di opere teatrali, K. Holst (n. 1936), nota anche per aver pubblicato alcuni testi divenuti dei classici per l'adolescenza, e A. Bodelsen (n. 1937), che si è affermato con romanzi polizieschi di notevole qualità.

Anche in Svezia una folta schiera di scrittori affermatisi fra gli anni Sessanta e Settanta, come L. Gustafsson (n. 1936), S. Delblanc (1931-1992) e P.O. Enquist (n. 1934), ha assunto agli inizi degli anni Ottanta una posizione di primo piano superando la crisi ideologica seguita alla stagione dell'impegno politico.

Dopo aver trattato il tema del ritorno alla propria terra con Musikanternas uttåg (1978; trad. it. La partenza dei musicanti, 1992), Enquist si è imposto anche all'estero soprattutto con le sue opere teatrali e le sue sceneggiature televisive e cinematografiche basate sulla vita di scrittori famosi: Tribadernas natt (1975; trad. it. La notte delle Tribadi, 1989) e August Strindberg. Ett liv (1984; trad. it. August Strindberg: una vita, 1988), entrambe sulla vita di Strindberg; Från regnormarnas liv (1981; trad. it. Dalla vita dei serpenti della pioggia, 1991), di cui è protagonista H.Ch. Andersen; e più recentemente Hamsun, en filmberättelse (1996; trad. it. Processo a Hamsun, 1996). Dedito al teatro, dopo una prima fase rivolta alla produzione poetica, è anche L. Norén (n. 1944), che ha ottenuto fama internazionale con drammi quali Mödet att döda (1980, Il coraggio di uccidere) o Natten är dagens mor (1983, La notte è madre del giorno). Diversa è stata l'evoluzione di L. Gustafsson, che dal carattere introspettivo delle prime opere, pubblicate fra la fine degli anni Cinquanta e l'inizio degli anni Sessanta, è passato all'analisi della solitudine e del dolore, alla speculazione a tratti filosofica sul senso del vivere. Caratteristica è infatti la sua tendenza a fare del singolo romanzo la tessera di un programma di pensiero più ampio, come dimostra il ciclo di Sprickorna i muren (1971-78, Le crepe nel muro), all'interno del quale spicca En biodlares död (1978; trad. it. Morte di un apicultore, 1989), probabilmente il capolavoro di Gustafsson.

Nella l. norvegese degli anni Ottanta è più agevole identificare tendenze e fertili disordini che veri punti di arrivo. Uno dei suoi caratteri dominanti è l'apertura verso il passato, testimoniata da una serie di opere su scrittori scomparsi, come Portrett av eit magisk liv (Ritratto di una vita magica), biografia di C. Gill (1910-1973) pubblicata nel 1988 dallo scrittore K. Fløgstad (n. 1944), o Mannen fra Jante (L'uomo di Jante), biografia di A. Sandemose (1899-1965) pubblicata nello stesso anno da E. Haavardsholm (n. 1945). L'interesse degli autori moderni e del pubblico per il passato esprime, in un paese politicamente giovane come la Norvegia, il desiderio di riaffermare una continuità culturale basata su una lunghissima tradizione. Parallelamente allo sguardo verso il passato, infatti, si fa sempre più viva l'attenzione agli sviluppi della l. contemporanea, di cui non è facile peraltro indicare la direzione in questo scorcio di secolo.

Nell'ambito della narrativa uno degli aspetti interessanti è l'evoluzione letteraria di autori che avevano esordito nei decenni precedenti, come K. Faldbakken (n. 1941), che già negli anni Settanta componeva romanzi psicologici sui conflitti della società e dell'individuo. Nell'intera sua opera (da Insektsommer, 1972, Estate di insetti, a Evig din, 1990, Eternamente tuo) si evidenzia una spiccata abilità nel trattare in maniera provocatoria e stimolante i temi più insidiosi e delicati (pubertà, sessualità, rapporto uomo-donna). Anche K. Fløgstad ha assunto un atteggiamento critico verso la società norvegese, dapprima con opere satiriche quali Det 7. Klima (1986, Il settimo clima), in cui il bersaglio è il mondo dei mass media, quindi rivolgendosi alla forma del thriller, per esempio in Kniven på strupen (1991, Il coltello alla gola). La tendenza a utilizzare la forma del romanzo giallo con ambiziosi intenti critici è del resto comune a molti scrittori più giovani che hanno debuttato negli ultimi anni, come L.S. Christensen (n. 1953) e soprattutto J. Kjærstad (n. 1953), autore di thriller di qualità ambientati nella cornice sociale di Oslo (Homo Falsus, 1984; Erobreren, 1996, Il conquistatore).

Situazione diversa dal resto della Scandinavia, a causa dell'isolamento geografico e della particolare condizione culturale, è quella dell'Islanda. La letteratura islandese contemporanea presenta una duplice tensione: da un lato l'esasperata conservazione dello spirito nazionale e delle antiche tradizioni, dall'altro l'apertura al nuovo. Si assiste quindi alla difesa di una lingua e di una cultura tenute in vita da meno di trecentomila persone e in cui si sono formati autori noti ben oltre i confini della piccola patria, come H.K. Laxness (1902-1998; premio Nobel per la letteratura nel 1955), grande interprete del processo di modernizzazione che ha portato l'Islanda dalla società tradizionale al progresso del dopoguerra.

Fra gli autori che hanno raccolto la sua eredità vanno ricordati I.G. Thórsteinsson (n. 1926), sul quale si avverte l'influenza di E. Hemingway, G. Bergsson (n. 1932), innovatore della prosa moderna islandese, e Th. Vilhjálmsson (n. 1925), traduttore del Nome della rosa di U. Eco e scrittore dotato di brillanti qualità tecniche (si pensi a Óp bjöllunnar, 1970, Il richiamo dello scarabeo), tornato recentemente alle radici tradizionali con il romanzo Grámosinn glóir (1986, Il muschio arde), premiato dal Consiglio nordico nel 1988. Ma fra i nomi più prestigiosi della l. islandese contemporanea è certamente quello di S. Jakobsdóttir (n. 1930), attiva nel movimento femminista islandese a partire dalla fine degli anni Sessanta, che si è affermata con il romanzo Leigjandinn (1969, Il pensionante), sulla vita quotidiana di una coppia islandese costretta a misurarsi con la presenza invadente di un estraneo. Di carattere del tutto diverso è invece Gunnladhar saga (1987, La storia di Gunnlöd), dove riaffiorano, in bilico fra realtà e follia, le antiche leggende del Nord, in una riscoperta della tradizione orale e della mitologia nordica, strettamente intrecciate alla vita dell'Islanda moderna.

A cavallo fra gli anni Ottanta e l'ultimo decennio del secolo, nella l. dei paesi scandinavi, accanto all'emergere di nuovi scrittori, si è consolidata la presenza di autori già noti che sono stati capaci di rinnovarsi, dando anzi il meglio di sé nell'epoca successiva alla stagione dell'impegno.

In Danimarca va ricordato H. Stangerup (1937-1998), intellettuale curioso e a tratti scomodo, grande viaggiatore, giornalista e saggista, ma soprattutto romanziere, autore del fortunato Manden der ville vœre skyldig (1973; trad. it. L'uomo che voleva essere colpevole, 1990), romanzo che gli ha assicurato il successo internazionale, e poi della trilogia kierkegaardiana formata da Vejen til Lagoa Santa (1981; trad. it. Lagoa Santa, 1989), Det er svœrt at dø i Djeppe (1985, È difficile morire a Dieppe) e Broder Jacob (1991; trad. it. Fratello Jacob, 1993). Accanto a Stangerup, P. Hultberg (n. 1935), pur con una produzione letteraria quantitativamente modesta, ha raggiunto una posizione unica nella l. danese per il suo stile fortemente innovativo, basato sulla sperimentazione di una scrittura introspettiva: Requiem (1985), gigantesca opera dalle infinite voci; Prœludier (1989; trad. it. Preludi, 1995), un collage letterario sull'infanzia di Chopin; Byen og verden (1992, La città e il mondo). L'eredità blixeniana della narrazione classica è raccolta invece da I. Michael (n. 1945), autore del notevole Troubadurens lœrling (1984, L'apprendista del trovatore), e poi della grande saga svolta nei romanzi Vanillepigen (1991, La ragazza della vaniglia), Den tolvte rytter (1993, Il dodicesimo cavaliere) e Brev til månen (1995, Lettera alla luna).

Anche nella l. svedese degli ultimi due decenni non sono pochi gli scrittori che hanno riscoperto il piacere del racconto, prediligendo spesso per le loro storie l'ambiente dimesso della provincia, in contrapposizione alla società omologata della capitale. T. Lindgren (n. 1938), che la crisi religiosa all'inizio degli anni Ottanta ha portato a una svolta decisiva, ha composto alcuni capolavori, in cui al recupero del mondo contadino (Ormens väg på hälleberget, 1982; trad. it. Il sentiero del serpente sulla roccia, 1987) talvolta si affianca e si mescola un'ispirazione biblica (Merabs skönhet, 1983; trad. it. La bellezza di Merab, 1989), ispirazione che prende poi il sopravvento in Bat Seba (1984; trad. it. Betsabea, 1988). Anche nella sua produzione più recente, da Til sanningens lov (1991; trad. it. Per amore della verità, 1997) a Hummelhonung (1995, Miele di calabrone), Lindgren si conferma come uno degli autori più originali della Svezia contemporanea. Ma non mancano altri autori degni di essere menzionati: G. Tunström (n. 1937), cui si deve un capolavoro difficilmente ripetibile come Juloratoriet (1983; trad. it. Oratorio di Natale, 1988, 1996²); L. Hagerfors (n. 1946), che da Valarna i Tanganyikasjön (1988; trad. it. Le balene del Lago Tanganica, 1991), sulla colonizzazione in Africa, è tornato alle scene di vita quotidiana svedese descritte in Livet är det som pågår medan vi sysslar med annat (1990, La vita è ciò che avviene mentre ci occupiamo d'altro), ispirato alla narrativa combinatoria di I. Calvino; e infine Th. Kallifatides (n. 1938), di origine greca, impadronitosi della lingua svedese da adulto, P.C. Jersild (n. 1935), K. Ekman (n. 1933), B. Trotzig (n. 1929).

In Islanda nel corso degli anni Ottanta hanno esordito tra gli altri E. Kárason (n. 1955), che si è affermato con l'amaro realismo di Gulleyjan (1985, L'isola d'oro), ed E.M. Gudhmundsson (n. 1954), il quale, dal suo debutto con Riddarar hringstigans (1982, I cavalieri della scala rotonda) fino a Englar alheimsins (1993; trad. it. Angeli dell'universo, 1997), premiato dal Consiglio nordico, si è rivelato come il più importante rinnovatore della grande tradizione narrativa dell'isola.

In Norvegia uno degli aspetti più interessanti della l. recente è la tendenza a sperimentare i limiti dello strumento linguistico e delle strutture narrative, riscontrabile soprattutto nella prosa quasi minimalista di Ø. Lønn (n. 1936) o in autori più giovani come T. Ulven (n. 1953) e Ø. Hånes (n. 1960). Un altro aspetto significativo è l'allontanamento graduale dalla narrativa psicologica e realistica dei decenni precedenti e la costruzione di una nuova tradizione romanzesca. Uno degli autori più letti e più tradotti all'estero è la scrittrice H. Wassmo (n. 1942), che ha raggiunto la notorietà internazionale con i romanzi Huset med den blinde glassveranda (1981; trad. it. La veranda cieca, 1989), Det stumme rommet (1983, La stanza muta) e Hudløs himmel (1986, Cielo a nudo), la cosiddetta trilogia di Tora, dal nome della protagonista, figura femminile di straordinaria vitalità.

Caratteristica del cosiddetto postmodernismo scandinavo è dunque l'uso incondizionato di varie modalità stilistiche, anche in singolari e originali combinazioni letterarie. Ma in tutta la Scandinavia gli anni Novanta segnano comunque il distacco definitivo dal radicalismo dogmatico degli anni Settanta, e soprattutto la riscoperta della narrazione pura, libera dall'imperativo dell'impegno e spesso lontana anche dalle forme della grande tradizione nordica.

In Svezia I. Edelfeldt (n. 1956), dopo aver esordito giovanissima con il libro per ragazzi Duktig pojke! (1977, Bravo ragazzo!), ha confermato la sua sensibilità nei confronti della psicologia giovanile con Breven till nattens drottning (1985, Le lettere alla regina della notte) e con Kamalas bok (1986, Il libro di Kamala), e ha ottenuto un rinnovato successo con Den förunderliga kamaleonten (1995, Lo strano camaleonte), una raccolta di racconti sulla morte, la disoccupazione, l'emarginazione.

Fra i danesi affermatisi negli ultimi decenni, si segnala P. Høeg (n. 1957), che ha pubblicato romanzi di grandissimo successo commerciale facendo leva, talvolta, su temi di sicuro effetto e creando stili e atmosfere sempre nuovi: dal magico realismo di Forestilling om det tyvende århundrede (1988; trad. it. La storia dei sogni danesi, 1998), ai racconti blixeniani di Fortællinger om natten (1990; trad. it. Racconti notturni, 1997), al poliziesco sociopsicologico Frøken Smillas fornemmelse for sne (1992; trad. it. Il senso di Smilla per la neve, 1994), e infine al romanzo fanta-ecologico Kvinden og aben (1996; trad. it. La donna e la scimmia, 1997). Scrittore assai noto a livello internazionale è anche il norvegese J. Gaarder (n. 1952), autore del fortunato Sofies verden (1991; trad. it. Il mondo di Sofia, 1994), romanzo a metà fra thriller e divulgazione filosofica.

Anche nel cammino della produzione lirica, negli anni Ottanta e Novanta, un tratto comune ai paesi scandinavi è il distacco dalla politica e l'interesse per il testo, la forma, la metafora, il simbolo.

Scomparsi i grandi autori quali K. Vennberg (1910-1995), B. Setterlind (1923-1991) e W. Aspenström (1918-1997), il maggior poeta svedese vivente è senz'altro T. Tranströmer (n. 1931), autore di liriche ricche di immagini della natura, di musicalità, sospese spesso sul mobile confine fra il reale e l'irreale. Dopo aver pubblicato numerose raccolte, da Hemligheter på vägen (1958, Segreti lungo la via) a För levande och döda (1989, Per i vivi e i morti), Tranströmer ha ripreso la sua attività con Sorgegondolen (1996, La gondola del dolore), al termine di una lunga malattia che lo aveva privato della facoltà di scrivere e parlare. Fra i poeti più giovani si è segnalato K. Frostenson (n. 1953), erede di uno sperimentalismo teso a superare la logica del linguaggio alla ricerca di nuovi ritmi e immagini: Rena land (1980, Terre pulite); Stränderna (1989, Le spiagge).

In Norvegia la produzione lirica, che negli anni Ottanta e Novanta è continuata in direzione del modernismo, è stata favorita da una politica culturale tesa al sostegno della l. contemporanea, anche se occorre dire che alla maggiore produzione di raccolte poetiche non è corrisposta una simmetrica crescita della sua diffusione presso i lettori, ancora prevalentemente interessati ai pochi grandi poeti ereditati dai periodi precedenti.

O.H. Hauge (1908-1994) è divenuto negli ultimi anni della sua vita una sorta di profeta della lirica contemporanea norvegese, mentre J.E. Vold (n. 1939), poeta del concretismo, si è affermato come mediatore di nuovi impulsi culturali fin dal suo debutto nel 1965 con Mellom speil og speil (Fra specchio e specchio). Artista polivalente, Vold spazia dalle traduzioni di autori americani come R. Creeley e F. O'Hara alle performances musicali con Chet Baker, all'interesse per il buddismo zen e la poesia orientale. La sua produzione più recente va dal cupo tono esistenziale di Sorgen. Sangen. Veien (1987, Il dolore. Il canto. La strada), ai modi estroversi e popolari di Elg (1989, Alce), fino al tono caldo e aperto di En sirkel is (1994, Un cerchio di ghiaccio). Ma fra i lirici contemporanei non vanno dimenticati R. Jacobsen (1907-1994), uno dei primi modernisti norvegesi, e il già citato L.S. Christensen.

Anche nella lirica danese vanno ricordati quegli autori che ancora all'inizio degli anni Settanta rappresentavano la giovane generazione e che ora invece hanno un ruolo di guida per le generazioni future, in primo luogo H. Nordbrandt (n. 1945), che pure ha trascorso la maggior parte della sua vita all'estero, soprattutto nei paesi del Mediterraneo.

In questi paesi Nordbrandt ha cercato una nuova interiorità, contrapponendo al mondo nordico una vivacità di sensi tutta meridionale; si pensi alle poesie di Håndens skælven i november (1986, Il tremito della mano a novembre), dove il cielo plumbeo e la tristezza del sole autunnale danese si pongono in relazione con la morte e il grigiore della vita. Nordbrandt è considerato uno dei poeti più importanti della Danimarca contemporanea, insieme a I. Christensen (n. 1935), che, oltre a essere un'esponente fondamentale della ricerca linguistica in poesia, ha frequentato i più diversi generi letterari, dal teatro al racconto al romanzo. La costruzione sistematica di una struttura è una delle modalità ricorrenti nella sua poesia, secondo uno schema che, come in det (1969, esso), vuole fornire alla creatività una direzione da seguire per svilupparsi liberamente. Ed è soprattutto in Alfabet (1981; trad it. Alfabeto, 1987), una raccolta di liriche in cui la lunghezza di ogni parte è data dalla serie numerica di Fibonacci e l'ordine corrisponde a quello delle lettere dell'alfabeto, che il processo creativo della Christensen ha rivelato le sue potenzialità nella ricerca di musicali assonanze. Alla generazione dei poeti affermati appartengono inoltre J. Sonne (n. 1925) e U. Harder (n. 1930), attivi anche come traduttori di lirica straniera, B. Andersen (n. 1929), anche musicista, ironico interprete della vita quotidiana, Th. Bjørnvig (n. 1918), saggista di rilievo e traduttore di Rilke, e poi P. Højholt (n. 1928) e P. Borum (1934-1996). Tra i più giovani, che hanno segnato la prima reazione emotiva o rivoluzionaria al socialrealismo degli anni Settanta, sono P. Tafdrup (n. 1952), F.P. Jac (n. 1955) e S.U. Thomsen (n. 1956). Ma alla giovane lirica mancano forse figure di primo piano capaci di affiancarsi a quella di M. Strunge (1958-1986), passato come una meteora nel firmamento della poesia danese e troppo prematuramente scomparso, dopo aver fornito prove che ormai sono oggetto di culto, ispirandosi a modelli che vanno da Cristo a Rimbaud al cantante D. Bowie; basti ricordare la raccolta Skrigerne (1980, Gli urlatori), vicina nello stile alla ribellione della cultura punk, o Verdenssøn (1985, Figlio del mondo; pubbl. con lo pseud. di Simon Lack), permeata di un misticismo cosmico.

Per quanto riguarda l'Islanda, gli aspetti contraddittori che abbiamo indicati come propri della moderna produzione in prosa si riflettono, in un equilibrio spesso difficile, anche nella poesia, che è forse tra i generi più frequentati.

Th. frá Hamri (n. 1938) ha intrecciato nelle sue opere presente e passato attingendo al patrimonio della tradizione (Urdhargaldur, 1987, La magia del deserto); S. Hjartarson (1906-1986), ha rappresentato l'accordo fra la vecchia e la nuova società, rinnovandosi sia nella forma sia nei contenuti (Hauströkkridh yfir mér, 1979, La tenebra d'autunno su di me). In H. Pétursson (n. 1931), P. Gunnarsson (n. 1947) e S. Snævarr (n. 1953) il vecchio e il nuovo, la tradizione e la rottura, coesistono con diversi orientamenti. Infine sono da ricordare i più giovani Sjón (pseud. di Sigurjón Birgir Sigurdhsson, n. 1962), che ha riscosso i suoi primi successi con la raccolta surrealista Drengurinn medh röntgenaugun (1986, Il ragazzo dagli occhi a raggi X), Á.K. Lárusdóttir (n. 1956) e B. Ólafsson (n. 1962).

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Letterature slave

Il secondo dopoguerra è contrassegnato per tutti i paesi slavi dall'instaurazione dei regimi socialisti e dall'adesione, con l'esclusione della Iugoslavia, al Patto di Varsavia, che li ha trasformati in paesi satelliti dell'Unione Sovietica. La situazione, che con alterne vicende si è prolungata fino al crollo del muro di Berlino (1989), ha influenzato lo sviluppo delle l. di questi paesi. Al loro interno si è delineata una produzione letteraria che, con maggiore o minore entusiasmo, si è adeguata ai canoni del realismo socialista, mentre sorgeva, come era già avvenuto per la Russia, una l. dell'emigrazione, esposta alle influenze e alle contaminazioni delle l. dei paesi ospitanti, soprattutto della Francia, della Germania, dell'Inghilterra e degli Stati Uniti. Nel corso degli anni Sessanta e Settanta, a partire dalla Russia e dalla Polonia, quando il realismo socialista aveva ormai perso la sua spinta ideale, si sviluppò una l. del dissenso, che difendeva la libertà di espressione, e cercava di recuperare i rapporti con la l. dell'emigrazione e la produzione, interna ed esterna, bandita dal realismo socialista. Il panorama della l. di quegli anni appare molto complesso, così come è stato travagliato il percorso esistenziale e artistico delle maggiori personalità che hanno animato la vita letteraria di quel periodo. Alla caduta dei regimi socialisti e alla dissoluzione dell'Unione Sovietica si sono accompagnati profondi rivolgimenti, che hanno inevitabilmente influenzato le l. nazionali. Si è radicalmente trasformato il mercato editoriale, non più dominato dalle grandi case editrici statali, che imponevano titoli e tirature e sostenevano le consolidate associazioni di scrittori, ma soprattutto è venuto meno il ruolo sociale della l. del dissenso, che con la liberalizzazione sembrava aver raggiunto gran parte degli obiettivi desiderati. In realtà, con la grave e prolungata crisi economica dell'Europa orientale, e con le tensioni interetniche, in qualche caso sfociate in conflitti armati, la l. ha visto ridursi radicalmente il suo ruolo nella società, e solo alcuni scrittori, uscendo dalle pastoie del nazionalismo o dall'imitazione delle l. occidentali, hanno levato la propria voce, in particolar modo la voce della poesia, per esprimere la coscienza di una società in una fase di profonde trasformazioni. La nascita di Stati autonomi, come l'Ucraina, la Bielorussia, la Slovacchia, la Croazia, la Slovenia e altri ancora, il problema delle minoranze etniche e dei cambiamenti di confini hanno comportato e ancora comporteranno mutamenti significativi anche nel panorama letterario, e costringeranno a leggere con occhi diversi e a riconsiderare da prospettive inusitate l'intera storia delle l. slave del dopoguerra. Ciò spiega perché in questa Appendice si sia voluto concentrare l'attenzione sulle l. della Russia, della Polonia e della Repubblica Ceca, dal momento che esse presentano i panorami più ampi e articolati fra le l. slave, in cui sono emersi, anche recentemente, notevoli autori, e soprattutto perché queste l. nazionali sono contrassegnate da una continuità e da una più chiara coscienza della propria identità. Per le altre l. slave, pur ugualmente vitali e in una fase di profondo rinnovamento, si rimanda alle rispettive voci nazionali delle Appendici precedenti, pur non avendo trascurato di inserire qui le biografie degli autori più significativi.   *

Letterature slave. Russia

di Michele Colucci

Dissoltasi l'URSS, infrante le barriere ideologiche che per un settantennio ne avevano pesantemente condizionato lo sviluppo, la l. russa si presenta radicalmente diversa da come appariva non più di un decennio addietro. Vi si riflettono oggi i complessi problemi di sviluppo e le infinite contraddizioni che caratterizzano la nuova società sorta dalle ceneri dell'Unione Sovietica. Ripercorrendone gli ultimi decenni si possono distinguere tre periodi.

Dalla morte di Stalin al processo Sinjavskij-Daniel´. - L'improvvisa scomparsa di I.V. Stalin, nel marzo del 1953, causò profondi mutamenti anche in campo culturale. Salito al potere N.S. Chruščëv, il controllo sulla l. subì un notevole allentamento e una critica alle contraddizioni più evidenti del passato fu non solo tollerata, ma in qualche modo incoraggiata.

In questo clima la rivista Novyj Mir (Nuovo mondo), diretta dal popolare poeta A.T. Tvardovskij (1910-1971), si fece portavoce delle nuove tendenze; apparvero i bozzetti di V.V. Ovečkin (1904-1968), Rajonnye budni (1952-56, Giornate di provincia), diretti contro l'inefficienza dell'agricoltura del paese; furono pubblicati il romanzo di uno dei patriarchi della l. sovietica, I. G. Erenburg (1891-1967), Ottepel´ (1954; ed. accresciuta 1956; trad. it. Il disgelo, 1955 e 1957), che mise in discussione il problema dei rapporti fra potere politico e arte, caratterizzando col suo titolo un intero periodo della cultura russa, e il romanzo di V.D. Dudincev (n. 1918), Ne chlebom edinym (1956; trad. it. Non si vive di solo pane, 1957), il cui bersaglio sono la sordità e il misoneismo delle gerarchie amministrative. A queste opere si affiancarono i romanzi di V.P. Nekrasov (1911-1987), V rodnom gorode (1954; trad. it. Nella città natale, 1955) e, più tardi, Kira Georgievna (1961; trad. it. 1961), che testimoniano una viva insofferenza per la situazione dell'URSS. Il rapporto Chruščëv al xx congresso del PCUS (1956), dove per la prima volta vennero denunciati i crimini dello stalinismo, accelerò i ritmi del cambiamento. Intorno alla rivista Junost´ (Gioventù), fondata nel 1956, prosatori come A.V. Kuznecov (1929-1979), A.T. Gladilin (n. 1935), G.N. Vladimov (pseud. di Volosevič, n. 1931), V.P. Aksënov (n. 1932) si fecero protagonisti del conflitto che opponeva la generazione dei padri, succubi del conformismo e del linguaggio pietrificato dell'arte di regime, alla sete di verità, alla volontà di dissacrazione dei giovani scrittori. Particolare significato assunsero i romanzi brevi di Vladimov, come Bol´šaja ruda (1961; trad. it. La grande vena, 1962), di Aksënov - Kollegi (1960, Colleghi), Zvëzdnyj bilet (1961; trad. it. Il biglietto stellato, 1961), Apel´siny iz Marokko (1963, Arance dal Marocco) -, di Kuznecov, come Babij Jar (1966, rielaborato nel 1969), ambientato nell'omonima località vicina a Kiev dove i nazisti perpetrarono un massacro di Ebrei.

Anche la poesia, sempre popolarissima in Russia, ebbe un ruolo importante. Già esponenti di generazioni più anziane, quali L.N. Martynov (1905-1980) o B.A. Sluckij (1919-1986), con le loro raccolte di versi rispettivamente del 1955 e 1957, preannunciavano il nuovo corso. Ben più radicale apparirà l'ansia di rinnovamento dei più giovani come E.A. Evtušenko (n. 1933), che nel 1956 ebbe grande successo con Stancija Zima (trad. it. La stazione di Zimà e altri versi, 1962); come A.A. Voznesenskij (n. 1933), autore della raccolta Parabola (1960, Parabola; trad. it. nel volume Scrivo come amo, 1962) e Antimiry (1964, Antimondi); o infine come Bella (Izabella) A. Achmadulina (n. 1937), che il pubblico saprà apprezzare sin dalla comparsa del volume Struna (1962, La corda; trad. it. in Tenerezza e altri addii, 1971).

Nel 1962 apparve su Novyj Mir il racconto di A.I. Solženicyn (n. 1918) Odin den´ Ivana Denisoviča (trad. it. Una giornata di Ivan Denisovič, 1963), la descrizione, tanto più dirompente per il pubblico in quanto minuziosamente realistica, della giornata di un recluso in un lager staliniano. Era la prima volta che un simile tema, già sfiorato più volte nella l. di quegli anni, veniva affrontato direttamente e l'evento parve annunciare mutamenti radicali non solo nel campo letterario, ma anche in quello politico. Si trattava tuttavia di un'illusione. I limiti di tolleranza del regime erano già apparsi evidenti nel caso di B. Pasternak che nel 1957 aveva dovuto pubblicare in Italia il suo romanzo Il dottor Živago (ed. in russo all'estero Doktor Živago, 1961), rifiutato in patria, e l'anno successivo era stato obbligato a rinunciare al premio Nobel. Le speranze che i processi riformatori innescati da Chruščëv potessero svilupparsi, che si arrivasse quindi a una trasformazione del rapporto arte-potere politico, crollarono definitivamente quando Chruščëv fu costretto alle dimissioni da segretario generale del PCUS e nel 1964 iniziò l'era di L.I. Brežnev, caratterizzata da forte conservatorismo.

Il primo sintomo di un simile 'ritorno al passato', e sia pure un passato meno brutalmente coerente di quello staliniano, fu il processo Sinjavskij-Daniel´.

A partire dal 1959 A.D. Sinjavskij (1925-1997), uno dei maggiori protagonisti della narrativa russa del secondo Novecento, aveva iniziato a pubblicare sulla rivista dell'emigrazione polacca Kultura, con lo pseudonimo di Abram Terc, racconti o romanzi brevi - Sud idët (1959; trad. it. Compagni, entra la corte, 1960), Ty i ja (1959, Tu e io), Kvartiranty (1958, Gli inquilini), Grafomany (1960, Grafomani), Gololedica (1961, La gelata), tradotti in italiano nel volume La gelata (1962), e Ljubimov (1961-62; trad. it. 1965) - in cui una graffiante vena satirica si mescolava a un'inarrestabile vocazione al fantastico e al grottesco, creando una miscela che contraddiceva tutti i canoni del realismo socialista. Assieme a Sinjavskij pubblicava su Kultura con lo pseudonimo di Nikolaj Aržak anche Ju.M. Daniel´, figura minore, ma capace di esiti lucidissimi, come nel più famoso dei suoi racconti, Govorit Moskva (1960-61; trad. it. Qui parla Mosca, 1966).

Già nel 1956 Sinjavskij aveva scritto il saggio Čto takoe socialističeskij realizm? (trad. it. Che cos'è il realismo socialista?, 1967), apparso a Parigi nel 1959 su Kultura, in cui smascherava l'estetica del regime. Identificati dal KGB, Sinjavskij e Daniel´ furono arrestati nel 1965 e processati e condannati l'anno seguente rispettivamente a sette e cinque anni di reclusione. Nel corso del processo, i due scrittori respinsero ogni accusa di attività antisovietica e rivendicarono il diritto dell'arte a essere libera da qualsiasi condizionamento, a cominciare da quello ideologico.

Dal processo Sinjavskij-Daniel´ alla perestrojka. - Nel periodo successivo la l. russa in qualche modo si sdoppiò: da un lato continuò a sopravvivere la l. 'ufficiale', che non metteva apertamente in discussione i dogmi ideologici del potere, pur facendo spesso della fronda intellettuale; dall'altro lato si sviluppò una l. che assumeva ruoli di opposizione sempre più decisi, pubblicata attraverso mezzi di fortuna (il cosiddetto samizdat o "autoeditoria") o in Occidente: la 'letteratura del dissenso' (dissidentskaja literatura). Non sempre la linea di demarcazione risultò netta: vi erano 'zone di transizione', scrittori che, pur mostrandosi critici verso il potere, rifiutavano di schierarsi apertamente. Non per questo il quadro generale mutò; tanto più che col procedere degli anni certi processi si radicalizzarono e anche chi aveva a lungo cercato un modus vivendi col regime finì per aderire al dissenso.

Nella l. 'ufficiale' non furono poche le personalità di rilievo, anche lasciando da parte una serie di figure non prive di qualche merito artistico, ma ancora legate agli schemi del realismo socialista.

Anzitutto il gruppo dei derevjanščiki ("rurofili"). Si tratta di narratori uniti principalmente dall'idealizzazione della campagna e dalla diffidenza verso la scienza e la tecnologia contemporanee. Se si considera il mito sovietico dell'homo novus comunista, capace di piegare perfino la natura ai propri fini, si comprende anche l'intonazione critica più o meno esplicita verso il potere, che caratterizzava questa corrente.

I suoi rappresentanti più significativi, che solitamente pubblicavano i loro testi sulla rivista Naš Sovremennik (Il nostro contemporaneo), erano S.P. Zalygin (n. 1913), F.A. Abramov (1920-1983), B.A. Možaev (n. 1923), V.I. Belov (n. 1932) e soprattutto V.G. Rasputin (n. 1937) e V.M. Šukšin (1929-1974). Rasputin era autore di romanzi brevi come Živi i pomni (1975; trad. it. Vivi e ricorda, 1986) o Proščanie s Matëroj (1976; trad. it. Il villaggio sommerso, 1980), dolente cronaca della morte di un villaggio, mentre Šukšin - uomo di cinema oltre che scrittore - pubblicò una serie di racconti allo stesso tempo lirici e vigorosi.

I rurofili rappresentavano una posizione critica verso il potere, ma conservatrice, legata com'era all'idealizzazione di un mondo tradizionale e talvolta arcaico. Di tutt'altro orientamento appare l'opera di Ju.V. Trifonov (1925-1981), "il cronista dell'intelligencija urbana sovietica".

In pagine sobrie e pregnanti, spesso di alta qualità - Obmen (1969, Lo scambio), Dolgoe proščanie (1973; trad. it. Lungo addio, 1977: l'edizione comprende anche l'opera precedente), Dom na naberežnoj (1976; trad. it. La casa sul lungofiume, 1977), Vremja i mesto (1981; trad. it. Il tempo e il luogo, 1983) -, Trifonov ha descritto soprattutto la progressiva perdita di valori, il conformismo e l'alienazione di un certo tipo di intellettuale; più in generale, l'insanabile iato fra le parole d'ordine dell'ideologia ufficiale e la prosaica, spesso squallida realtà della vita quotidiana in Unione Sovietica.

Se Trifonov affrontò nuove tematiche, A.G. Bitov (n. 1937) mirò invece principalmente al rinnovamento delle strutture formali, puntando anche al recupero di tradizioni letterarie tipiche degli anni Venti, a cominciare dal costruttivismo; in quest'ottica vanno viste le sue pagine migliori, da Obraz žizni (1972, L'immagine della vita) fino a Puškinskij dom (1978; trad. it. La casa di Puškin, 1988: la "casa" è l'Istituto di letteratura russa dell'Accademia delle scienze dell'URSS), che poté essere stampato nel 1978 soltanto in Occidente.

Un posto particolare occupò in quegli anni anche la fantascienza. Lungi dall'essere una l. di pura evasione, in Russia, soprattutto con l'opera dei fratelli Arkadij (n. 1925) e Boris N. Strugackij (n. 1933), essa si connota di una problematica filosofico-sociale, che non manca di risvolti critici nei confronti della situazione in URSS. Lo si vede nitidamente in testi degli Strugackij come Ulitka na sklone (1966-68, La lumaca sul pendio), Piknik na obočine (1972; trad. it. Picnic ai bordi della strada, nell'antologia Noi della galassia, 1982), Žuk v muravejnike (1979; trad. it. Lo scarabeo nel formicaio, 1982).

Nel panorama letterario dell'epoca non mancarono gli scrittori non russi, che scrivevano in lingua russa. Si tratta di un gruppo abbastanza numeroso con tre nomi di spicco: quelli del bielorusso V.V. Bykov (n. 1924), di cui si ricorda Znak bedy (1982, Segno di sciagura), e del kirghizo Č.T. Ajtmatov (n. 1928), autore di romanzi di ottima qualità - Belyj parachod (1970; trad. it. Il battello bianco, 1974), I dol´še veka dlitsja den´ (1980; trad. it. Il giorno che durò più di un secolo, 1982) - che colpiscono per i loro elementi stilistico-compositivi di origine orientale, ma anche per la complessità strutturale che li caratterizza; e quello dell'abkhazo F.A. Iskander (n. 1929), dalla vena irridente e felicemente grottesca, autore di Sozvezdie kozlotura (1966; trad. it. La costellazione del caprotoro, 1988).

Al di là della narrativa, se il panorama della l. teatrale è sostanzialmente scialbo - gli unici nomi di un certo rilievo sono quelli di A.N. Arbuzov (1908-1986) e di A.V. Vampilov (1937-1972) -, più variegato appare quello della poesia, dove continuarono a dimostrarsi buoni lirici Voznesenskij e l'Achmadulina, mentre Evtušenko assunse sempre più l'apparente ruolo di scrittore anticonformista, ma nella sostanza approfittò di tutti i benefici elargiti dal regime. Si affermava, invece, la personalità di A.A. Tarkovskij (1907-1989), padre del regista cinematografico, giunto alla maturità poetica solo negli anni Sessanta e autore di una lirica tradizionale nel suo involucro formale, ma ricca e complessa e raffinatamente nuova nei contenuti: Pered snegom (1962, Prima della neve), Vestnik (1969, Il messaggero; trad. it. in Poesie e racconti, 1992). Accanto a Tarkovskij, meritano di essere ricordati A.S. Kušner (n. 1936) e D.S. Samojlov (pseud. di Kaufman, 1920-1990).

Un cenno va fatto a quella produzione, che si colloca fra poesia e canzone, cui la rivoluzione dei media ha finito per dare grande importanza. Essa è legata soprattutto all'attività di B.S. Okudžava (1924-1977), che fu anche prosatore di non trascurabile rilievo - ricordiamo Bednyi Avrosimov (1969; trad. it. Il povero Avrosimov, 1969) e Putešestvie diletantov (1976-78, Il viaggio dei dilettanti) -, di A.A. Galič (pseud. di Ginzburg, 1919-1977) e del popolarissimo V.S. Vysockij (1938-1980): figure di 'poeti con la chitarra' che giocarono un ruolo notevolissimo nel distruggere le catene che opprimevano la vita intellettuale del paese.

Con Okudžava, Galič, Vysockij si tocca quella che si potrebbe definire la 'zona di transizione' della l. russa di quegli anni, a metà strada fra legalità e rottura dichiarata col potere (Galič del resto emigrò nel 1974). Chi imboccò quella strada diede vita al campo variegato, a tutt'oggi non facilmente schematizzabile e periodizzabile, della 'letteratura del dissenso'.

Negli stessi anni in cui Sinjavskij e Daniel´ pubblicarono i loro racconti su Kultura, comparvero in URSS le prime riviste non ufficiali: quaderni dattiloscritti, che gli stessi lettori provvedevano a diffondere ricopiandoli, come Bumerang, Sintaksis, Feniks-61. Era l'inizio del samizdat. Contemporaneamente in Occidente tutta una serie di periodici - Grani (Limiti) di Francoforte, Russkaja mysl´ (Il pensiero russo) di Parigi, Novyj žurnal (La nuova rivista) di New York - o di case editrici, come la parigina YMCA Press o la Posev di Francoforte, si specializzava nella pubblicazione di testi che in URSS non avrebbero potuto apparire. Più tardi nasceranno numerose riviste dell'emigrazione, di cui si ricordano le due principali: Kontinent (1974), diretta da V.E. Maksimov, e Sintaksis (1978), diretta da Sinjavskij. Quest'ultima, che aveva ripreso il titolo della pubblicazione in samizdat nata a suo tempo in URSS, rispetto alla conservatrice e 'slavofila' Kontinent, rappresentava l'ala più 'occidentalista' dell'emigrazione.

Su questo sfondo, il primo dei 'dissidenti' è indubbiamente Solženicyn. Dopo la comparsa in Unione Sovietica di Una giornata di Ivan Denisovič e di un altro suo notevolissimo racconto, Matrënin dvor (1963; trad. it. La casa di Matriona, 1963), non potendo pubblicare in patria, nel 1968 Solženicyn stampò in Occidente due romanzi, V kruge pervom (1968; trad. it. Il primo cerchio, 1968) e Rakovyj korpus (1968; trad. it. Divisione cancro, 1968), che rappresentarono uno spietato atto d'accusa contro il totalitarismo della società sovietica. Contemporaneamente egli radunò un'enorme massa di documentazione sui lager staliniani, elaborata nei tre volumi di Archipelag Gulag, anch'esso apparso in Occidente fra il 1973 e il 1975 (trad. it. Arcipelago Gulag, 1974-1978), un testo di significato epocale sugli orrori dello stalinismo.

Alla stessa tragica esperienza di repressioni staliniane si riallaccia una serie di opere che apparve in quegli anni. È il caso dei due romanzi brevi, a sfondo autobiografico, di L.K. Čukovskaja (n. 1907): Opustelyj dom (1965; trad. it. La casa deserta, 1977) e Spusk pod vodu (1972; trad. it. Indietro nell'acqua scura, 1979); o dei Kolymskie rasskazy (Racconti della Kolyma, apparsi a partire dal 1955 sulla stampa dell'emigrazione e in trad. it. dal 1976; trad. it. completa 1999), di V.T. Šalamov (1907-1982): una testimonianza sul più terribile dei lager siberiani, concepita con una pregnanza espressiva e una vis drammatica unica. È il caso anche dei romanzi di Ju.O. Dombrovskij (1909-1978): Chranitel´ drevnostej (1964; trad. it. Il conservatore del museo, 1965) e Fakultet nenužnych veščej (1978; trad. it. La facoltà delle cose inutili, 1979); o, infine, del già ricordato Vladimov, che in Vernyj Ruslan (1975; trad. it. Il fedele Ruslan. Storia di un cane del lager, 1976) racconta l'universo dei campi di concentramento attraverso gli occhi di un cane lupo addetto alla sorveglianza dei prigionieri.

La riflessione sullo stalinismo, con particolare riferimento alla questione ebraica, era poi anche al centro dell'opera di uno dei più significativi prosatori della Russia poststaliniana, Vasilij Semënovič (pseud. di Iosif Salomonovič) Grossman (1905-1964), i cui romanzi, Vsë tečët... (1971, Tutto scorre...) e Žizn´ i sud´ba (1980; trad. it. Vita e destino, 1984), vennero sequestrati negli anni Sessanta dal KGB e poterono essere pubblicati solo più tardi in Occidente. Un altro narratore, il già menzionato Maksimov (1930-1995), sia pure con risultati letterari di gran lunga inferiori a quelli di Grossman, partiva ugualmente da un esame critico dello stalinismo - Sem´ dnej tvorenija (1971; trad. it. I sette giorni della creazione, 1973) - per elaborare una critica globale della società sovietica.

Naturalmente non tutta la l. del dissenso si è esplicata nei modi di una dolorosa, talora drammatica denuncia. Vi fu al contrario un intero filone che percorse il cammino, già tracciato da Sinjavskij, di una satira che spesso non esitava a debordare nel grottesco, come quella di F. Iskander, al quale si è accennato, con il grande ciclo picaresco Sandro iz Čegema (1973-88; trad. it. Sandro di Čegem, 1998); o quella di V.N. Vojnovič (n. 1932) che, con il suo Žizn´ i neobyčajnye priključenija soldata Ivana Čonkina (1975; trad. it. Vita e straordinarie avventure del soldato Ivan Čonkin, 1979) creò una sorta di Švejk russo; o ancora quella di S.D. Dovlatov (1941-1990), che nei suoi racconti dette prova di un finissimo umorismo. A questi autori si affianca il logico matematico A.A. Zinov´ev (n. 1922), nella cui produzione - l'opera più nota è Zijajuščie vysoty (1976; trad. it. Cime abissali, 1977 e 1978) - la visione caricaturale dell'Unione Sovietica tende a farsi vera e propria fenomenologia di uno Stato totalitario. Il frutto migliore di questo tipo di l. è il romanzo breve di V.V. Erofeev (1938-1990), Moskva-Petuški (1973; trad. it. Mosca sulla vodka, 1977), esilarante e allo stesso tempo amarissima satira del marxismo volgare, di un rozzo e declamatorio materialismo che, attraverso il delirio etilico del protagonista, si interroga sul destino dell'uomo in una società - non solo quella totalitaria - che ha smarrito i propri referenti etici.

Nell'ambito della poesia emersero autori come il ciuvascio G.N. Ajgi (n. 1934), come G.V. Sapgir (n. 1928) o come E. Limonov (pseud. di E.V. Savenko, n. 1943), tutti influenzati dalla contemporanea produzione occidentale o dalla tradizione russa degli Oberjuty, che per pubblicare i loro scritti furono costretti a ricorrere al samizdat o a stamparli in paesi occidentali. Il più famoso fra questi poeti, il premio Nobel I.A. Brodskij (1940-1996), dopo aver iniziato a diffondere i suoi versi in patria su Sintaksis (ma più o meno contemporaneamente essi venivano stampati anche in Germania e negli Stati Uniti), nel 1964 venne condannato a cinque anni di reclusione per 'parassitismo' e quindi nel 1972 fu costretto a emigrare negli Stati Uniti. Da allora le sue raccolte - Ostanovka v pustynie (1970; trad. it. Fermata nel deserto, 1979), Konec prekrasnoj epochi (1977, Fine della Belle époque), Čast´ reči (1977, Una parte del discorso), Rimskie elegii (1982, Elegie romane), Uranija (1987), parzialmente tradotte in Poesie 1972-1985 (1986) - evidenziarono un poeta in cui il virtuosismo formale si accompagna sempre allo slancio di un'autentica ispirazione. Su di essa influì non poco il magistero, oltre che dei grandi lirici russi, degli occidentali, a cominciare dai metafisici inglesi.

Dalla perestrojka ai nostri giorni. - Tra la fine degli anni Settanta e l'inizio del decennio successivo, la situazione della l. russa in patria, dal punto di vista del regime sovietico, poteva dirsi vicina al collasso: dopo che si era deciso di non ostacolare più l'emigrazione politica, anzi in qualche caso di imporla, avevano lasciato il paese Brodskij, Sinjavskij, Maksimov, Galič, Nekrasov, Solženicyn, cui più tardi si unirono Maramzin, Zinov´ev, Dovlatov, Aksënov, Vojnovič, Vladimov, per citare solo i nomi di maggior rilievo. La pubblicazione nel 1979, nel samizdat, dell'almanacco Metropol´ (Metropoli) provocò una nuova ondata di repressioni, ma ormai la lotta contro la dissidenza - sia che si basasse sulla sola espulsione dall'Unione degli scrittori, sia che ricorresse agli ospedali psichiatrici, al carcere, all'esilio - appariva irrimediabilmente persa.

A parte ogni altra considerazione - fatta eccezione per i sempre meno numerosi esponenti della vecchia guardia ideologica - anche chi non assumeva posizioni di scontro con il potere ignorava ormai le prescrizioni del realismo socialista. Né gli organi preposti al controllo erano più in grado di opporsi alla l. del dissenso. È questo il caso di narratori come I. Grekova (pseud. di E.S. Ventcel´), Ju.M. Nagibin (1920-1994), V.F. Tendrjakov (1923-1984), V.S. Makanin (n. 1937), o dei commediografi V.I. Slavkin (n. 1935) e L.S. Petruševskaja (n. 1938), per limitarci anche a questo proposito ai nomi più noti.

Intanto, in Occidente, gli emigrati (la cosiddetta terza ondata, dopo quelle del 1917-22 e 1941-45) continuavano un'attività che, agli occhi di tutto il mondo, appariva ormai come la parte più importante e vitale della l. russa. Solženicyn, dopo aver pubblicato Lenin v Cjuriche (1975; trad. it. Lenin a Zurigo, 1976), ritiratosi negli Stati Uniti, portava avanti il ciclo di romanzi storico-documentari del Krasnoe koleso (La ruota rossa), inaugurato da Avgust četyrnadcatogo (1971; trad. it. Agosto 1914, 1972), con Oktjabr´ šestnadcatogo (1984, Ottobre 1916), cui seguiranno, a perestrojka già iniziata, Mart semnadcatogo (1986-88, Marzo 1917) e Aprel´ semnadcatogo (1991, Aprile 1917). Sinjavskij presentava i suoi ricordi del lager - Golos iz chora (1973; trad. it. Una voce dal coro, 1982) - o riprendeva la propria attività di critico con le sue pregevoli monografie su Puškin, Gogol´ e Rozanov; salvo a ritornare all'invenzione letteraria con Kroška Cores (1980) e Spokojnoj noči! (1984; trad. it. Buona notte!, 1987). Nekrasov scriveva Zapiski ževaki (1975, Taccuini di un perdigiorno), in cui affrontava temi particolarmente spinosi per il regime, e Aksënov, a sua volta, in quella notevole prova narrativa che è Ožog (1980; trad. it. L'ustione, 1980), attraverso un affresco caricaturale della Russia brežneviana, disegnava l'autobiografia di un'intera generazione.

La crisi della cultura non era d'altronde che un aspetto della più generale crisi politica dell'Unione Sovietica, cosicché quando, nel 1986, Michail Gorbačëv proclamò la necessità di una radicale ristrutturazione della società sovietica e affermò in politica interna il principio della glasnost´, anche l'assioma del monolitismo ideologico e, correlato con esso, il principio del controllo sull'arte furono travolti dalla ventata riformatrice.

Il processo attraversò due fasi. La prima fase giunge fino alla caduta del muro di Berlino. In quegli anni rimasero ancora in piedi le tradizionali strutture culturali sovietiche, a partire dall'Unione degli scrittori, ma con la censura pressoché eliminata. Apparvero allora testi che potevano affrontare senza remore i nodi irrisolti della storia del paese: da Vstan´ i idi (1987; trad. it. Alzati e cammina, 1988) di Nagibin a Deti Arbata (1987; trad. it. I figli dell'Arbat, 1988) di A.N. Rybakov (pseud. di Aronov, n. 1911), a Belye odeždi (1988; trad. it. Vesti bianche, 1989) di Dudincev; fino a quel Pjatyj ugol (1989; trad. it. Il quinto angolo, 1991) di I.M. Metter (1909-1996) - portato a termine già negli anni Sessanta ma ritenuto non pubblicabile - che non è solo una dolente riflessione sul destino dell'intelligencija russa in questo secolo, ma è anche romanzo di qualità non comune.

Insieme all'apparizione di queste opere, avveniva la riappropriazione da parte della cultura russa di numerosi autori fino a quel momento parzialmente o totalmente esclusi dal circuito editoriale: Solov´ëv, Vjačeslav Ivanov, Merežkovkij, Gippjus, Zamjatin, Chlebnikov, Gumilëv, Kljuev, la Achmatova di Requiem, il Pasternak de Il dottor Živago, Pil´njak, gli Oberjuty, Platonov; la l. dell'emigrazione, a cominciare da Remizov, Nabokov e buona parte della Cvetaeva; quindi la stessa l. del dissenso. L'importanza per il paese di un simile fenomeno non può essere sottovalutata.

Nel 1989 Viktor Erofeev (n. 1947), un letterato destinato a occupare un posto di primo piano, firmò un articolo che fece scalpore: Pominki po sovetskoj literature (Requiem per la letteratura sovietica). Già un anno prima l'autorevole Literaturnaja gazeta (Il giornale letterario) si era chiesta: "Dobbiamo rinunciare al realismo socialista?". La diagnosi di Erofeev parve una provocazione, ma la realtà si incaricò rapidamente di confermarla: investito dal trauma della dissoluzione dell'URSS, nel giro di meno di due anni l'intero 'sistema' letterario, edificato in epoca staliniana e puntellato con tanto accanimento nei decenni successivi, crollò come un castello di carte. E le conseguenze non furono di poco conto: in primo luogo la sparizione di ogni tipo di censura ideologica, quindi la fine del monopolio statale dell'editoria e la dissoluzione dell'Unione degli scrittori. A tutto questo si lega la scomparsa di una serie di privilegi di cui godevano i letterati allineati alla politica culturale del regime, a cominciare dal principale, vale a dire tirature delle proprie opere che potevano prescindere dalle richieste del mercato.

Le diverse letterature fino ad allora esistite - quella 'ufficiale', quella del dissenso in patria e quella in esilio - si sono ricomposte grazie anche al ritorno nel paese di molti émigrés, e per primo di Solženicyn. Contemporaneamente è proseguito e si è ampliato il processo di 'metabolizzazione' non soltanto di quella parte della cultura nazionale che era stata esclusa o tenuta ai margini della vita intellettuale del paese, ma anche delle espressioni migliori della cultura occidentale del nostro secolo.

Passato il momento di massimo disorientamento spirituale seguito alla caduta del comunismo, dopo l'istituzionalizzazione di correnti e tendenze che fino a quel momento avevano avuto diritto di cittadinanza solo a livello di underground o nell'emigrazione, creatosi in qualche modo un nuovo mercato librario non più controllato dallo Stato, anche il panorama letterario, lentamente, ha cominciato a farsi meno caotico. Generalizzando, dal momento che contraddizioni interne o 'zone di transizione' sono in realtà numerose, si può affermare che, da un punto di vista ideologico, si sono costituiti due schieramenti. Il primo, che potremmo definire neoslavofilo, ha come capisaldi intellettuali l'esaltazione delle tradizioni nazionali e la ripulsa del modello di vita occidentale, visto come una forma di materialismo capitalistico non meno oppressivo di quello propagandato a suo tempo dal marxismo di regime. A esso fanno capo quasi tutti gli ex rurofili, ma anche un poeta come Limonov e lo stesso Solženicyn (e non era difficile prevederlo, alla luce dei suoi scritti 'americani' degli anni Ottanta). I fautori di questa linea ideologica si caratterizzano, a parte poche eccezioni, anche per la conservazione dei modi espressivi tradizionali, e per il rifiuto di accogliere gli sperimentalismi di matrice occidentale. Il secondo schieramento, assai più eterogeneo, è unito invece dal proposito di aprirsi alle nuove esperienze intellettuali, di assorbire tutte le influenze esterne giudicate produttive, a cominciare da quelle formali. Tale schieramento ha anche rotto, inoltre, con la tradizione di perbenismo puritano tipica dell'era sovietica, mostrando in alcuni casi di puntare a un succès de scandale che l'ingenuità di un pubblico per tanti anni condizionato dalla censura rendeva, almeno all'inizio, facile.

Scrittori come Belov e Rasputin proseguono la linea 'antiurbana' dei rurofili con i loro romanzi - rispettivamente Vsë vperëd (1987, Tutto deve ancora venire) e Požar (1985, L'incendio) - intrisi di un cupo pessimismo sui destini della civiltà industriale. Pur con intonazioni ideologiche diverse, si allinea a questi nella denuncia della violenza e dell'emarginazione dei deboli, tipiche della società contemporanea, S.E. Kaledin (n. 1949), in un romanzo come Strojbat (1989; trad. it. iv Compagnia Strojbat, 1993). Sullo sfondo dello sconcerto e della paura del futuro che caratterizzano la società russa all'indomani del crollo del comunismo, Makanin rinverdisce la tradizione dell'utopia negativa, alla Zamjatin, con Laz (1991; trad. it. Il cunicolo, 1991). M.S. Charitonov (n. 1937), a sua volta, riprende una tematica tradizionale per la prosa russa del Novecento, quella storica, con Sundučuk Milaševiča (1992, Il bauletto di Milaševič). Il già ricordato Viktor Erofeev con Russkaja krasavica (1990; trad. it. La bella di Mosca, 1991) è forse il primo a introdurre in dosi massicce l'elemento erotico nella prosa russa contemporanea. V.V. Šarov (n. 1952) con Do i vo vremja (1993; trad. it. Prima e durante, 1996) dà vita a un romanzo visionario ma anche finemente ironico. V. Sorokin (n. 1955), infine, con testi quali Tridcataja ljubov´ Mariny (1987, Il trentesimo amore di Marina) o Serdca četyrëch (1994, I cuori dei quattro), conferma a pieno la sua fama di autore 'scandaloso' per eccellenza: non a caso è stato definito dal Times "il principale mostro della letteratura russa".

Nel panorama odierno, per l'alto livello qualitativo oltre che per le specificità tematiche, si segnalano in particolare alcune scrittrici: la già ricordata Petruševskaja, commediografa e narratrice, cui si deve il romanzo Vremja noč´ (1992, Tempo di notte), esemplare per l'amara nitidezza con cui descrive la condizione femminile in Russia; V. Tokareva (n. 1937), autrice di una serie di bei racconti tradotti in italiano col titolo di Amore immortale (1990); T. Tolstaja (n. 1951), nipote di A.N. Tolstoj, caratterizzata da una raffinata e complessa scrittura, autrice del romanzo Na zolotom kril´ce sideli (1987; trad. it. Sotto il portico dorato, 1989) e di una serie di racconti tradotti in italiano col titolo La più amata (1994). A tali nomi vanno aggiunti quelli di M. Palej e, soprattutto, di L. Ulickaja (n. 1943) - forse la voce femminile più limpida e genuina della narrativa russa contemporanea - il cui romanzo breve Sonečka (1992; trad. it. Sonja, 1998) ha riscosso in Occidente unanimi consensi.

Estremamente variegato è il quadro della poesia, dove, accanto a figure che continuano i modi tradizionali della lirica russa, come E. Rejn (n. 1935), è nata una pleiade di 'sperimentatori' (la critica ha parlato di concretismo, minimalismo, soc-art, concettualismo ecc.), fra cui vale la pena di citare L. Rubinštejn, V. Nekrasov e T. Kibirov, nonché la figura di maggior rilievo, il concettualista D. Prigov.

Al di là della 'cronaca' degli avvenimenti culturali degli ultimi anni, è arduo prevedere lo sviluppo della l. russa. Se cioè, malgrado le resistenze che il processo incontra, marcerà verso una totale omologazione alle consorelle occidentali, come molti prevedono; o se invece conserverà, in tutto o in parte, quell'afflato messianico, quella visione dell'arte verbale come strumento posto al servizio prima di ogni altro della verità che, pur con modi e forme nel tempo diversi, l'ha caratterizzata fin dalla sua nascita e le ha dato il posto unico che occupa nel panorama intellettuale europeo. Se si realizzerà la prima delle due ipotesi, è certo che ci si troverà di fronte a qualcosa di totalmente diverso da ciò che eravamo abituati a conoscere.

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Letterature slave. Polonia

di Marcello Piacentini

Se la guerra ha determinato una frattura più o meno profonda nella l. polacca del Novecento, l'assetto politico dal 1945 al 1989 è all'origine della scissione tra la l. prodotta in patria e la produzione letteraria di quegli scrittori che preferirono la strada dell'emigrazione contribuendo a mantenere vitale e a rinnovare la l. polacca. Le due l., artificiosamente separate ma non ermeticamente isolate, confluiranno in un unico circuito editoriale, ormai affrancato dal monopolio statale, solo dopo il 1989. La caduta definitiva del vecchio regime e l'abolizione della censura hanno determinato l'esaurirsi della tensione conflittuale tra l. e sistema politico repressivo, con effetti immediati sulla produzione letteraria. Da un lato, la scomparsa del mecenatismo statale e la conseguente difficoltà di una solida rete di case editrici hanno provocato una ridefinizione della produzione e della circolazione della l., diventata oggetto di consumo; dall'altro, sono affluite sul mercato librario polacco opere occidentali di ogni tipo e, soprattutto, sono stati pubblicati i libri del circuito clandestino e dell'emigrazione, recuperando pienamente alla cultura polacca un patrimonio letterario che in precedenza era restato in ombra. Fino ad allora questa l. raggiungeva in modo frammentario cerchie abbastanza ristrette di lettori ed era in gran parte limitata alle figure, sia pur dominanti, di Cz. Miłosz (n. 1911), K. Wierzyński (1894-1969), A. Wat (1900-1967), W. Gombrowicz (1904-1969), G. Herling-Grudziński (n. 1919). La l. dell'emigrazione si era rinnovata grazie anche all'apporto delle successive, consistenti, ondate di scrittori riparati all'estero, come M. Hłasko (1934-1969) e L. Tyrmand (1920-1985) dopo il 1956, o W. Odojewski (n. 1930) e H. Grynberg (n. 1936) dopo il 1968, scrittori che hanno contribuito a cambiarne la fisionomia e gli orientamenti, inizialmente conservatori e legati all'idea di una Polonia che non esisteva più.

I primi anni Cinquanta erano stati segnati dalla pianificazione della politica culturale che, dopo il Congresso di Stettino (1949), vincolò la l., e in genere l'arte, alla poetica del realismo socialista. Dalla distanza prospettica ed emotiva degli anni Ottanta e Novanta hanno preso l'avvio valutazioni e giudizi sul periodo sociorealista in Polonia, ma le motivazioni dell'adesione della stragrande maggioranza degli scrittori e intellettuali a quel totalitarismo estetico-politico non hanno trovato una risposta univoca nonostante i tentativi, pur illuminanti, di Miłosz (Zniewolony umysł, 1953; trad. it. La mente prigioniera, 1955, 1981) o di J. Trznadel (n. 1930: Hańba domowa. Rozmowa z pisarzami, 1986, Infamia domestica. Conversazione con gli scrittori). Il carattere pur episodico del sociorealismo in Polonia non ha impedito che i suoi effetti si siano tuttavia prolungati notevolmente nel tempo, particolarmente nella prosa degli esordienti che risentì di una visione schematica e semplificata dell'uomo. Sintomatiche a questo proposito sono le novelle di Hłasko (Pierwszy krok w chmurach, 1956; trad. it. Il primo passo tra le nuvole, in L'ottavo giorno della settimana, 1959), che pure segnarono l'inizio dell'affrancamento della l. e della cultura polacca dall'ideologia sociorealista, insieme ai versi di A. Ważyk (1905-1982: Poemat dla dorosłych, 1955, Poema per adulti) e alla Mostra delle giovani arti plastiche a Varsavia (1955).

La l. ebbe un ruolo decisivo nella svolta dell'ottobre 1956, liberando la cultura polacca dall'isolamento cui era stata costretta durante il periodo staliniano. Uno dei fenomeni più vistosi fu la diffusione massiccia e caotica di opere di autori occidentali, ma anche degli autori russi prima vietati (Pasternak, Cvetaeva), e l'apparire di una nuova produzione drammaturgica che influenzerà sensibilmente, insieme all'opera di S.I. Witkiewicz (1885-1939) e di Gombrowicz, la produzione teatrale. Dopo l'ottobre del 1956 la drammaturgia polacca si è sviluppata, al pari della poesia, sotto l'insegna della sperimentazione d'avanguardia, guadagnandosi una rinomanza mondiale soprattutto grazie all'originale dramma satirico e allo stile grottesco di S. Mrożek (n. 1930), nonché alla sperimentazione di nuove forme applicata da T. Różewicz (n. 1921) sia alla lingua, sia ai canoni tradizionali dell'opera drammatica. Fino alla metà degli anni Sessanta la drammaturgia polacca è stata feconda di proposte provenienti dai debuttanti della nuova generazione, come I. Iredyński (1939-1985) e S. Grochowiak (1934-1976). Al rinnovamento generale del teatro polacco hanno contribuito altresì in misura non indifferente il Teatro-Laboratorio di J. Grotowski (1933-1999) e, negli anni Settanta, il Cricot 2 di T. Kantor (1915-1990), autore che con Różewicz e soprattutto con Mrożek conseguirà un notevole successo internazionale.

Dalla generazione del '56 nacque una l. animata da uno spirito di rivolta, individualista piuttosto che politica, la quale, analogamente a quanto avveniva in Occidente, contestava la società: Hłasko ne è il primo esponente, poi A. Brycht (n. 1935), R. Kapusciński (n. 1932), A. Bursa (1932-1957); molti di loro rappresentano un mito ancor oggi vivo, come Hłasko, il poeta e cantautore E. Stachura (1937-1979) e il più giovane R. Wojaczek (1945-1971), la cui poesia lirica, vicina a quella dei coetanei hipsters occidentali, aveva espresso con i toni di un catastrofismo apocalittico lo stato d'animo di una generazione senza speranze né prospettive.

La poesia, dal canto suo, si sviluppò a partire dalla metà degli anni Cinquanta, riallacciando i legami con le esperienze interrotte dalla guerra e dal periodo stalinista, riacquistando una normale dinamicità attivata dalla coesistenza, anche conflittuale, di poetiche e stili differenti tra loro, anche se già nel 1957 la stabilizzazione avviata da W. Gomułka contrasse gli spazi di libertà. Sulla nuova generazione ha esercitato un influsso essenziale la poesia di Różewicz: il suo verso libero, il linguaggio poetico che tende ad annullare, programmaticamente, le differenze tra lingua della poesia e lingua della prosa, avvicinandosi talora nella forma all'arte pop, assurgono a modello che tuttavia diventerà presto, negli epigoni, di maniera. Da questa poesia si è sviluppata la corrente neoavanguardista, polemica sia nei confronti della l. tradizionale, sia verso la stessa avanguardia 'classica' (Awangarda Krakowska, "Avanguardia di Cracovia"), rappresentata, dopo la guerra, da J. Przyboś (1901-1970), che rimane una figura centrale come poeta e come teorico della poesia.

Esperienza fondamentale della neoavanguardia è stata la corrente della cosiddetta poesia linguistica (Z. Bieńkowski, 1913-1994; M. Białoszewski, 1922-1983; E. Balcerzan, n. 1937; T. Karpowicz, n. 1921; W. Wirpsza, 1918-1985), pienamente attiva fino agli inizi degli anni Settanta, ma la cui influenza durerà ben oltre. Sua caratteristica peculiare è la profonda diffidenza verso la lingua, intesa non già come strumento plasmabile dell'attività creativa, bensì come sistema autonomo che impone le proprie leggi. Se nella tematica della poesia linguistica sono privilegiati gli elementi marginali della società di massa (periferia, villaggio), una particolare attenzione è dedicata alla lingua corrente: questo orientamento inciderà profondamente nel formarsi di un nuovo modello di lingua letteraria basata sul linguaggio 'parlato' che darà origine negli anni Ottanta anche a una prosa linguistica.

Alle esperienze della poesia linguistica si ricollega in parte la poesia della cosiddetta Nowa Fala ("Nuova ondata"), nata sulla scia degli eventi del Sessantotto. Animata dall'istanza di rinnovare, demistificandola, la lingua consunta e svuotata di significato dalla propaganda e dai mass media, la pratica poetica della Nowa Fala si è sviluppata di pari passo con la produzione saggistica di S. Barańczak (n. 1946: Nieufni i zadufani, 1971, Diffidenti e fiduciosi), A. Zagajewski (n. 1945) e J. Kornhauser (n. 1946: Świat nie przedstawiony, 1974, Il mondo non rappresentato), al tempo stesso programma letterario per una poesia militante e acuta diagnosi dello stato dei rapporti tra l. e realtà. Altrettanto considerevole è la corrente neoclassica, il cui punto di partenza può essere individuato nella poesia dell'immediato dopoguerra di Miłosz (Ocalenie, 1945; trad. it. Salvezza, in Poesie, 1983), ma che acquistò spessore solo negli anni Sessanta, prima ancora che nella pratica poetica, nella saggistica (S. Vincenz, 1888-1971; R. Przybylski, n. 1928), e si sviluppò nel ventennio successivo con la poesia di J.M. Rymkiewicz (n. 1935), J. Sito (n. 1934), J. Hartwig (n. 1921), A. Miçdzyrzecki (n. 1922), mostrando vitalità fino ai giorni nostri.

È una poesia cosciente dell'impossibilità di ripetere le esperienze del classicismo in una contemporaneità segnata da profondi mutamenti. Non più opposto programmaticamente all'avanguardia - tanto che il verso di Z. Herbert (1924-1998), scarno e concreto, si avvicina spesso alla poesia di Różewicz - il neoclassicismo fonda la propria poetica sui valori e l'unità della cultura, che viene definita mediterranea, alla quale appartiene anche la cultura polacca (Z. Herbert, J. M. Rymkiewicz). Il richiamo alla tradizione letteraria non impone un isolamento dalla realtà, come dimostra il Pan Cogito (1974; trad. it. Il signor Cogito, 1993) di Z. Herbert, in cui il poeta si mostra osservatore disincantato e testimone ironico.

Gli orientamenti generali rappresentano comunque soltanto lo sfondo da cui emergono individualità poetiche non riducibili a una corrente in particolare. Nella poesia di Miłosz (dal 1951 attivo nell'emigrazione), lontana dall'estetismo e densa di accenti biblici, il classicismo rappresenta solo una delle tendenze. In versi pieni di discrezione, invece, W. Szymborska (n. 1923) ha saputo fondere mirabilmente riflessione filosofica e acuta ironia. Entrambi assicureranno alla l. polacca il più alto riconoscimento internazionale, ricevendo il premio Nobel rispettivamente nel 1980 e nel 1996.

Negli anni Settanta e Ottanta il progressivo deterioramento della situazione sociopolitica - dalle proteste studentesche del Sessantotto, alle brutali repressioni degli scioperi operai della costa baltica (1970) e di Radom e Ursus (1976), fino all'imposizione della legge marziale nel 1981 e all'internamento di molti intellettuali in campi di concentramento - aveva condizionato in misura crescente la cultura polacca. Un'efficace risposta al rafforzamento della censura preventiva e alla monopolizzazione statale dell'informazione è stata la nascita del circuito editoriale alternativo, atipico nella sua clandestinità, dal momento che gli scrittori vi pubblicavano sotto il proprio nome, tollerato entro certi limiti dal regime, ma ufficialmente non riconosciuto, e dunque inesistente. Proprio in questo circuito alternativo venne pubblicata la più importante, e quasi profetica, opera di narrativa politica di quegli anni: il romanzo fantapolitico di T. Konwicki (n. 1926) Mała apokalipsa (1979; trad. it. Piccola apocalisse, 1981), grottesco e orwelliano, mirato a evidenziare non solo il disfacimento del sistema, ma anche talune assurdità dell'opposizione.

Si era aperta una nuova fase nella l. che si faceva carico, idealmente e concretamente, di un impegno attivo nella realtà sociale, recuperando il ruolo attribuito allo scrittore dalla tradizione romantica, proprio quando la questione dell'indipendenza dello Stato, minacciata dalle modifiche alla Costituzione, imponeva una nuova coscienza dell'identità nazionale. Lo testimonia un diffuso ritorno al Romanticismo che trova espressione anche nella cultura popolare, nei versi nati nell'ambito degli scioperi di Solidarność. In teatro venne messa in scena la drammaturgia del 19° secolo relativa al periodo delle insurrezioni nazionali, che in qualche modo rispondeva alla crisi dello sperimentalismo nella drammaturgia contemporanea; mentre la prosa affrontava la tematica del periodo romantico cercando paralleli con la contemporaneità, in una sorta di contrappunto alla situazione dell'oggi (T. Konwicki, Kompleks polski, 1978, Complesso polacco).

Accanto a quello insurrezionale, un altro mito ha percorso la l. polacca rafforzandosi in quegli anni: il mito dei confini orientali, delle terre ucraine, bielorusse e lituane perdute dopo la guerra. Dopo aver avuto tanta parte nella l. del periodo romantico esso ritorna nella l. del dopoguerra nell'opera di Miłosz (Rodzinna Europa, 1958; trad. it. La mia Europa, 1985) e di W. Odojewski, attraversa l'intera opera di Konwicki - si pensi per es. al delizioso racconto 'romantico' Bohiń (1987) - fino all'affascinante romanzo di I. Newerly (1903-1987) Zostało z uczty bogów (Quel che è avanzato del banchetto degli dei), pubblicato postumo nel 1988.

La poesia degli anni Ottanta è soprattutto poesia di protesta contro lo stato di guerra. Dalla pressione immediata delle circostanze si svincolano solo alcune forti individualità come la Szymborska (Ludzie na moście, 1986; trad. it. Gente sul ponte, 1996) o Miłosz, le cui poesie cominciano a essere pubblicate in Polonia dal 1980, dopo il conferimento del premio Nobel. Fiorisce in questo periodo anche la singolare poesia religiosa di J. Twardowski (n. 1915: W kolejce do nieba, 1980, In fila per il cielo), mentre A. Świrszczyńska (1909-1984: Szczęśliwa jak psi ogon, 1978, Felice come la coda del cane), poetessa della generazione tra le due guerre, di spiccata e intensa sensibilità, raggiunge l'apice della produzione proprio in questo periodo. Ma l'evento poetico di quegli anni è la raccolta di Z. Herbert Raport z oblężonego Miasta (Parigi 1983; trad. it. Rapporto dalla Città assediata, 1993), in cui risuonano forti accenti patriottici. Nel complesso, la l. degli anni Ottanta, proponendosi come testimone della crisi, non è riuscita ad approfondire l'analisi degli eventi contemporanei, emotivamente coinvolta nel sottolineare la drammaticità della situazione, come testimonia M. Nowakowski (n. 1935) nel suo Raport o stanie wojennym (1982, Rapporto sullo stato di guerra). La poesia di W. Woroszylski (1927-1996: Lustro. Dziennik internowania, 1983, Specchio. Diario dall'internazione) e la prosa di Konwicki (Wschody i zachody księżyca, 1982, Il sorgere e il tramontare della luna), stilisticamente oscillante tra il racconto e la diaristica, riescono comunque a restituire il clima del periodo.

Caratteristica della prosa degli anni Settanta e Ottanta è proprio un tipo di narrazione che tende ad annullare i confini tra i diversi generi letterari, contaminando procedimenti specifici della diaristica, memorialistica, autobiografia, saggistica, del giornalismo o della narrazione fabulare. In Polonia, la crisi della concezione del racconto tradizionalmente inteso è ravvisabile nei mutamenti di rilievo che intervengono già sul finire degli anni Cinquanta: da un lato, l'approccio realistico si orienta decisamente verso una riflessione filosofica sul senso della realtà (M. Dąbrowska, 1889-1965) e verso l'esistenzialismo (J. Iwaszkiewicz, 1894-1980); dall'altro, la fabula viene sostituita dalla narrazione, che rappresenta un tratto specifico della prosa di A. Kuśniewicz (1904-1993: Eroica, 1963; Król obojga Sycylii, 1970, trad. it. Il re delle Due Sicilie, 1981), o dal monologo interiore (W. Odojewski, Miejsca nawiedzone, 1959; trad. it. Interregno, 1965).

Alla formazione di questo nuovo canone che complessivamente può essere riportato alla poetica dell'anti-fiction, all'inizio del quale sta il Diario scritto da W. Gombrowicz e apparso sulla rivista Kultura dal 1953 al 1969 durante gli anni di emigrazione, prima in Argentina e poi in Europa (Dziennik; trad. it. 1970, 1972, 1985), contribuì la maggior parte degli scrittori, da M. Kuncewiczowa (1895-1989: Fantomy, 1971, Fantasmi) a K. Brandys (n. 1916), i cui appunti Miesiące (trad. it. parziale Mesi, 1983) abbracciano la decade dal 1978 al 1988, da T. Konwicki (Kalendarz i klepsydra, 1976, Il calendario e la clessidra) a M. Białoszewski (Donosy rzeczywistości, 1973, Delazioni della realtà), fino al romanzo autotematico di J. Andrzejewski (1909-1983: Miazga, 1979, Poltiglia).

Sempre attuale rimane la tematica bellica, e in particolar modo l'olocausto, che dominò nella prosa dell'immediato dopoguerra, espressa anche attraverso la sperimentazione di nuovi linguaggi artistici e procedimenti narrativi nei racconti di T. Borowski (1922-1951: U nas w Auszwicu, Proszę Państwa do gazu 1946; trad. it. Da noi ad Auschwitz, Prego, signori, al gas, in Paesaggio dopo la battaglia, 1988), L. Buczkowski (1905-1989: Czarny potok, 1954; trad. it. Torrente nero, 1964) o con la prosa neoavanguardista di M. Białoszewski (Pamiętnik z powstania Warszawskiego, 1970, Diario dell'insurrezione di Varsavia). Nelle nuove generazioni la distanza temporale non stempera la drammaticità degli eventi, che si riflette nelle opere di H. Grynberg (Żydowska wojna, 1965; trad. it. La guerra degli ebrei, 1992), B. Wojdowski (1930-1994: Chleb rzucony umarłym, 1971, Pane gettato ai morti), fino all'interessante esordio di P. Huelle (n. 1957: Weiser Dawidek, 1987; trad. it. Cognome e nome: Weiser Dawidek, 1990) e alle ultime prove di H. Krall (n. 1935: Taniec na cudzym weselu, 1993; trad. it. La festa non è la vostra, 1997); mentre A. Szczypiorski (n. 1924) restituisce nel romanzo Początek (1986; trad. it. La bella signora Seidenman, 1988) l'atmosfera degli anni dell'occupazione evitando facili stereotipi. Un posto a sé occupa la testimonianza di G. Herling-Grudziński - autore di saggi sulla l. russa (Upiory rewolucji, 1969; trad. it. Gli spettri della rivoluzione, 1994) e di novelle, ambientate in Italia, pervase da un tragico esistenzialismo (Skrzydła ołtarza, 1960; trad. it. Pale di altare, 1960) -, che per primo svelò al mondo la realtà dei lager sovietici (Inny świat, trad. ingl. 1951; in polacco 1953; trad. it. Un mondo a parte, 1958).

Negli anni Novanta, alla crisi dell'assetto politico non ha corrisposto una svolta radicale in l., né, e pare significativo, sono sorte opere nuove di particolare valore. Certamente nella prosa è evidente oggi una fase di rottura rispetto al canone degli anni Settanta-Ottanta. Più che avanzare proprie soluzioni originali, la narrativa tende tuttavia decisamente a ripristinare un modello tradizionale di racconto, proposto apertamente come fiction, con le sue specificità e convenzioni letterarie, mentre la ricerca di una perfezione stilistica ed espressiva mira a suscitare l'emozione del lettore.

Le opere di P. Huelle (Opowiadania na czas przeprowadzki, 1991; trad. it. Lumache, pozzanghere e pioggia, 1995), A. Bolecka (n. 1952: Biały kamień, 1994, La pietra bianca), T. Tryzna (n. 1948: Panna Nikt, 1994, La signorina Nessuno) riscuotono grande successo di pubblico e di critica, parte della quale tuttavia è propensa a scorgervi una variante, pur assai raffinata e di alto livello letterario, della facile l. popolare. È una prosa disimpegnata, che volge in parodia le convenzioni letterarie del ventennio precedente (J. Pilch, n. 1952: Spis cudzołożnic, L'elenco delle adultere, pubblicato a Londra nel 1993). Toni molto più radicali risuonano invece in un gruppo di poeti e prosatori che gravitano intorno alla rivista di controcultura BruLion (Brutta copia), animata da uno spirito anarchico, contestataria e provocatoria fino alla blasfemia e alla pornografia: i poeti, tra cui forse il più interessante è M. Świetlicki (n. 1961), pubblicano nel 1991 la loro prima antologia dal titolo significativo e ambiguo Przyszli barbarzyńcy (I futuri barbari, o Sono arrivati i barbari), mentre tra i prosatori emergono M. Gretkowska (n. 1964: Kabaret metafizyczny, 1994, Cabaret metafisico) e I. Filipiak (n. 1961: Absolutna amnezja, 1995, Amnesia totale).

In questo panorama composito e in evoluzione, hanno continuato a operare gli scrittori delle vecchie generazioni come l'autore di Hermes, pies i gwiazda (1957) Z. Herbert (Rovigo, 1992; Koniec burzy, 1998, Fine della tempesta), Cz. Miłosz (Na brzegu rzeki, 1994, Sulla riva del fiume), W. Szymborska (Koniec i Początek, 1993; trad. it. Fine e inizio, 1997), sempre fecondi di proposte e sensibili alle vicende della contemporaneità, magistralmente esposte nei reportage letterari di R. Kapuściński (Imperium, 1993; trad. it. 1994). È comunque evidente il distacco delle nuove generazioni dalla l. del ventennio precedente.

Pur nella molteplicità degli orientamenti, anche formali, della nuova generazione esordiente negli ultimi anni, si può scorgere con una certa chiarezza una tendenza generale: l'allontanamento da una serie di codici, valori e anche stereotipi fissati nella l. polacca da una lunga tradizione; paradossalmente proprio quando alla poesia, che da quella tradizione è nata, è stato conferito, per la seconda volta nel giro di tre lustri, il massimo riconoscimento mondiale.

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Letterature slave. Repubblica Ceca

di Giuseppe Dierna

La rivoluzione detta di velluto avvenuta in Cecoslovacchia nel novembre del 1989 - e che ebbe tra le sue prime conseguenze l'elezione del drammaturgo V. Havel alla carica di presidente della Repubblica e la separazione dalla Slovacchia (1993) - ha comportato per l'intera cultura ceca la caduta di una serie di barriere che avevano impedito la regolare evoluzione della l. nei due decenni precedenti, provocando mutamenti strutturali all'interno del sistema letterario del decennio successivo.

A partire da quella data finisce in primo luogo l'ostracismo editoriale nei confronti degli scrittori che non si erano riconosciuti nel regime imposto nel 1968 dopo la repressione della Primavera di Praga, quando negli anni della normalizzazione era stata ridotta al silenzio ogni voce di dissenso. Ricomparvero allora nelle librerie e nelle biblioteche pubbliche non solo le opere degli scrittori che erano stati costretti all'emigrazione e avevano potuto pubblicare solo nelle case editrici ceche sorte all'estero - J. Škvorecký, M. Kundera, J. Kolář -, ma anche di quegli autori che avevano invece scelto una coraggiosa opposizione interna: apertamente ostentata (V. Havel, L. Vaculík), o più sommessamente praticata nell'intimo della propria ricerca letteraria (B. Hrabal, E. Bondy, J. Kratochvíl). Il controllo censorio non aveva riguardato però soltanto le opere scritte nel ventennio della normalizzazione politica, ma si era allargato anche a testi scritti e pubblicati negli anni Sessanta, nonché alla produzione ancora precedente di autori cattolici di notevole spessore come J. Deml (1878-1961) o J. Durych (1886-1962), o di figure dalla difficile collocazione, come il filosofo e scrittore L. Klíma (1878-1928). In questa bizzarra e indistinta compresenza di vecchio e di nuovo, il vecchio rappresenta spesso per il lettore una novità totale, come nel caso della prima produzione poetica di J. Kolář (n. 1914), e di autori legati alla tradizione surrealista, da V. Effenberger (1923-1986) a Z. Havlíček (1922-1969). In questo quasi inverosimile scherzo della storia, che con l'inizio degli anni Novanta mette a disposizione e pone uno accanto all'altro testi appartenenti a fasi ben distinte e lontane della cultura ceca, risulta difficile individuare le reali linee evolutive che si distacchino dall'effimero delle mode.

La poesia - dopo la scomparsa di due delle personalità più significative degli ultimi decenni, J. Seifert (1901-1986; premio Nobel per la letteratura nel 1984) e J. Skácel (1922-1989) - si trova in un momento di stasi. Nella produzione della generazione più anziana si segnalano i versi amaramente riflessivi di Z. Hejda (n. 1930) e I. Diviš (n. 1924), ancora sulla linea di V. Holan (1905-1980), il razionalismo scientificheggiante delle nuove raccolte di M. Holub (n. 1923) e i bei cicli poetici di K. Šiktanc (n. 1928), che, dopo alcuni testi pubblicati in samizdat o all'estero, continua nel solco di una poetica di angosciante tragicità (Utopenejch voči, 1991, Gli occhi degli annegati). P. Král (n. 1941), poeta d'indole intensamente lirica, dopo esordi nel segno del surrealismo, insegue ora una propria metafisica della realtà (Pocit předsálí v aixské kavárně, 1991, Sentimento di anticamera in un caffè di Aix), mentre il duttile I. Wernisch (n. 1942) alterna e mescola poesie e prose liriche, quasi diaristiche, sempre marcate da un feroce e ironico distacco (Doupě latinářů, 1992, La tana dei latinisti). La mai sopita tradizione surrealista vede, accanto alla notevole produzione poetica di P. Řezníček (n. 1942: Kráter Resnik a jiné básně, 1990, Il cratere Resnik e altre poesie), la pubblicazione delle prime raccolte ufficiali dei membri del nuovo gruppo surrealista: S. Dvorský (n. 1940), F. Dryje (n. 1951), J. Janda (n. 1950). A queste si aggiunga l'uscita forzosamente ritardata delle raccolte di Havlíček, Effenberger e M. Nápravník (n. 1931) degli anni Cinquanta-Sessanta, che ha permesso finalmente di ricostruire le linee di uno sviluppo spesso sotterraneo. Tra le altre voci, per la loro sbrigliata fantasia si segnalano l'esordio poetico di M. Ajvaz (n. 1949), ben presto passato alla prosa, e le raccolte di M. Huptych (n. 1952), che accompagna con collage i propri versi. Tra i più giovani, per il loro tentativo di rendere con immediatezza la realtà, sono da menzionare l'aspra S. Antošová (n. 1957), P. Placák (n. 1964) e Jáchym Topol (n. 1962: V útery bude válka, 1992, Martedì ci sarà la guerra); a un più complesso lirismo mirano invece le raccolte poetiche di M. Langer (n. 1972) e J. Typlt (n. 1973).

Non si assiste a grandi mutamenti di indirizzo nei prosatori della generazione più anziana - J. Škvorecký (n. 1924), I. Klíma (n. 1931), A. Lustig (n. 1926) - mentre la morte di B. Hrabal (1914-1997) ha privato la l. ceca del maggior narratore della seconda metà del 20° secolo. Sembrano soprattutto due le tendenze ora dominanti, già presenti peraltro nella produzione del decennio precedente, costretta però alla circolazione del samizdat e delle case editrici all'estero, quando non del tutto inedita. Da un lato a dominare sono la memoria e il documento, visti come arma politica per combattere le manipolazioni della storia e reagire al realismo posticcio della normalizzazione, come nel sopravvalutato romanzo-diario Český snář (1983, Il libro dei sogni boemo), in cui L. Vaculík (n. 1926) ha descritto con dovizia di particolari la propria vita di dissidente. Nei racconti di V. Třešňák (n. 1950), ambientati nelle periferie praghesi, è invece palese una predilezione per la grigia quotidianità degli ultimi anni del socialismo reale: una realtà venata talvolta - come in Medorek (1990, ma scritto nel 1986) di Placák - di lancinanti sogni di fuga del giovane protagonista, oppure descritta con stancante perizia 'fattografica' e in un faticoso gergo giovanile, come nell'ipertrofico romanzo Sestra (1994, La sorella) del già ricordato Topol, dalla critica affrettatamente acclamato come manifesto della nuova generazione.

A questo descrizionismo iperrealistico, riscattato solo dalla robusta corposità del linguaggio, si oppone una l. che ostentatamente privilegia il proprio carattere riflessivo. I preziosismi della fantasia dominano in Lov žen a jiné odložené slavnosti (1993, La caccia alle donne e altre feste rimandate), scritto agli inizi degli anni Ottanta dal grafico V. Vokolek (n. 1947). Un'inventività priva di ogni controllo e quasi sull'orlo della grafomania si impone invece nelle narrazioni d'impianto surrealista di Řezníček (Strop, 1991, trad. it. Il soffitto, 1984; e Alexandr v tramvaji, 1994, Alexandr in tram, scritti già negli anni Settanta; Cerf volant, 1995) e nelle bizzarre prose liriche del giovane Typlt (Pohyblivé prahy chramů, 1991, Soglie mobili di cattedrali; Zápas s rodokmenem, 1993, La lotta con l'albero genealogico).

E se Kundera (n. 1929) - dopo il successo mondiale di Nesnesitelná lehkost bytí (1984; trad. it. L'insostenibile leggerezza dell'essere, 1985) e il successivo Nesmrtelnost (1990; trad. it. L'immortalità, 1990), che del primo abilmente ripeteva l'impianto costruttivo - ha abbandonato il ceco ed è passato ormai a scrivere solo in francese, la sua linea così attenta a un consapevole gioco con i piani della narrazione non verrà certo abbandonata. La ritroveremo infatti nel romanzo Občan Monte Christo (1993, Il cittadino Montecristo) scritto già nel 1981 dal semiologo V. Macura (n. 1945), che attinge all'Ottocento risorgimentale i materiali per le proprie ironiche ed erudite costruzioni romanzesche, in Daleko od stromu (1987, Lontano dall'albero) di Z. Brabcová (n. 1959) e nelle prose fantastiche di D. Hodrová (n. 1946), che sceglie la 'Praga magica' di A.M. Ripellino a sfondo delle proprie costruzioni narrative. Per i risultati raggiunti e la leggerezza della scrittura, emergono soprattutto i testi marcatamente lirici di J. Kratochvíl (n. 1940: Medvědí román, 1990, Il romanzo dell'orso, scritto nel 1985; Uprostřed nocí zpěv, 1992, Il canto nel mezzo delle notti), che rimandano al magistero di Hrabal e alla migliore prosa sperimentale ceca dei decenni precedenti, da V. Linhartová (n. 1938) - dal 1968 in Francia, e passata anch'essa a scrivere in francese - a J. Fried (n. 1923) e J. Gruša (n. 1938).

Nel panorama della prosa ceca di questi anni si ritagliano uno spazio particolare il cerebrale V. Jamek (n. 1949), autore di un romanzo-saggio di feroce critica nei confronti del carattere nazionale, il Traité des courtes merveilles (1989; trad. it. Ricordi di un mitteleuropeo errante, 1990), e il più tradizionale V. Fischl (n. 1912; dal 1949 in Israele, dove ha assunto il nome di Avigdor Dagan), narratore strettamente legato a tematiche ebraiche (Dvorní šašci, 1990, Buffoni di corte; Jeruzalemské povídky, 1991, Racconti di Gerusalemme; scritti entrambi già all'inizio degli anni Ottanta).

Un lirismo eccessivo, una soggettività spesso sfrangiata o al limite dell'anomalia, e una ricerca quasi ostentata della frammentarietà, che rischia di soffocare la produzione narrativa dei prossimi anni, marcano l'opera di due scrittori di sicuro interesse come I. Matoušek (n. 1948) e A. Berková (n. 1949), della quale è da ricordare almeno il romanzo Magorie (1991). Ugualmente rischia di perdersi in un fantastico ombrato di esoterismo la scrittura del citato Ajvaz, autore di belle prose ambientate in una misteriosa Praga anni Sessanta, dietro i cui contorni sembra intravedersi la città descritta da G. Meyrink all'inizio del secolo (Druhé mesto, 1993, La seconda città). Non può allora stupire il successo che arride al sarcasmo pur di corto respiro dell'abile M. Viewegh (n. 1962), alla sua accattivante e lineare riscrittu-ra degli anni del socialismo reale (Báječná léta pod psa, 1992, Fantastici anni da cani; Výchova dívek v Čechách, 1994, L'educazione delle fanciulle in Boemia).

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Letterature di lingua araba

di Cristiana Baldazzi

La disfatta subita dai paesi arabi nel 1967 ha lasciato un segno così profondo da incidere in modo determinante sull'evoluzione della l. araba contemporanea. Gli effetti del conflitto arabo-israeliano nel mondo arabo sono fortemente visibili, non solo dal punto di vista sociale (per via del gran numero di profughi palestinesi), ma anche dal punto di vista culturale, poiché la questione palestinese, pur riguardando direttamente soltanto uno dei popoli della regione, rappresenta la causa araba nella sua totalità. La sconfitta del 1967 è divenuta uno dei temi privilegiati dalla l. araba, evento emblematico in cui si riflette la condizione di tutti coloro che hanno subito un sopruso.

Già in passato gli scrittori arabi avevano preso coscienza del loro ruolo all'interno della società e avevano scelto di descrivere la realtà con romanzi di stampo sociale e realistico (Maḥmūd Taymūr, Naǧīb Maḥfūẓ). Con la nascita del mensile al-Ādāb (Le lettere) nel gennaio 1953, si delinea più chiaramente il corso della l. araba moderna: si pone il problema del rapporto tra forma e contenuto, che in questa prima fase trova nella supremazia del contenuto una maggiore rispondenza, sia di autori sia di pubblico. Ispirandosi all'esistenzialismo di J.-P. Sartre, al-Ādāb incoraggia ogni tipo di innovazione, nella poesia come nella narrativa, senza tuttavia assumere posizioni spiccatamente avanguardistiche. La libertà, la lotta, la ribellione, il progresso sociale sono i temi cui si rivolgono di preferenza, con una rinnovata sensibilità, i numerosi scrittori riuniti intorno alla rivista. Il richiamo alla responsabilità delle scelte coinvolge anche l'intellettuale arabo, che dà vita a una l. fondata essenzialmente sull'impegno sociale e politico, e definita dal critico palestinese Ǧabrā Ibrāhīm Ǧabrā adab multazim ("letteratura impegnata").

Il direttore di al-Ādāb, il libanese Suhayl Idrīs (n. 1923), è stato uno dei principali divulgatori, nonché traduttore, delle opere di Sartre e S. de Beauvoir. Nel romanzo al-Ḥayy al-Lātīnī (1953, Il quartiere latino), storia d'amore tra un giovane arabo e una ragazza francese, Idrīs ha posto l'accento sul confronto culturale tra Oriente e Occidente, tematica brillantemente trattata in seguito da numerosi autori: il sudanese al-Ṭayyib Ṣāliḥ (n. 1929: Mawsim al-hiǧra ilā ῾l-Šamāl, 1966; trad. it. La stagione della migrazione a Nord, 1992); l'egiziano ῾Abd al-Ḥakīm Qāsim (1935-1990: Muḥawala lī ῾l-ḥurūǧ, 1980, Tentativo di uscita); il marocchino Muḥammad Zifzāf (n. 1945: al-Mar'a wa ῾l-warda, 1971, La donna e la rosa).

In questa atmosfera, caratterizzata per lo più dal coinvolgimento attivo dello scrittore divenuto membro di organizzazioni, movimenti e partiti, si inaugura un vivace dibattito culturale sul ruolo dell'intellettuale nella società. Il tunisino Maḥmūd Mas῾adī (n. 1911) rivendica per lo scrittore la massima libertà espressiva, in una prospettiva volta ad "arricchire le conoscenze e la sensibilità del lettore, ampliandone la visione del mondo". Ma la posizione dominante è espressa dal critico egiziano ῾Abd al-῾Aẓīm Anīs, che sottolinea la responsabilità sociale dello scrittore in un testo che influenzerà in maniera decisiva il corso successivo della l. araba (Fī ῾l-taqāfa al-miṣriyya, 1955, Nella cultura egiziana).

Il romanzo e la novella, due generi letterari importati dall'Occidente, sono ormai largamente sperimentati dalla l. araba moderna e hanno assunto una forma propria, in una felice sintesi di tradizione e modernità. La novella in particolare sembra adattarsi assai bene alle specifiche realtà culturali quali si vanno configurando all'interno dei singoli stati-nazione (Egitto, Algeria, Tunisia, Siria ecc.). Al contempo, la nascita di riviste letterarie - come al-Ādāb, Ši῾r (Poesia), Mawāqif (Posizioni) - e la pubblicazione di racconti o di romanzi a puntate nei giornali contribuiscono notevolmente a una diffusione più capillare della l. in generale e del racconto breve in particolare.

Questo genere letterario, già presente all'inizio del 20° secolo, si afferma con maggior vigore intorno agli anni Sessanta, soprattutto con la pubblicazione di alcune raccolte di tendenza realistica, come Āh̠ir al-dunyā (1961; trad. it. Alla fine del mondo, 1993) dell'egiziano Yūsuf Idrīs (1927-1991), in cui per la prima volta prendono voce personaggi appartenenti agli strati più umili della popolazione, in polemica con la l. di mero intrattenimento. Oltre che con Idrīs la fortuna del racconto breve trova conferma nei toni realistici dei siriani Ḥannā Mīnah (n. 1924), Sa῾īd Ḥuraniyya (1929-1994), Fāris Zarzūr (n. 1930), del libanese Suhayl Idrīs e dei palestinesi Ǧabrā Ibrāhīm Ǧabrā (1919-1994), Ġassān Kanafānī (1936-1972), ma anche nei modi di gusto simbolista e modernista di Idwār al-H̠arrāṭ (n. 1926) in Egitto, di Fu'ād al-Takarlī (n. 1927) in Iraq, di Zakariyyā Tāmir (n. 1931) in Siria ecc. La struttura della qiṣṣa qaṣīra (racconto breve, novella) appare la più appropriata a definire sia le diverse realtà oggettive che via via lo scrittore si appresta a descrivere, sia il suo modo di sentire e di percepire il mondo. Il rapido evolversi degli avvenimenti sembra riflettersi nella struttura essenziale del racconto, che, al contrario del romanzo, non richiede tempi lunghi né di composizione né di lettura.

Il racconto breve si presta inoltre alla sperimentazione di tecniche nuove, come il monologo interiore e soprattutto il flashback, che può assimilare il racconto a una sorta di montaggio cinematografico. L'introduzione di dialoghi permette allo scrittore di utilizzare una lingua parlata, o vernacolare, in cui meglio si riflette la realtà dei personaggi. Molti sono gli scrittori che si avvalgono di un linguaggio essenziale, spesso crudo, per dare voce agli innumerevoli disagi e alle frustrazioni di una società gravata da pressioni politiche ed economiche. Tra i primi ad avvalersi del vernacolo è stato l'iracheno Fu'ād al-Takarlī, che ha saputo imprimere al racconto breve i ritmi della narrazione cinematografica (Raǧ῾ al-ba῾īd, 1980, L'eco lontana).

Accanto alla narrativa, anche la poesia sperimenta nuove forme e infrange i rigidi schemi della poesia classica, la qaṣīda, per affermare la supremazia del verso libero (ši῾r al-ḥurr): portavoce di tale poetica è la rivista libanese Ši῾r. Ma i prodromi della poesia 'libera' risalgono all'opera del poeta iracheno Badr Šakīr al-Sayyāb (1926-1964), che già negli anni Cinquanta aveva introdotto tecniche innovative nel linguaggio e nella forma. L'approfondita conoscenza della tradizione poetica araba ha permesso ad al-Sayyāb di utilizzare la lingua classica, mostrando come essa possa sapientemente esprimere i sentimenti più diversi e attuali. Sulla scia di al-Sayyāb e della poetessa Nāzik al-Malā'ika (1923-1995), anch'essa irachena e considerata una delle pioniere del verso libero, ha preso vita una nuova tendenza poetica, definita modernista.

Fondata a Beirut nel 1957 da Yūsuf al-H̠āl (1917-1987) e da Adonis (n. 1930), la rivista Ši῾r ha riunito intorno a sé un vasto gruppo di intellettuali vicini alle posizioni di al-H̠āl, secondo cui la poesia deve esprimere le esperienze della vita e avere come obiettivo l'umanità. La rivista ha affrontato inoltre l'annoso problema della lingua, ovvero la dicotomia esistente tra arabo classico (fuṣḥā) e arabo dialettale (῾āmmiyya), preferendo quest'ultimo alla lingua colta: in poesia, il linguaggio non costituisce un mezzo di comunicazione, ma di creazione; le parole devono infatti ispirare, suggerire, piuttosto che esprimere semplicemente concetti. Al coinvolgimento politico, come pure all'impegno nazionale (ši῾r al-waṭanī), si sostituisce un'attitudine a superare i temi e le regole convenzionali; nuova esigenza è quindi quella di creare un linguaggio poetico (anche vernacolare) che risponda alle più diverse sensibilità.

Dal punto di vista formale, la novità della poesia modernista, in particolare quella di Nāzik al-Malā'ika, si traduce in una ripetizione libera del singolo piede (taf῾ila), considerato come unità metrica. A questa prima rivoluzione formale, che tuttavia insiste sull'uso della rima nel rispetto del ritmo, segue una seconda fase, in cui viene rifiutato ogni elemento della prosodia araba. Il poeta è libero di utilizzare e creare il verso che meglio esprime la sua sensibilità e percezione poetica.

La flessibilità dei canoni poetici ha permesso l'emergere di un nuovo genere letterario, la prosa poetica o poema in prosa (al-ši῾r al-manṯūr, oppure al-naṯr al-ši῾rī), che deriva i suoi effetti ritmici da alcune tecniche quali il parallelismo, la ripetizione, l'assonanza e l'allitterazione. Tra gli iniziatori di questa nuova tendenza si segnalano il palestinese Tawfīq Ṣāyiġ (1924-1971), che già nel 1953 aveva pubblicato il suo primo volume di prosa poetica (Talaṯūna qaṣīda, Trenta poesie), e il libanese Unsī al-Ḥāǧ, che nell'introduzione al suo poema in prosa, Lan (1960, Mai), definisce questo nuovo genere come "ribellione contro le convenzioni e i sistemi prosodici della poesia".

Il cambiamento di forma e di contenuti della poesia modernista non ha comportato il rifiuto dell'eredità classica, ma al contrario ha permesso agli stessi scrittori di coglierne più profondamente il significato e la ricchezza. Uno dei principali teorici e poeti modernisti, Adonis, nella sua Muqaddima li'l- ši῾r al-῾arabī (1971; trad. it. Introduzione alla poetica araba, 1992) sostiene che la lettura della poesia moderna occidentale (W. Blake, G.G. Byron, P.B. Shelley, E.A. Poe, Th.S. Eliot, Ch. Baudelaire, P. Eluard ecc.) gli ha consentito di comprendere meglio le radici della tradizione araba. L'espressione poetica, sempre secondo Adonis, deve sottrarsi a qualunque schema e genere precostituito, deve quindi poter rispondere ai canoni della metrica classica come esserne completamente avulsa. Conscio del valore della propria eredità culturale, lo scrittore deve metterla a frutto: l'originalità di un poeta, oltre a dipendere dal suo talento e dalla sua inclinazione, si misura sulla sua capacità nel manipolare la tradizione; solo così una poesia può divenire parte del patrimonio letterario, come nel caso di al-Sayyāb.

Questa dinamicità linguistica e formale, tradotta in una nuova percezione del mondo, ha permesso l'assunzione di elementi mitologici e di archetipi storici (dèi greci, babilonesi e dell'Egitto faraonico), attraverso i quali più facilmente può esprimersi la voce del poeta, spesso costretto a una condizione psicologica di esclusione dalle regole di una società repressiva.

Una diversa attitudine della poesia modernista si manifesta nell'egiziano Ṣalāḥ ῾Abd al-Ṣabūr (1931-1981): la sua poetica, in antitesi con quella di Adonis, infrange la figura del poeta-eroe che, grazie alle sue facoltà intellettuali (potere di ragionamento e di immaginazione), libera la società. Mentre Adonis sembra voler agire sugli eventi, ῾Abd al-Ṣabūr subisce quanto avviene intorno a lui; è proprio attraverso la sua sofferenza e il suo sentire che ῾Abd al-Ṣabūr confessa la propria vulnerabilità e quella del mondo che lo circonda. Ma la differenza con Adonis si riscontra anche nel linguaggio utilizzato da ῾Abd al-Ṣabūr, scarno, prossimo all'arabo della prosa, lontano da qualsiasi classicismo (al-Nās fī bilādī, 1954, La gente nel mio paese; Musāfir al-layl, 1965, Il viaggiatore della notte).

Assai simili per sensibilità, tecnica poetica e visione del mondo sono le opere del siriano Muḥammad al-Māġūṭ (n. 1934) e soprattutto quelle del più giovane poeta iracheno Sa῾dī Yūsuf (n. 1943), che più di qualsiasi altro ha influito sulla poetica dell'ultima generazione. La semplicità nel trattare i motivi quotidiani, inscrivendoli in un orizzonte sconvolto da lotte e movimenti incessanti, caratterizza l'opera di Yūsuf, che nelle sue poesie celebra l'uomo con le sue 'piccole cose' (al-A῾mal al-ši῾riyya 1952-1977, 1979, Opere poetiche 1952-1977; Afkār bī ṣawt hādi', 1987, Pensieri a voce bassa).

L'influenza della situazione politica sulla percezione del mondo dei poeti è d'altra parte un dato costante: se fino agli anni Settanta essi si ponevano come profeti e guide per la società, negli anni Ottanta e Novanta hanno assunto una lucida coscienza dello stato di frammentazione e coercizione dell'intera regione araba che li porta a guardare il mondo con gli occhi dell'uomo comune e non del 'genio'. Tale consapevolezza dà vita a una poesia dai toni interiori e riflessivi, più vicina alle percezioni antieroiche di al-Ṣabūr e di al-Māġūṭ. Nell'ambito di una ricerca poetica dichiaratamente modernista risulta tuttavia difficile individuare tra le innumerevoli voci singoli percorsi che costituiscano nuovi punti di riferimento.

Il ricorso alla mitologia e il recupero della tradizione classica non sono peraltro prerogative esclusive della poesia. Anche il prosatore egiziano Ǧamāl al-Ġīṭānī (n. 1945), direttore della rivista Ah̠bār al-adab (Notizie letterarie), inscrive la sua opera narrativa nella grande tradizione araba, facendone rivivere la ricchezza e la diversità. I suoi raffinati romanzi (al-Zaynī al-Barakāt, 1974, trad. it. Zayni Barakat, 1997; Mutūn al-Ahrām, 1994, trad. it. Il mistero delle piramidi, 1998), popolati di personaggi attinti da un passato antico (principi, ṣūfī ecc.), sono una testimonianza efficace dell'orgoglio della civiltà musulmana di fronte all'intolleranza fondamentalista.

Il processo di urbanizzazione, i disastrosi effetti delle guerre, insieme all'espansione dell'integralismo hanno modificato bruscamente l'assetto sociale dell'intero mondo arabo, dando luogo a numerose contraddizioni, penetrate ormai in ogni aspetto della vita collettiva e individuale. Lo sfruttamento delle risorse petrolifere e il conseguente sproporzionato arricchimento di una parte dei paesi arabi sono inversamente proporzionali alla crescita intellettuale del mondo arabo nel suo complesso: se da un lato la disponibilità di risorse economiche ha in qualche modo incentivato il mercato editoriale, dall'altro la censura e il clima repressivo hanno totalmente inibito la spontaneità dell'espressione letteraria. In Egitto risale solo al 1997 la seconda pubblicazione integrale delle Mille e una notte (Alf Laylā wa Laylā), opera che negli anni Ottanta era stata oggetto di un anatema religioso per oscenità. A questo proposito, al-Ġīṭānī osserva che nel mercato non sono disponibili a un prezzo accessibile le principali opere del patrimonio letterario arabo, non gradite al movimento rigorista wahhabita. Fondatori della dinastia saudita, i wahhabiti hanno utilizzato dalla metà degli anni Settanta i proventi della rendita petrolifera per condurre una campagna di 'wahhabizzazione' degli spiriti, attraverso la promozione e il finanziamento di opere, programmi televisivi, associazioni culturali rispondenti alla propria visione del mondo.

Le pressioni politiche e la mancanza di fondi hanno indotto molti intellettuali arabi a lasciare i loro paesi per stabilirsi in Europa o negli Stati Uniti, anche se non mancano personalità che, a dispetto della censura, hanno preferito restare in patria rifiutando di sottomettersi al potere. Caso esemplare è quello del drammaturgo siriano Sa῾d Allāh Wannūs (1941-1997), che nel corso della sua intera carriera artistica ha denunciato il potere e la corruzione, l'autoritarismo e la mancanza di democrazia in molti paesi arabi.

Inizialmente portavoce del cosiddetto masraḥ al-ḏihnī (teatro cerebrale), in seguito alla sconfitta del 1967 Wannūs è approdato al masraḥ al-tasyīs (teatro della politicizzazione, neologismo coniato dallo stesso autore), che ha inaugurato con Ḥaflat samar min aǧl h̠amsa Ḥuzayrān (1968, Una festa per celebrare il 5 giugno), proprio a sottolineare l'importanza fondamentale dell'impegno politico, che deve coinvolgere attivamente l'intero pubblico; la pièce analizza criticamente la politica dello stato siriano rispetto alla guerra dei Sei giorni. Dopo un silenzio forzato (nel 1978 le autorità siriane avevano vietato a Wannūs di rappresentare e pubblicare le sue opere), la rivista al-Ḥurriyya (La libertà) ha pubblicato nel dicembre 1989 al-Iġtiṣāb (Lo stupro), dramma sulla società palestinese alla vigilia dell'intifāḍa. "Coesistono due narratori e due storie, un narratore israeliano e una narratrice palestinese, una storia israeliana e una palestinese, ma le due storie entrano l'una nell'altra scambiandosi", spiega Wannūs: i due universi non rimangono distaccati e lontani, ma appaiono come facce diverse di una stessa realtà. Di formazione marxista, Wannūs ha aspramente criticato la politica culturale della Siria che, nonostante un'apparente apertura, incoraggia ogni attività futile destinata a deformare il gusto e le coscienze del pubblico. Significativo è il fatto che il drammaturgo, malgrado la sua fama, non sia divenuto membro dell'Unione degli scrittori arabi (Ittiḥād al-kuttāb al-῾arab), organismo statale siriano che svolge un ruolo di primaria importanza per qualsiasi iniziativa culturale nel paese.

Gli stretti confini del mercato editoriale arabo, bersaglio privilegiato di ogni forma di censura laica o religiosa, limitano notevolmente la stessa produzione locale, che continua a costo di grandi sacrifici. Le contraddizioni che investono il mondo arabo nella sua interezza risultano particolarmente evidenti in Egitto, dove il potere politico controlla una buona parte dell'attività intellettuale: l'alleanza tra lo Stato e una parte dell'intellighenzia ha dato vita a un apparato culturale di tipo populista. Numerose case editrici statali ripubblicano testi classici (al-Ṭahtāwī, ῾Abd al-Rāziq, Ṭāhā Ḥusayn) accanto a 'saggi di propaganda' a prezzi spesso al di sotto del loro costo reale e senza nessun rispetto dei diritti d'autore. L'opinione più diffusa considera la libertà di espressione una forma di nefasta irresponsabilità nei confronti di una società in cui la maggioranza della popolazione è analfabeta. Questa situazione ha inasprito le tensioni e le contraddizioni all'interno degli apparati culturali dello Stato, che continuano a essere dominati dall'Islam tradizionale e da un'intellighenzia laica che si rivela di tipo conservatore, anche se coltiva una propria immagine liberale presso l'opinione pubblica nazionale e soprattutto internazionale.

Una reazione significativa a tale stato di cose proviene da un gruppo di scrittrici che, nel novembre 1995, ha inaugurato al Cairo il i Salone del libro della donna araba. La capitale egiziana, per lungo tempo centro culturale privilegiato del mondo arabo, sta lentamente riappropriandosi del proprio ruolo, grazie anche all'iniziativa di queste scrittrici, molte delle quali sono riunite intorno alla casa editrice Nur (Luce). Il messaggio del Salone è stato accolto favorevolmente dai maggiori scrittori e intellettuali del mondo arabo contemporaneo, che hanno aderito al progetto di creare un terreno comune, mettendo in secondo piano le specificità regionali.

La produzione femminile, avviata già all'inizio del 20° secolo (Zaynab Fawwāz, 1850-1914; Mayy Ziyādah, 1886-1941), è progressivamente uscita da una cerchia ristretta per occupare uno spazio importante nel panorama letterario arabo. Uno dei primi romanzi che ha destato una notevole risposta di critica e di pubblico è Anā aḥyā (1958, Sono viva) della libanese Laylā Ba῾albakī (n. 1936), che denuncia con violenza la solitudine propria della condizione femminile. Sulle stesse tematiche è imperniato il romanzo al-Bāb al-maftūḥ (1960, La porta aperta) dell'egiziana Laṭīfa al-Zayyāt (1923-1996), in cui si racconta la crescita psicologica e politica di una ragazza, Laylā, che, divenuta donna, si ribella alle coercizioni della famiglia e fugge con un giovane patriota, Ḥusayn. Il raggiungimento della libertà per Laylā avviene in concomitanza con la vittoria dell'Egitto che si rivolta contro il potere inglese: l'obiettivo personale è quindi strettamente connesso con quello nazionale. Il legame indissolubile tra gli avvenimenti politici e la vita degli intellettuali arabi è confermato ancora una volta dal fatto che al-Zayyāt abbia aspettato fino al 1986 per pubblicare il suo lavoro successivo, la raccolta di racconti al-Šayh̠ūḥa wa qiṣas uh̠rā (La vecchiaia e altre storie), poiché, come la stessa scrittrice ha affermato, dopo la tragedia del 1967 la l. per lei aveva perso ogni importanza e valore (è poi seguito Ḥamlat taftīš: Awrāq šah̠ṣiyya, 1992; trad. it. Carte private di una femminista, 1996).

L'identificazione con la causa nazionale è particolarmente visibile nella produzione letteraria legata alla questione palestinese: tra le voci femminili più rappresentative, vi è quella della poetessa Fadwā Ṭūqān (n. 1920), divenuta ormai il simbolo della lotta palestinese.

Nata a Nablus (dove ancora risiede) da una delle famiglie più importanti della regione, Ṭūqān ha iniziato la sua attività con poesie d'amore (Waḥdī ma῾a al-ayyām, 1955, Sola con i giorni; Waǧadtuha, 1957, L'ho trovata; A῾tinā ḥubban, 1960, Dacci amore), soprattutto in memoria di suo fratello, il poeta Ibrāhīm Ṭūqān (1905-1941), per passare dopo il 1967 a un impegno politico più visibile, componendo i versi più noti della resistenza palestinese (Amāma al-bāb al-muġlaq, 1967, Davanti alla porta chiusa; Kābūs al-layl wa ῾l-nahār, 1974, L'incubo della notte e il giorno). È sempre la Palestina lo scenario proposto dalla scrittrice Saḥar H̠alīfa (n. 1941), che sposta l'attenzione sulla sopravvivenza dell'identità nazionale palestinese. Nel mostrare le umiliazioni e i soprusi subiti dai palestinesi che non hanno lasciato la loro terra, H̠alīfa pone la questione dell'opportunità di restare in patria e sottomettersi all'occupazione israeliana (al-Ṣubār, 1976; trad. it. Terra di fichi d'India, 1996). Nei romanzi successivi la scrittrice denuncia, attraverso le vicende delle protagoniste, la doppia sorta di 'occupazione' di cui sono vittime le donne palestinesi, quella esterna, israeliana, e quella interna, maschile, da parte della propria famiglia e del proprio popolo (Bāb al-Sāḥa, 1986; trad. it. La porta della piazza, 1994).

Lo scoppio della guerra civile libanese (1975) con le sue tragiche conseguenze è il tema del romanzo Kawābīs Bayrūt (1976; trad. it. Incubi di Beirut, 1993) della scrittrice siriana Ġāda al-Sammān (n. 1942), trasferitasi in Libano dal 1964. L'autrice utilizza con successo la tecnica del flashback: il romanzo non procede seguendo la vita della protagonista, ma ne racconta i sogni, attraverso i quali si realizza un processo di presa di coscienza. Un altro ritratto della vita libanese durante la guerra è offerto dal romanzo Ḥikāyat Zahra (1980, La storia di Zahra) di Ḥanān al-Šayh̠ (n. 1945), in cui la follia sembra l'unica possibilità di sopravvivenza per la protagonista, Zahra, vittima di ogni sopruso.

Molte sono le scrittrici che hanno trattato il problema palestinese direttamente o come uno dei fattori del conflitto libanese: Laylā ῾Usayrān (n. 1934: Ḥaṭṭ al-af῾ā, 1972, La linea del serpente); Imīlī Naṣr Allāh (n. 1938: Tilka al-ḏikrāyāt, 1980, Quei ricordi); Hiyām Ramzī al-Durdungī (Ilā al-līqā᾽ fī Yāfā, 1970, Arrivederci a Jaffa); Salwā al-Bannā (῾Arūs ḥalfa al-nahr, 1972, Uno sposo dietro il fiume). Per la libanese Hudā Barakāt (n. 1952) la guerra, che rimane sullo sfondo dei suoi romanzi, rappresenta solo il pretesto per descrivere l'umanità; obiettivo della scrittrice è creare una l. a carattere universale, non ideologica né militante, e che non contribuisca a fornire un'immagine stereotipata della società araba in generale e della donna in particolare (Ahl al-hawā', 1993; trad. it. Malati d'amore, 1997).

In seguito all'assegnazione del premio Nobel per la letteratura all'egiziano Naǧib Maḥfūẓ nel 1988, il mercato europeo si è improvvisamente aperto alla l. araba, fino ad allora quasi sconosciuta al pubblico non specialista. Benché le leggi di mercato non sempre tengano in considerazione il valore letterario dell'opera, ma ne privilegino l'aspetto contenutistico, non mancano coraggiose iniziative editoriali, capaci di ignorare gli stereotipi che si sono fissati nell'immaginario occidentale.

Numerosi sono gli scrittori che, pur testimoniando la propria appartenenza al mondo arabo, non sono riducibili a questa sola dimensione. In Egitto, Idwār al-H̠arrāṭ nel 1979 ha pubblicato il suo primo romanzo (Rāmā wa ῾l-tinnīn, Rama e il drago), che preannucia lo stile e la struttura dei lavori successivi (Ṭurābuha za῾farān, 1986, trad. it. Alessandria città di zafferano, 1994; Yā banāt al-Iskandariyya, 1990, trad. it. Le ragazze di Alessandria, 1993). L'autore si muove su un duplice piano narrativo, quello degli eventi e quello della coscienza, attraverso cui esprime le proprie percezioni e considerazioni filosofiche, che lasciano trasparire il disagio di una società piena di incertezze. Ṣun ῾Allāh Ibrāhīm (anche Sonallah Ibrahim, n. 1937), autore di uno dei romanzi più discussi dell'Egitto nasseriano, Tilka al-rā'iha (1966, Quell'odore), censurato nell'anno della sua pubblicazione e ristampato in versione originale solo nel 1986, ha pubblicato successivamente il romanzo al-Laǧna (1981; trad. it. La commissione, 1993), lucida analisi delle aberrazioni prodotte dal potere e da un'industrializzazione sconsiderata, ma soprattutto sofferta denuncia delle contraddizioni in cui si dibatte la classe intellettuale araba; più recente è il romanzo Šaraf (1997), dal nome del protagonista, efficace rappresentazione del mondo delle carceri. Bahā' Ṭāhir (n. 1935), originario dell'Alto Egitto, è autore di racconti brevi e romanzi che ritraggono un'umanità tollerante e solidale, in opposizione alla visione ottusa degli integralisti (H̠ālatī Sāfiya wa ῾l-dā'ir, 1991; trad. it. Zia Safia e il monastero, 1993). Muḥammad al-Busātī (n. 1938) ha esordito con la raccolta al-Kibār wa 'l-siġār (1968, Grandi e piccoli) e nel 1993 ha pubblicato il romanzo Buyūt warā' al-ašǧar (trad. it. Case dietro gli alberi, 1997) sulla realtà delle campagne egiziane. In Siria, Ḥannā Mīnah, nato a Laḏikiyya, antica Laodicea, si autodefinisce "scrittore del mare e del realismo socialista" (al-Širā' wa ῾l-āṣifa, 1965; trad. it. La vela e la tempesta, 1993); ῾Abd al-Raḥmān Munīf, di origini saudite, nato in Giordania e vissuto in Iraq ma soprattutto in Siria, rivendica la nazionalità araba contro ogni nazionalismo regionale, e sottolinea nei suoi romanzi la mancanza di democrazia e la continua violazione dei diritti umani (Šarq al-mutavassiṭ, 1975, trad. it. All'Est del Mediterraneo, 1993; Sīrat Madīna, 1994, trad. it. Storia di una città, 1996). In Marocco, Muḥammad Šukrī (franc. Mohamed Choukri, n. 1935), autodidatta, autore del romanzo autobiografico al-Ḥubz al-ḥāfī (1973; trad. it. Il pane nudo, 1992), inizialmente censurato per la crudezza dei contenuti e del linguaggio, descrive una vita ai margini della società (Zamān al-ah̠ṭā', 1992, trad. it. Il tempo degli errori, 1993; al-Sūq al-dāh̠ilī, 1992, trad. it. Soco Chico, 1997). In Libia, Ibrāhīm al-Kawnī (anche I. al-Koni, n. 1948) rievoca, sul modello dei poeti preislamici (ǧāhiliyya), il deserto, protagonista indiscusso dei suoi racconti e simbolo di libertà (Nazīf al-ḥaǧar, 1990; trad. it. Pietra di sangue, 1998). In Libano, Ziyāda H̠ālid (anche Ziyade Khaled, n. 1952) delinea con maestria e sensibilità un affresco di Tripoli nel romanzo Yawm al-ǧum῾a yawm al-aḥad (1984; trad. it. Venerdì, domenica, 1996). In Palestina, Ġassān Kanafānī, considerato uno dei primi esponenti della 'letteratura della resistenza' (adab al-muqāwama), ha pubblicato saggi letterari e romanzi brevi (Riǧāl fī ῾l-šams,1963, trad. it. Uomini sotto il sole, 1991; ῾Āyd ilā Ḥayfa, 1969, trad. it. Ritorno a Haifa, in Ritorno a Haifa. La madre di Saad, 1985, che comprende anche l'altro romanzo breve Umm Sa῾d, 1969); lo scrittore e critico Ǧabrā Ibrāhīm Ǧabrā, come Kanafānī, ha lasciato la Palestina nel 1948, divenendo il portavoce della l. palestinese dell'esilio (al-Safīna, 1969, trad. it. La nave, 1994; al-Bi'r al-ūlā, 1986, trad. it. I pozzi di Betlemme, 1997); il poeta Maḥmūd Darwīš (n. 1941), palestinese della diaspora, anch'egli attento ai temi dell'esilio e della lotta del suo popolo, rifugge tuttavia da una poesia esclusivamente funzionale e politica; la sua produzione comprende anche saggi (Ḏākira li ῾l-nisyān, 1987; trad. it. Una memoria per l'oblio, 1997); Imīl Ḥabībī (1922-1996), è rimasto in Palestina dopo il 1948 divenendo cittadino israeliano. Definitosi uno straniero in patria, Ḥabībī nei suoi romanzi ha affrontato con estrema originalità anche linguistica il rapporto con gli Israeliani, mettendo in risalto il disagio e il senso di estraneità degli Arabi-palestinesi che vivono sotto il dominio israeliano (al-Waqā'ī῾ al-ġarība fī ih̠tifā' Sa῾īd Abī Naḥs al-mutašā'il, 1974, trad. it. Le straordinarie avventure di Felice Sventura il Pessottimista, 1990; Ih̠ṭiyya, 1986, trad. it. Peccati dimenticati, 1997); nel 1992 è stato il primo arabo a essere insignito del premio Israele per la letteratura (riconoscimento che gli è costato dure critiche da parte dei suoi connazionali).

Nell'ambito della fitta rete di interessi e scambi che unisce i paesi arabi del Mediterraneo, si va delineando con sempre maggior chiarezza una realtà assai variegata che sembra sfuggire all'ipotesi di una rappresentazione globale. Accanto a una profonda unitarietà di spirito, frutto dell'eredità classica, è possibile ormai cogliere l'aspetto peculiare delle singole voci che popolano la l. araba contemporanea, dove l'aggettivo 'arabo', pur esprimendo una matrice comune, non esclude la presenza di specifiche realtà nazionali.

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Letteratura cinese. Cenni sul periodo maoista

di Lionello Lancillotti

Con la proclamazione della Repubblica popolare (1° ottobre 1949) si apre una nuova fase della l. cinese, anche se fin dagli inizi del secolo, con l'abbandono della lingua classica arcaicizzante (wenyan) e la sua sostituzione con la lingua colloquiale (baihua), erano stati introdotti cospicui elementi di novità nel campo letterario, come dimostrano soprattutto le opere di Lu Xun (1881-1936) e Ba Jin (n. 1904).

Dopo il cambiamento di regime, nel 1949, furono pochi gli scrittori cinesi di fama internazionale, come per es. Hu Shi (1891-1962) e Lin Yutang (1895-1976), a seguire il governo nazionalista a Taiwan; la maggior parte degli scrittori e degli intellettuali rimase nella Cina continentale e alcuni autori già affermati, come Lao She (1899-1966), rientrarono in patria. Nei primi anni della giovane repubblica, fra il 1949 e il 1955, la produzione letteraria faceva riferimento esclusivamente ai canoni fissati da Mao Zedong nella Conferenza sulla letteratura e sull'arte che si era svolta nel 1942 a Yan'an, durante la guerra civile: la produzione letteraria e artistica doveva essere al servizio delle masse popolari, muovendo da concezioni proletarie e non piccolo-borghesi; era necessario trovare un giusto rapporto fra "l'elevare il livello della letteratura e dell'arte e il renderle accessibili a tutti"; si doveva ricercare nella vita del popolo il materiale per la creazione artistica e, infine, non si dovevano imitare le opere degli scrittori stranieri e quelle degli antichi.

Si assisteva, dunque, al fiorire soprattutto di una l. di reportage, servizi di cronaca (baogao wenxue), o diari, che traevano ispirazione dalla riforma agraria avviata in Cina nel 1950 o dalla partecipazione cinese alla guerra di Corea (1950-53). Il modello da seguire era quello del realismo socialista e forte risultava il controllo delle autorità su ogni opera pubblicata. Iniziarono, allora, le prime campagne di 'rieducazione degli intellettuali', alcuni dei quali vennero accusati di essere 'avversari del socialismo'. I vecchi autori, un tempo molto prolifici, si limitavano a ristampare i loro romanzi, facendoli precedere da nuove prefazioni in cui veniva inserita una giustificazione della non perfetta adesione alle nuove direttive con avvertenza ai lettori che le opere erano state scritte in un'epoca precedente e che, quindi, potevano avere solo un interesse storico. Lao She si dedicò anche al teatro con opere come Longxugou (1951, Il fossato Barba del drago), in cui trattò dei lavori di risanamento di un quartiere della capitale. Molti scrittori dovrebbero trascorrere periodi più o meno lunghi presso le fabbriche o in campagna per "apprendere dal proletariato".

Nel 1956 Mao Zedong lanciò la campagna dei Cento fiori con lo slogan: "Sboccino cento fiori; cento scuole gareggino": gli intellettuali si sentirono autorizzati a ritenere che si volesse concedere piena libertà di espressione, come era avvenuto in Unione Sovietica dopo il famoso rapporto Chrušcëv sulla destalinizzazione. Alcuni scrittori, sulla scia di questa convinzione, criticarono, per es., la burocrazia imperante: Wang Meng (n. 1934), che negli anni Ottanta diventerà ministro della Cultura, e Yang Mo (n. 1914), autrice del romanzo Qingchun zhi ge (1958, Canto della gioventù) in cui si esalta la lotta di una giovane donna rivoluzionaria all'epoca dell'invasione giapponese negli anni Trenta. Ma la campagna dei Cento fiori volgeva al termine e artisti come la scrittrice Ding Ling (1904-1986), il poeta Ai Qing (1910-1996) o lo scrittore Feng Xuefeng (1903-1976), che vi si erano generosamente impegnati, furono accusati di deviazionismo e condannati. Seguì nel 1958 la campagna del Grande balzo in avanti, indetta allo scopo di accelerare l'attività produttiva per poter superare, in campo economico, il mondo occidentale; in campo letterario la tendenza fu di incoraggiare la produzione e la raccolta di canti popolari che elogiavano le riforme in atto. Nel 1962 ebbe inizio un'altra campagna, nota con il nome di Educazione socialista del popolo e intesa, ancora una volta, a privilegiare, anche in ambito letterario, la presenza esclusiva della lotta di classe.

Nel 1964 la moglie di Mao Zedong, Jiang Qing (1914-1992), in opposizione al teatro tradizionale, promosse la rappresentazione di otto opere modello (yangbanxi) allo scopo di 'purificare' il teatro e mettere in scena drammi rivoluzionari, come il balletto Hongsi nianzi jun (Il distaccamento femminile rosso) o Zhi qu wei hu shan (L'assalto alla montagna della tigre).

Nel 1966 ebbe inizio la cosiddetta Grande rivoluzione culturale proletaria, che per un decennio bloccò qualsiasi attività culturale e artistica. Si aprì uno dei momenti più oscuri della storia contemporanea cinese, durante il quale lo scontro tra le varie tendenze all'interno del partito si fece più violento, gli intellettuali si videro costretti a pubbliche autocritiche (dapipan), ai lavori nelle campagne (xiaxiang), e scrittori famosi come Lao She furono ritrovati morti e dichiarati suicidi. Pochissimi gli autori cui era permesso di continuare a scrivere: fra questi Hao Ran (n. 1932), autore di un romanzo sulla collettivizzazione delle campagne (Yanyangtian, 1966, Giorni di sole splendente), e Yao Xueyin (n. 1910), che dal 1963 aveva avviato la pubblicazione di un romanzo-fiume, Li Zicheng, sul capo ribelle che aveva rovesciato la dinastia Ming. Un mutamento della situazione si ebbe solo dopo la morte di Mao avvenuta nel 1976.

Letteratura cinese. Le nuove tendenze letterarie

di Maria Rita Masci

Negli anni successivi alla morte di Mao, chiusasi la parentesi della Rivoluzione culturale, la narrativa cinese ha attraversato numerose fasi e tendenze, tutte di volta in volta riconducibili, nel loro paradigma di fondo, alla ridefinizione della missione della l. e della posizione dello scrittore nella società. Grazie a questo tormentato processo, il panorama letterario ha subito una trasformazione di natura a dir poco epocale, dando vita a una fioritura senza precedenti nella storia della Repubblica popolare cinese.

Alla fine degli anni Settanta, la morte di Mao, la caduta della cosiddetta Banda dei quattro e il ritorno al potere di Deng Xiaoping aprirono la strada al nuovo corso della politica cinese: riforme di natura esclusivamente economica (le famose Quattro modernizzazioni), apertura verso l'Occidente, graduale 'de-maoizzazione'. Dichiarata conclusa la Rivoluzione culturale, si riabilitarono i vecchi quadri condannati come elementi di destra, e gli intellettuali - da sempre guardati con sospetto da Mao - riacquistarono un ruolo importante nella società, essendo le loro conoscenze indispensabili alla realizzazione della modernizzazione.

Nello spazio di libertà riacquistato, gli scrittori tesero a recuperare il ruolo da sempre rivendicato di coscienze critiche della società. Abbandonato il 'realismo socialista', si passò a sperimentare forme capaci di colmare il divario tra vita e l. che era stato portato all'estremo negli anni della Rivoluzione culturale. La 'letteratura delle cicatrici' (shanghen wenxue) denunciava gli sconvolgimenti e i lutti provocati dalla Rivoluzione culturale, riabilitava il tema tragico e segnava la ricomparsa dei caratteri medi, ricchi di sfumature in cui convivono a un tempo elementi positivi e negativi, deboli e forti, spesso ricchi di dubbi. Per molti versi artificiosa e, in un certo senso, speculare alla narrativa prodotta nei precedenti dieci anni, essa costituì una necessaria fase di transizione verso le forme più sofisticate cui passeranno gli autori all'inizio degli anni Ottanta, in special modo quelli della generazione intermedia, impegnati a ritrovare un 'credo' nella società post-maoista e a ricucire le fratture attraverso un rafforzamento dell'adesione soggettiva. Insoddisfatti di un realismo di tipo esteriore, tali autori si dedicarono a una l. critica, che partisse dall'indagine delle motivazioni profonde, psicologiche che legano l'io al mondo esterno, la coscienza individuale alla realtà socialista esterna. Una delle più manifeste conseguenze fu anche l'adeguamento della forma narrativa alle nuove esigenze espressive; di qui il ricorso alla tecnica del flusso di coscienza, alla struttura pluridimensionale, all'annullamento delle distanze spazio-temporali e al progresso del racconto in base alle motivazioni interiori. Un esempio significativo di questo nuovo indirizzo letterario è il romanzo di Dai Houying (n. 1938) Ren, a, ren (1980; trad. it. Shanghai, 1987).

Costruito attraverso i monologhi dei protagonisti che raccontano i fatti, il romanzo diede spunto a uno dei principali dibattiti sviluppatisi in quegli anni tra una parte degli intellettuali che, interrogandosi sull'essenza della natura umana e il ruolo del marxismo, sostenevano la fondamentale identità tra marxismo e umanesimo e consideravano l'esperienza della Rivoluzione culturale una deviazione dalla natura originaria del marxismo.

Molto lontana da questa l. definita riformista, perché ha accompagnato, seppur in modo critico, la politica delle riforme, è la narrativa degli scrittori più giovani, provenienti dalle file delle ex Guardie rosse che, protagoniste prima e poi vittime della Rivoluzione culturale, erano state inviate in campagna a farsi 'rieducare dalle masse' e lì dimenticate. La disillusione, il crollo dei valori collettivi, il rifiuto dell'ideologia e il vuoto che ne conseguì portarono questi scrittori fuori del sistema, operando una rottura definitiva tra il mondo esterno e la loro interiorità. La ricerca di nuovi valori li condusse per strade molto lontane dal marxismo ortodosso, verso nuovi modi espressivi e una nuova identità culturale, determinando la nascita di importanti correnti letterarie, come la 'ricerca delle radici' (xungen wenxue) e il 'modernismo' (xiandaipai).

La necessità di ricostituire un'identità culturale aprì nella generazione dei giovani istruiti (zhiqing) una profonda riflessione sulla storia della Cina e sul carattere nazionale del popolo cinese. La l. si impegnò quindi nella 'ricerca delle radici', per recuperare la tradizione e l'essenza dell'éthos cinese. Gli scrittori giunsero a interrogarsi sull'esistenza di una struttura profonda della mentalità cinese determinata dalle stratificazioni della cultura millenaria. Bisognava esplorare gli aspetti negati, attaccati e rimossi della cultura cinese che erano invece rimasti vivi e costituivano i tratti di base di un supposto carattere nazionale. Han Shaogong (n. 1953) è lo scrittore che ha dato il via a questa corrente letteraria e ne ha definito le basi teoriche: "la letteratura ha delle radici che devono essere conficcate nella terra della cultura tradizionale di una nazione".

Nella sua opera più celebre Ba ba ba (1986; trad. it. Pa pa pa, 1992) individuò nella cultura del Sud, eterodossa e semi-primitiva, il centro focale del suo percorso narrativo. A questa corrente è riconducibile anche Acheng (n. 1949), uno dei più importanti autori cinesi contemporanei, noto per la celebre 'trilogia dei re' - Qiwang (1984; trad. it. Il re degli scacchi, 1989), Shuwang (1985; trad. it. Il re degli alberi, 1990), Haiziwang (1985; trad. it. Il re dei bambini, 1991) -, dove esplora, con un linguaggio che ha rivitalizzato la lingua cinese contemporanea, i modi di esistenza dell'individuo così come si delineano all'interno della cultura cinese. Di un genere più sanguigno, passionale e struggente è l'opera di Mo Yan (n. 1955), altro notevole scrittore riconducibile alla l. della ricerca delle radici. La sua opera più famosa, il romanzo Hong gaoliang (1986; trad. it. Sorgo rosso, 1994), si concentra sulla storia del clan familiare dell'autore sullo sfondo della guerra contro gli invasori giapponesi (1937-45) combattuta dai contadini dello Shandong, e tende a rievocare la mitologia popolare locale, magica ed eroica.

La stessa generazione ha sviluppato anche una tendenza 'modernista' che, pur nutrendosi delle opere occidentali, porta con sé motivazioni 'endogene', derivate dal trauma vissuto durante la Rivoluzione culturale, che coincide anche con il periodo di formazione della personalità degli autori.

Tra questi, uno dei casi più singolari è quello della scrittrice hunanese Can Xue (n. 1953), la cui prima raccolta di racconti Tiantanglide duihua (trad. it. Dialoghi in Cielo, 1991) fu pubblicata nel 1988. La sua opera costituisce uno degli sviluppi estremi della l. cinese degli anni Ottanta, segnando la scomparsa di ogni relazione di tempo, luogo e spazio, e del contenuto narrativo. Can Xue trasfigura ogni elemento di realtà in immagini fantastiche e attraverso queste ricompone un 'altro' mondo, che ha l'incertezza e l'impalpabilità dei sogni.

Alla fine degli anni Ottanta si delineano due nuove tendenze: la 'letteratura urbana' e quella 'd'avanguardia' (xianfeng wenxue). In esse si riflettono le esperienze non delle Guardie rosse idealiste e disilluse, ma, in un certo senso, dei loro fratelli e sorelle minori che, pur avendo assistito alle vicissitudini di quel periodo, hanno rifiutato quell'esperienza e, cresciuti nei materialistici anni Ottanta, hanno fruito della cultura consumistica dell'epoca delle riforme senza ipoteche ideologiche e intellettuali e appaiono quindi più insolenti, incuranti e sicuri di sé. Facendosi interprete di questi stati d'animo la narrativa adotta toni dissacranti, antisociali e beffardi.

Capostipite della nuova narrativa è la scrittrice e cantante Liu Sola (n. 1955), che con Ni bie wu xuanzhe (1985, Non hai scelta) inaugura un filone ironico non privo di una certa dose di cinismo; a lei si deve anche Hundun jia ligeleng (1994; trad. it. Il caos e tutto il resto, 1995), sorta di spiritosa autobiografia tra ricordi cinesi e riflessioni in Occidente. Altro autore di un certo interesse è Xu Xing (n. 1956), la cui raccolta di racconti intitolata Wuzhuti bianzou (1989; trad. it. Quel che resta è tuo, 1995) esprime in pieno lo spirito smitizzante delle frange marginali della gioventù urbana, il desiderio di chiamarsi fuori dalla baraonda politica e di vivere alla giornata senza alcuna ambizione. Più famoso è senza dubbio Wang Shuo (n. 1958). I suoi eroi appartengono alle frange marginali e alienate della gioventù urbana, ai limiti della legalità e fortemente antisociali: teppistelli, sbandati, giocatori d'azzardo, ladruncoli, perdigiorno, prostitute. Lo stile di Wang Shuo è uno degli aspetti costitutivi del suo successo: un sapiente amalgama tra dialetto di Pechino, gergo giovanile ed espressioni ormai abusate della retorica comunista, con grande effetto umoristico.

La l. 'd'avanguardia' ha segnato un ulteriore passo verso il rinnovamento delle forme narrative e la sperimentazione più pura con scrittori come Su Tong (n. 1963), autore di Qiqie chengqun (1989; trad. it. Mogli e concubine, 1992) o Yu Hua (n. 1960), autore di Huozhe (1993; trad. it. Vivere, 1997), o ancora Ge Fei (n. 1964), autore di Xianyu (1993, Incontri). La loro produzione, pur essendo estremamente eterogenea, condivide la particolare attenzione verso la struttura del racconto: il corso lineare della narrazione viene spezzato e poi ripreso; il tono adottato è volutamente freddo, a sottolineare l'estraneità del narratore all'intrigo. Perché sia sempre presente anche al lettore l'artificio letterario, frequente è il ricorso alla 'meta-narrativa'. Gli scrittori mirano a creare uno spazio letterario completamente svincolato dalla realtà sociale, con leggi proprie e una dinamica interna determinata dalla loro libertà di sperimentazione.

Tra la fine degli anni Ottanta e l'inizio dei Novanta è emersa infine una corrente detta neorealista (xin xianshi). Importante anello di congiunzione con il periodo precedente per lo sviluppo della l. degli anni Novanta, essa propone una narrativa programmaticamente oggettiva e incentrata sulla vita quotidiana della gente.

Uno degli espedienti usati per raggiungere lo scopo è affidare a un soggetto diverso dallo scrittore il compito di raccontare la storia. Per es., la voce narrante del racconto di Fang Fang (n. 1955) Fengjing (1987, Panorama) è lo spirito di un neonato, morto a soli sedici giorni di vita. Questi autori, tra cui si contano Liu Heng (n. 1954), Liu Zhenyun (n. 1958), Chi Li (n. 1957), evitano di proposito cadute nel romanticismo, o l'intromissione di stati d'animo personali, al fine di restituire l'esistenza così com'è, spogliata dell'intenzione dello scrittore e riportata al suo livello originario. Essi preannunciano e preparano le condizioni per la scomparsa dello scrittore eroe-guida, che vuole incidere sullo sviluppo della vita della gente, presentandosi invece come i relatori, gli anonimi cronisti della grigia esistenza di tutti i giorni.

Dopo il breve periodo di stagnazione che seguì al massacro di Tian'anmen (1989), la ripresa della politica delle riforme economiche ha dato nuovo impulso allo sviluppo della Cina generando un autentico boom economico. Il paese vive una situazione da 'socialismo postmoderno', dove un'economia di mercato sostanzialmente capitalista è regolata da un Partito unico che si dichiara marxista-leninista, mentre nella società in rapida evoluzione dominano il consumismo, l'arricchimento, i mezzi di comunicazione di massa e le nuove tecnologie. La cultura si è trovata di fronte a una crisi profonda. Il divorzio tra Stato e società, reso definitivo dal massacro di Tian'anmen, è divenuto la premessa di un altro traumatico divorzio, quello tra scrittore e società. Si assiste a un ripiegamento su se stesso dello scrittore, che guarda con sospetto al mondo esterno, dominato dal materialismo, dal mercato, dal denaro. La fine di un discorso uniformante e imposto dall'alto, vissuta come evento liberatorio e potenziale di creatività negli anni Ottanta, viene diversamente avvertita, negli ultimi anni del secolo, accompagnandosi a un senso di privazione, di vuoto e di marginalizzazione dello scrittore.

Gli autori cinesi contemporanei non sono più i portavoce di istanze ideali o storiche, di settori del tessuto sociale o di generazioni, non si arrogano più il compito di indirizzare la società e i lettori, e reputano definitivamente conclusa la loro funzione 'illuminista' e il mito dell'umanesimo. Rivolti verso la propria interiorità, la dilatano fino a farla diventare un mondo, mentre con l'esterno intrattengono un rapporto lontano, fonte di fastidi e frustrazioni, documentato da semplici citazioni, ma non interpretato. La narrativa non spiega più il presente, racconta frammenti di stati d'animo individuali, riporta memorie di avvenimenti personali, o elabora costruzioni metafisiche, astratte, oscure; il racconto sull'individuo non è di analisi, auto-analisi o introspezione, l'io appare più vuoto che pieno, senza punti fissi, errante, superficiale, puramente fenomenico. La narrativa degli anni Ottanta si era sviluppata all'ombra della Rivoluzione culturale, e per svincolarsi dai suoi dettami aveva finito anche per assorbirne alcune modalità: era una l. contro il sistema, fatta da autori portavoce di una qualche verità, condivisa almeno da una generazione e, pur con diverse sfumature, ribelle. A fine secolo, come in ogni altra parte del mondo, gli scrittori si trovano spodestati dalla televisione e dalle pubblicazioni di massa, che hanno assorbito una grande fetta dei lettori abituali, assumendosi il compito di educare e intrattenere. In questo stato di cose, nelle loro preoccupazioni rientra anche quella di creare una l. non commerciale, per distinguersi da una narrativa dettata dalle leggi del mercato e del consumo di massa dei tabloid e dei best seller.

La l. degli anni Novanta ha segnato il passaggio dalle alture della storia alle profondità psicologiche, dall'estetica dell'utopia a quella del dettaglio. E per far questo gli autori partono da se stessi, punto di riferimento imprescindibile. Non a caso una caratteristica della produzione di questo periodo è l'identità tra scrittore e narratore.

Han Dong (n. 1961), per es., in Xi'an gushi (1995, Storia di Xi'an) interviene in prima persona: "Insegno e nel tempo libero scrivo. Come il lettore avrà capito, all'inizio ero poeta e come tale ho acquistato una certa fama. La poesia però non dà da vivere, e io diventavo sempre più povero e triste. Allora mi sono deciso a dedicarmi alla narrativa e ho scritto questo pezzo su Xi'an". Simili interventi meta-narrativi, benché chiaramente mutuati dall'esperienza dell'avanguardia, hanno tuttavia un carattere molto più controllato e moderato; manca loro qualunque intento di sovvertire o provocare rotture nel significato. Nelle storie di Han Dong, seppur ambientate nel periodo della Rivoluzione culturale, il contesto storico e sociale è assente, e l'interesse è tutto per l'individuo.

La nascita della figura del romanziere che racconta se stesso e procede al proprio 'svelamento' ha determinato l'affermarsi di una l. femminile con caratteristiche del tutto nuove rispetto al passato. È infatti una forma di scrittura che pone il problema della 'sessualità' e vuole risalire alla fonte della diversità femminile. L'attenzione viene spostata dai comportamenti esteriori all'essere intimo, un territorio finora sconosciuto, inesplorato e sostanzialmente tabù. Tra le principali interpreti di questa tendenza, Lin Bai (n. 1958) rappresenta certo il caso più coraggioso.

Tutte le sue opere sono incentrate sulla narrazione del desiderio sessuale, delle sue vie e del suo dispiegamento e, sebbene mai apertamente citato, il tema dominante è quello del lesbismo, dell'amicizia femminile, giocata ai limiti dell'ambiguità. Protagonista del racconto Pingzhongzhi shui (1993, L'acqua nella bottiglia) è una donna inquieta, alla ricerca di un proprio ruolo nella società: scrive poesie, si allena nella corsa, si dedica alla calligrafia, finché l'incontro con un'altra donna determina un cambiamento radicale nel suo atteggiamento. Le due amiche si allontanano dalla società, evitano i rapporti con gli uomini e con il mondo esterno e si concentrano sul proprio universo interiore. Lin Bai perviene alla rappresentazione di un mondo femminile chiuso (come "l'acqua dentro una bottiglia" per l'appunto), isolato: un mondo yin lo si potrebbe definire in base alla tradizionale visione del pensiero cinese, che sta a indicare infatti l'interno, mentre l'esterno è prerogativa di yang, il principio maschile. Il regno dell'ombra, lunare (yin), è complementare a quello della luce, solare (yang), a esso opposto ma non in contrasto. Proponendo un separatismo non conflittuale, Lin Bai sembra seguire i binari di un pensiero cinese profondamente radicato e proporre un'indagine più femminile che femminista dell'interiorità muliebre.

Un buon esempio della perdita della visione d'insieme e dell'intenzione onnicomprensiva che caratterizza la l. della 'nuova condizione' è l'opera di Lu Yang (n. 1963) Jiaren xiangjian yiqiannian (1995, Le belle donne si incontrano da mille anni), che adotta una peculiare tecnica narrativa. Alla scansione in capitoli e paragrafi non corrisponde alcun particolare progresso della storia, che viene invece costruita attraverso frammenti. Da un paragrafo all'altro si alternano brani su quelle che sembrano essere storie di donne diverse, ma potrebbero anche costituire una particolare fase o episodio della vita di un'unica donna: una bambina trascorre la sua infanzia con una zia nubile, un'adolescente viene sedotta da un giovane teppista e diventa la compagna di un venditore di sigarette, una donna matura incontra l'uomo giusto ma finiranno con il separarsi, una sconosciuta vive l'incubo di avere un corpo di uomo steso sopra, che la schiaccia con tutto il suo peso.

Tra i pochi autori interessati invece a dipingere la vita quotidiana della società cinese in transizione è He Dun (n. 1958), che si concentra su figure marginali della realtà urbana, o su gente frustrata, ossessionata dalla paura della povertà o smaniosa di ricchezza.

In Shenghuo wuzui (1993, La vita non ha colpa) He Fu, un giovane insegnante di scuola superiore in precarie condizioni economiche, racconta in prima persona gli sforzi compiuti per arricchirsi nell'entroterra di Changsha. La narrazione prende l'avvio da una visita del protagonista a un amico, proprietario di un supermercato, che abita in un appartamento stipato di tutti i beni di consumo che definiscono lo standard dell'uomo di successo della nuova classe manageriale. Quegli oggetti, simbolo di una vita materiale confortevole, producono in He Fu il desiderio di trasformare la propria condizione.

He Dun, da testimone del suo tempo, documenta senza alcuna visione aprioristica le aspirazioni e i traffici di uno strato sociale urbano post-rivoluzionario, per il quale il feticismo dei beni di consumo costituisce un risarcimento, e certo anche una ribellione, nei confronti dell'utopia che per anni li aveva negati.

bibliografia

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Xiaomin Giafferri-Huang, Le roman chinois depuis 1949, Paris 1991.

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The lost boat. Avant-garde fiction from China, ed. H. Zhao, London 1993.

Narratori cinesi del Novecento, a cura di R. Pilone, Ynan Huaqing, Milano 1993.

Scrittori in Cina. Ventitré testimonianze autobiografiche, a cura di G. Bertuccioli, H. Martin, F. Masini, Roma 1993.

Anthologie de nouvelles chinoises contemporaines, introd. de A. Curien, Paris 1994.

Running wild. New Chinese writers, ed. D. Der-wei Wang, New York 1994.

Strade celesti. Antologia personale della narrativa cinese contemporanea, a cura di Acheng, Roma 1994.

Chairman Mao would not be amused. Fiction from today's China, ed. H. Goldblatt, New York 1995.

Il pennello di lacca. La narrativa cinese dalla dinastia Ming ai giorni nostri, a cura di M. Sabbatini, P. Santangelo, Roma-Bari 1997.

Letteratura giapponese

di Maria Teresa Orsi

In un articolo scritto nell'ottobre del 1986 lo scrittore Ōe Kenzaburō (n. 1935), parlando della l. giapponese contemporanea, affermava che essa si trovava "in una selva oscura, ché la diritta via era smarrita". Nell'intenzione di Ōe la citazione dantesca era applicabile da una parte alla propria situazione personale, di scrittore impegnato in una costante ricerca artistica ma allo stesso tempo pronto a dar voce a istanze di carattere politico e sociale; dall'altra, poteva essere ugualmente valida per un discorso più generale che ancora oggi coinvolge critici e scrittori, intenti a valutare - quasi sempre negativamente, peraltro - la situazione che si è venuta a creare negli ultimi due decenni del secolo. Nel 1979 un altro scrittore, Kaikō Takeshi (1930-1989), aveva sbrigativamente risolto il problema della l. del suo paese paragonandola a una zuppa di riso freddo; in tempi più recenti Miyoshi Masao (n. 1928), un critico che da tempo risiede e lavora negli Stati Uniti, si lamentava del fatto che la popolarità di giovani scrittori sostenuti dal mercato e dai mass media avrebbe rischiato di distogliere l'attenzione dei lettori dalle opere di autori di maggior spessore e statura.

Da parte sua, Ōe Kenzaburō portava a giustificazione del proprio pessimismo il fatto che, ai suoi occhi, gli scrittori delle ultime generazioni abbiano perduto ciò che egli chiama "una posizione attiva" nei confronti del mondo, e cioè che non siano in grado di proporre, attraverso la creazione letteraria e il libero gioco dell'immaginazione, dei 'modelli' dominati da una profonda tensione morale e da un costante impegno sul piano politico e sociale.

In questa direzione si è mosso Ōe stesso già dai suoi primi racconti, scritti alla fine degli anni Cinquanta e gravitanti intorno al vuoto ideologico creatosi con la fine della guerra; i protagonisti sono spesso poco più che adolescenti, emarginati, vitalisti, esitanti nella scelta di una vita d'azione che li indirizza verso un estremismo politico di segno incerto. Esemplificativo, sotto questo punto di vista, il lungo racconto Sebuntīn (1961; trad. it. Il figlio dell'imperatore, 1997), imperniato sul fragile equilibrio psicologico di un giovane di estrema destra, che scatenò un'ondata di polemiche da parte degli ambienti più conservatori, ma fu accolto con diffidenza anche da intellettuali progressisti per l'ambiguità che sembrava caratterizzarlo. Negli anni successivi, che avrebbero visto il progressivo affermarsi di Ōe sulla scena letteraria giapponese e internazionale, fino al conferimento del premio Nobel nel 1994, lo scrittore ha proceduto sostanzialmente sulle stesse linee, portando il suo impegno su temi di grande attualità, dal pacifismo al rifiuto degli esperimenti nucleari. Ma accanto a questi si affacciano in lui altri argomenti, strettamente collegati alla realtà giapponese: la sconfitta subita nell'ultima guerra, il bombardamento atomico su Hiroshima e Nagasaki (Hiroshima nōto, 1965, Appunti su Hiroshima), la discriminazione cui sono soggette le vittime sopravvissute, il mito del sistema imperiale ancora oggi persistente. Allo stesso tempo, nella persuasione che la l. s'identifichi con una sorta di viaggio autoesplorativo all'interno dell'io, Ōe ripropone più e più volte elementi tratti dalla propria esperienza personale, di uomo e di scrittore, in un mutamento di prospettiva tale da conferire ai suoi racconti una fisionomia sempre diversa (Pinchi rannā chōsho, 1976, Il verbale di un pinch runner; Ōinaru shi ni, 1995, Nel sole immenso).

La posizione di Ōe e la sua visione problematica e per nulla rassicurante della realtà contemporanea risultano condivise da altri scrittori, che hanno costituito forse il nucleo più attivo e discusso della l. giapponese della seconda metà del secolo, pur nei limiti di un successo di pubblico abbastanza modesto. Si tratta di scrittori apparsi alla ribalta fra gli anni Sessanta e Settanta, in quella ricca stagione contraddistinta per un verso dalla rapida ascesa economica del paese e, per un altro, dai movimenti sfociati nella più generale protesta studentesca del 1968 che allineò il Giappone agli Stati Uniti e a una buona parte dell'Europa. Espressione di una generazione attenta al dialogo con il mondo occidentale, essi si fecero portavoce di valori non più esclusivamente legati alla tradizione dei grandi maestri, quali Tanizaki Jun'ichirō (1886-1965) e soprattutto Kawabata Yasunari (1899-1972; insignito del Nobel nel 1968), il rappresentante per eccellenza di una sensibilità che aveva le sue radici nella l. e nell'estetica classiche, ancorché riproposte nell'ottica di un apprezzabile rinnovamento formale. Non diversamente, Mishima Yukio (1925-1970), che pure ha dato il meglio di sé negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale, e che da un punto di vista anagrafico si è trovato molto più vicino agli scrittori emergenti nel periodo Sessanta-Settanta, ha mantenuto sia dal punto di vista letterario sia da quello ideologico forti legami con la cultura d'anteguerra. Scrittore problematico, legato a una visione estetizzante della l. e alla ricerca di un linguaggio classicheggiante, Mishima è stato uno dei primi autori giapponesi a essere accettato e apprezzato fuori dal suo paese e le sue opere sono ancora tra quelle più tradotte nel mondo.

Tra gli autori che si sono affiancati a Ōe nella proposta di un pieno rinnovamento espressivo, in netta rottura con il passato, alcuni hanno svolto un ruolo di primo piano. Abe Kōbō (1924-1993) è stato uno dei primi ad affrontare in chiave surrealistica il problema dell'emarginazione e dell'isolamento dell'individuo in una società efficientista e tesa al profitto economico a ogni costo; Inoue Mitsuharu (1926-1992) ha portato nelle sue pagine il tema della discriminazione dei coreani immigrati in Giappone, nonché dei numerosi emarginati a causa della loro 'diversità': dai sopravvissuti al bombardamento atomico agli strati più poveri della popolazione. Negli anni Settanta Nakagami Kenji (1946-1992) si è impegnato ad analizzare gli aspetti scomodi e inquietanti della società giapponese, presentandosi come l'erede più qualificato di una l. vigorosa, polemica e senza cedimenti.

Nei suoi libri - Misaki (1975, Il promontorio), Karekinada (1977, Il mare degli alberi morti), Chi no hate shijō no toki (1983, Il tempo della morte ai confini della terra) - Nakagami fa ricorso al fantastico, ricreando un Giappone primitivo, dove si ribaltano le moderne convenzioni sociali e la presenza di situazioni che la morale dominante definirebbe innaturali (rapporti incestuosi, violenze sessuali, cannibalismo, omicidio fra consanguinei), per quanto paradossale e illogica, ha la funzione di scuotere le certezze dei lettori sull'assoluta validità dei modelli acquisiti.

Questi scrittori condividono tutti una posizione di marginalità e di negazione della cultura ufficiale e dei valori da essa proposti; posizione spiegabile anche in relazione alle loro origini: Ōe è nato in un villaggio dello Shikoku, una delle isole più lontane sia culturalmente sia fisicamente dal centro del paese, Abe ha trascorso l'adolescenza a Mukden (Shenyang) in Manciuria, Inoue è nato a Lushun nel Kwantung, Nakagami infine proviene da Shingū, un villaggio della regione di Wakayama, in cui vivono gruppi socialmente discriminati e conosciuti col nome di burakumin ("gente di villaggio"). Una dimensione analogamente periferica, resistente a ogni forma di omologazione, si ritrova nelle pagine di alcuni scrittori di origine coreana, poco conosciuti eppure tra i più significativi della l. giapponese contemporanea. La loro ricca produzione romanzesca, polemica, talvolta sentimentale, getta una luce inquietante su una delle maggiori sfide che il Giappone, ancora chiuso nell'illusione di un'omogeneità 'razziale', in realtà inesistente, dovrà affrontare nei prossimi anni. I romanzi di Lee Hoesung (n. 1935), e quelli delle scrittrici Lee Yanji (1955-1992) e Yū Miri (n. 1969) rappresentano un importante contributo in questa direzione.

Nel campo teatrale la figura emergente degli anni Sessanta è stato Terayama Shūji (1935-1982) che, alla ricerca di un teatro alternativo, ha portato i suoi drammi per le strade e nei luoghi pubblici, in spazi che annullano ogni separazione fisica tra attori e pubblico, palcoscenico e platea. La l. femminile ha potuto contare su una personalità di spicco come quella di Kurahashi Yumiko (n. 1935), fedele nella sua carriera ai modi della parodia e del grottesco, presenti già nel racconto che l'ha resa celebre, Parutai (1960, Il partito).

Estranea a ogni suggestione di realismo tradizionale, la scrittrice, dopo i racconti in chiave metafisica come Hebi (1960, Il serpente) o Hinin (1960, Fuoricasta), è passata a un rigoroso e spregiudicato esame dei rapporti umani nella società di oggi; in seguito, la sua ricerca di nuove strade l'ha portata a rileggere in chiave moderna le tragedie greche, la fiaba e la mitologia, dando vita, con Otona no tame zankoku dōwa (1984, Fiabe perverse per adulti) e Kurahashi Yumiko no kaiki shōhen (1986, Brevi racconti fantastici di Kurahashi Yumiko), a storie in bilico fra un ricercato intellettualismo e uno humour nero. L'esempio di Kurahashi ha avuto un seguito modesto. Il panorama complessivo delle scrittrici della sua generazione appare fortemente caratterizzato dalla tendenza a privilegiare i temi più specifici della condizione femminile, quali il rapporto di coppia e il legame con la famiglia e con i figli. In questa direzione risultati di rilievo hanno conseguito Tomioka Taeko (n. 1935), Tsushima Yūko (n. 1947) e Hikari Agata (1943-1992). Un posto a parte merita Setouchi Harumi (nota anche come Setouchi Jakuchō, n. 1922) che, oltre a essere autrice di romanzi di successo, ha legato il suo nome a una fortunata versione in giapponese moderno (1996) del capolavoro dell'11° secolo Genji monogatari (La storia del principe Genji).

A un'ondata di fermenti, di entusiasmi e di proposte controcorrente ha fatto seguito, dalla metà degli anni Settanta, una fase di diffuso disorientamento. L'enorme sviluppo sociale, la conseguente formazione di una cultura di massa e di un pubblico di proporzioni gigantesche sulle cui scelte i mass media hanno un ruolo determinante, hanno reso problematica la stessa definizione di letteratura. Il dibattito non è certo nuovo e si può dire che abbia percorso tutto l'arco del 20° secolo. Ancora negli anni del dopoguerra sembrava valido il metodo di una l. rispettosa della purezza del linguaggio, fondata su un raffinato background culturale nonché sulla riproduzione di sensazioni e stati d'animo da cui risultasse il costante rapporto dell'uomo con la natura. Successivamente, i parametri sarebbero mutati.

La prosa di Ōe Kenzaburō, che qualche critico purista ha definito 'non' giapponese, lo sperimentalismo di Kurahashi Yumiko, il libero uso del dialetto e l'anarchia sintattica di scrittori come Nosaka Akiyuki (n. 1930) avevano già indicato nuovi percorsi formali, proponendo modelli ambiziosi e sofisticati che oggi sembrano a loro volta messi da parte. Gli avvenimenti sociali e politici che hanno segnato gli ultimi anni - la crisi economica del 1992 e la fine della cosiddetta bubble economy, l'attentato con il gas sarin nella metropolitana di Tokyo, gli scandali esplosi nel mondo politico e finanziario - non hanno mancato di provocare inquietudini e interrogativi anche tra gli intellettuali. Molti scrittori si chiedono se il romanzo - in Giappone come in Europa - non abbia ormai esaurito le sue possibilità; il pessimismo di Ōe Kenzaburō riecheggia in innumerevoli dibattiti e nei fascicoli speciali che le principali riviste dedicano al tramonto di quella che era considerata la grande letteratura.

D'altra parte è innegabile che il mercato del libro, nonostante l'allarme di periodiche crisi, sta conoscendo una nuova e massiccia ripresa. Il fenomeno più clamoroso è la fortuna di sempre nuovi best seller, le cui vendite raggiungono dimensioni gigantesche. Il successo più spettacolare riguarda non tanto opere letterarie in senso stretto quanto un genere di saggistica popolare, divulgativa, immediatamente collegata alla cronaca. Nel corso del 1996 si sono registrati almeno sei casi di libri che hanno superato il milione di copie vendute a solo pochi mesi dalla data di pubblicazione: per essi è stato subito adottato il termine anglo-giapponese mirion serā (million seller). Ma anche il genere del romanzo, presente con caratteri di scarso impegno intellettuale, può vantare una notevole vitalità. Nel 1980 la pubblicazione di Nantonaku kurisutaru (In qualche modo, cristallo) di Tanaka Yasuo (n. 1956), ancorché accompagnata da giudizi negativi, può dirsi per molti versi emblematica. Costruito su una storia pressoché inesistente, con protagonisti giovani e con ogni evidenza benestanti, il romanzo è corredato da una nutrita serie di note (passate dalle 274 iniziali alle 442 della versione definitiva) che s'impongono sulla narrazione vera e propria lasciandola in secondo piano. Sono un elenco meticoloso di ristoranti alla moda, negozi, vestiti, profumi e accessori (rigorosamente di marca): un catalogo di tutti i possibili oggetti di consumo di cui può disporre una gioventù ricca di denaro e di tempo libero. Giudicato un'apologia del consumismo e criticato come un affronto alle ragioni della l., Nantonaku kurisutaru documenta il momento culminante dell'ascesa economica del Giappone; ma il suo successo (peraltro confermato dal premio letterario Bungei) è stato di breve durata. In seguito, non si può dire che Tanaka abbia saputo rinnovarsi; solo recentemente ha imboccato una nuova strada, pubblicando nel 1996 Kobe shinsai no nikki (Il diario del disastro di Kobe): un resoconto polemico del terremoto che ha devastato la regione di Kobe nel gennaio 1995, dove l'autrice mette in luce l'inefficienza del sistema e la parzialità dei mass media nei giorni successivi alla tragedia.

Nell'ultimo decennio del secolo, non a tutti gli scrittori protagonisti di grandi successi editoriali è mancato il positivo apprezzamento della critica. In linea generale, essi sono accomunati da una certa tendenza sentimentale, edonistica e pragmatica, dalla riscoperta sotto uno sbandierato cinismo dei buoni sentimenti, dalla nostalgia per le amicizie e i primi amori dell'adolescenza. Voci di una cultura giovane o giovanilistica, parlano un linguaggio che vuole essere universale e di portata comunque sovranazionale, anche se il loro discorso resta troppo spesso in superficie e lontano dalla tensione autenticamente innovativa di Ōe. Murakami Haruki (n. 1949), che un critico severo ha definito "l'angelo custode dei Peter Pan del Giappone moderno", si presenta come uno scrittore arguto e sofisticato.

Dopo un esordio brillante con racconti vagamente fantascientifici, Murakami ha confermato il proprio successo con Kokkyō no minami, taiyō no nishi (1992, A sud della frontiera, a ovest del sole), romanzo della realtà urbana, con un tocco di horror story; e con Nejimakidori kuronikuru (1994; trad. it. L'uccello che girava le Viti del Mondo, 1999), lunga storia in tre parti dai colori surrealistici. In seguito si è spostato verso un genere assai vicino alla saggistica, raccogliendo in Andāgurando (1997, Underground) una serie di interviste alle vittime degli attentati nella metropolitana di Tokyo.

Accanto a lui, Murakami Ryū (n. 1952), dopo un esordio strepitoso con l'ormai lontano Kagirinaku tōmei ni chikai burū (1976; trad. it. Blu quasi trasparente, 1993), si è rivolto a temi di scottante attualità, come quello dell'AIDS, in Kyōko (1995). Buona parte di questi romanzi ha riscosso un notevole interesse anche all'estero. Significativo è il caso di Yoshimoto Banana (n. 1964): i suoi romanzi, ai primi posti nelle classifiche nazionali dei best seller - da Kitchin (trad. it. Kitchen, 1991) e Kanashii yokan (Un triste presentimento), entrambi del 1988, a Sly (1997; trad. it. 1998) -, sono stati accolti in Italia da un successo che si è subito riverberato nel resto dell'Europa e in America. Costruiti su storie esili, su immagini banali e stati d'animo appena tratteggiati, i libri di Yoshimoto mantengono con la realtà un legame assai tenue: persino argomenti di grande impatto, come quelli del suicidio o dell'incesto, nelle sue opere perdono di consistenza e scivolano via senza lasciare alcuna traccia sulla coscienza del lettore.

Accanto a Yoshimoto si è posta una generazione di scrittrici la cui presenza costituisce uno dei fenomeni più rilevanti degli ultimi anni. Assai lontani dall'atmosfera lieve che caratterizza le opere di Yoshimoto, i racconti - come per esempio Beddo taimu aizu (1985; trad. it. Occhi nella notte, 1994) - di Yamada Eimi (n. 1959) esplorano senza mezzi termini la sessualità femminile, anche se il linguaggio esplicito e le situazioni disinibite non riescono a coprire del tutto un certo sentimentalismo convenzionale, tanto più sconcertante in quanto inserito in una cornice di aperta provocazione. Ancora tra i nomi nuovi dev'essere segnalato quello di Matsuura Rieko (n. 1958), a sua volta autrice di racconti spregiudicati al limite del grottesco che ruotano attorno a una sessualità primitiva, naturale, senza remore.

Le nuove voci, pur così differenziate, sembrano procedere all'insegna dell'elogio della giovinezza, del transculturalismo, di un certo disimpegno che si riflette anche nella riscoperta del puro gioco linguistico, nella disinvoltura dell'impianto, in un continuo ammiccare verso il lettore. In sostanza, parafrasando quanto in altro contesto affermava R. Barthes, esse sono in grado di 'sedurre', anche se non convincono. Il tentativo in loro di rivoluzionare il sistema artistico ed espressivo si direbbe insidiato dal rischio dell'omologazione o da quello che l'anticonformismo si tramuti nella più banale delle mode, a scapito di un'approfondita - e necessariamente lenta - elaborazione di temi, riflessioni e situazioni. Ma tale discorso investe forse la l. contemporanea, non solo quella giapponese.

bibliografia

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Gendai sakka benran (Guida agli scrittori contemporanei), in Kokubungaku (Letteratura giapponese), nr. speciale, maggio 1990.

S.J. Napier, Escape from the Wasteland, Romanticism and Realism in the fiction of Mishima Yukio and Oe Kenzaburo, Cambridge (Mass.) 1991.

Symposium on contemporary Japanese popular culture, in The journal of Japanese studies, 1993, 2.

G. Amitrano, The new Japanese novel, Kyoto 1996.

Utile, inoltre, la consultazione delle seguenti pubblicazioni annuali: Japanese literature today, a cura del Japan PEN Club, Tokyo dal 1976; Bungei nenkan (Annuario di letteratura), Tokyo, si vedano in particolare gli anni 1992 e 1995.

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