Le scuole

Storia di Venezia (1996)

Le scuole

Patricia Fortini Brown

Le "scuole"

Nella relazione inviata nel 1497 al duca di Milano sulle istituzioni caritative, l'ambasciatore milanese Battista Sfondrato dichiarava che le Scuole grandi erano "La meliore cosa adunca che habij questa terra [...> ". Continuava quindi con la stima delle loro risorse finanziarie e osservava come:

Le intrate si spendano parte in ornamenti de le dicte schole, le quale tutte hano li celi et soffitali lavorati et deaurati, et de presenti si fano più superbe che mai; faciensi dicte schole con cruste di marmori et prede di molto precio; parte si spendano in molti officij che fano di continuo dovi despensano cera infinita, et il resto tutto va dispensato in adiuto de quelli de cadauna d'epse schole [...> trovandosene sempre molti infirmi, tutti questi tali sono curati, pasciuti et vestiti con la familia che hano finché o guariscono o manchino [...> (1).

Le parole di lode di Sfondrato erano temperate dalla consapevolezza di una situazione paradossale e la lettera si concludeva con l'osservazione che nonostante la presenza di un gran numero di istituzioni caritative a Venezia - le Scuole piccole così come le Scuole grandi - l'onere pesava sulle associazioni le quali, a loro volta, richiedevano il pagamento di una tassa di iscrizione al di sopra delle possibilità della maggioranza dei poveri: "Per questo chi non ha da adiutarsi se vede mancare di adiuto" (2).

Se il periodo di formazione del sistema veneziano delle confraternite può essere situato nel Trecento (risalendone le origini indietro nel tempo, quanto meno al Duecento), la sua evoluzione in un complesso di forme caratteristiche, con ruoli civici differenziati rispetto ad altre città italiane, si protrasse a tutto il Quattrocento. Come Sfondrato seppe ben vedere, alla fine del secolo le confraternite erano venute ad abbracciare, nella vita civica e devozionale della città, ogni sorta di dualismo. Al confine tra il ricco e il povero, tra gli ideali cristiani e lo splendore mondano, tra l'individuo e il gruppo, e dunque tra la vita e la morte, esse non si ponevano come semplici microcosmi di una società più allargata ma, collettivamente, ne fornivano in larga parte le sostanze materiali e spirituali, generando, più di quanto avrebbe potuto fare un semplice raggruppamento di organismi indipendenti, il tessuto connettivo del corpo politico e sociale.

Scuole grandi e Scuole piccole

Sebbene le confraternite religiose fossero esistite fin dall'antichità, il loro rapido sviluppo nel tardo Medioevo fu in primo luogo un fenomeno urbano. In risposta alle esigenze e ai problemi sorti con la nascita del Comune, il rapido aumento e la concentrazione urbana della popolazione, i laici cominciarono a sottrarre alla Chiesa istituzionale il controllo della propria vita religiosa. In ogni città italiana, grande o piccola che fosse, essi fondarono così piccole confraternite che promettevano mutuo soccorso e salvezza personale attraverso il potere collettivo di una devozione di gruppo (3). Una varietà di termini definiva tali confraternite ("fraternità", "compagnia", "società", "collegio", "consorzio ", "fratalea", congregatio e così via), ma a Venezia la scelta cadde su "scuola" ("scola ", schola). Da principio la parola denotava semplicemente un locale, la sede di riunione di una confraternita laica di solito annessa a una chiesa, ma poteva anche indicare la confraternita come entità legale (4).

Come altrove le associazioni corrispondenti, anche le confraternite veneziane avevano ciascuna un santo patrono, partecipavano a servizi religiosi e a preghiere collettive, accompagnavano i defunti al camposanto, prendevano parte a messe commemorative e davano assistenza materiale e spirituale ai membri malati o bisognosi. Tuttavia almeno due sono i fattori che distinguono le Scuole veneziane. In primo luogo, il controllo esercitato da parte del clero non era significativo: le Scuole veneziane stringevano spesso legami spirituali con conventi, ordini religiosi e alti prelati, ma tali relazioni si basavano su favori reciproci e le confraternite sapevano mantenersi indipendenti. Frutto di una strenua resistenza condotta dalla Repubblica nei confronti della dominazione ecclesiastica, gli accordi fra la Chiesa e le Scuole finirono con l'essere regolamentati da contratti, con tutte le contese che ogni affare economico comporta. L'edilizia e l'organizzazione ecclesiastica furono date in appalto: preti e confratelli erano pagati per presiedere ai servizi di devozione. Pur tuttavia, privi di diritto di voto e interdetti da ogni carica, essi non esercitavano praticamente alcun peso decisionale sulla vita delle Scuole. In secondo luogo, la Scuola veneziana passava in realtà dalla tutela ecclesiastica a quella politica, dal momento che l'intera organizzazione era sotto la diretta sorveglianza e protezione dello Stato (5). La natura di tale scambio sarà l'argomento principale della nostra indagine.

All'inizio del secolo XV erano emersi a Venezia tre tipi fondamentali di confraternita: le "Scuole comuni" o "Scuole di devozione"; le "Scuole artigiane", confraternite associate a una particolare corporazione commerciale; e le "Scuole dei Battuti". Nel 1467 una chiara gerarchia - in formazione per circa un secolo e probabilmente operante de facto per un certo tempo - trovò conferma nella terminologia ufficiale; le Scuole comuni e le artigiane vennero a formare un ampio substrato di Scuole piccole, mentre i Battuti avrebbero assunto un ruolo dominante nei documenti del consiglio dei dieci così come nell'opinione pubblica, fino a diventare le Scuole grandi o Scolae Magnae (sic) - una peculiare creazione veneziana (6).

La distinzione fra Scuole piccole e grandi è particolarmente significativa, poiché contribuì a rendere più efficiente il sistema veneziano delle confraternite sia come catalizzatore di consenso che come componente fondamentale di un ordine politico di notevole stabilità quale fu quello di Venezia. Piuttosto che porre in risalto un tipo rispetto all'altro, sarà più interessante metterne in rilievo la complementarità in quanto parti integranti di un unico gruppo di controllo. Anzitutto, però, qualche rapida considerazione sulle singole componenti del sistema.

La Scuola comune tendeva a essere aperta, con un'organizzazione di base allargata in termini di occupazione, classe economica e sociale e luogo di residenza, e in genere includeva uomini e donne. Sebbene ciascun gruppo avesse il proprio altare in una chiesa parrocchiale o in un edificio monastico, studi di archivio indicano come molte Scuole traessero i loro membri da ogni parte della città, anche se una concentrazione era possibile nei dintorni della chiesa dove si incontravano. Le Scuole comuni variavano molto di dimensioni, da un numero - esiguo una dozzina - di aderenti a molte centinaia di iscritti. Le stime più accreditate riportano comunque una media di circa sessanta-settanta membri con rari casi che arrivavano a superare le duecento unità (7).

La "Scuola nazionale" costituì una variante significativa della Scuola comune. Rivolta a gruppi specifici di immigranti, essa offriva a un segmento di popolazione potenzialmente estraneo un senso di appartenenza, una nuova identità e una carta da giocare nelle fortune cittadine; funse inoltre da tramite per una integrazione ad hoc nella vita civica di quei mercanti che si trovavano temporaneamente a Venezia per trattarvi affari di breve durata (8). Il ricorso a santi patroni o a culti tradizionalmente seguiti in madrepatria contribuiva a mantenere un senso di identità nazionale e di orgoglio in una città dove un visitatore poteva osservare - con una certa esagerazione - che "la plupart de leur peuple est estrangier" (9).

La prima testimonianza sull'organizzazione di gruppi nazionali si riferisce agli ospizi per aderenti poveri o malati, istituiti dagli Armeni e dai Trevigiani nei secoli XII e XIII (10). Ci sarebbero state anche Scuole per i Lucchesi, i Milanesi, i Bergamaschi, i Friulani, i Fiorentini, gli Albanesi, gli Schiavoni, i Greci, i Tedeschi e, nei primi anni del secolo XVI, anche per gli Ebrei (11); ma potrebbero essercene state altre ancora.

Verso la fine del secolo XV un nuovo tipo di confraternita a base parrocchiale sarebbe emerso come modello competitivo nei confronti delle vecchie Scuole di devozione. Insistendo sull'enfasi rivolta al culto mariano e alle devozioni eucaristiche, proliferarono le Scuole del Sacramento, e, in chiave minore, le Scuole del Rosario, tanto che alla fine del secolo XVI non c'era parrocchia in città che non vi partecipasse (12).

La Scuola artigiana o "Scuola dell'Arte" costituiva una soluzione propriamente veneziana al problema dell'integrazione dei rapporti economici di lavoro con le relazioni sociali e religiose di una vita timorata di Dio. Storicamente e legalmente, l'Arte costituiva un'identità separata dalla Scuola, anche se il gruppo associativo poteva essere identico: tutti i membri della prima, dai padroni ai maestri fino agli apprendisti, entravano di norma a far parte della seconda. L'Arte sovrintendeva alla pratica del commercio e ne faceva rispettare le regole; la Scuola assolveva ai bisogni religiosi, sociali e caritatevoli degli aderenti. Una parte delle tasse e dei contributi imposti dall'Arte sarebbe stata devoluta alla Scuola (13). Spesso i santi patroni, in vita, avevano praticato il medesimo commercio: così la Scuola dei Sartori venerava sant'Omobono e la Scuola dei Calegheri era consacrata a sant'Aniano (14). Alcune fra le Scuole dell'Arte si combinavano con quelle nazionali dando luogo a forme ibride, come la Scuola dei Calegheri tedeschi. Si davano anche casi in cui membri di una stessa attività commerciale reggevano una Scuola comune, pur non esistendo alcun legame diretto con un'Arte (15).

La Repubblica vantava un numero assai consistente di Arti, probabilmente un centinaio nel secolo XV, spesso federazioni di diversi commerci collegati. Diversamente dalle più grandi confederazioni di mercanti a Firenze, le Arti veneziane erano di competenza del popolo, anche se alcune includevano piccoli mercanti e imprenditori che si potevano definire piuttosto benestanti (16). Il sistema veneziano, più flessibile, offriva due evidenti vantaggi. Da un lato, la partecipazione individuale a una Scuola era facilitata dall'esistenza effettiva di più gruppi separati, ciascuno dei quali richiedeva la presenza di un folto numero di ufficiali, con la conseguente possibilità per i membri di entrare a far parte dei ranghi amministrativi. D'altro canto, data la frammentazione della classe artigiana cittadina e la sua dispersione in più di cento associazioni di commercio, le fondamentali alleanze al di là della famiglia vera e propria si stringevano evidentemente con coloro che praticavano lo stesso commercio e con la città - non con la classe nel suo complesso (17). Esclusi dal potere politico, nondimeno i confederati veneziani ricoprivano una tale varietà di ruoli che era ben difficile che gli affiliati non pensassero di costituire una parte essenziale della vita pubblica ed economica della città. Le stesse considerazioni valgono, in gran parte, per le Scuole comuni in generale.

Non conosciamo con esattezza il numero complessivo delle Scuole veneziane, ma Jacopo d'Albizzotto Guidi nel 1442 ne annoverava più di duecento (18), stima confortata più tardi dal Sanudo che rilevò la presenza di duecentodieci Scuole piccole in aggiunta alle cinque Scuole grandi, al seguito del corteo funebre in onore del cardinale Zen, nel 1501 (19). È probabile che tale numero comprenda gli interi ranghi delle Scuole comuni, incluse le Scuole legate alle Arti.

Considerando che molti partecipavano a più di un'associazione, si può stimare che tra un terzo e la metà delle famiglie della città fosse legato ad almeno una confraternita ) (20).

A questo impressionante apparato di confraternite laiche si aggiungevano le Scuole dei Battuti, la cui fondazione risale al sesto decennio del secolo XIII, quando il movimento penitenziale dei flagellanti dilagò in tutta Italia (21). Santa Maria della Carità fu fondata nel 1260, San Giovanni Evangelista e San Marco nel 1261, e se la prima notizia certa riguardo a Santa Maria della Misericordia risale al 1308, è probabile che si trattasse di una emanazione di una Scuola preesistente fondata nel 1261 e dedicata a san Francesco e alla Vergine. A questi gruppi iniziali si sarebbero affiancate la Scuola di San Rocco nel 1489 e più tardi, nel 1552, la Scuola di San Teodoro (22).

All'inizio del Quattrocento i Battuti costituivano già vaste organizzazioni, tutte maschili, che includevano patrizi, cittadini e "popolani" provenienti da ogni occupazione e commercio. Se il numero dei non patrizi era stato limitato, con una legge del 1399, a 550-560 membri, ciascun gruppo poteva attingere affiliati da ogni parte della città (23).

Il controllo operato su capitali considerevoli, frutto dei tributi dei membri, delle elemosine e dei lasciti, non ne faceva tuttavia un'entità fondamentalmente diversa dalle Scuole comuni. Lia Sbriziolo ha osservato come la distinzione principale fra i Battuti e le altre Scuole alla fine del secolo XIV fosse "non per carattere diverso delle prime, più devoto o effettivamente penitenziale, ma per la particolare attenzione che la Signoria già va ad esse dedicando" (24).

Nel 1508, questa attenzione apparve evidente quando il consiglio dei dieci trasferì la responsabilità per le Scuole piccole al provveditore del comune, affermando che i loro affari erano di "minimi momenti et importantie", incompatibili con la dignità di tale magistratura (25).

"Cum pace et humilità": dai Battuti ai Grandi

Se i Battuti vantavano un'ampia adesione, non sembra che il solo fattore numerico si sia rivelato determinante per la particolarità del loro status (26). Anche se la maggior parte delle Scuole piccole era sostanzialmente meno numerosa, almeno due potevano rivaleggiare per iscrizioni con i Battuti durante il secolo XIV, la Scuola di Sant'Agnese, che aveva raggiunto il tetto di cinquecentocinquanta membri già nel 1325, e la Scuola di Santa Maria della Celestia che vantava settecento membri nel 1350 (27). Del resto, come si è visto, i Battuti non detenevano neppure il monopolio su una organizzazione cittadina a base allargata. Nel definire le Scuole piccole come istituzioni "fluttuanti", Richard Mackenney si riferisce al loro carattere sovraparrocchiale, "forse l'aspetto più significativo della composizione dell'associazione" (28).

L'esclusione delle donne dai Battuti nel decennio 1320-1330 non ha risvegliato l'attenzione degli studiosi, ma potrebbe a ragione essere considerata la pietra di paragone per interessi più estesi. Nel limitare l'iscrizione agli elementi maschili, le Scuole dei Battuti vennero a partecipare del carattere, politicamente e ufficialmente sancito, proprio del maggior consiglio, distinguendosi così nel modo più significativo dalle Scuole comuni, la maggior parte delle quali sembra accettasse iscrizioni femminili (29). Non è accidentale che quando assursero al rango di Grandi, la Scuola di San Rocco e la Scuola di San Teodoro abbiano cessato di ammettere le donne, come invece facevano in precedenza(30). In effetti, un'adesione esclusivamente maschile avrebbe costituito un sicuro prerequisito per aspirare a quel ruolo privilegiato che i Battuti avevano cominciato ad assumere nella vita cittadina, dal momento che a tale scelta di esclusione erano collegati tre fattori - spirituale, economico e politico - che sarebbero stati della massima importanza per la loro eventuale influenza sulle Scuole piccole.

Il primo fattore, quello spirituale, era radicato nelle origini dei Battuti. Com'è noto, i flagellanti divennero una significativa componente della vita pubblica negli anni '60 del Duecento, e se ben presto gli aspetti più drammatici ed estatici del movimento vennero meno, le confraternite laiche dei "disciplinati", sorte in tutt'Italia, nei paesi e nelle città, avrebbero giocato un ruolo rilevante nello sviluppo di una nuova cristianità civica. Quella che in passato si era configurata come un'azione personale di espiazione individuale assunse l'aspetto di un atto pubblico di devozione comunitaria, e mentre nei primi tempi i monaci e il clero si erano posti come i soli "redentori rituali" della città, ora si assisteva all'avanzata dei laici, decisi ad assumersi tale ruolo pubblico. I disciplinati aspiravano a espiare non solo i loro peccati personali, ma anche quelli della città e del mondo intero (31). Il singolo peccatore poteva ridurre le conseguenze delle sue passate trasgressioni mediante un atto penitenziale e, nello stesso tempo, godere dei benefici derivati dalle buone azioni della collettività e accrescerli a sua volta in una tesaurizzazione di buone opere (32). Nella Venezia del Trecento, le Scuole dei Battuti continuavano a praticare la fustigazione in pubblico, ma solo in gruppo e, almeno in teoria, all'interno di processioni ben ordinate. Una Mariegola del secolo XIV della Scuola di San Giovanni Evangelista definiva i ventitré giorni dell'anno nei quali i confratelli dovevano marciare a lato di grandi cortei funebri: "cum verberation et dessepina [disciplina>, cum pace et humilità senza murmuration alguna" (33).

Inizialmente, tutti i membri avrebbero dovuto sottostare alla disciplina, ma nell'arco di un secolo la composizione delle processioni mutò considerevolmente. In un primo tempo, speciali categorie di "exempti", sia nobili che plebei, sarebbero entrate a far parte dei Battuti versando una tassa d'iscrizione più alta in cambio dell'esonero dalle pratiche disciplinari e da tutti gli altri obblighi delle Scuole. Nella Scuola di San Giovanni, ad esempio, nel 1359 gli "exempti" formavano un gruppo selezionato di cinquanta membri, inclusi alcuni "homeni nobili de Grand Conseio" così come "grandi merchadanti della città de Venesia", che per tale privilegio avevano pagato venticinque ducati d'oro ciascuno X (34). In seguito, nel 1361, la stessa Scuola stabiliva una nuova categoria di sessanta avventizi - "fratelli in proba" - che non erano ancora membri "ad plenum" e che avrebbero rappresentato la confraternita nelle processioni dei flagellanti. Nel 1366 il consiglio dei dieci esonerò tutti i nobili dalla disciplina (35) e tale doppio sistema fu istituzionalizzato nel 1405, quando il consiglio sancì il numero dei praticanti la disciplina in sessanta cittadini non nobili "in proba" per ogni Scuola dei Battuti (36). Costoro, che non erano ancora - se mai lo fossero diventati membri - regolari, venivano ora a costituire il nucleo portante dell'immagine pubblica penitenziale dei Battuti e in quanto tali divennero gli attori principali nei rituali celebrativi e propiziatori della città. Nel 1442 Jacopo Guidi vi riconosceva il segno di quell'apparato di religiosità che aveva contribuito a distinguere i Battuti dalle Scuole comuni come le "altre quatro schuole che da più nobeltà sono ordinati" (37).

I membri delle Scuole grandi "ad plenum" continuarono a condividere gli effetti salvifici dell'autoflagellazione pur essendone sollevati dagli incomodi. È significativo che membri ordinari, ivi compresi gli ufficiali, continuavano ad essere compresi nelle liste come "fradeli ala disciplina", mantenendo almeno l'apparenza di un'attività penitenziale comunitaria (38). Inoltre, con la conferma del 1489 a Scuola grande, la Scuola di San Rocco avrebbe assunto anche il nome di Scuola dei Battuti e raggiunto il limite numerico prescritto di "disciplinati in proba" (39). Non più tardi del 1552 anche la nuova Scuola grande di San Teodoro, che aveva sospeso la pratica della flagellazione nel 1333, ne avrebbe seguito l'esempio (40). Occorre riconoscere che la disciplina era ben più di un atto simbolico di umiltà personale: ogni colpo di frusta sulle spalle di un singolo individuo aveva un potente effetto di moltiplicazione, tornando a vantaggio dell'intera comunità. A Venezia, come in molte città dell'epoca, era questo un modo per santificare lo spazio cittadino (41): penitenziale, taumaturgico, espiatorio - al contempo fisico e trascendente - esso avrebbe continuato ad arricchire il patrimonio spirituale della città.

Ulteriore contributo dei Battuti fu la tesaurizzazione economica, che possiamo identificare come il secondo fattore della loro preminenza. Al pari di molte confraternite laiche, dopo il flagello della morte nera, i Battuti cominciarono ad accumulare ingenti ricchezze da lasciti testamentari, dal momento che loro ufficiali erano chiamati a fungere da esecutori patrimoniali (42). Costituendo associazioni ai cui membri erano riconosciute probità e rispettabilità, essi erano sempre più spesso i beneficiari dei beni immobili e dei lasciti monetari che avrebbero potuto servire da supporto all'espansione delle opere di carità (43). Secondo i termini del lascito, gli immobili potevano essere venduti o dati in affitto o ancora usati come ricovero per i poveri. Ingenti quantità di denaro venivano investite in "imprestiti" a interesse nella camera dei prestiti, entrate provvidenziali per le casse statali. Dal momento che le proprietà della Scuola erano soggette alla decima e rimanevano parte del patrimonio tassabile, le confraternite godevano di una posizione di privilegio sia rispetto alla Chiesa che ai procuratori di San Marco, poiché l'una e gli altri erano scoraggiati dal governo dall'accumulare proprietà esenti da tasse (44). La ricchezza dei Battuti creava così benessere per lo Stato: lungi dal costituire una minaccia o una sfida per la sicurezza economica del sistema, le Scuole dei Battuti ne erano un sostanziale sostegno.

Il terzo fattore, e forse il più importante, che portò alla trasformazione dei Battuti in "un tipo assolutamente locale" di confraternita ebbe natura politica o, più precisamente, sociopolitica. La Serrata del i 297 aveva dato luogo all'improvvisa e decisiva formazione di due ordini: il ceto politico o patriziato, che godeva dell'ereditarietà di associazione nel maggior consiglio; e il popolo - cioè tutti gli altri. Lo strato sociale privo di diritti esibiva terribili disparità in termini di "qualità e condizione", sia che si trattasse del più ricco e arrivato dei mercanti come del più miserabile degli indigenti. La stabilità futura e forse la sopravvivenza stessa della Repubblica sarebbe dipesa dall'organizzazione di nuove gerarchie all'interno di un sistema più allargato ove anche ai comuni cittadini fossero dati, come ai patrizi, spazi d'intervento nella società. Se è innegabile che tutte le Scuole avrebbero contribuito a offrire alle masse un'opportunità di partecipazione al nuovo, più rigido, ordine sociale, le Scuole dei Battuti, associazioni maschili di pii e rispettabili flagellanti, erano per i cives o cittadini le sedi ideali da cui invocare un proprio spazio privilegiato all'interno della gerarchia. La restrizione delle cariche a questo ceto, attuata dalle confraternite dei Battuti all'inizio del Quattrocento, venne più tardi riconosciuta dal teorico politico Gasparo Contarini come un fattore chiave nella conclamata tranquillità domestica di Venezia: "accio che del tutto privi non fussero della potesta publica, e de i civili uffici, ma in questo modo soggiacessero al desiderio dell'honore et alla ambitione, senza sollecitar punto con disturbo veruno lo stato de nobili [...> " (45).

"In plaquimento del nostro miser lo doxe": le Scuole e lo Stato

Tutte le Scuole della città, grandi o piccole, erano legalmente obbligate a sostenere l'ordine stabilito. Ogni nuovo membro sarebbe stato indotto a ricordarsene al momento dell'iniziazione quando, fosse uomo o donna, avrebbe giurato di promuovere la dignità del doge e dello Stato ripetendo la formula riportata nella Mariegola di ciascuna Scuola. Ai confratelli della Scuola di San Giovanni Evangelista si ricordava: "sempre nostra intencion sia a far chosa la qual sia in plaquimento del nostro miser lo doxe e del commun de veniexia e de ogno fedel cristian [...> " (46).

Similmente, gli statuti della Scuola di Sant'Orsola ammonivano:

Ancora volemo che se alguna persona dela nostra scuola per si fesse o consentisse per altri alguna cossa la qual fosse inzuria dano o despresio de miss. lo doxe de Veniesia o del fo conseio over de questa benedeta citade la qua sie eleta da dio pare onipotente per recovramento e sostegnimento de tutti li triboladi descazadi e fedel de la santa mare gliesia che quella persona sia lo più tosto, che se pora apalentada e denuntiada per miss lo gastoldo e li suo compagni a miss lo doxe e alo so conseio e sia fuora dela scuola perpetualmente (47).

Si potrebbe rilevare che la pena per i trasgressori allo statuto era molto più dura che per chi si fosse macchiato semplicemente di "pecado mortal ". In tal caso, il peccatore aveva diritto a tre richiami prima di essere espulso, punizione che poteva anche durare il breve spazio di un anno: chi cadeva in peccato mortale poteva essere redento, ma non così chi criticasse lo Stato.

Almeno a partire dalla metà del secolo XII le Arti erano soggette alle istituzioni statali, in particolare alla giustizia vecchia, ma anche alla giustizia nuova e ai provveditori di commun (48), ma fu solo nel secolo XIV che lo Stato cominciò a prendere seriamente in considerazione, anche in termini ufficiali, le Scuole in genere, con l'intento prioritario di assicurare l'ordine pubblico. Nel 1310, la cospirazione di Baiamonte Tiepolo aveva suscitato nella classe dominante serie preoccupazioni per il pericolo potenziale costituito dalle fazioni e aveva suggerito la fondazione del consiglio dei dieci quale organo di sorveglianza, con la funzione diretta di garantire l'ordine pubblico. Affrontando subito il problema, il consiglio decretava nel 1312: "Quod aliqua scola illorum qui se verberant, vel aliqua alia, non possint facere aliquam asunationem de nocte in domo vel extra, nec ire per terram cum aliqua asunatione in nocte, a tertio tintinabulo usqua ad matutinum Sancti Marci [...> " (49). Sebbene si faccia qui esplicito riferimento ai Battuti, non ci sono prove che essi già si distinguessero dalle altre confraternite.

Nell'arco del cinquantennio successivo, il consiglio dei dieci continuò a interessarsi agli incontri e alle processioni delle Scuole, anche se la struttura di regolamentazione e di controllo non aveva ancora pienamente preso forma. Tuttavia, nel 1360, si impose una nuova politica di vigilanza con il divieto da parte dei dieci, allarmati dal proliferare incontrollato delle Scuole, alla creazione di nuove entità senza il loro esplicito permesso (50). Nel 1366, preoccupati per le dimensioni crescenti di alcuni gruppi, i dieci ampliarono l'ambito delle proprie competenze, imponendo a tutte le Scuole, "indifferenter", di osservare il limite numerico prescritto negli atti di fondazione. Tuttavia, a rispetto delle gerarchie sociali, esentarono tutti i patrizi da tali limitazioni, affermando il loro diritto a unirsi a qualsiasi Scuola desiderassero, a loro esclusivo "beneplacito" e dietro pagamento di una particolare tassa (51).

Da quel momento il consiglio dei dieci espresse sempre maggiore interesse nei riguardi degli affari interni delle Scuole, rivolgendo un'attenzione particolare alle quattro Scuole dei Battuti, cui i dieci applicarono, attraverso una "politica d'equilibrio", una strategia flessibile basata sul compromesso, sulla revisione e sulle eccezioni alle regole. I segnali più rilevanti di tale ingerenza riguardavano l'ammissione di nuovi membri, dal momento che i dieci, pur censurando l'uso dei Battuti di accettare più iscritti del dovuto, li obbligavano poi frequentemente a nuove ammissioni per ragioni politiche e contro gli stessi statuti. Sono numerose le istanze in cui, in esplicita violazione delle regole, si richiedeva alle Scuole di accettare nobili nella confraternita non davanti all'altare della Scuola, ma dal letto di morte, eccezioni che assunsero in varie occasioni aspetti grotteschi, con l'ammissione postuma di nobili come "fradeli ala disciplina". Tale pratica di revisione e di alterazione da parte dei dieci di tutte le liste di ammissione delle Scuole grandi sarebbe stata ancor viva in pieno secolo XVI (52).

Il crescente controllo che la Signoria esercitava sui Battuti andava di pari passo con una rigidità sempre più evidente nei confronti di tutto ciò che concerneva le Arti (53). Anche se si è spesso affermato che le Scuole comuni sfuggirono all'ingerenza cui i Battuti furono ripetutamente soggetti, la vigilanza nei loro confronti da parte degli organi statali, primo fra tutti i provveditori di commun, non venne mai meno e inoltre, come si è visto, a partire dal 1360 lo sguardo vigile del consiglio dei dieci le seguì anche in materia di nuove fondazioni. Molte furono le richieste cui venne concessa l'approvazione, ma i pochi casi di rifiuto sono rivelatori: ancora una volta sembrano rispondere a intenti di natura politica. Motivo dominante fu il riconoscimento dei servizi patriottici resi alla Repubblica. Così, nel 1367 i dieci rifiutarono la richiesta, presentata da un gruppo di poveri, storpi e malati, "cum crozellis et scagnellis", di fondare una Scuola con il proposito di raccogliere elemosine sul modello dei ciechi della già affermata Scuola degli Orbi (54), ma nel 1392 lo stesso consiglio concesse l'assenso a un gruppo che, pur similmente costituito, aveva portato a sostegno della richiesta l'età avanzata e il fedele servizio nelle armate veneziane in tempo di guerra (55). Ci fu anche qualche caso di revoca, come quando, nel 1365, fu ritirata l'autorizzazione alla Scuola dei Lucchesi che si era riunita per cinque anni nella chiesa di Santa Maria dei Servi, semplicemente "pro bono status [...> et vitandis periculis que possunt occurrere", senza dover aggiungere altro (56).

Anche se le Scuole a Venezia godevano di uno spazio d'azione considerevole per le loro attività finché non oltrepassassero i limiti del pubblico rispetto, la Signoria non vedeva di buon occhio manifestazioni di spiritualità che venissero dall'esterno. Il caso più rappresentativo può essere rintracciato nella dispersione con la forza, nel 1399, di centocinquanta Bianchi - per l'appunto vestiti di bianco tra i quali alcuni patrizi veneziani, uomini e donne, che si erano riuniti in assemblea in campo San Zanipolo sotto la guida di Giovanni Dominici, un domenicano che godeva di grande carisma. La dura reazione del consiglio dei dieci, che ne esiliò i capi accusati di aver agito "contra voluntatem dominii", non mancò di suscitare critiche da più parti (57) e avrebbe trovato più tardi una spiegazione nell'assunto del cronista ferrarese Giacomo de Delayto secondo il quale si sarebbe trattato di un tentativo di evitare che processioni non autorizzate turbassero l'ordinato svolgersi delle attività lavorative e di commercio (58).

Anche il timore di un'indebita influenza della Chiesa sulla religiosità laica può però aver costituito un fattore determinante se si considera che nel 1408 e nel 1409 il consiglio dei dieci avrebbe respinto per ben due volte la richiesta di formazione di nuovi ordini di Terziari sostenuti dai Domenicani, descrivendoli come "scolae non patentes" e quindi pericolose, e concludendo con l'ingiunzione che "fratres predicatores et etiam minores et omnes alie regule fratrum mendicantium, qui habent de similibus tertiis ordinibus sive scollis, non persequantur in eis" (59). Le manifestazioni di fede erano degne di lode e dovevano essere incoraggiate, ma solo sotto i pubblici auspici della città e - per usare una frase che sarebbe diventata una formula nei pronunciamenti ufficiali - soltanto "secundum quod est solitum fieri et concedi" (60).

Una volta che il consiglio dei dieci cominciò a intervenire negli affari interni delle Scuole il dado era tratto: nel 1401 i dieci si arrogarono il diritto di concedere l'approvazione a qualsiasi cambiamento proposto per le Mariegole dei Battuti, atto che sanciva il loro "addomesticamento" come baluardi nella conservazione dello status quo. Come giustamente afferma Lia Sbriziolo, le quattro confraternite che avevano fino ad allora seguito sentieri indipendenti, se pur spesso paralleli, erano ormai "un organismo uniforme e compatto: i cui statuti - per la validità sostanziale delle identiche addizioni obbligatorie dei diversi ordini del consiglio - diventeranno storici nella parte antica e testo unico comune in quella corrente" (61).

Non lontano era il tempo in cui si sarebbe fatto ricorso alle risorse finanziarie e umane dei Battuti a sostegno delle avventure militari della Serenissima. Se già nel 1404 erano infatti formalmente impegnati a sostenere i costi della campagna contro Padova con l'allestimento di tredici battelli completi di equipaggio - rematori e balestrieri scelti - per la flotta sul Po, in seguito sarebbero stati ripetutamente richiamati a intervenire con uomini e mezzi: per le campagne militari contro Milano nel 1453; contro i Turchi in Grecia nel 1467, nei Balcani nel 1470 e nell'Adriatico nel 1474 e infine contro Ferrara nel decennio 1480. Le reclute provenivano evidentemente dalle classi più basse: entrare a far parte di una Scuola grande, con tutti i vantaggi sociali ed economici che ne conseguivano, costituiva un compenso allettante alla coscrizione. La quota degli iscritti alle Scuole si trovò così ripetutamente superata dalla pressione delle ammissioni forzate di reclute sotto mandato dello Stato, mentre d'altro canto i registri del consiglio dei dieci rivelano il succedersi di esenzioni e ammissioni di confratelli a statuto speciale che pagavano una quota più alta della normale tassa, a sostegno delle spese militari. Quando poi, nel 1509, la situazione si fece più critica in seguito alla sconfitta di Agnadello, anche le Scuole piccole furono invitate a sostenere gli sforzi militari della Repubblica, contribuendo con somme variabili da uno a venticinque ducati, a seconda delle possibilità, laddove le ricche Scuole grandi erano tassate per un totale di duemila ducati (62).

"Unidi in lo amor de dio": la vita devozionale nelle Scuole

È facile sopravvalutare la componente civile delle Scuole in uno Stato come Venezia, dove anche il sacro passava attraverso il politico; ma, a dispetto dell'assunto secondo il quale la fedeltà degli aderenti sarebbe andata prima a Venezia che alla Chiesa, le Scuole furono in primo luogo confraternite spirituali e il loro richiamo può essere pienamente spiegato solo nei termini della ricchezza di vita devozionale proposta a chi entrasse a farne parte: le aspirazioni espresse nei documenti di fondazione riportati nelle Mariegole ci consentono di comprendere meglio tale concezione di vita. Il peso del passato e della tradizione era uno dei motivi preferiti per i Veneziani e gli statuti venivano copiati e ricopiati sia all'interno delle singole Scuole che da una Scuola all'altra: tutti esprimevano intenti simili e richiedevano agli affiliati pressoché i medesimi impegni (63).

Tenendo presente questa tendenza alla ripetizione, possiamo prendere in esame la Mariegola della Scuola di Sant'Orsola quale espressione tipica delle Scuole di devozione aperte a uomini e donne di ogni ceto e occupazione, nobili e non nobili. Nel 1488 i responsabili della Scuola avevano convenuto di riportare la stesura originale degli statuti del 1300 in una nuova Mariegola di lusso: sfogliando le pagine di pergamena appena riscritte e ammirando la accurata miniatura di sant'Orsola, la loro prima patrona, i confratelli sarebbero stati indotti a ricordare sempre i pii ideali dei predecessori. Unità, pace e ortodossia religiosa costituivano, come in ogni altra potenziale Scuola della città, gli intenti da perseguire (64). Così comincia il proemio:

Cum cio sia cosa che la scritura santa dise che le bona e aliegra cosa habitar insembre et esser unidi in lo amor de dio. Impercio nui gastoldo e degani dela congregation dele sante undexe milia vergene insembre mentre con tute le congregation de la nostra fraternitade verasiamente unida in la fe catholica e de boni christiani voiando star in lo amor de dio e de santa paxe alaude egluoria delo onipotente dio e dela biada mare sempre vergene madona santa maria edelo biado confessor miser sen domenego e delo biado miser sen piero martore espicialmente de madona santa orsola vergene con tuta la soa compagnia biade vergene emartore glorioxe ede tuti li oltri suo santi [...> (65).

A tal fine ogni iniziato avrebbe dovuto inginocchiarsi davanti all'altare della Scuola e promettere obbedienza alle regole riportate nella Mariegola: uno dopo l'altro, uomini e donne avrebbero quindi ricevuto il bacio della pace dal gastaldo, "in segno de caritade".

La scrupolosa osservanza del complesso delle pratiche devozionali prescritte avrebbe prodotto un imponente calendario delle solennità religiose. Il primo obbligo per ogni fratello e sorella era la partecipazione a una messa solenne "per le nostre aneme", celebrata la seconda domenica del mese dai frati dell'adiacente convento di San Zanipolo: reggendo ciascuno un cero acceso, si sarebbero uniti alla processione intorno alla sala. La Scuola di Sant'Orsola godeva del privilegio di una propria sede di riunione, ma molte altre Scuole si ritrovavano in assemblea semplicemente intorno al loro altare in una chiesa parrocchiale. Oltre a osservare la messa mensile, ogni fratello e sorella accettava l'obbligo di confessarsi a Pasqua e a Natale, di unirsi alle grandi celebrazioni delle due feste annuali di sant'Orsola in novembre e della Purificazione della Vergine a febbraio - quando ciascun affiliato riceveva un pane benedetto e una candela dietro pagamento della "luminaria", il tributo annuale dovuto -, di assistere alle riunioni del capitolo, che si tenevano due volte l'anno per scegliere i nuovi ufficiali, e infine di prestare servizio in caso di elezione (66).

I primi statuti delle confraternite veneziane suggeriscono l'idea di una socialità risolutamente rivolta all'interno: nell'affermare ufficialmente i loro ideali, i membri fondatori distoglievano lo sguardo, in un implicito rifiuto, dalla città in cui concretamente si trovavano a vivere e ad agire. La Mariegola della Scuola di San Giovanni Evangelista ammonisce: "Perché [...> come dixe lo biado Agustin, quando semo uxa in la temporal vita vive in patria strania, e perciò se die haver avanti li occhi la fin del tempo di questa transitoria vita, e pensar ch'el die ricever premio del ben e penna del mal [...> " (67). Una simile concezione della precarietà delle cose terrene si presenta nella Mariegola della Scuola di Santa Maria della Celestia, che stabilisce che: "In per quelo che nuno avemo citade qua permanevole ma segondo lo apostolo dovemo inquerir la celestial patria la qual è eternal et a quela se dovemo sforzar de andar" (68).

Le Scuole erano le porte d'ingresso alla città eterna: se le Mariegole insistevano sull'ineluttabilità della morte, offrivano anche, grazie alle risorse comuni, la promessa di esequie decorose per i membri che si fossero mostrati coscienziosi. Agli adepti della Scuola di Santa Marina veniva assicurato che:

Et si caso che da qua in avanti, che dio dia longa vita e sanità a chadauno, el vegnisse a morte così fradelo come sorela, et de anno in anno abiano fato che miss. lo gastaldo [...> con li soi compagni debiano andar a casa del dito corpo morte et tuor chadauno un dopiero aceso in man et arder dal principio se comenza loffitio per fina compito e soterato (69).

Gli statuti della Scuola di Sant'Orsola contemplavano disposizioni simili, aggiungendo che coloro che accompagnavano il funerale dovevano seguire in processione la croce e il "penello" della Scuola, recitando ciascuno venticinque paternostri e venticinque avemarie. Se il defunto non aveva lasciato fondi sufficienti a pagare il funerale, "volemo che la scuola si li faza sopelir onorevolmente" (70).

In un'epoca così profondamente sensibile al decoro e alle manifestazioni esteriori della religiosità, non pareva più possibile, com'era, più semplicemente, al tempo degli esordi, formare un buon corteo funebre soltanto con i familiari: anche i funerali si erano professionalizzati e richiedevano l'assistenza di preti, piangitori e pii confratelli. Se un fratello o una sorella morivano in povertà, i congiunti spirituali avrebbero pagato le spese; se in condizioni agiate, sarebbe stato loro assicurato un funerale di prestigio con un adeguato seguito di piangitori.

Come mostrano numerosi testamenti, erano molti coloro che nel contemplare la propria morte richiedevano ulteriori rassicurazioni e organizzavano il proprio funerale nei minimi particolari, come quel testatore che nel 1382 promise un ducato d'oro a ogni "povero" delle Scuole di San Michele e San Girolamo "venientibus ad meam sepulturam cum suo penelo" (71). Tra gli altri, un certo Melchiorre Scarpa si era assunto l'onere di unirsi a più confraternite richiedendo che con la Scuola di Sant'Orsola, di cui era gastaldo nel 1504, sfilassero al suo funerale anche la Scuola grande di Santa Maria della Carità, la Scuola dei Varotari, "et da le altre Scuole pizole ne li qual Io mi atrovo esser" (72). Accanto all'aspetto mondano del "buon funerale", si poneva l'ancor più assillante pensiero della "buona morte" e della vita ultraterrena: anche dopo le esequie si doveva prestare al defunto un'attenzione ininterrotta. Gli statuti di fondazione di Sant'Orsola ordinavano:

Ancora volemo che sempre di e note arder debia un cesendelo in la gliexia de madona santa orsola ale spexe dela scuola e a loro honor santissimo e per le aneme de tuti le frari e dele soror che dara alturio [aiuto> o conseio a questa benedeta scuola (73).

Il cero perennemente acceso in memoria del defunto doveva inoltre essere rafforzato dalle preghiere dei vivi. La seconda domenica del mese il gastaldo, i diaconi e tutti i fratelli e le sorelle si adunavano per la messa presso l'altare della sede comune e facevano una processione con i ceri accesi intorno alla sala. Tali messe erano celebrate dai frati dei Santi Giovanni e Paolo, pagati con i lasciti patrimoniali dei defunti o, in mancanza di questi, con i fondi della confraternita (74). Altre messe venivano celebrate anche per quei membri che fossero deceduti al di fuori della città, allo stesso modo che se fossero stati presenti (75).

Gli stessi principi basilari valevano per le Scuole grandi, dove la pratica dei cortei funebri e delle messe commemorative si ripresentava amplificata dal peso numerico con la partecipazione di diverse centinaia di confratelli. Verso la metà del secolo XV, l'uso di suonare le campane dei campanili per tre o quattro ore dopo la morte per peste di un confratello non doveva più suscitare nei vivi la devozione di un tempo, visto che il consiglio dei dieci ne limitò la durata a un massimo di mezz'ora adducendo a motivo il disturbo che tale pratica avrebbe arrecato a chi era malato come a chi non lo era (76). L'associazione a una Scuola equivaleva ad assicurarsi un fondo di dotazione perpetuo per la cura e la protezione

dell' anima (77).

"Tuti fioli equali": la gerarchia sociale e il sacro

L'esercizio di una carica richiedeva notevole impegno. Nel primo Quattrocento, la "banca" degli ufficiali della Scuola di Sant'Orsola consisteva - caratteristica peraltro comune ad altre Scuole piccole - in quindici uomini in servizio per la durata di un anno: un gastaldo, primo ufficiale esecutivo; un vicario, assistente amministrativo che occasionalmente poteva sostituire il gastaldo; uno scrivano addetto a tenere i registri; e infine dodici "degani" (78). Oltre ad assistere alle riunioni d'affari, su pagamento di un tributo speciale, e mantenendo l'osservanza ai normali obblighi dell'associazione, uno o più tra gli ufficiali avevano anche il compito di assistere alle messe del lunedì a memoria dei membri deceduti, visitare i malati, seguire tutti i funerali, selezionare e ricevere nuovi affiliati, partecipare a una speciale "missa cantata" dello Spirito Santo, il giorno prima di ogni elezione (79). I degani, scelti per sestiere, costituivano il tramite tra gli ufficiali e i confratelli: a essi spettava decidere chi si trovasse in stato di bisogno, materialmente e spiritualmente, e occuparsi dei funerali quando fosse stato necessario; ognuno di loro doveva tenere "un ruodolo" dei fratelli di cui era responsabile. Come si è visto, anche le donne ricoprivano alcune cariche, nonostante le testimonianze siano reticenti riguardo al livello effettivo della loro partecipazione. In ogni caso, "Madona la gastolda" era responsabile delle visite e dell'organizzazione delle cure per le sorelle malate (80). In osservanza agli alti ideali di fratellanza cristiana, era severamente censurata ogni discordia tra i membri: chi "dixesse vilania" ad altri sarebbe stato espulso dalla Scuola. I contendenti avevano otto giorni di tempo per rappacificarsi, scaduti i quali "chi paxe non volesse sia de presente cazado fuora de la scuola" (81).

Molti degli aspetti della vita devozionale e della struttura amministrativa delle Scuole piccole si ripresentavano nelle Scuole dei Battuti, se pur amplificati dal peso numerico e dalla consistenza delle risorse finanziarie. Ai membri dei Battuti si richiedeva non solo l'osservanza delle messe mensili ma anche di seguire, compito ben più gravoso, le processioni oltre i confini della Scuola: chi non avesse partecipato alle attività designate sarebbe stato sottoposto ad ammende ("ponti"). Si davano tuttavia delle eccezioni: "per infirmità; per officio di alcuno havesse in corte; per causa di nozze; per morte di parenti o speciali amici, per essere fuori di Venetia" (82). Ognuno doveva inoltre essere adeguatamente equipaggiato, come ordinava perentoriamente una "parte" del 1445: "Fratelli debbino haver cadauno la sua Cappa propria, e non l'havendo non s'habbino per fradeli" (83).

Nel 1410 il consiglio dei dieci sanciva che in ogni Scuola dei Battuti le quattro cariche principali fossero riservate a cittadini "originari" o "per privilegio", e a questi ultimi solo se membri della Scuola da almeno vent'anni. Esse comprendevano il "guardian grande", il vicario e lo scrivano - i cui omologhi si trovavano anche nelle Scuole piccole - e il "guardian matin", primo ufficiale finanziario e sovrintendente alle processioni - ufficio che in un primo tempo era stato prerogativa dei Battuti (84).

Ancora, dodici degani, due per ogni sestiere della città, fungevano da intermediari tra il guardian grande e il sestiere, con compiti che spaziavano dalle visite ai malati all'organizzazione dei funerali, all'indagine sulla reputazione delle ragazze proposte per l'assegnazione della dote. I doveri devozionali includevano l'osservanza delle messe settimanali in suffragio dei defunti, cui due degani a turno avrebbero dovuto avvicendarsi di mese in mese. Primo passo per l'accesso al gruppo dirigente, tale incarico era spesso il primo per chi mirasse a più alti uffici. Nel 1438 il consiglio dei dieci estese ai degani l'obbligatorietà della cittadinanza e l'intera "banca" di ciascuna Scuola dei Battuti divenne la riserva esclusiva della classe dei cittadini, con notevoli privilegi concessi ai cittadini "originari" (85). Nelle intenzioni dello Stato tali provvedimenti garantivano che il potere nelle sempre più prospere Scuole dei Battuti rimanesse sotto il controllo dei residenti di lunga data, che avevano il maggiore interesse alla stabilità e al benessere della città (86).

Tutte le Scuole si erano date regolamenti volti a scoraggiare la concentrazione del potere nelle mani di una piccola oligarchia autoperpetuantesi. Si poteva trattare, come per la Scuola di Sant'Orsola, del semplice requisito di un periodo biennale di "contumacia" prima della rielezione alla stessa carica (87) o di misure più elaborate come quelle in vigore nelle Scuole grandi, dove chi ricopriva incarichi ufficiali si muoveva all'interno di una normativa intesa a prevenire il nepotismo, le manovre elettorali e i conflitti d'interesse, nonché a tenere sotto controllo la tendenza alla monopolizzazione degli incarichi da parte di quadri permanenti (88). Contrappeso ai poteri esecutivi degli ufficiali era il capitolare generale, gruppo composto, nelle Scuole grandi, da trenta-cinquanta uomini, in genere benestanti e talvolta ex membri della "banca", con funzioni di controllo sulle spese più consistenti: se infatti era prerogativa soltanto del guardian grande presentare nuove leggi o proporre progetti di spesa, l'approvazione del capitolare generale era requisito essenziale al loro avallo economico (89).

Ammessa pure la tendenza operante nelle Scuole a conciliare i diversi gruppi economici e sociali, molto ancora resta da scoprire sul modo in cui i membri interagivano in un ambiente in cui l'uguaglianza davanti al Signore era vera più in teoria che in pratica. Nelle Scuole grandi la divisione tra ricchi e poveri, che manteneva l'equilibrio tra chi pagava e chi pregava, è stata convincentemente evidenziata da Brian Pullan (90). La dicotomia sociale che ne derivava era fonte di un dilemma etico, arduo anche per chi ne risultasse privilegiato. Nel 1498 gli ufficiali della Scuola grande di San Rocco erano perfettamente consapevoli della debolezza morale su cui si fondava tale sistema e se ne rammaricavano: "la qual cossa, oltra che la sia contra la charita et contra la equal fraternitade, schandolo e mormorazion erisse tra li fradeli, fazendo di uno fiol e l'altro fiastro de missier san rocho essendo tamen tuti fioli equali" (91). Ancor più severa l'accusa mossa da un critico dei giorni nostri, secondo il quale i Battuti sarebbero diventati Scuola grande solo "quando la genuinità della loro componente devota era senza dubbio inferiore a quella di tutte le altre confraternite cittadine" (92).

Tuttavia le differenze fra Scuole grandi e piccole potrebbero essere più apparenti che reali: indici di una simile stratificazione tra ricchi e poveri si riscontrano anche nelle Scuole piccole almeno dall'inizio del secolo XIV. Come si è visto, la condizione di privilegio del patriziato negli anni successivi alla Serrata del 1297 era in tutte le Scuole un principio assodato (93), ma le Scuole piccole ci offrono anche evidenti segnali di una gerarchia operante fra membri non appartenenti al patriziato. Un emendamento apportato nel 1370 agli statuti della Scuola di Sant'Orsola indica chiaramente come già da qualche tempo esistesse una categoria speciale di cittadini comuni che entravano nelle Scuole "per nobili", pagando tasse d'iscrizione e tributi più consistenti in cambio dell'esenzione dagli impegni e dai doveri della Scuola: lo statuto prevedeva che chi avesse voluto entrare "per nobile" avrebbe dovuto versare tre ducati d'oro per l'iscrizione e la "luminaria". La distinzione di tale categoria dal patriziato vero e proprio risulta evidente dalla seguente risoluzione: "Salvo se algun zentil homo de veniexia volesse per soa devotion intrar in la dita scuola quello o quelli abia plen arbitrio de dar e pagar al so bon plaxer quello che aloro parera". Similmente, una donna che avesse voluto entrare "per nobile" avrebbe dovuto pagare quattro ducati: "E questo si e fato a bone fin e per acressimento dela dita scuola perche molte persone intrava in la dita scuola alla condition di nobeli per esser asenti dali offitij dela scuola no temando la spexa di un ducato e cosi le done. E per questo modo la scuola vien amancar de boni homeni da far officiali" (94).

A questa pratica allude Richard Mackenney quando parla dell'acquisto del titolo di nobiltà per uso interno alle Scuole. Nel suo studio, condotto su quattro Scuole piccole fra il 1337 e il 1520, egli rileva che all'incirca il 6 per cento degli affiliati si era iscritto come nobile ma, mettendo in dubbio la loro appartenenza "bona fide" al patriziato, sottolinea il carattere di ambiguità del titolo (95). Se si guarda ancora una volta alla Scuola di Sant'Orsola, si rileva che nel 1488 il gastaldo era iscritto nella Mariegola come il "nobel sier Antonio de filipo" (96), ma tale cognome, probabilmente un patronimico, non compare in nessuna lista dei "zentilhomini" qualificati a sedere nel maggior consiglio (97): "sier Antonio" poteva essere un nobile, ma soltanto entro i confini della Scuola. Un gruppo equivalente all'interno della Scuola dei Battuti sarebbe stato costituito dai "boni homines", cittadini comuni benestanti che pagavano tasse più alte ed erano esentati dalle discipline e da altri doveri, ma non avanzavano alcuna pretesa di nobiltà (98).

Accanto al gruppo speciale di cittadini comuni entrati "per nobile", le vere famiglie patrizie spesso giocavano il ruolo di benefattrici nelle Scuole piccole. Verso la fine del Quattrocento i Loredan della contrada di San Cassiano, ad esempio, esercitavano già da almeno un secolo una funzione di controllo sulla Scuola di Sant'Orsola, rendendola oggetto di una speciale protezione e facendo virtualmente della sala di riunione della confraternita la cappella mortuaria di famiglia (99). Analogamente gli atti della Scuola di Santa Marina descrivono l'installazione della "cassa sopre laltar amezo de la pala doro, la qual fece far la magnifica madona Antonia dona del magnifico miss. Marin da cha di garzoni come nobel fradelo, e sorela de la dita schola" (100).

In una Scuola grande le opportunità di preminenza di una singola famiglia patrizia sarebbero state limitate dalle dimensioni e dalla consistenza del gruppo. Lì il controllo era saldamente nelle mani dei cittadini "originari", anche se soggetto al capriccio del consiglio dei dieci, e le loro relazioni di patrocinio con i nobili avrebbero assunto forme diverse. Nelle Scuole grandi il problema principale consisteva nell'impedire che qualche singolo ufficiale si appropriasse indebitamente di una parte di onori spettanti al gruppo. Nel 1445 per esempio il consiglio dei dieci ammonì il guardian grande di una anonima confraternita, che durante le riunioni del capitolo aveva preso l'abitudine di sedere in un "pomposo" trono decorato e di tenere discorsi inadeguati. A tutte le Scuole dei Battuti fu ricordato che il loro "principium et finis" era la "devotio associandi mortuos e distributio elemosinarum inter se" (101).

E tuttavia la tendenza alla stratificazione sociale permeava ogni istituzione della società. Nel 1474 il consiglio dei dieci ordinò agli ufficiali delle Scuole grandi di osservare un preciso ordine di seduta, probabilmente sul modello di accordi simili presi dal consiglio di stato. In una confraternita di supposti uguali ci sarebbero stati pochi dubbi sul ruolo assegnato a ciascuno in una gerarchia di rango ed età:

Vale a dire che il guardian grande, che è primo fra tutti gli altri, ed il vicario ed il guardian da matin e lo scrivano [...> devono sedere al loro solito posto secondo la dignità del loro ufficio. Item, i degani del semestre devono sedere al loro solito posto, primo e secondo, secondo l'età; similmente XLII [sic = XII> degani devono sedere secondo l'età, perché tra loro la precedenza è sempre secondo l'età (102).

Oltre a presentare allettanti possibilità d'espressione della religiosità, e indubbi vantaggi economici, le Scuole offrivano alle classi inferiori una certa forma di identità, funzionando da "famiglie artificiali" per una fetta significativa della grande maggioranza del popolo che non aveva nemmeno un cognome (103). Inoltre l'inclusione di alcune famiglie nobili nella cerchia della Scuola avrebbe stabilito legami di protezione e lealtà su cui si sarebbe potuto contare nel momento del bisogno. È possibile che questo aspetto abbia assunto sempre maggiore importanza con l'acuirsi delle distinzioni di classe e il consolidarsi delle barriere sociali, processo che giunse al culmine nel primo trentennio del secolo XVI. La solidarietà sociale quindi si aggiunse agli intenti economici e caritativi, poiché ogni Scuola si costituì come spazio di coesione in cui i popolari si incontravano regolarmente con i patrizi, in una relazione non paritaria ma chiaramente strutturata (104).

"Li zorni ordenadi": la presenza rituale delle Scuole

L'altare della Scuola, che si trovasse in una grande sede comune o nella navata di una chiesa parrocchiale, accoglieva la presenza dello Spirito Santo nella sua forma più tangibile e pura: era questo il mondo privato dei confratelli e delle consorelle che, riuniti in intima comunione, accrescevano il comune tesoro spirituale con preghiere e devozioni. Ma inevitabilmente il sacro si riversava nello spazio pubblico. Nelle frequenti processioni che si snodavano tra calli e campi, gruppi di pii marciatori con croci, reliquie e labari da processione congiungevano una Scuola all'altra come anelli di una catena che comprendeva anche le chiese e i monasteri della città. Come osservava Jacopo Guidi nel 1442:

A feste principali van la mattina

per questa terra chon divozionee

a ongni chiesa ciaschedun sinchina

E anche vanno a tutte procisione

che ordinasse questa singnioria

chon preti e frati di religione (105).

Gli itinerari religiosi delle Scuole ebbero un ruolo importante, seppur di breve durata, nella sacralizzazione degli spazi deputati al commercio e alla politica e delle sfere più umili della vita quotidiana, ispirando così un cittadino come il diarista Priuli a proclamare la città "una sacrestia di sanctimonia" (106) se non addirittura una nuova Gerusalemme (107).

Come nella maggior parte delle cose veneziane, queste processioni percorsero tutta la scala delle proporzioni e dello splendore. Le regolari processioni domenicali delle Scuole grandi, debitamente annotate da Jacopo Guidi, facevano semplicemente parte dello scenario della città ed erano probabilmente così familiari da essere date per scontate dal cittadino medio che andava per la sua strada. Le processioni funebri, probabilmente le più frequenti, potevano essere estremamente semplici, con due o tre confratelli che accompagnavano il defunto per strette calli fino alla chiesa parrocchiale. Ma salendo la gerarchia dell'osservanza rituale si incontra la categoria speciale de "li zorni ordenadi" - occasioni formali in cui era prescritta la presenza di tutti i fratelli. Ne è esempio tipico il corteo funebre per il cardinale Zen del 1501, nella cui realizzazione, secondo la descrizione di Marin Sanudo, le Scuole, sia piccole che grandi, ebbero un ruolo di primaria importanza. La Signoria non aveva evidentemente badato a spese: invitando le Scuole a riunirsi in una di quelle dimostrazioni ben orchestrate di armonia consensuale per cui la città andava famosa, non solo ordinò che tutte le botteghe fossero chiuse, ma offrì anche un compenso ai membri delle Scuole grandi perché vi partecipassero. Così, all'ora stabilita, si trovavano in fondo a piazza San Marco vicino alla chiesa di San Gimignano:

[le> scuole picole, numero Zio peneli, et 420 dopieri dorado, a do per scuola, e le scuole cinque di batudi, e tutti i frati e chieresie e li marinari. E ogni scuola granda li fo dato 100 dopieri, et 100 messe la scuola; e fo dato uno trun [tron> per cadaun a li batudi [...> tutti vene per aver il trun, sì che era un gran populo (108).

Sanudo contò qualcosa come 3.531 partecipanti, in aggiunta alle schiere delle Scuole piccole e al clero, in una processione lunga parecchi chilometri. A due a due i fedeli, dopo aver sfilato intorno alla Piazza, percorrevano San Marco. Il feretro era accompagnato da quattro giovani "corozosi ", tutti vestiti in nero e con le armi e le insegne del defunto. Tutti erano equipaggiati con "ventoli" neri, "come si usa in corte di Roma", che sventolavano di continuo attorno al feretro, "a far vento, in significhation, tuto sto mondo è fumo". La Basilica era stata drappeggiata con panni neri e ornata con gli stemmi della famiglia Zen: sotto un baldacchino eretto "more romano" di fronte al coro, sarebbe rimasta esposta nella camera ardente per altri nove giorni la bara contenente i resti del cardinale, malgrado il caldo soffocante dell'estate veneziana. Centinaia di torce e candele illuminavano la Basilica e, secondo la testimonianza di Sanudo, il giorno del funerale faceva così caldo che alcuni dei principali partecipanti - presumibilmente della famiglia del cardinale - non rimasero per i servizi ecclesiastici e mandarono in loro vece dei "famegij". Questa manifestazione di ortodossia veneziana e di devozione alla Chiesa di Roma non dovette costare alla Signoria meno di tremila ducati (109).

Si facevano processioni in tempo di crisi e in tempo di trionfo; i confratelli piangevano dogi e condottieri, davano il, benvenuto a principi e illustri visitatori, solennizzavano alleanze militari, celebravano vittorie, e si propiziavano il divino contro la peste e le pestilenze, la carestia e la siccità, la guerra e ogni altra calamità. Nel corso del secolo XV, le celebrazioni divennero sempre più complesse e frequenti: la concezione del tempo cittadino era scandita da manifestazioni rituali pubbliche, e da splendide processioni.

Oltre alle date ufficiali, ogni Scuola aveva il suo proprio calendario cerimoniale con tre tipi di osservanze rituali: le feste relative ai santi patroni e alle reliquie possedute; le feste della Chiesa universale celebrate in tutta Italia, come il Corpus Domini e il Venerdì santo; le feste specificamente veneziane. Alla metà del secolo XVI, in aggiunta ai funerali e a speciali eventi pubblici, erano contemplate almeno trenta processioni ogni anno (110).

Se tutte queste celebrazioni potevano assumere a Venezia una sfumatura politica, quelle delle Scuole dei Battuti svilupparono una sicura risonanza pubblica già nel corso della prima metà del Quattrocento, ben prima di diventare Scuole grandi: una trasformazione testimoniata con chiarezza dai registri della Scuola di San Giovanni Evangelista. Fin dal 1379, un decennio dopo aver ricevuto "la nostra santissima croce" - preziosa reliquia della Vera Croce - dal cancelliere di Cipro Philippe de Mézières, i confratelli avevano preso a portarla in processione pubblica, fuori dalla sede comune, otto volte l'anno, in occasione delle festività, come "ogni altro dì che se fa procession per comandamento de la nostra dogal signoria" (111). Nel 1440 la Scuola rivide la sua agenda cerimoniale, mantenendo cinque processioni del vecchio calendario. Tre erano comuni a tutte le Scuole dei Battuti: le processioni in piazza San Marco per la festa del Corpus Christi e per quella di san Marco il 25 aprile, e anche quella del Venerdì santo a San Pietro di Castello; le altre due erano invece proprie della Scuola di San Giovanni: la festa del patrono, san Giovanni Evangelista, e la festa della Natività della Vergine, quando i fratelli andavano in processione fino a San Giobbe. Ora però, senza dubbio in conformità a un'iniziativa della Signoria, la Scuola avrebbe sostituito le altre tre processioni mariane con nuove cerimonie, cui avrebbero partecipato tutti i Battuti. Ognuna di esse aveva una rilevanza politica esemplare: le feste di san Vito e sant'Isidoro commemoravano rispettivamente il fallimento della cospirazione di Tiepolo del 1310 e di quella di Falier del 1355; la festa dell'Apparizione di san Marco del 25 luglio, ricordava un evento miracoloso del 1094 a lungo considerato prova della continuità del favore divino nei confronti di Venezia (112).

Il calendario era anche aperto a modifiche che rispondessero alle esigenze del momento. Nel 1441 la Scuola di San Giovanni introdusse due nuove processioni annuali: la prima, che raggiungeva la lontana chiesa di San Martino, dall'altra parte del Canal Grande, intendeva dare "debita reverentia e honore" alla reliquia recentemente acquisita del santo, che rischiava di essere dimenticata. La seconda, la festa dell'Invenzione della Croce, con una processione alla chiesa di Santa Croce e con l'ostensione della Santissima Croce celebrava la reliquia, ritenuta allora responsabile di "molti miracoli et potissime in questa nostra Patria de Venezia". Nel 1483, dopo circa quaranta anni, la processione fu revocata con l'introduzione di una nuova strategia devozionale di accesso privilegiato: "acciò che la Santissima Croce più ben fosse venerata nel suo proprio loco con frequenza di Messe" (113). Il calendario di tutte le Scuole grandi prevedeva simili processioni, e a ogni occasione, la rete di solidarietà che univa reciprocamente i laici si faceva sempre più fitta. Le due ricorrenze annuali più importanti erano le feste di san Marco in aprile e del Corpus Domini, che aveva luogo a maggio o a giugno. La Processione in piazza San Marco di Gentile Bellini del 1496, che rappresenta appunto la processione del giorno del santo, riproduce anche la percezione della magnificenza di tali eventi (114), sottolineata, come tutte le manifestazioni pubbliche importanti delle Scuole grandi del tempo, dalle voci e dagli strumenti di "cantadori" e "sonadori" di professione (115).

I registri della Scuola di San Giovanni presentano un quadro ideale dell'effetto desiderato: "Dovunque andiamo in città, in processione o altrimenti, a portare la magnifica [e> eminente Santa Croce, glorifichiamo il nome del Signore col canto, cantando in modo dolce e piacevole, in lode sia di Dio che della Croce gloriosa del nostro Signore Gesù Cristo" (116). La realtà non era sempre così felice: nel 1460 i dignitari della Scuola di San Marco chiesero il permesso al consiglio dei dieci di sostituire i loro "cantadori vecchi":

Poiché i loro cantanti sono consunti come vecchi, è con grande difficoltà che riescono a seppellire i morti, ad andare in processione e alle devozioni della città. Questi uomini sono infiacchiti e inadatti, e in condizioni tali non è conveniente che vadano per la città in silenzio come morti, invece di andare cantando lodi al signore, come è costume (117).

Alla fine del secolo le confraternite, ora Scuole grandi, rivaleggiavano nel campo dell'esibizione musicale come in molte altre cose (118): ciascuna aveva due cori specializzati, il primo di quattro-sei "cantadori vecchi" (o "cantadori da corpi") che cantavano solo ai funerali e l'altro di quattro-sei "cantadori nuovi" (o "de laude") per tutte le altre funzioni, incluse messe, feste e processioni. La Scuola di San Marco, che vantava la struttura musicale più elaborata, nel 1492 organizzò un terzo coro supplementare - i "cantadori solenni" - per le occasioni speciali, che comprendeva Pietro de Fossis, maestro di cappella alla chiesa di San Marco, e tre dei suoi "cantadori vecchi", con il vincolo di adempiere le richieste della "banca" e di nessun'altra Scuola (119).

Naturalmente, non tutte le processioni erano uguali e, al di là delle manifestazioni spettacolari come le esequie del cardinale Zen, i funerali non destavano il benché minimo entusiasmo tra i confratelli oberati di doveri. Già nel 1440 gli ufficiali della Scuola di San Marco lamentavano che le processioni funebri erano "puocho aprexiade" e ricordavano agli affiliati che questi riti di pietà erano "dele principal caxon che le dite scuole fosse principiade e augmentade, si è che ai corpi e ale precision, ordinade per la nostra signoria tuti i fradeli che possa debia vegnir a far le suo divotion e discipline" (120). Benché ai membri comuni non si richiedesse più l'osservanza della disciplina, il dovere di seguire le processioni faceva ancora parte dei loro oneri. Il rimedio adottato portò a ulteriori differenziazioni economiche in seno alle Scuole, poiché nell'ultimo decennio del Quattrocento l'obbligo cominciò a essere imposto strettamente solo a coloro che ricevevano elemosine o altri benefici economici. Pullan colloca qui la svolta decisiva in cui "sorse così in ogni Scuola, una categoria di ῾fratelli di disciplina' socialmente inferiore" (121). Paradossalmente, la presenza cerimoniale delle Scuole aveva contribuito ad aumentare il divario tra ricchi e poveri.

All'opposto, sembra che i confratelli fossero ansiosi di sfilare in processione in occasione delle festività maggiori: celebrazioni come il Corpus Christi o la festa di san Marco davano alle Scuole grandi l'opportunità di esibire le loro preziose reliquie e di far mostra di fronte alla comunità della loro impressionante forza numerica. In occasioni speciali anche i nobili sfilavano con le Scuole grandi (122), che già prima della fine del secolo XV allestivano quegli elaborati tableaux vivants che sarebbero diventati il tratto più popolare della festa del Corpus Christi e di altre processioni commemorative di stampo più prettamente politico (123).

La centralità delle grandi processioni nella vita pubblica veneziana e la consapevolezza dell'importanza del rango e della posizione potevano determinare dispute in merito alle precedenze. Nel 1451 due Scuole in corteo vennero alle mani sul diritto di passaggio in campo San Salvador e la zuffa che ne seguì continuò per tutta la Spezieria fino a piazza San Marco "cum scandolo multorum". Il consiglio dei dieci intervenne rapidamente, stabilendo che:

Scole andando ò tornando dalle Processioni non possino andar una contra l'altra ò interromperla attraversando la Strada. E quella prima entrarà in una Cale sia lassada passar e l'altri aspetti fin che sarà passada. E così si osservi in Piazza sotto pena di privation delle Scole, et altra ad Arbitrò del Cons. X(124).

I dieci si preoccupavano, come sempre, dell'ordine pubblico, particolarmente durante le cerimonie religiose, quando tumulti incontrollati avrebbero coperto di vergogna e di scandalo l'immagine processionale della Repubblica (125).

Se la preminenza delle Scuole grandi tendeva a emarginare le Scuole piccole, anche queste ultime ebbero una parte significativa nella vita cerimoniale della città. Invariabilmente invitate ai funerali di Stato - come nel caso del cardinale Zen e in particolare per quelli dei dogi - sfilavano anche in occasione dei funerali di famosi condottieri al servizio della Repubblica (126). L'alta considerazione in cui, nella tradizionale teoria sociale e politica veneziana, era tenuto il valore civile della "mediocritas", scoraggiava esibizioni spettacolari da parte dei vivi (127); solo alle proprie esequie un individuo avrebbe dovuto competere con i suoi pari in termini di ostentazione: il numero dei partecipanti era infatti un indice importante di magnificenza principesca.

Come le Scuole grandi, ogni Scuola piccola aveva il proprio calendario cerimoniale, se pur soggetto a considerevoli variazioni. Le loro attività celebrative erano di norma confinate all'immediato vicinato della loro sede, con l'unica eccezione del "Venere Santo", giorno citato nella Mariegola della Scuola di San Giorgio degli Schiavoni come quello in cui "tuti gli officiali debia essere ala chiesia de missier san Zuane del tempio et acompagnar el corpo del nostro signor misier Jesu Cristo in procession et infine che serà posto in sepulcro" (128).

Anche nelle Scuole piccole, nonostante i cantori fossero rimasti sempre su un piano amatoriale, le attività musicali progredirono notevolmente nel corso del Quattrocento. Nel 1492, la Scuola di Santa Maria Nuova strinse un patto con i "frari" di San Salvador, per poter passare da "una messa in parole" a "una messa in canto e cum li organi e cum tute quelle ceremonie acade a quella" (129). In occasione delle feste annuali in onore della patrona - celebrazioni che duravano anche tre o quattro giorni - la Scuola di Sant'Orsola inviava suonatori di flauto e tromba a bordo di imbarcazioni perché suonassero a Rialto e a San Marco; la vigilia della festa e il giorno successivo si celebrava una messa cantata nella chiesa di San Zanipolo (130).

Le gilde artigiane e le Scuole ad esse associate furono coinvolte negli sfarzosi spettacoli pubblici più di quanto lo fossero le Scuole comuni, per almeno due diversi aspetti. Il primo riguardava la pratica dei commerci, dal momento che il lavoro regolare veniva sospeso su decreto governativo per circa novanta giorni l'anno. La massiccia presenza di festività nel calendario presentava un lato paradossale: l'anno lavorativo, lungi dal contrarsi, si espandeva grazie alle numerose opportunità d'impiego che si presentavano (131). Le Arti, attive anche nell'organizzazione degli spettacoli per il Carnevale, vennero a svolgere un ruolo di primo piano in occasione dell'arrivo ufficiale di visitatori di riguardo, quando ogni gilda era responsabile della decorazione e dell'equipaggiamento di una galera che avrebbe fatto parte del corteo di benvenuto (132).

In secondo luogo parecchie Scuole artigiane svolsero un ruolo particolare in talune cerimonie ufficiali, sia religiose che secolari. Pittori, "fabri", "pellizzari" e "quei che fan panni di setta" - tutti artigiani ma insieme anche membri delle relative Scuole - si univano alle Scuole grandi in una cerimonia annuale, la vigilia della festa di san Marco, quando offrivano al doge candele di cera in segno di omaggio e, uno alla volta, venivano ammessi a contemplare la reliquia del Sacro Sangue conservata nel Tesoro. Assieme ai rappresentanti di molte altre gilde seguivano la processione del giorno dopo, benché - sembra - i partecipanti variassero di anno in anno (133).

La pratica rituale può essere considerata uno dei fattori di aggregazione della società poiché, attraverso la partecipazione dell'intera scala sociale patrizi e plebei, ricchi e poveri, laici e religiosi -, crea un'armonia consensuale e la espone pubblicamente. Nelle processioni e nelle altre cerimonie le idealità trovano rappresentazione e la fratellanza può essere resa visibile e concreta in un processo ripetibile nel tempo. Come osserva Mackenney, le Scuole svolsero un ruolo importante in questo processo di fusione e di "associazione di status", attraverso la sacralizzazione delle feste secolari e l'attribuzione di risonanza civile alle feste religiose. Il pubblico si univa al privato, il religioso si collegava al politico, e la legittimità dell'ordine sociale, con tutte le sue distinzioni di classe e di casta, otteneva un'ulteriore conferma (134).

"Fata a l'onor de la schuola nostra e de Veniexia":

le Scuole come mecenati delle arti

L'effimero spettacolo della pietà, della fratellanza e del benessere materiale della Repubblica, offerto dalle Scuole in processione ne "li zorni ordenadi", era preservato in forma più tangibile nell'addobbo degli altari delle chiese parrocchiali e nello splendore delle loro sedi. La Venezia del Quattrocento era una società in cui la pompa e la magnificenza non erano ancora considerate come antitetiche alla devozione; in effetti, era con le opere d'arte e l'architettura che la religiosità veniva pienamente manifestata nella sua realtà e permanenza. I libri dei conti delle Scuole potevano quindi registrare lo stanziamento di risorse finanziarie per tali progetti sotto la voce di "piae causae" (135).

Le Scuole grandi davano il tono e stabilivano uno standard di magnificenza architettonica ineguagliabile dalle Scuole piccole. Nella sua breve guida alla città del 1489, lo storico Marc'Antonio Sabellico considerava le sedi di tre delle Scuole grandi particolarmente "di memoria degna". A proposito della Scuola di San Giovanni Evangelista esclamava: "nella fronte mostra splendore"; della Scuola di Santa Maria della Carità lodava una "nobilissima stanza"; della Scuola di San Marco, prima "con nobili pitture et oro sommamente ornata", lamentava la distruzione a causa di un incendio avvenuto quattro anni addietro, "non senza dolore di tutta la città", ma osservava con plauso che era "oggi di materia di maggior prezzo che prima, riedificata" (136).

Sabellico sorvolava sulle altre due Scuole grandi qualificando la Scuola di Santa Maria della Misericordia semplicemente come "famosa" e ignorandone la sede allora in cattive condizioni. La Scuola di San Rocco si riuniva ancora nel 1489 in modesti alloggi, forse più adatti a una Scuola piccola, anche se era diventata grande da qualche mese. Nei decenni successivi tuttavia, entrambe le Scuole avrebbero speso somme considerevoli per adeguarsi alle altre tre grandi. Mentre la Misericordia commissionò all'architetto Jacopo Sansovino una struttura così grandiosa e ambiziosa da non essere mai completata, San Rocco ebbe maggior successo, con le due sedi costruite una dopo l'altra vicino ai Frari. Alla prima, di dimensioni più modeste e portata a termine nel 1509, seguì, cinque anni dopo, il progetto di una sede più grande. In questa seconda e ultima realizzazione, che si erge ancora oggi nella sua magnificenza, la Scuola grande di San Rocco avrebbe dato il più alto esempio del paradigma sviluppato dalle altre Scuole grandi nel Quattrocento (137).

Ben si comprende l'attonita ammirazione di Battista Sfondrato di fronte ai soffitti dorati e alle facciate rivestite di marmo delle Scuole grandi, i massimi monumenti, se si eccettuano le chiese stesse, della religiosità laica a Venezia. L'assegnazione a simili progetti di una parte cospicua delle loro limitate risorse economiche era motivata da una miriade di aspirazioni sia religiose che patriottiche, che si combinavano col desiderio di competere con le altre Scuole. Utilizzando la retorica dell'onore e della necessità il guardian grande della Scuola di San Giovanni Evangelista poteva così giustificare i costi della costruzione di una nuova cappella in tempi difficili: "Pur è da considerar de proveder a le chose che sono de suma nezesitade [...> siando manifesto a tuti de tal e sifata spexa fata a l'onor de Dio e de misser San Zuane, honor de la schuola nostra e de Veniexia" (138).

Alla fine del secolo XV tutti gli edifici delle Scuole grandi presentavano una pianta simile su due livelli. Al piano nobile erano situate le due stanze principali, la capitolare (chiamata anche sala maggiore o di riunione) e l'albergo. Le riunioni generali si tenevano nella sala capitolare, una grande stanza generalmente dotata di un altare su un lato. Adiacente era l'albergo, più piccolo e raccolto, che poteva anch'esso ospitare un altare. Era qui che i sedici ufficiali della "banca" trattavano i loro incontri d'affari, assegnavano elemosine e doti e conservavano le reliquie e altri oggetti preziosi appartenenti alla confraternita (139). Cuore amministrativo e filantropico della Scuola, l'albergo era solitamente il locale che per primo veniva più riccamente decorato. Il piano terra consisteva in un ampio salone a colonne simile all'androne dei palazzi veneziani dell'epoca. Concepito come spazio funzionale più che cerimoniale, prevedeva uno spogliatoio dove i confratelli potevano indossare le cappe per la processione e che fungeva da deposito per gli oggetti da portare in processione, come "asti ", "pennelli", "doppieri", "palchi" (piattaforme su cui trasportare le reliquie), fino ai semplici ceri, e avrebbe potuto occasionalmente essere usato come sala da banchetto. O forse, come ha suggerito uno studioso, la funzione più importante della sala a pianterreno sarebbe stata semplicemente quella di elevare le due stanze "funzionali" sovrastanti - la sala capitolare e l'albergo - in una posizione più dignitosa al di sopra del livello della strada (140).

Se nel secolo XV la Scuola di San Marco edificò ex novo due sedi, gli altri Battuti si limitarono a ristrutturare, in genere a più riprese, gli alloggi del secolo XIV. La nuova sede della Scuola di San Marco sostituì quella che, completata nel 1438, era andata distrutta nell'incendio del 1485. Già il precedente edificio era ricco di dipinti degli artisti più noti della città, compresi alcuni "teleri" di notevoli dimensioni - scene narrative dal Vecchio Testamento e dalla Passione di Cristo ad opera di Jacopo Bellini, così come di suo figlio Gentile e di altri artisti di rilievo - tutti perduti nell'incendio. La campagna di ricostruzione fu finanziata sostanzialmente con fondi della Signoria che ben comprendeva come la gloria della Scuola potenziasse la gloria dello Stato. La riedificazione di San Marco ebbe un effetto a catena poiché inaugurò un intenso periodo di costruzione e di attività decorativa in tutte le Scuole grandi, destinato a durare fino agli anni cupi della Lega di Cambrai. Le iniziative erano del resto incoraggiate dal consiglio dei dieci, che nel 1492 garantiva a ogni confraternita una moratoria di cinque anni durante la quale era concesso di stornare fondi dalle attività caritative per finanziarle (141).

Le iniziative di costruzione e decorazione delle Scuole grandi produssero alcune tra le più felici espressioni artistiche del periodo: la splendida facciata in marmo della Scuola di San Marco, disegnata da Mauro Codussi; il cortile d'ingresso della Scuola di San Giovanni Evangelista, anch'esso in marmo pregiato; lo scalone a due rampe disegnato da Codussi per la Scuola di San Marco e riprodotto nella Scuola di San Giovanni Evangelista; il soffitto a cassettoni di legno dorato e dipinto nell'albergo della Scuola della Carità, che finirà per essere imitato da tutte le Scuole grandi; i Miracoli della Croce e la Vita di san Marco - cicli di monumentali teleri narrativi dipinti da Gentile Bellini, Carpaccio e da altri artisti per gli alberghi delle Scuole di San Giovanni e di San Marco. Prima della fine del secolo XVI tutte le Scuole grandi - l'ultima fu San Teodoro - avrebbero realizzato almeno la decorazione degli alberghi con cicli simili, a eccezione della Misericordia, caratterizzata da altre forme di decorazione murale (142). Molti artisti che parteciparono in questo periodo ai più importanti progetti delle Scuole grandi ne divennero anche membri, spesso all'inizio dei lavori (143).

I fondi per queste opere provenivano da lasciti, da tributi speciali imposti agli ufficiali e ai membri più influenti, e dalle tasse d'ingresso di nuovi aderenti ammessi in sovrannumero rispetto alle quote normali, con il consenso del consiglio dei dieci. Si può affermare che il sostegno del governo al mecenatismo artistico, esteso alle Scuole grandi nel corso di questi anni, fungesse da catalizzatore per un cambiamento nel quale la lotta sfrontata per la supremazia cominciò a sostituirsi a una più cauta ricerca della parità (144).

Anche le Scuole piccole avevano il loro terreno di competizione. Se ciascuna di esse possedeva un altare dedicato al proprio santo patrono in una parrocchia o in una chiesa monastica, alcune cercavano però di emulare le spaziose sedi comuni delle Scuole grandi con la costruzione e la decorazione di una propria versione ridotta su due piani, spesso con una sola stanza al piano nobile con la funzione sia di sala di riunione che di albergo per gli ufficiali (145). L'esempio più rappresentativo tuttora esistente è la Scuola di San Giorgio degli Schiavoni. Il ciclo di nove dipinti del Carpaccio che si trova ora al pianterreno vi fu trasferito in un'epoca imprecisata del secolo XVI, ma anche così la stanza suggerisce quello che sarebbe stato l'effetto secondo il disegno originario (146).

Già nel 1520 una decina di sale di riunione delle Scuole piccole era stata decorata con cicli di pitture narrative - quattro delle quali a opera del Carpaccio, il pittore delle Scuole piccole per eccellenza - sul modello delle Scuole grandi (147). La Scuola di Sant'Orsola possedeva una sede insolitamente grande, e la sua commessa al Carpaccio per un ciclo di nove dipinti, inclusa una pala d'altare, raffiguranti la vita della santa protettrice, fu probabilmente il progetto decorativo più ambizioso mai realizzato in una Scuola piccola nel Quattrocento. I lavori erano stati finanziati con tasse mensili imposte ai membri della "banca" e con multe ("ponti") raccolte da "quelli che dira la bruta parola, over che non vegnera ai corpi et de altre hobligation". Dopo aver pagato i dieci frati che celebravano messe per i morti con l'annuale tributo di "uno pane et una candela de onze iiij ", tutti i denari rimasti venivano spesi "in fabricha dela schuola o concier ho far far i teleri dela storia de madona santa orssola per infina che i sari compidi" (148). Ci sono anche indicazioni secondo le quali dei facoltosi patrizi affiliati alla Scuola avrebbero sostenuto il progetto (149).

Simili progetti sarebbero risultati di gran lunga troppo onerosi per la maggior parte delle Scuole piccole. Il patronato artistico di molte di esse si limitava alla cappella laterale o all'altare di una parrocchia o chiesa monastica, dove disponevano anche di un sito sepolcrale per i loro affiliati: privilegi per i quali normalmente la Scuola versava alla chiesa un canone annuale, e impiegava uno o più membri del clero per celebrare servizi religiosi. La Scuola, a sua volta, decorava l'altare o la cappella con una pala, provvedeva alle attrezzature liturgiche e la teneva illuminata con lampade e candele (150). Alcune delle più famose pale quattrocentesche erano state commissionate dalle Scuole piccole: sono opera di Giovanni Bellini, per esempio, il polittico di San Vincenzo Ferrer (ancora in situ), la Santa Caterina da Siena (distrutta da un incendio nel 1867) ai Santi Giovanni e Paolo e il San Giobbe ora all'Accademia (151). Alcune opere, come il trittico dipinto nel 1475 da Antonello da Messina per la Scuola di San Rocco, alla chiesa di San Giuliano, molto tempo prima che divenisse una Scuola grande, si ispiravano alla peste. È significativo che il San Sebastiano, l'unica tavola rimastaci, sia ritratto nel centro di una città e non, come d'abitudine, in campagna (152).

Le Scuole dell'Arte avevano ancora minori probabilità rispetto alle altre Scuole piccole di trovare le risorse necessarie per promuovere un costoso programma di costruzioni e decorazioni. I pochi libri contabili rimasti mostrano che metà degli introiti annuali era destinata, con ogni probabilità, alle spese devozionali - candele e olio, retribuzione dei sacerdoti, dei sagrestani e dei musici, attrezzature liturgiche come i crocefissi. Né era molto probabile che gli affiliati, per la maggior parte artigiani o maestri d'arte, ricevessero donazioni e lasciti pii da parte di facoltosi patrizi e cittadini; le pale d'altare dovevano quindi essere finanziate con speciali sottoscrizioni o tasse a carico dei membri stessi (153). Nel Quattrocento l'unica Scuola dell'Arte a decorare la sua cappella con un ciclo di dipinti narrativi fu la Scuola dei Setaiuoli ai Crociferi (1496-1499), una grande corporazione di oltre mille artigiani che traevano lauti guadagni dal commercio di articoli di lusso (154). Nel Cinquecento la Scuola di San Cristoforo dei Mercanti alla Madonna dell'Orto, i cui membri erano in prevalenza agiati imprenditori commerciali, fu l'unica Scuola dell'Arte a realizzare un insieme decorativo completo di un ciclo di pitture narrative e di un soffitto decorato che si avvicinava ai canoni di magnificenza stabiliti dalle Scuole grandi. Altre Scuole avevano soffitti dipinti o cicli narrativi, ma si tratta pur sempre, fino alla fine del secolo XVI, di casi isolati. Inoltre la maggior parte delle commesse delle Scuole artigiane andò, con poche rilevanti eccezioni e probabilmente a causa delle scarse possibilità economiche o forse per un gusto implicitamente conservativo, ad artisti di secondo piano (155).

Tra le varie commissioni delle Scuole non si deve trascurare la Mariegola, un'opera essenziale impreziosita spesso da almeno una miniatura ben dipinta e da maiuscole e margini decorati. La fattura delle Mariegole assunse grande rilevanza intorno alla fine del secolo XV, quando diverse furono ricopiate dalla "brutta littera merchadantesca" che era "pessima da lezer" nella "littera cancelleresca", una scrittura "de belle lettere de forma" (156).

Il patrocinio corporativo era un'attività più complessa di quanto potrebbe sembrare d'acchito, in quanto sottoposto a una tensione interna - o a una rete di tensioni - fra interessi individuali e collettivi. Il conseguimento del consenso richiedeva l'accordo su una serie di elementi: le scelte estetiche e la selezione degli artisti, il conflitto tra i programmi esistenti e le nuove iniziative, il problema dei fondi, la difficoltà di assicurare continuità alla versione originale in progetti a lungo termine, la delega dell'autorità e la continua supervisione del lavoro (157). L'effettiva partecipazione degli affiliati a tali decisioni sarebbe stata un importante veicolo di integrazione sociale quanto l'essere ritratti in un dipinto come protagonisti della vita religiosa del gruppo. Consentendo l'autocelebrazione personale e di parte, fortemente censurata a Venezia, le Scuole offrivano agli individui la singolare opportunità di proiettare un'immagine pubblica di ricchezza e magnificenza attraverso il patrocinio corporativo nell'arte e nell'architettura. Il prestigio della Scuola accresceva l'onore di ogni singolo affiliato.

"Per amore dei": le attività caritative della Scuola

Come già Battista Sfondrato, che aveva chiaramente intuito il dilemma fronteggiato dagli uomini delle Scuole grandi, anche Brian Pullan conclude ai giorni nostri: "Si trovavano, cioè, a dover decidere sino a che punto si dovessero tributare lodi a Dio attraverso architetture meravigliose e complesse cerimonie, e fino a che punto servire Cristo attraverso la sua immagine terrena, il povero" (158). La magistrale esposizione di Pullan delle attività caritative delle Scuole grandi, pubblicata oltre vent'anni fa, è stata il fondamentale punto di partenza per una quantità di studi successivi sull'assistenza ai poveri a Venezia (159). La carità, una delle molte espressioni di fratellanza offerte dalle Scuole grandi, presentava aspetti sia concreti che immateriali: le preghiere valevano quanto le elemosine e si estendevano ai morti come ai vivi. Pullan ha richiamato l'attenzione su un importante spostamento sopravvenuto nel secolo XVI nelle motivazioni caritative: dalla carità a beneficio dell'anima del donatore si passò alla carità in favore di una società nel suo complesso e del miglioramento fisico e spirituale di chi la riceveva (160). Nonostante si sia prestata minore attenzione nei loro confronti, anche le Scuole piccole, evidentemente, provvedevano all'assistenza dei loro membri più bisognosi, se pur con risorse più limitate, con tutte quelle opere di carità per cui le Scuole grandi erano celebri: distribuzioni dirette di elemosine e di cibo, ospedali e cura di malati e anziani, doti, alloggi e sepolture. I fondi provenivano da una gran quantità di fonti: tasse d'ingresso e tributi annuali, lasciti testamentari, investimenti, affitti e donazioni di interi patrimoni (161). Una notevole differenza tra Scuole grandi e piccole, tuttavia, consisteva nella funzione di "sindacato" assunta dalle prime. Già alla fine del secolo XIV, i testatori spesso nominavano come commissari gli ufficiali dei Battuti, con responsabilità connesse agli intenti spirituali della Scuola, analoghe a quelle dei procuratori di San Marco (162). Sovente la Scuola veniva nominata erede ultima di una tenuta nel caso si estinguesse la discendenza del defunto (163). In questione era il trasferimento morale dei beni, in particolare immobili, con la continua sovrintendenza sul lascito assicurata ben oltre il decesso di tutte le parti. Il testatore poteva pensare alla morte con serenità sapendo che le sue proprietà sarebbero passate a un beneficiario meritevole che ne avrebbe ricavato i mezzi per un'ulteriore crescita morale. Così, nel 1450, Pantaleo di Catanei, dettando le ultime disposizioni per la sua dimora, fissò i criteri spirituali per i beneficiari:

Morta la moglie, e morto detto Giovanni, vuole che detta sua Casa sia data ad un Cittadino Veneto, che abbia famiglia qual sia Confratello della Scola di San Marco qual abbia anno essi ducati i 2 all'anno e sapendo legger deca ogni giorno li Sette Salmi Penitentiali, mà non vuole che possa affitarla mà quella goder in vita sua per suo uso. E questo Cittadino sia eletto dal Guardiano e Compagni della Scola di S. Marco ò della maggior parte di essi, e sia uomo buono Veneto con famiglia, e sia di detta Scola (164).

Il testamento di ser Pantaleo riassume il tenore generale della sensibilità caritativa delle confraternite alla fine del Cinquecento. In primo luogo, aderiva alla pratica comune a tutte le Scuole di guardare anzitutto alla cura dei propri affiliati. Secondariamente il testatore dirigeva la sua filantropia a un beneficiario povero ma di buona reputazione, i cui atti di manifesta religiosità costituivano un importante criterio di eleggibilità (165). Inoltre egli non intendeva che la sua casa diventasse un riparo per miserabili, dal momento che l'affitto stabilito richiedeva il salario di un maestro artigiano e sarebbe stato inabbordabile per lavoratori non specializzati, ancorché lavorassero senza sosta (166). Non tutti i donatori, tuttavia, avrebbero esercitato un così rigido controllo postumo sulle pigioni relative alle loro proprietà e le Scuole riuscivano a procurare a molti fratelli un alloggio per un affitto modesto o gratuitamente, "per amore dei". Nel secolo XV sia la Scuola di Santa Maria della Carità che la Scuola della Misericordia costruirono stabili di parecchie unità abitative, alcune delle quali venivano date in affitto, altre riservate ai poveri della Scuola (167). Alla fine del secolo XVI le Scuole grandi mantenevano anche un numero cospicuo di membri indigenti in case di carità (168).

Già nei secoli XII e XIII si andava formando una rete di ospizi e piccoli ospedali - la più antica forma di assistenza pubblica a Venezia gestiti da privati, ma anche da Scuole, in particolare dalle Scuole nazionali e artigiane. Alla fine del Quattrocento si contavano quaranta o cinquanta di questi istituti, di cui almeno uno era legato a ogni Scuola grande. Loro funzione primaria era la cura dei malati e degli anziani, ma ricorreva al ricovero negli ospizi delle Scuole grandi anche chi non aveva una famiglia su cui contare in caso di bisogno. Spesso si trattava di edifici di modeste dimensioni, che potevano alloggiare solo tre-quattro residenti, ma ugualmente godevano dell'attenzione dei degani e delle cure di un gruppo di medici cui, in cambio dei servizi forniti ai membri della confraternita, venivano garantiti i privilegi dell'affiliazione (169).

Quasi tutte le Scuole, grandi e piccole, si adoperarono a provvedere alle doti delle figlie degli affiliati bisognosi. La richiesta era costantemente maggiore dell'offerta e il processo di selezione combinava un esame minuzioso del carattere delle ragazze con una scelta per sorteggio. La Scuola di San Marco fu la prima dei Battuti a istituire, nel 1392, un fondo permanente per le doti, investendo l'ingente somma di dodicimila ducati negli Imprestiti. L'interesse annuale avrebbe dovuto coprire dodici doti di trenta ducati ognuna "per maridar Donzelle". Gli altri Battuti presto fecero altrettanto, ma i problemi sorsero quando il governo, intorno alla metà del secolo XV, non corrispose il pagamento degli interessi. Molte coppie dovettero attendere anni prima che la dote venisse effettivamente pagata e il consiglio dei dieci fu costretto a concedere eccezioni alle quote di affiliazione delle confraternite per procurare fondi supplementari con cui far fronte agli impegni (170). I sussidi delle Scuole grandi dovevano essere davvero modesti (171) se - come dimostra una ricerca in merito - negli anni 1309-1419 le doti di ragazze non nobili, in primo luogo delle classi artigiane, ammontavano in media a settantaquattro ducati l'una; ma si trattava pur sempre di elargizioni generose, se paragonate a quelle di alcune delle piccole. Nel 1508 la Scuola degli Albanesi, i cui membri erano in gran parte artigiani e marinai, offriva sei doti annue di sei ducati ciascuna (172).

È difficile definire con precisione che cosa si intendesse per povertà nella Venezia di quegli anni. Pullan suggerisce che, includendo in questa categoria tutti coloro che non disponevano di mezzi propri e dovevano mantenersi col proprio lavoro, si arriverebbe al 50-70 per cento della popolazione. All'interno di questo strato, il livello più basso era costituito dai poveri cronici o "strutturali": orfani, handicappati, anziani, malati cronici ("i miserabili"), la cui entità sarebbe variata dal 4-8 per cento a una punta massima del 20 per cento della popolazione complessiva (173).

Alcune particolari categorie di "miserabili" non erano del tutto escluse dalle reti previdenziali delle Scuole. I ciechi e gli storpi, per esempio, avevano organizzato Scuole proprie già nel secolo XIV con lo scopo di organizzare l'accattonaggio. Si trattava, come osserva Pullan, dei primi tentativi di organizzare una classe di indigenti rispettabili cui sarebbe stata risparmiata la vergogna e l'umiliazione di elemosinare perle strade (174).

Anche i prigionieri e i condannati potevano avvalersi della protezione di una Scuola dedita esclusivamente al loro sostegno spirituale e materiale. In altre città italiane in genere erano i flagellanti ad assumersi l'onere di portare aiuto e conforto ai prigionieri e ai condannati; a Venezia invece questo compito fu affidato alla Scuola di Santa Maria della Giustizia, un'organizzazione senza eguali che venne a occupare una posizione ambigua tra i Battuti e le Scuole comuni. Nel 1445 il consiglio dei dieci consentì che una squadra di venti flagellanti della Scuola vestisse in nero per la processione, ma "cum hac condicione, quod vadant cum vultu discoperto, ita ut eorum facies palam vedantur et cognoscantur, et aliter non" (175). La restrizione definiva il ruolo speciale dei confratelli della Giustizia. Come ai Battuti, era loro consentito di compiere il rituale penitenziale della flagellazione pubblica, ma diversamente dai primi non potevano nascondersi nell'anonimato (176).

La maggior parte dei "miserabili" tuttavia non godeva della filantropia delle Scuole grandi, i cui "fadighenti" - coloro cioè che beneficiavano di elemosine -appartenevano soprattutto a uno strato appena superiore. Si trattava dei "poveri da crisi ", il 20 per cento circa della popolazione, impiegati ma miserevolmente retribuiti, che vivevano in situazione economica precaria (177). C'erano anche i poveri "vergognosi", i decaduti di buona famiglia, sia nobile che plebea, che appunto si vergognavano troppo per mendicare (178). Nel 1478, l'anno della peste, una petizione della Scuola grande di Santa Maria della Misericordia dichiarava seicentosedici membri regolari e quattrocento nobili, e lamentava: "Dei qual tuti nostri fradelli ne sono da 400 in suso poveri e bisognoxi, deschazudi, qual per graveza de la terra, qual per casi de fortuna, malatie et altri accidenti, et de optime et bone caxe, sì de nobili chomo de altre bone famelgie et citidini et persone" (179).

Alla fine del secolo XV, praticamente tutte le Scuole cominciarono a istituire rigide regole di partecipazione, in particolare per le processioni funebri, i destinatari di elemosine e altre forme di assistenza (180). Si dovrebbe comunque ricordare che il concetto del "paga o prega" era presente fin dall'inizio negli statuti delle Scuole dei Battuti. Una Mariegola della Scuola di San Giovanni Evangelista del secolo XIV lasciava ai confratelli, in occasione della morte di un affiliato, la scelta tra cantare cinquanta paternostri, donare quattro soldi di elemosina o sottoscrivere la celebrazione di una messa per l'anima del defunto (181). La divisione tra ricchi e poveri era forse soltanto una questione di tempo e, aumentando le richieste ma non le risorse, il sospetto di una crescente mentalità mercenaria tra i poveri e il rigore nella determinazione dei requisiti necessari per godere dell'assistenza si fecero probabilmente inevitabili. Come la Scuola della Carità lamentava nel 1492, uomini in salute si univano alla Scuola solo per aver accesso agli ospizi di carità e diritto alle elemosine mensili: "in modo che questi tal devorino ogni cossa, de che molti altri nostri fradelli de bona fameia e vergognosi et che sono disposenti senza alguno exercicio non puoi esser sovenuti secondo i besogni suo" (182).

Le Scuole piccole non erano immuni da tali problemi. La Scuola di Sant'Orsola si impegnava nel 1454 a sostenere con elemosine dodici sorelle e otto fratelli finché fossero in vita o non si trovassero più in condizioni di indigenza. È possibile che la domanda eccedesse le risorse a disposizione, poiché l'esperienza indusse a ripensamenti; l'anno successivo, in una riunione del capitolo, si subordinò l'ammissione all'assistenza a una partecipazione di cinque anni agli obblighi della Scuola 083). Talvolta i comportamenti pratici non corrispondevano ai presupposti ideali e le regole venivano cambiate di conseguenza. Nel 1502 la Scuola degli Albanesi esprimeva costernazione per il verificarsi di "una mala corrutella e strana consuetudine", per cui i parenti nascondevano il patrimonio di un membro defunto e giuravano falsamente che la morte era avvenuta in "extrema povertà", cosicché la Scuola era costretta a pagare il funerale "per amore dei". Al fine di scoraggiare con determinazione tali frodi, gli ufficiali cercarono di renderle meno allettanti istituendo un servizio funebre più austero per i poveri. Si deliberò che "a tutti quelli corpi che la Scuola nostra farà la spesa per sepelirli, non gli siano portati altri dopieri, che quelli della scuola, et non vi siano altri, che un Prete et un Zago [...>" (184).

Con una votazione a parte il capitolo determinò anche un cambiamento significativo nelle responsabilità dei vivi verso i morti. La carta costitutiva della Scuola degli Albanesi, fondata nel 1442, imponeva a ogni affiliato la commemorazione di ogni morte avvenuta all'interno della confraternita mediante un pesante regime di preghiere da recitare nell'arco di un anno: venticinque paternostri e avemarie prima della sepoltura "per ciaschedun fradello, et ciascheduna sorella"; quindi cinque preghiere al giorno nel mese successivo; e poi tre volte al giorno l'anno seguente. Circa sessant'anni dopo, tali disposizioni vennero riviste in modo esplicito:

Per tanto considerando noi molto bene, et diligentemente esaminando le coscienze nostre vedemo esser impossibile di sodisfar ad una così grande obligacione, et che pochi si trovano in questa scuola li quali dicano essi Pater noster, ed esse Ave maria, et non dicendoli, non rimane sodisfato li detti nostri fratelli deffonti.

Gli uomini della Scuola ricorsero all'espediente "di comutar tal carico in un'altra pia opera per iscaricar le coscienze di tutti noi":

Che da mò avanti in luogo di detti Pater noster, et Ave Maria volemo, che tutti li nostri fratelli et sorelle che venivano à pigliar il pane, et le candelle diano un soldo per huomo, il qual soldo sia messo nella cassella che farà messa in la scuola nostra, et quelli li quali hanno buona borsa diano più di un soldo, secondo che gli sarà inspirato dal Signor Iddio, et quelli tali dinari si spendano in un sacerdote, qual sarà elletto [...> per celebrar la Santa Messa tutte le Domeniche dell'anno, tutte le feste principali [...> et tutti gl'altri nostri giorni ordinarij. Nelle quali messe detto sacerdote sia tenuto di pregar il Sommo Iddio per l'anime di tutti gli fratelli, et sorelle passati da questa presente vita, et per tutti gli vivi di questa fraternità [...> (185).

Simili risoluzioni, nient'affatto insolite in questo periodo tra le Scuole piccole, rivelano parecchi cambiamenti strutturali nella pratica e nel sentimento religioso, che le accomunavano alle Scuole grandi: i membri erano meno inclini ad assumere un ruolo attivo nei sempre più onerosi obblighi devozionali del gruppo e il denaro sostituiva ormai la partecipazione diretta, mentre la preghiera era diventata una cosa da professionisti. Le distinzioni di status erano ora avvertite come accettabili e anzi rispondevano alle aspettative.

Come è stato più volte suggerito, la vasta rete di Scuole fu un fattore importante nella decantata stabilità e tranquillità della Repubblica. Le Scuole, sia piccole che grandi, garantivano all'ordine sociale un elemento essenziale di coesione, ma attingevano gran parte della loro forza proprio dalle loro interne contraddizioni: pur intrinsecamente basate sul principio di esclusione promettevano, al tempo stesso, l'inclusione in una piccola società che fungeva da microcosmo per la più ampia sfera pubblica, offrendo ai popolani privi di diritti civili, ricchi o poveri che fossero, tribune da cui definirsi socialmente, sia reciprocamente sia nei confronti della classe patrizia. Le Scuole, come sottolinea Reinhold C. Müller, univano e allo stesso tempo dividevano le masse (186), ma all'interno di questa divisione offrivano una struttura e un sicuro metro di giudizio. Esse contribuirono a cementare ulteriormente una società già stratificata e a risolvere le tendenze contraddittorie, da un lato alla spiritualità e alla carità e dall'altro all'ostentazione e al materialismo.

Forse la chiave della loro effettiva partecipazione al "mito" risiede proprio nella loro ambiguità e nella mancata adesione a una categoria definita, sicché fu loro consentito di riempire gli interstizi di una società in cui la gerarchia di rango non corrispondeva necessariamente alla gerarchia della ricchezza.

Traduzione di Luisa Contarello

1. Il testo originale completo è trascritto e accompagnato da un'acuta analisi in Reinhold C. Muller, A Foreigner's View of Poor Relief in Late Quattrocento Venice, in Pauvres et riches. Société et culture du Moyen-Äge aux Temps Modernes. Mélanges offerts à Bronislaw Geremek, Varsovie 1992, pp. 55-63. Cf. David Chambers-Brian Pullan-Jennifer Fletcher, Venice. A Documentary History, 1460-1630, Oxford 1992, pp. 299-302.

2. R.C. Müller, A Foreigner's View, p. 63.

3. Sulle confraternite italiane in generale si vedano: Gennaro Maria Monti, Le confraternite medievali dell'Alta e Media Italia, I-II, Venezia 1927; Herbert Grundmann, Movimenti religiosi nel medioevo, Bologna 1974; Gilles G. Meersseman, Ordo Fraternitatis. Confraternite e pietà dei laici nel Medioevo, I-III, Roma 1977; Ronald Weissman, Ritual Brotherhood in Renaissance Florence, New York 1982; Id., Cults and Contexts: In Search of the Renaissance Confraternity, in Crossing the Boundaries. Christian Piety and the Arts in Italian Medieval and Renaissance Confraternities, a cura di Konrad Eisenbichler, Kalamazoo (Mich.) 1991, pp. 201-220; Roberto Rusconi, Confraternite, compagnie e devozioni, in Storia d'Italia. Annali, 9, La Chiesa e il potere politico, a cura di Giorgio Chittolini-Giovanni Miccoli, Torino 1986, p. 475 (pp. 469-506); Christopher F. Black, Italian Confraternities in the Sixteenth Century, London-New York 1989. Si veda anche "Confraternitas", bollettino semestrale pubblicato dal 1990 dalla Society for Confraternity Studies presso l'Università di Toronto, Canada.

4. Giuseppina De Sandre Gasparini, Il movimento delle confraternite nell'area veneta, in AA.VV., Le mouvement confraternel au moyen dge. France-Suisse-Italie, Genève 1987, pp. 366-368 (pp. 361-394), asserisce che il termine "scuola" era in uso anche altrove nel Veneto e in Lombardia a partire dal secolo XI. Cf. C.F. Black, Italian Confraternities, pp. 23-24.

5. Brian Pullan, La politica sociale della Repubblica di Venezia 1500-1620, I-II, Roma 1982: I, Le Scuole Grandi, pp. 49-56. Per un modello diverso si veda R. Weissman, Ritual Brotherhood, pp. 116-118; Richard Trexler, Public Life in Renaissance Florence, New York 1980, pp. 252-256, 382-387, 403-418.

6. A.S.V., Consiglio dei Dieci, Parti, Miste, reg. 17, c. 20v, citato da Lia Sbriziolo, Per la storia delle confraternite veneziane: dalle deliberazioni miste (1310-1476) del Consiglio dei Dieci. Le scuole dei Battuti, in AA.VV., Studi in onore di Gilles Gérard Meersseman, II, Padova 1970, p. 737 (pp. 715-764). Per altri studi specialistici si veda B. Pullan, La politica sociale, I; William Wurthmann, The Scuole Grandi and Venetian Art, 1260-c. 1500, tesi di dottorato, Università di Chicago, 1975; Ruggero Maschio, Le Scuole Grandi a Venezia, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/III, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1981, pp. 193-206; William Wurthmann, The Council of Ten and the Scuole Grandi in Early Renaissance Venice, "Studi Veneziani", n. ser., 18, 1989, pp. 15-66; Brian Pullan, The Scuole Grandi of Venice. Some Further Thoughts, in Christianity and the Renaissance. Image and Religious Imagination in the Quattrocento, a cura di Timothy Verdon-John Henderson, Syracuse, N.Y. 1990, pp. 272-301.

7. Richard Mackenney, Devotional Confraternities in Renaissance Venice, "Studies in Church History", 22, 1986, p. 89 (pp. 85-96). Per altri studi sull'importanza delle Scuole piccole, si veda Lia Sbriziolo, Le confraternite veneziane di devozione. Saggio bibliografico e premesse storiografiche, "Rivista di Storia della Chiesa in Italia", 21, 1967, pp. 167-197, 502-542; Ead., Per la storia delle confraternite veneziane: dalle deliberazioni miste (1310-1476) del Consiglio dei Dieci. Scolae comunes, artigiane e nazionali, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", Classe di scienze morali, lettere ed arti, 126, 1967-1968, pp. 404-442; Silvia Gramigna-Annalisa Perissa, Scuole di arti, mestieri e devozione a Venezia, Venezia 1981; Brian Pullan, Natura e carattere delle Scuole, in Le scuole di Venezia, a cura di Terisio Pignatti, Milano 1981, pp. 9-26.

8. Richard Mackenney, Tradesmen and Traders. The World of the Guilds in Venice and Europe, c. 1250 - c. 1650, London 1987, pp. 111-113, adduce prove a favore dell'apertura delle regolari "Scuole dell'Arte" a gruppi di immigrazione.

9. Philippe De Commynes, Mémoires, Paris 1893, p. 411. Cf. Giorgio Fedalto, Stranieri a Venezia e a Padova, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/I, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1980, pp. 499-535.

10. Franca Semi, Gli "Ospizi" di Venezia, Venezia 1983, nota inoltre come un Ospizio dei calzolai Tedeschi fosse operante prima del 1340.

11. Si veda, in generale, L. Sbriziolo, Per la storia delle confraternite [...>. Scolae comunes, pp. 404-442; S. Gramigna-A. Perissa, Scuole di arti, passim. Per gli Armeni e i Bergamaschi, si veda Giuseppe Tassini, Curiosità veneziane, Venezia [1863> 1970; per i Lucchesi, Telesforo Bini, Lucchesi a Venezia. Alcuni studi sopra i secoli XIII e XIV, Lucca 1856; per gli Schiavoni, Rodolfo Pallucchini, I Teleri del Carpaccio in San Giorgio degli Schiavoni, appendice di Guido Perocco, Milano 1961; per i Tedeschi, Peter HuMFREY, Diirer's "Feast of the Rosegarlands": A Venetian Altarpiece, "Bulletin of the Society for Renaissance Studies", aprile 1986, pp. 29-39; per i Greci, Michael Ball, Poverty, Charity and the Greek Community, "Studi Veneziani", n. ser., 6, 1982, pp. 129-145; per gli Ebrei, C.F. Black, Italian Confraternities, p. 269, e Pier Cesare Ioly Zorattini, Gli Ebrei a Venezia, Padova e Verona, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/I, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1980, pp. 574-575 (pp. 537-576).

12. B. Pullan, The Scuole Grandi of Venice, pp. 273-274. Scuole del Santissimo Sacramento esistevano a Venezia almeno dal secolo XIV, ma solo nel tardo Quattrocento le Scuole che portavano questo nome focalizzarono il loro culto sull'Eucarestia: B. Pullan, Natura e carattere, pp. 12-13; Paul Hills, Piety and Patronage in Cinquecento Venice: Tintoretto and the Scuole del Sacramento, "Art History", 6, 1983, pp. 30-43. Si veda anche C.F. Black, Italian Confraternities, pp. 50-51; Giuseppe Barbiero, Le Confraternite del Santissimo Sacramento prima del 1539, Treviso 1941.

13. Si veda in particolare R. Mackenney, Devotional Confraternities, pp. 85-96; Id., Tradesmen and Traders, pp. 4-7; Giovanni Marangoni, Le Associazioni di mestiere nella Repubblica Veneta (vittuaria farmacia-medicina), Venezia 1974, pp. 19-21; S. Gramigna-A. Perissa, Scuole di arti, pp. 28-30.

14. S. Gramigna-A. Perissa, Scuole di arti, p. 30; B. Pullan, Natura e carattere, pp. 9-10.

15. Si veda, per esempio, Peter Humfrey-Richard Mackenney, The Venetian Trade Guilds as Patrons of Art in the Renaissance, "The Burlington Magazine", 128, 1986, p. 330 (pp. 317-330); Augusto Gentili, Nuovi documenti e contesti per l'ultimo Carpaccio. II. I teleri per la scuola di San Stefano in Venezia, "Artibus et Historiae", 18, 1988, pp. 79-108.

16. R. Mackenney, Tradesmen and Traders, pp. 4-6; Id., Devotional Confraternities, p. 90; Valentina Moncada, The Painter's Guilds in the Cities of Venice and Padua, "Res", 15, 1988, p. 109 (pp. 105-121).

17. R. Mackenney, Devotional Confraternities, p. 95.

18. Venezia, Seminario Patriarcale, ms. 950, Jacopo D'Albizzotto Guidi, El sommo della condizione e stato e principio della città di Vinegia e di suo territorio, c. 31.

19. Marino Sanuto, I diarii, IV, a cura di Nicolò Barozzi, Venezia 1880, col. 63. Pullan riporta un numero inferiore in Natura e carattere, pp. 13-14. Nel 1732 esistevano a Venezia 357 associazioni secolari: B. Pullan, La politica sociale, I, p. 42.

20. C.F. Black, Italian Confraternities, p. 52. Cf. Silvio Tramontin, Il culto dei santi nelle confraternite, in Santità a Venezia, a cura di Antonio Niero - Giovanni Musolino - Silvio Tramontin, Venezia 1972, pp. 37-79.

21. Anche se non si conoscono con precisione i loro rapporti con il movimento: John Henderson, The Flagellant Movement and Flagellant Confraternities in Centrai Itall), 1260-1400, "Studies in Church History", 15, 1978, pp. 147-160.

22. B. Pullan, La politica sociale, I, pp. 45-46; W. Wurthmann, The Scuole Grandi and Venetian Art, pp. 36-41.

23. A.S.V., Consiglio dei Dieci, Misti, reg. 8, c. 50v, citato da W. Wurthmann, The Council of Ten, p. 26. Cf. L. Sbriziolo, Per la storia delle confraternite [...>. Le scuole dei Battuti, p. 720. Alla Scuola di San Marco erano assegnati 600 membri, in quanto dedicata al patrono della città, mentre le altre ne potevano avere 550 ciascuna. Queste quote non includono i membri patrizi e negli anni seguenti furono spesso superate.

24. L. Sbriziolo, Per la storia delle confraternite [...>. Le scuole dei Battuti, p. 718.

25. A.S.V., Consiglio dei Dieci, Misti, reg. 32, cc. 19a-b. Cf. W. Wurthmann, The Scuole Grandi, p. 73.

26. A.S.V., Consiglio dei Dieci, Misti, reg. 8, c. 50V (9 aprile 1399), citato da W. Wurthmann, The Council of Ten, p. 26. Cf. L. Sbriziolo, Per la storia delle confraternite [...>. Le scuole dei Battuti, p. 270.

27. R. Mackenney, Devotional Confraternities, p. 89.

28. Ibid., p. 90.

29. Mentre la Scuola di San Giovanni Evangelista e, presumibilmente, gli altri Battuti avevano accettato nei primi tempi, come la maggior parte delle Scuole piccole, l'iscrizione di laiche, tale pratica cessò nel 1327: L. Sbriziolo, Le confraternite veneziane di devozione, pp. 525-526, doc. 62. Cf. B. Pullan, La politica sociale, I, p. 55; Dennis Romano, Patricians and Popolani. The Social Foundations of the Venetian State, Baltimore-London 1987, p. 112.

30. Per San Rocco, si veda L. Sbriziolo, Le confraternite veneziane di devozione, p. 530, doc. 70. Per riferimenti nella Mariegola di San Teodoro a una partecipazione femminile e a dodici "deganesse", prima del 1313, e quindi a "la gastolda e le degane" nel 1358, Si veda ibid., p. 526, doc. 63; Rodolfo Gallo, La Scuola Grande di San Teodoro di Venezia, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", Classe di scienze morali e lettere, 120, 1961-1962, p. 464 (pp. 461-495).

31. B. Pullan, La politica sociale, I, pp. 42-47; Norman Cohn, The Pursuit of the Millenium, London 1962, pp. 124 ss.; Giuseppe Alberigo, Contributi alla storia delle confraternite dei disciplinati e della spiritualità laicale nei secc. XV e XVI, in AA.VV., Il movimento dei Disciplinati nel Settimo Centenario dal suo inizio (Perugia 1260), Perugia 1962, pp. 156-244; R. Trexler, Public Life, pp. 252-256.

32. Donald Wilcox, In Search of God and Self. Renaissance and Reformation Thought, Boston 1975, pp. 259-260.

33. A.S.V., Scuola Grande di San Giovanni Evangelista, reg. 3, cap. XII, c. 6. Sull'etimologia del termine "mariegola" quale derivazione veneziana da "matricola" sinonimo di "capitolare", si veda L. Sbriziolo, Le confraternite veneziane di devozione, pp. 191-193.

34. A.S.V., Scuola Grande di San Giovanni Evangelista, cc. 20 e 22v-23, citato da B. Pullan, La politica sociale, I, p. 83, con esempi più antichi. Cf. L. Sbriziolo, Per la storia delle confraternite [...>. Le scuole dei Battuti, pp. 726-729, 735-736.

35. A.S.V., Inquisitori et Revisori sopra le Scuole Grandi, cap. I, cc. 1v, 2v-3; ivi, Consiglio dei Dieci, Misti, reg. 6, c. 39V (26 marzo 1366). Cf. W. Wurthmann, The Council of Ten, pp. 28-29.

36. A.S.V., Consiglio dei Dieci, Misti, reg. 8, c. 103, citato da L. Sbriziolo, Per la storia delle confraternite [...>. Le scuole dei Battuti, p. 720. Cf. A.S.V., Scuola Grande di San Giovanni Evangelista, reg. 3, cap. 65, cc. 23v-25.

37. Venezia, Seminario Patriarcale, ms. 950, El sommo della condizione, c. 32r-v. Si veda anche Vittorio Rossi, Jacopo d'Albizzotto Guidi e il suo inedito poema su Venezia, "Nuovo Archivio Veneto", 5, 1893, nr. 1, pp. 397-445. Cf. Felice Fabri, Venezia nel MCDLXXXVIII, Venezia 1881, p. 78.

38. Per esempio, A.S.V., Scuola Grande di San Giovanni Evangelista, reg. 13: la Mariegola del 1501 contiene una lista completa degli affiliati i cui nomi sono registrati sotto quattro intestazioni: preti, "fradeli nobeli", fisici e "cyroidi", e "fradeli a la disciplina". Tutti gli ufficiali compaiono nell'ultimo gruppo.

39. W. Wurthmann, The Scuole Grandi, pp. 118-126; B. Pullan, The Scuole Grandi of Venice, pp. 273-274.

40. L. Sbriziolo, Per la storia delle confraternite [...>. Le scuole dei Battuti, pp. 761-762. Occasionalmente, a gruppi diversi dalle Scuole grandi era concesso di praticare la flagellazione in pubblico. Nel 1446, per esempio, la Scuola di Santa Maria di Giustizia ottenne dal consiglio dei dieci il permesso di far partecipare venti flagellanti al seguito di un condannato all'esecuzione: W. Wurthmann, The Council of Ten, p. 21 n. 13. Cf. L. Sbriziolo, Per la storia delle confraternite [...>. Scolae comunes, pp. 434-435, nn. 58-59.

41 Si veda, in particolare, R. Trexler, Public Life, passim. Cf. W. Wurthmann, The Scuole Grandi, pp. 66-67; Brian Pullan, Due organizzazioni per il controllo sociale, in La memoria della salute. Venezia e il suo ospedale dal XVI al XX secolo, a cura di Nelli-Elena Vanzan Marchini, Venezia 1985, p. 13 (pp. 13-22).

42. Reinhold C. Müller, Aspetti sociali ed economici della peste a Venezia nel Medioevo, in AA.VV., Venezia e la peste, 1348-1797, Venezia 1979, p. 75 (pp. 71-76).

43. Si veda più oltre per un'ulteriore discussione sulle Scuole e l'assistenza ai poveri.

44. W. Wurthmann, The Council of Ten, pp. 44-45, nota che il loro obbligo fiscale fu allentato nel 1471. Dello stesso si veda anche The Scuole Grandi and Venetian Art, pp. 67 ss.

45. Gasparo Contarini, La republica e i magistrati di Vinegia, Vinegia 1548, cc. 68v-69. Cf. Patricia Fortini Brown, La pittura nell'età di Carpaccio. I grandi cicli narrativi, Venezia 1992, cap. 2.

46. A.S.V., Scuola Grande di San Giovanni Evangeli-sta, reg. 1, cap. 3, c. 2r-v, citato da W. Wurthmann, The Council of Ten, p. 23 n. 20.

47. A.S.V., Scuole Piccole e Suffragi, Scuola di Sant'Orsola, b. 597, c. 3r-v.

48. G. Marangoni, Le Associazioni di mestiere, pp. 19-23; R. Mackenney, Tradesmen and Traders, p. 9; B. Pullan, Natura e carattere, p. 9.

49. A.S.V., Consiglio dei Dieci, Misti, reg. 1, c. 10, citato da L. Sbriziolo, Per la storia delle confraternite [...>. Le scuole dei Battuti, p. 7 16.

50. L. Sbriziolo, Per la storia delle confraternite [...>. Scolae comunes, pp. 406-408, ha trovato documenti attestanti la formazione di 45 nuove Scuole nel periodo 1360-1476 (28 Scuole comuni e 17 Scuole artigiane).

51. A.S.V., Consiglio dei Dieci, Misti, reg. 5, c. 83 (26 febbraio 1360) e reg. 6, c. 38v (26 marzo 1366) citato da L. Sbriziolo, Per la storia delle confraternite [...>. Le scuole dei Battuti, pp. 716-717. Cf. W. Wurthmann, The Council of Ten, pp. 28-30 e nn. 34-35 supra.

52. W. Wurthmann, The Council of Ten, pp. 26-30; B. Pullan, La politica sociale, I, pp. 83-84; L. Sbriziolo, Per la storia delle confraternite [...>. Le scuole dei Battuti, pp. 718-721.

53. L. Sbriziolo, Per la storia delle confraternite [...>. Scolae comunes, p. 416.

54. Le Scuole "dei Orbi" sono state fondate nel 1315: B. Pullan, Natura e carattere, p. 13; G. Tassini, Curiosità veneziane, pp. 474-475, 744.

55 L. Sbriziolo, Per la storia delle confraternite [...>. Scolae comunes, pp. 407, 420-421, nn. 4 e 7.

56. Ibid., pp. 407, 419-420, nn. 2-3. Un'altra revoca è documentata nel 1443, quando i confratelli della Scuola degli Albanesi, dopo essersi trovati per un anno senza un'autorizzazione regolare furono costretti a sciogliersi con la motivazione che non erano Veneziani. Come i Lucchesi, ben presto furono legalmente riconosciuti: ibid., p. 434 n. 55.

57. Ead., Per la storia delle confraternite [...>. Le scuole dei Battuti, pp. 721-724. Cf. Giampiero Tognetti, Sul moto dei Bianchi nel 1399, "Bullettino dell'Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano", 78, 1967, pp. 313-324 (pp. 206-343).

58. Citato ibid., pp. 313-314.

59. A.S.V., Consiglio dei Dieci, Misti, reg. 9, cc. 13, 23, citato da L. Sbriziolo, Per la storia delle confraternite [...>. Scolae comunes, pp. 417, 424-425 nn. 18, 20.

60. Per esempio, ibid., p. 425 n. 22.

61. Ead., Per la storia delle confraternite [...>. Le scuole dei Battuti, p. 724, commento a A.S.V., Consiglio dei Dieci, Misti, reg. 8, c. 71v (26 ottobre 1401).

62. W. Wurthmann, The Council of Ten, pp. 60-64. Cf. Id., The Scuole Grandi, pp. 105-111; B. Pullan, La politica sociale, I, p. 161; L. Sbriziolo, Per la storia delle confraternite [...>. Le scuole dei Battuti, pp. 736-742.

63. Peter Humfrey, Competitive Devotions: The Venetian Scuole Piccole as Donors of Altarpieces in the Years A-round 1500, "Art Bullettin", 70, 1988, p. 403 (pp. 401-423). Cf. B. Pullan, The Scuole Grandi of Venice, pp. 291-292; Id., La politica sociale, I, pp. 49-56.

64. R. Mackenney, Tradesmen and Traders, pp. 44-77; D. Romano, Patricians and Popolani, pp. 106-114.

65. A.S.V., Scuole Piccole e Suffragi, Scuola di Sant'Orsola, b. 597, c. 1.

66. Ibid., cc. 1v-10. Il termine "luminaria" si riferisce alla cera e alle candele.

67. A.S.V., Scuola Grande di San Giovanni Evangelista, vol. 7, cap. 2, c. 2r-v, citato da B. Pullan, La politica sociale, I, p. 47.

68. A.S.V., Scuole Piccole e Suffragi, Santa Maria della Celestia, b. 726, Mariegola 1337-1764, prologo. Cf. R. Mackenney, Devotional Confraternities, p. 87; P. Humfrey, Competitive Devotions, p. 410.

69. Venezia, Museo Civico Correr, ms. IV, 68, Mariegola, Scuola di Santa Marina, c. 47 (scritto nel 1490 circa).

70. A.S.V., Scuole Piccole e Suffragi, Sant'Orsola, c. 2v.

71. Ivi, Procuratia de citra, testamento nr. 1056 (1° novembre 1382), citato da Bartolomeo Cecchetti, Funerali e sepolture dei veneziani antichi, "Archivio Veneto", 34, 1887, p. 277 (pp. 265-z84).

72. A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 1229, Cristoforo Rizzo, nr. 61, c. 53 (gennaio 1503 m.v.). Cf. D. Romano, Patricians and Popolani, pp. 111-112.

73. A.S.V., Scuole Piccole e Suffragi, Scuola di Sant'Orsola, b. 597, c. IV.

74. Ibid., cc. 2v-3.

75. Ibid., c. 5.

76. R.C. Moller, Aspetti sociali, p. 73.

77. Per le costumanze funebri e gli atteggiamenti verso la morte a Venezia, vedi B. Cecchetti, Funerali e sepolture, pp. 265-284. Si veda anche il pregevole studio su Borgo San Sepolcro di James R. Banker, Death in the Community. Memorialization and Confraternities in an Italian Commune in the Late Middle Ages, Athens-London 1988; e gli studi di più ampio respiro di Alberto Tenenti, Il senso della morte e l'amore della vita nel Rinascimento (Francia e Italia), Torino 1957; Philippe Ariès, L'uomo e la morte dal Medioevo a oggi, Bari 1980.

78. A.S.V., Scuole Piccole e Suffragi, Scuola di Sant'Orsola, b. 597, cc. 8v-9 (in data 1428). Le date d'incontro del capitolo in questo periodo erano stabilite per la seconda domenica di dicembre per l'elezione del gastaldo, del vicario e di dieci degani, che avrebbero preso servizio il primo gennaio, e per la seconda domenica di giugno per l'elezione dello scrivano e di due degani, i cui mandati iniziando il primo luglio si sarebbero sovrapposti in parte con la lista degli eletti di dicembre. Il sistema elettivo a doppio turno era una pratica consacrata dal tempo in tutte le Scuole al fine di assicurare una continuità amministrativa. Per un resoconto dettagliato delle procedure elettive, si veda la Mariegola della Scuola di Santa Maria degli Albanesi: A.S.V., Provveditori di Comun, Matricole, Scuole e Sovvegni, Sestiere di San Marco, vol. II-U, nr. 279, cap. 135 (datato 1503).

79. Ivi, Scuole Piccole e Suffragi, Scuola di Sant'Orsola, b. 597, cc. 1V-5V.

80. Ibid., c. 6v. Cf. B. Pullan, Natura e carattere, p. 20. Si veda anche supra n. 30.

81. A.S.V., Scuole Piccole e Suffragi, Scuola di Sant'Orsola, b. 597, c. 3r.

82. Ivi, Scuola Grande di San Marco, reg. 8, c. 259. Per un'ulteriore discussione v. infra.

83. Ibid., c. 262 (8 dicembre 1445).

84. Ivi, Consiglio dei Dieci, Misti, reg. 9, c. 44; ivi, Inquisitori et Revisori sopra le Scuole Grandi, cap. 1, c. 3r-v. Nel 1521, si aggiunse una "zonta" di dodici ufficiali. Cariche minori includevano due "masseri", che tenevano i libri contabili della Scuola e due "bagnadori" che avevano il compito di preparare il defunto per il funerale. Cf. B. Pullan, La politica sociale, I, pp. 78-81.

85. A.S.V., Inquisitori et Revisori sopra le Scuole Grandi, cap. I, cc. 5v, 6. Cf. P. Fortini Brown, La pittura nell'età di Carpaccio, pp. 32-33.

86. B. Pullan, La politica sociale, I, pp. 122-123; W. Wurthmann, The Scuole Grandi, pp. 75-77.

87. A.S.V., Scuole Piccole e Suffragi, Scuola di Sant'Orsola, b. 597, c. 5.

88. B. Pullan, La politica sociale, I, pp. 126-129.

89. Ibid., pp. 77-82; W. Wurthmann, The Scuole Grandi, pp. 191-205; Philip Sohm, The Scuola Grande di San Marco, 1437-1550, New York-London 1982, pp. 17-18.

90. B. Pullan, La politica sociale, I.

91. Ibid., pp. 85-86.

92. L. Sbriziolo, Per la storia delle confraternite [...>. Le scuole dei Battuti, p. 761.

93. Cf. supra nn. 34, 35, 51.

94. A.S.V., Scuole Piccole e Suffragi, Scuola di Sant'Orsola, b. 597, c. 6.

95. R. Mackenney, Tradesmen and Traders, p. 54. Questa interpretazione rappresenta una revisione del mio precedente modo d'intendere questa categoria associativa; P. Fortini Brown, La pittura nell'età di Carpaccio, pp. 66-68.

96. A.S.V., Scuole Piccole e Suffragi, Scuola di Sant'Orsola, b. 597, c. 11

97. Si veda, per esempio, Marin Sanudo, De origine, situ et magistratibus urbis Venetae ovvero La Città di Venetia (1493-1530), a cura di Angela Caracciolo Aricò, Milano 1980, pp. 68-70.

98. W. Wurthmann, The Council of Ten, pp. 30-32.

99. Pompeo G. Molmenti-Gustav Ludwig, The Life and Works of Vittore Carpaccio, London 1907, pp. 75-78; Gustav Ludwig, Vittore Carpaccio. I. La Scuola degli Albanesi in Venezia, "Archivio Storico dell'Arte", ser. II, 3, 1897, p. 430 (pp. 405-431); Rodolfo Gallo, La Scuola di Sant'Orsola, i teleri del Carpaccio e la tomba di Gentile e Giovanni Bellini, "Bollettino dei Musei Civici Veneziani", 8, 1963, pp. 1-24.

100. Venezia, Museo Correr, Mariegola IV, 68, c. 57 (pubblicato anche in Emmanuele A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, VI, 2, Venezia 1827, p. 892, con l'aggiunta di altri passi tratti dalla Mariegola).

101. A.S.V., Consiglio dei Dieci, Misti, reg. 13, c. 2v (12 maggio 1445), citato da L. Sbriziolo, Per la storia delle confraternite [...>. Le scuole dei Battuti, p. 746 n. 4; cf. W. Wurthmann, The Council of Ten, p. 35.

102. A.S.V., Consiglio dei Dieci, Misti, reg. 18, c. 70v, citato da L. Sbriziolo, Per la storia delle confraternite [...>. Le scuole dei Battuti, p. 746 n. 4: "videlicet quod vardianus maior, qui primus est super omnes, et vicarius et vardianus de matutino et scriba, pro officiis suis, sedere debeant in suo loco solito secundum officii sui dignitatem. Item decani dimidii anni, pro suo officio, sedeant in solito loco, primus et secundus, secundum etatem; XLII similiter decani sedere debeant secundum etatem, que etas semper precedat in eis". Cf. W. Wurthmann, The Council of Ten, p. 35.

103. Per la Scuola come "una famiglia artificiale" si veda B. Pullan, Natura e carattere, pp. 14-16.

104. B. Pullan, The Scuole Grandi of Venice, p. 279 affermava che essi "riflettevano l'ordine sociale più che cancellarlo". Cf. Id., La politica sociale, I; P. Fortini Brown, La pittura nell'età di Carpaccio, pp. 36-41. Sui sistemi di patronato rinascimentale si veda R. Weissman, Ritual Brotherhood, pp. 22-26 e passim; R. Trexler, Public Life, pp. 131-158 e passim.

105. Venezia, Seminario Patriarcale, ms. 950, El sommo della condizione, c. 32r-v.

106. Girolamo Priuli, I diarii, in R.I.S.2, XXIV, 3, vol. IV, a cura di Roberto Cessi, 1938-1941, p. 384. Cf. Patricia Fortini Brown, Honor and Necessity: The Dynamics of Patronage in the Confraternities of Renaissance Venice, "Studi Veneziani", n. ser., 14, 1987, pp. 194-195 (pp. 179-212); Edward Muir-Ronald Weissman, Social and Symbolic Places in Renaissance Venice and Florence, in The Power of Place, a cura di Jean-Christophe Agnew - James Duncan, Syracuse, N.Y. 1989, pp. 81-104; W. Wurthmann, The Scuole Grandi, pp. 113-117; Alberto Tenenti, L'uso scenografico degli spazi pubblici: 1490-1580, in AA.VV., Tiziano e Venezia, Venezia 1980, pp. 21-26.

107. Come suggerito da R. Maschio, Le Scuole Grandi, p. 204. Cf. Lionello Puppi, Verso Gerusalemme. Immagini e temi di urbanistica e di architetture simboliche, Roma-Reggio Calabria 1982, pp. 62-76; Id., Venezia come Gerusalemme nella cultura figurativa del Rinascimento, in La città italiana del Rinascimento fra Utopia e realtà, a cura di August Buck - Bodo Guthmueller, Venezia 1984, pp. 117-136.

108. M. Sanuto, I diarii, IV, coll. 50, 63-65 (16 giugno 1501).

109. Ibid.

110. Jonathan Glixon, Far una bella procession: Music and Public Ceremony at the Venetian Scuole Grandi, in Altro Polo: Essays on Italian Music in the Cinquecento, a cura di Richard Charteris, Sydney 1989, p. 191 (pp. 190-220).

111. A.S.V., Scuola Grande di San Giovanni Evangelista, reg. 1, c. 21v.

112. Ibid., reg. 140, c. 116r-v (1° gennaio 1439 m.v.). Cf. Edward Muir, Il rituale civico a Venezia nel Rinascimento, Roma 1984, pp. 98-100, 249-250; P. Fortini Brown, Honor and Necessity, particolarmente pp. 179-195.

113. A.S.V., Scuola Grande di San Giovanni Evangelista, reg. 140, Cc. 142v-144v.

114. P. Fortini Brown, La pittura nell'età di Carpaccio, pp. 158-163.

115. Jonathan Glixon, Music at the Venetian Scuole Grandi, 1440-1540, I-II, tesi di dottorato, Princeton University 1979. Le conclusioni di maggior rilievo sono state pubblicate in Id., Music at the Scuole Grandi, 1440-1540, in Music in Mediaeval and Early Modern Europe, a cura di Iain Fenlon, London 1981, pp. 193-208, e Id., Far una bella procession.

116. A.S.V., Consiglio dei Dieci, Misti, reg. 14, c. 117, citato da J. Glixon, Music at the Venetian Scuole Grandi, p. 206, doc. 4: "Ut ad laudem et gloriose Crucis Domini Nostri Jesu Cristi, quandocumque in processionibus et aliter portatur per civitatem cantetur amene et dulciter in cantu glorificetur Nomen Domini, et magnificetur exaltatio Santa Crucis [...>".

117. "Quod cum cantores siu sint effect ita senes, ut cum magna difficultate haberi possint ad corpora sepelienda, ad processiones, et ad advotiones per civitatem, quoniam infirmi sunt et non sit conveniens quod illi homines in illo habitu vadant per civitatem tacendo velut mortui sed vadant capendo laudes Deo, iusta consuetum [...>", citato e tradotto da J. Glixon, Music at the Venetian Scuole Grandi, pp. 196, 206, doc. 3.

118. Cf. P. Fortini Brown, Honor and Necessity, pp. 179-212.

119. J. Glixon, Music at the Scuole Grandi, p. 202; Id., Music at the Venetian Scuole Grandi, p. 87.

120. A.S.V., Consiglio dei Dieci, Misti, reg. 12, c. 64.

121. B. Pullan, La politica sociale, I, p. 86.

122. Pietro Casola notò la presenza di un quadro di dodici nobili che, portando ciascuno un pesante doppiere, marciavano con ognuna delle Scuole grandi nella processione del Corpus Christi del 1494: Mary M. Newett, Canon Pietro Casola's Pilgrimage to Jerusalem in the Tear 1494, Manchester 1907, pp. 151-152. Cf. B. Pullan, La politica sociale, I, p. 85, dove descrive i nobili che prendevano parte alle "più spettacolari processioni" della Scuola di San Rocco.

123. Edward Muir, Images of Power: Art and Pageantry in Renaissance Venice, "American Historical Review", 84, 1979, p. 39 (pp. 16-52); Enrico Vicentini, The Venetian Soleri from Portable Platforms to Tableaux Vivants, in Petrarch's Triumphs: Allegory and Spectacle, a cura di Konrad Eisenbichler - Amilcare Iannucci, Toronto 1990, pp. 383-394.

124. A.S.V., Scuola Grande di San Marco, reg. 8, c. 1 (19 maggio 1451); ivi, Consiglio dei Dieci, Misti, reg. 14, c. 47.

125. Quanto agli scandali che guastarono la processione serale del Venerdì santo del 1513, si veda A.S.V., Scuola Grande di San Marco, reg. 8, c. 2; E. Muir, Il rituale civico, pp. 226-228.

126. B. Pullan, La politica sociale, I, p. 42; R. Mackenney, Tradesmen and Traders, p. 140.

127. Cf. Manfredo Tafuri, Venezia e il. Rinascimento, Torino 1985, capp. 1-2; Margaret L. King, Umanesimo e patriziato a Venezia nel Quattrocento, I-II, Roma 1989: I, La cultura umanistica al servizio della Repubblica, pp. 191-192.

128. Venezia, Scuola Dalmata dei Ss. Giorgio e Trifone, Mariegola: La fraternitade overo Scuola in honore de Missier San Zorzi et Missier San Trifon, capp. XXXI e XLVIII. La festa del Corpus Domini fu introdotta dalla Repubblica nel 1295, ma la processione fu autorizzata solo nel 1407: Bianca Tamassia Mazzarotto, Le feste veneziane, Firenze 1980, p. 178 n. 17. Nessuna delle Scuole piccole o dei Battuti era citata nel decreto del 1407. Entrambe vi partecipavano alla fine del secolo quindicesimo: ibid., pp. 164-169; M. Sanudo, De origine, p. 60. Per le processioni del Venerdì santo e del Corpus Domini delle Scuole del Sacramento, si veda P. Hills, Piety and Patronage, p. 32.

129. J. Glixon, Music at the Venetian Scuole Grandi, I, p. 53, e II, p. 122, doc. B5.

130. P. Fortini Brown, La pittura nell'età di Carpaccio, p. 68.

131. R. Mackenney, Tradesmen and Traders, pp. 141-149

132. Ibid., pp. 143-147; E. Muir, Il rituale civico, pp. 186-187; Patricia Fortini Brown, Measured Friendship, Calculated Pomp: the Ceremonial Welcomes of the Venetian Republic, in "Ali the world's a stage", Art and Pageantry in the Renaissance and Baroque, a cura di Barbara Wisch - Susan Scott Munshower, "Papers in Art History from the Pennsylvania State University", 6, 1990, I, p. 138 (pp. 136-186).

133. E. Muir, Il rituale civico, pp. 96-97. R. Mackenney, Tradesmen and Traders, pp. 140-141, afferma che tutte le gilde avevano l'obbligo di marciare entrambi i giorni.

134. P. Fortini Brown, La pittura nell'età di Carpaccio, p. 274 n. 34.

135. Ead., Honor and Necessity, pp. 179-210.

136. Marc'Antonio Sabellico, Del sito di Venezia città (1502), a cura di Giancarlo Meneghetti, Venezia 1957, pp. 15-16, 21, 24.

137. Deborah Howard, Jacopo Sansovino. Architecture and Patronage in Renaissance Venice, New Haven-London 1985, pp. 96-112; Giovanna Nepi Scirè, La Scuola Vecchia della Misericordia, "Quaderni della Soprintendenza ai Beni Artistici e Storici di Venezia", 7, 1978; M. Tafuri, Venezia e il Rinascimento, pp. 125- 154.

138. A.S.V., Scuola Grande di San Giovanni Evangelista, reg. 72, c. 112 (22 ottobre 1441), citato da P. Fortini Brown, Honor and Necessity, pp. 179-212.

139. La Misericordia sembra aver costituito un caso eccezionale, tenendo le sue reliquie nella sala capitolare: A.S.V., Scuola Grande di S. Maria della Misericordia, b. 107, "Inventario" (28 ottobre 1443).

140. P. Sohm, The Scuola Grande di San Marco, pp. 50-69, suggerisce che la rivalità fra le diverse Scuole si esprimeva assai spesso nelle opere di decorazione dell'albergo.

141. Ibid., passim; P. Fortini Brown, Honor and Necessity, p. 195; W. Wurthmann, The Scuole Grandi, pp. 129-237.

142. Si veda Le scuole, a cura di T. Pignatti, passim; P. Fortini Brown, La pittura nell'età di Carpaccio, passim; S. Gramigna-A. Perissa, Scuole di arti, passim.

143. W. Wurthmann, The Scuole Grandi, pp. 238 ss.; Jurg Meyer Zur Capellen, Bellini in der Scuola Grande di San Marco, "Zeitschrift für Kunstgeschichte ", 43, 1980, pp. 104 ss. (pp. 104-108); P. Fortini Brown, La pittura nell'età di Carpaccio, p. 55

144. Ead., Honor and Necessity, pp. 195 ss.; R.C. Mcller, A Foreigner's View, pp. 55-60.

145. Si vedano i riferimenti citati alla n. 141.

146. Le scuole, a cura di T. Pignatti, pp. 106-118; P. Fortini Brown, La pittura nell'età del Carpaccio, p. 293; R. Pallucchini, I teleri del Carpaccio, passim.

147. P. Fortini Brown, La pittura nell'età di Carpaccio, pp. 287 ss.

148. A.S.V., Scuole Piccole e Suffragi, Scuola di Sant'Orsola, b. 597, c. 11v (16 novembre 1488).

149. Jennifer Fletcher, recensione di Francoise Bardon, La Peinture narrative de Carpaccio dans le cycle de S.te-Ursule, "The Burlington Magazine", 128, 1986, pp. 427-428; Le scuole, a cura di T. Pignatti, pp. 67-88; P. Fortini Brown, La pittura nell'età di Carpaccio, pp. 65-68, 290-291.

150. Cf. Ludovica Sebregondi, Religious Furnishings and Devotional Objects in Renaissance Fiorentine Confraternities, in Crossing the Boundaries. Christian Piety and the Arts in Italian Medieval and Renaissance Confraternities, a cura di Konrad Eisenbichler, Kalamazoo (Mich.) 1991, pp. 141-160.

151. P. Humfrey, Competitive Devotions, pp. 405-406; Rona Goffen, Giovanni Bellini, New Haven-London 1990, pp. 274-277, 307 n. 2 e 311 n. 42.

152. Stefania Mason Rinaldi, La peste e le sue immagini nella cultura figurativa veneziana, in AA.VV., Venezia e la Peste, 1348-1797, Venezia 1979, pp. 210-215.

153. P. Humfrey-R. Mackenney, The Venetian Trade Guilds, portano prove dell'esistenza solo di una ventina di pale d'altare commissionate dalle Scuole dell'Arte nel periodo 1360-1520; di queste quattordici esistono tuttora anche se dovevano essercene molte altre che non ci sono pervenute o non sono state identificate.

154. Ibid., pp. 318, 324; P. Fortini Brown, La pittura nell'età di Carpaccio, pp. 77-78, 293.

155. P. Humfrey-R. Mackenney, The Venetian Trade Guilds, pp. 318-322.

156. P. Fortini Brown, La pittura nell'età di Carpaccio, pp. 77, 112-114. La collezione più ricca di Mariegole è nella Biblioteca del Museo Correr.

157. Ellen Schiferl, Italian Confraternity Art Contracts: Group Consciousness and Corporate Patronage, 1400-1525, in Crossing the Boundaries. Christian Piety and the Arts in Italian Medieval and Renaissance Confraternities, a cura di Konrad Eisenbichler, Kalamazoo (Mich.) 1991, pp. 121-140. Cf. P. Fortini Brown, Honor and Necessity; Ead., La pittura nell'età di Carpaccio, in particolare i capitoli 4 e 9; B. Pullan, La politica sociale, I, pp. 78-81; W. Wurthmann, The Scuole Grandi, pp. 191-236; P. Sohm, The Scuola Grande di San Marco, pp. 17-18.

158. B. Pullan, La politica sociale, I, p. 137.

159. Si veda in particolare Reinhold C. Muller, Charitable Institutions, the Jewish Community and Venetian Society: A Discussion of the Recent Volume by Brian Pullan, "Studi Veneziani", 14, 1972, pp. 38-78; Brian Pullan, The Old Catholicism, the New Catholicism, and the Poor, in Timore e carità: i poveri nell'Italia moderna, a cura di Giorgio Politi - Mario Rosa - Franco della Peruta, Cremona 1982, pp. 45-58; F. Semi, Gli "Ospizi"; Dennis Romano, Charity and Community in Early Renaissance Venice, "Journal of Urban History", 11, 1984, pp. 63-82; Nel regno dei poveri. Arte e storia dei grandi ospedali veneziani in età moderna 1474-1797, a cura di Bernard Aikema - Dulcia Meijers, Venezia 1989.

160. B. Pullan, La politica sociale, I, p. 213; Id., The Old Catholicism, pp. 14-15, 23-24; D. Romano, Patricians and Popolani, p. 71.

161. Per esempio, B. Pullan, La politica sociale, I, capitolo VI. Cf. R. Mackenney, Tradesmen and Traders, pp. 44-46.

162. B. Pullan, The Scuole Grandi of Venice, p. 281; cf. Reinhold C. Moller, The Procurators of San Marco in the Thirteenth and Fourteenth Centuries: A Study of the Office as a Financial and Trust Institution, "Studi Veneziani", 13, 1971, pp. 105-221.

163. B. Pullan, Natura e carattere, p. 10; W. Wurthmann, The Scuole Grandi, pp. 69-72.

164. A.S.V., Scuola Grande di San Marco, reg. 1, Catastico (17 giugno 1450).

165. B. Pullan, La politica sociale, I, pp. 87-88; W. Wurthmann, The Council of Ten, pp. 53-54.

166. Frederic C. Lane, Storia di Venezia, Torino 1978, pp. 385-386, valutava il salario annuale di un operaio non specializzato presso l'Arsenale a quindici-venti ducati verso la metà del secolo XVI. Secondo la sua stima i marinai specializzati ricevevano una paga di circa cinquanta ducati l'anno, mentre un capo carpentiere di bordo e un capitano potevano arrivare ai 100 ducati l'anno. I nobili con entrate annue di 1.000 ducati erano considerati benestanti, mentre erano giudicati "veramente ricchi" quelli con 10.000 ducati l'anno.

167. W. Wurthmann, The Scuole Grandi, pp. 89-93; Id., The Council of Ten, pp. 49-50.

168. B. Pullan, La politica sociale, I, p. 203.

169. Ibid., pp. 76-77, 213-223; W. Wurthmann, The Council of Ten, pp. 46-48; F. Semi, Gli "Ospizi"; R.C. Müller, A Foreigner's View, pp. 55-63. Oltre agli ospizi c'erano a Venezia, nel secolo XV, quattro grandi ospedali: la Pietà, un orfanatrofio; il grande ospedale dei Santi Pietro e Paolo a Castello, che, riservato ai feriti, ne ospitava cento nel 1368; e due lazzaretti sulle isole della laguna, uno per la quarantena e l'altro per le vittime della peste.

170. W. Wurthmann, The Council of Ten, pp. 50-53; L. Sbriziolo, Per la storia delle confraternite [...>. Le scuole dei Battuti, pp. 742-746.

171. Basato su 681 famiglie, da D. Romano, Patricians and Popolani, pp. 34-35. Da 35 a 200 ducati per gli orefici, con una media di 106 ducati; da 13 a 130 ducati per i calzolai e da 20 a 120 ducati per i barcaioli.

172. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 737 (= 8666) (24 febbraio 1502 m.v.), cap. 132. Ci si deve chiedere se queste somme si combinassero con altre per costituire una dote più ricca.

173. B. Pullan, Due organizzazioni, p. 14; Id., La nuova filantropia nella Venezia cinquecentesca, in Nel regno dei poveri. Arte e storia dei grandi ospedali veneziani in età moderna 1474-1797, a cura di Bernard Aikema - Dulcia Meijers, Venezia 1989, p. 19 (pp. 19-34)

174. B. Pullan, Natura e carattere, p. 13. Si vedanosopra i luoghi corrispondenti alle nn. 54-55.

175. A.S.V., Consiglio dei Dieci, Misti, reg. 13, C. 4, citato da L. Sbriziolo, Per la storia delle confraternite [...>. Scolae comunes, pp. 415-416, 434 n. 58 cf. W. Wurthmann, The Council of Ten, p. 21.

176. L. Sbriziolo, Per la storia delle confraternite [...>. Scolae comunes, p. 416. Si veda anche G. Tassini, Curiosità veneziane, pp. 591-592. La data di fondazione della confraternita ci è ignota, ma è del 1440 una petizione per l'aggiunta di altri membri. Nel 1458 si unì alla Scuola di San Girolamo e costruì una nuova sede di riunione a San Fantin nel 1471. Sarebbe in seguito diventata una Scuola grande nel 1689: S. Gramigna-A. Perissa, Scuole di arti, pp. 49-50.

177. B. Pullan, Due organizzazioni, p. 14; Id., La nuova filantropia, p. 19.

178. B. Pullan, La politica sociale, I, pp. 239, 286-288 e passim. Cf. Richard Trexler, Charity and the Defense of Urban Elites in the Italian Comunes, in The Rich, the Well Born, and the Powerful, a cura di Frederic Cople Jaher, Urbana 1973, pp. 67-74.

179. A.S.V., Giudici di Petizion, Sentenze e giustizia, reg. 168, cc. 38-39v (19 novembre 1478). Ringrazio Reinhold C. Müller per quest'indicazione. Cf. D. Chambers-B. Pullan-J. Fletcher, Venice, pp. 316-317.

180. B. Pullan, La politica sociale, I, pp. 86-89.

181. A.S.V., Scuola Grande di San Giovanni Evangelista, reg. 3, cap. 5, citato da W. Wurthmann, The Scuole Grandi, pp. 42-43.

182. Citato da B. Pullan, La politica sociale, I, p. 88.

183. A.S.V., Scuole Piccole e Suffragi, Scuola di Sant'Orsola, b. 597, c. 10r-V.

184. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 737 (= 8666): Mariegola, Scuola degli Albanesi, cap. 129 (3 maggio 1502).

185. Ibid., cap. 130 (3 maggio 1502): approvato per un voto unanime di 53-0. Cf. J. Glixon, Far una bella procession.

186. R.C. Müller, A Foreigner's View, p. 60. Cf. R. Mackenney, Tradesmen and Traders, p. 49.