Le professioni liberali

Storia di Venezia (1996)

Le professioni liberali

Giuseppe Trebbi

Premessa. Il patriziato veneziano e le professioni liberali

Come ha ben osservato Carlo Maria Cipolla, uno studio sui ceti dirigenti delle città italiane del tardo Medio Evo e della prima Età moderna non può assolutamente trascurare coloro che esercitavano le professioni liberali: fra essi si distinguevano soprattutto i medici, gli avvocati e i notai, in qualche misura eredi del ruolo svolto dai chierici in epoche più antiche (1). L'emergere di questi gruppi professionali non era sfuggito all'attenzione dei contemporanei, anche per le sue rilevanti conseguenze in campo culturale: già intorno al 1300 il prestigio sociale ed il benessere economico legati all'esercizio delle professioni rappresentavano una delle principali attrattive degli studi universitari, da cui uscivano numerosi dottori, non più solo in teologia o in legge, ma ora anche in medicina. Ed è ben nota la reazione di sdegno e di moralistica riprovazione dell'Alighieri, che ripetutamente nelle pagine del Convivio ebbe a distinguere il "vero filosofo", quale egli aspirava ad essere, dalla ben diversa figura di "colui che è amico di sapienza per utilitade, sì come sono li legisti, li medici e quasi tutti li religiosi, che non per sapere studiano ma per acquistare moneta o dignitade" (2).

Nel volgere la nostra attenzione alla specifica situazione veneziana potremo utilmente tener conto, anche per epoche più tarde, dell'ottica dantesca, che ha il merito di abbracciare con un medesimo sguardo le professioni liberali ed il clero: infatti a Venezia le tradizionali relazioni fra la Chiesa e la Signoria trovarono singolare espressione in un persistente e generalizzato ricorso al notariato ecclesiastico fino alle soglie del '500, laddove negli altri Comuni italiani il notariato laico si era pienamente affermato già nei secoli XI-XII (3).

Come il notariato, così pure l'avvocatura e l'esercizio della professione medica presentano nella Venezia del '400-'500 talune peculiarità, per la cui comprensione è necessario risalire a fatti e situazioni di epoca più antica. Indispensabile, innanzi tutto, richiamarsi alle durevoli conseguenze della "Serrata": anche quando la si voglia considerare come un processo storico non ancora pienamente concluso fino agli anni '20 del '300, è tuttavia certo che essa ebbe l'effetto di circoscrivere in modo permanente il ceto dirigente del Comune, individuando il patriziato sulla base del diritto ereditario all'ingresso nel maggior consiglio (4).

Posta questa fondamentale distinzione fra patrizi e non patrizi, resta da vedere quali professioni fossero aperte alla nobiltà veneziana, e da quali invece essa si astenesse. Gli orientamenti del patriziato nei confronti della mercatura e dell'attività bancaria mutarono profondamente nel corso del '500; non vi furono invece svolte altrettanto radicali nelle scelte relative all'esercizio delle libere professioni. Sotto quest'aspetto, dunque, valeva già per il patriziato del '400-'500 quella netta distinzione fra l'avvocatura e le altre professioni liberali, così chiaramente rilevata ancora in pieno '700 dalle Memorie di Carlo Goldoni (5): "Un nobile veneziano, un patrizio, membro della repubblica, mentre non si degnerebbe di fare il negoziante, o il banchiere o il notaio o il medico o il professore universitario, abbraccia l'avvocatura, ne fa esercizio a Palazzo e dà agli altri avvocati [non nobili> il nome di colleghi".

All'avvocato Goldoni bastava segnalare la particolare dignità e le singolari prerogative della sua professione, non disdegnata nemmeno dai nobili. Ma perché proprio l'avvocatura e non, per esempio, la medicina o l'insegnamento universitario? Per quanto riguarda le cattedre dello Studio patavino, una risposta circostanziata può fondarsi su precise deliberazioni del governo veneziano. Dopo la conquista di Padova, la Signoria, come è noto, impose ai propri sudditi di studiare presso quell'Università, se volevano vedere riconosciuta la validità del titolo di studio; ma al tempo stesso si volle salvaguardare l'alto livello del corpo docente e l'internazionalità del suo reclutamento, il che imponeva di contrastare gli interessi particolaristici dei Padovani e della stessa nobiltà veneziana. Così, mentre nell'ultima fase del dominio carrarese, tra la fine del '300 e i primi anni del '400, alcuni nobili veneziani avevano coperto il ruolo di docenti di materie legali (6), dopo la conquista, e specialmente nella seconda metà del '400, si manifestò una netta ostilità del governo veneziano a questo tipo di nomine: nel 1463 fu vietato che il rettore dei giuristi fosse veneziano o padovano; nel 1477 fu interdetto ai Veneziani l'esercizio retribuito della lettura e nel 1479 fu vietato alla nobiltà veneziana anche l'accesso alle cattedre non retribuite (7). Sicché in conclusione i nobili dediti agli studi dovettero accontentarsi di poter concorrere in patria all'insegnamento filosofico nella scuola di Rialto: una cattedra che dopo la metà del '400 fu sempre appannaggio di intellettuali patrizi, come Domenico Bragadin, Antonio Corner, Francesco Bragadin, Antonio Giustinian, Sebastiano Foscarini ed il dottissimo Nicolò da Ponte, che poi fu doge (8).

Invece le cattedre della scuola di San Marco, a indirizzo umanistico, furono assegnate a letterati non patrizi, per lo più forestieri, come il riminese Pietro Perleoni, o come Benedetto Brugnoli da Legnano, Marc'Antonio Sabellico, che era originario della campagna romana, e l'udinese Gregorio Amaseo, che fu anche assessore con vari rettori veneti in Terraferma. In una seconda cattedra, fondata dal senato nel 1460, insegnarono fra gli altri Giorgio da Trebisonda, Giorgio Merula, che era nativo di Alessandria, il piacentino Giorgio Valla, e Marco Musuro, un greco di Creta, che fu collaboratore prezioso di Aldo Manuzio. Più raramente furono nominati dei letterati veneziani, ma sempre non patrizi, come il chierico Egnazio (Giovan Battista Cipelli), corrispondente di Erasmo ed amico di Gasparo Contarini, e Vettor Fausto (9).

Fino alla metà del '500 furono queste le uniche scuole veneziane direttamente finanziate dalla Signoria; fuori di esse, i numerosi maestri, chierici e laici (10), sperimentavano le incertezze e i rischi di un'attività pedagogica condotta privatamente, che di rado poteva portare a risultati soddisfacenti sia sotto il profilo culturale, sia sul piano economico. A questa difficoltà di affermazione non erano riusciti a sottrarsi neppure pedagogisti illustri, come, nella prima metà del '400, Guarino da Verona e Vittorino da Feltre: non è da chiedere se una simile carriera potesse interessare al patriziato, che si accostava all'umanesimo con ben altro spirito, nella consapevolezza della propria appartenenza al ceto dirigente (11).

Più complesse, anche perché non facilmente riconducibili a precise norme statutarie o a deliberazioni dei consigli veneziani, sono le ragioni per cui il patriziato si astenne dall'esercizio della medicina, mentre in un primo tempo riservò a sé l'avvocatura, salvo poi ad aprirla, con qualche limitazione, ai non nobili e persino ai sudditi della Terraferma. Le pagine che seguono tentano appunto di spiegare le motivazioni politico-istituzionali e socio-economiche che furono alla base di tali scelte.

I medici e i chirurghi

Nel '400-'500 alcuni patrizi veneziani appassionatisi agli studi di filosofia naturale conseguirono a Padova o a Venezia la laurea in artibus, che poteva costituire la logica premessa per la pratica della professione medica; ma non procedettero più oltre (12). Un quadro ben diverso si presenta nella vicina Padova, dove nel corso del '400 ben 48 fra medici e dottori in artibus sedettero sui seggi del consiglio cittadino (13). Alcuni di costoro erano professori nello Studio; e certo esiste uno stretto rapporto fra il prestigio dell'Università e la fitta presenza dei dottori nel ceto dirigente (14). Ciò tuttavia non basterebbe a spiegare la diversa collocazione dei medici padovani e veneziani rispetto ai centri del potere politico e amministrativo: in fin dei conti, dopo la conquista di Padova l'Università era divenuta un'istituzione in qualche modo soggetta all'autorità della Signoria; e la stessa Venezia poté disporre nella seconda metà del '400 di un proprio Studio sorto come emanazione del collegio medico (15). Ma ciò non bastò a modificare il tradizionale atteggiamento di estraneità dei membri del maggior consiglio nei confronti della professione medica. I fattori decisivi che condizionarono questa scelta vanno piuttosto ricercati nella prevalente vocazione mercantile del patriziato (16) e nelle diverse date di "chiusura" o "Serrata" dei consigli cittadini: un processo, questo, che a Venezia si era già avviato verso la fine del '200, mentre a Padova non si era interamente compiuto prima della metà del '400. Questa dislocazione cronologica influì sulla posizione del medico nelle gerarchie sociali, in quanto nel '200 la medicina non godeva ancora di quel più elevato "status" che essa avrebbe conseguito nei due secoli successivi in virtù del suo organico inserimento nel curriculum degli studi universitari.

Infatti il medico del '200 era ancora essenzialmente un "magister", poco più che un maestro artigiano, formatosi all'esercizio professionale attraverso un lungo tirocinio. Tale condizione sociale trovò una chiara espressione nel breve Capitolare dell'Arte dei medici fisici e chirurghi emanato a Venezia nel 1258. Esso differiva da quelli delle altre Arti o corporazioni artigiane soprattutto per una più diretta soggezione alla magistratura comunale della giustizia vecchia, che giungeva fino al punto di negare in quest'epoca ai medici e ai chirurghi l'elezione di priori e consiglieri (17). Probabilmente questa rigida disciplina nasceva dalla volontà del Comune di tenere sotto stretta sorveglianza l'adempimento delle delicate funzioni medico-legali che erano assegnate ai membri dell'Arte, e che furono poi minuziosamente specificate da due deliberazioni del 1281 e del 1321.

Eppure proprio in quegli stessi anni era in pieno svolgimento a Bologna quella radicale svolta che avrebbe recato nuovo prestigio alla scienza medica e ai suoi cultori. Al centro di questo rinnovamento troviamo la figura di Taddeo Alderotti (1223-circa 1295), non a caso ricordato da Dante come uno dei più illustri maestri del suo tempo (Paradiso, XII, 83). Come ha scritto efficacemente Giorgio Cosmacini (18): "Centro di rinascita del Diritto romano, Bologna è anche la culla della nuova medicina che, tra le arti, è la disciplina più importante. Propedeutiche a essa sono la logica e la filosofia della natura, insegnate sulla base del pensiero di Aristotele e dei suoi commentatori, a cominciare da Averroè [...>. Nel 1290 a Bologna la facoltà medica si ristruttura, costituendo un modello, un esempio da imitare. La imita, un secolo dopo, l'Università di Padova, filiazione diretta di quella bolognese, trasformando l'insegnamento della medicina, attivato dalla metà del Duecento, in autonoma universitas artistarum medicinae physicae et naturae con pari diritti e privilegi rispetto alla universitas juristarum. Artefice della ristrutturazione bolognese è stato Taddeo degli Alderotti, docente di medicina teorica e pratica dal 1265 [...>. Analoga operazione, agli inizi del '300, ha compiuto a Padova Pietro d'Abano".

Venezia non era stata al centro di quest'evoluzione, ma non era neppure rimasta a guardare: il ceto dirigente, sempre ben informato, aveva offerto nel 1293, forse invano, una vantaggiosa "condotta" allo stesso Taddeo Alderotti. Questi avrebbe dovuto risiedere a Venezia, col permesso di allontanarsi per non oltre 10 giorni l'anno e con uno stipendio annuale di 47 lire di grossi, che possiamo considerare straordinariamente elevato (nel 1335 il Comune avrebbe stanziato complessivamente 110 lire di grossi per pagare ben 24 fra medici e chirurghi). La "condotta" prevedeva che il celebre medico fosse accompagnato a sue spese da due "scholares" che lo avrebbero coadiuvato visitando e curando gratuitamente i "pauperes Christi". Al polo opposto della scala sociale, anche i "nobiles de Venetiis" avrebbero avuto diritto a prestazioni gratuite, ma questa volta ad opera dello stesso Alderotti (19).

La deliberazione del 1293 può forse indicare simbolicamente il momento in cui la medicina cominciò a ricevere più larghi riconoscimenti nella stessa Venezia; ma il ceto dirigente, quello dei "nobiles ", occupava già tutte le posizioni politiche di rilievo e non intendeva lasciare spazi aperti all'ingresso di nuove forze nei centri di potere. Ciò peraltro non significa che ai medici non si schiudessero egualmente rosee prospettive: anche se esclusi dalle cariche pubbliche, essi poterono acquisire prestigio sociale ed onorifici riconoscimenti, oltre ad accumulare, nei casi più fortunati, ragguardevoli patrimonii (20). Così fin dal secolo XIV Venezia poté disporre di un elevato numero di "fisici" e di medici chirurghi, alcuni dei quali potevano appartenere a vecchie famiglie veneziane non patrizie, mentre una netta maggioranza, pari nel '300 a circa i due terzi dei casi conosciuti, proveniva da famiglie di recente o recentissimo insediamento (21).

A questo riguardo è evidente che non esisteva né mai sarebbe potuta nascere a Venezia alcuna forma di protezionismo a favore dei medici locali, appunto perché il ceto dirigente era estraneo alla professione medica e si preoccupava, semmai, di tutelare gli interessi dei clienti. Perciò l'unico vantaggio proveniente a un medico dalla nascita veneziana consisteva nel possesso della cittadinanza e dei suoi privilegi commerciali. Infatti i medici forestieri dovevano richiedere la cittadinanza de intus et extra, se volevano essere abilitati anch'essi all'esercizio della mercatura con il Levante; né la legge li favoriva rispetto agli altri forestieri, in quanto imponeva anche a loro la condizione di un lungo periodo di residenza (in generale 25 anni; alcune riduzioni furono votate dal maggior consiglio per favorire il ripopolamento della città dopo le più gravi pestilenze) (22). Ma, nonostante questa norma discriminatoria, i medici accorrevano numerosi sulla laguna, attirati dalla prospettiva di trovare comunque lavoro in una città densamente popolata, abitata da ricchi mercanti e governata da un potente Comune.

In effetti, nel decennio precedente la Peste Nera, la popolazione doveva aver raggiunto i 100.000-120.000 abitanti; dopo le terribili perdite del 1348 vi fu una lenta ripresa, che avrebbe riportato nel 1424 gli abitanti intorno agli 85.000, nonostante le nuove, ricorrenti epidemie (23). È vero che non tutti potevano permettersi di pagare l'onorario di un medico "fisico". Infatti nel '300, quando i tribunali assegnavano a vedove e mogli separate una somma annua non superiore ai 20 ducati per il loro mantenimento, la visita di un medico rinomato poteva costare mezzo ducato d'oro. L'onorario raddoppiava per l'assistenza continua, "die noctuque", al capezzale di un malato grave: nove ducati per nove giorni d'agonia. Ed erano poi da mettere nel conto i consulti (24).

Per coloro che non potevano permettersi la spesa del medico, c'erano i barbieri chirurghi, gli empirici e i ciarlatani. Ma anche la domanda di prestazioni sanitarie di tipo più elevato si manteneva molto sostenuta: essa era alimentata in parte dai privati benestanti, e in parte dal Comune, attraverso la stipulazione di "condotte" con medici e con chirurghi (alcuni dei quali, come maestro Gualtieri, non meno stimati dei "fisici"). Un'importante deliberazione del 1324, dettata da preoccupazioni di carattere finanziario, tese bensì a limitare lo staff medico stipendiato dal Comune sulla base di un organico di dodici "fisici" e dodici "chirurghi"; ma è interessante notare come in quel momento fossero sotto condotta ben tredici fisici e diciotto chirurghi (25).

La laurea non costituiva ancora una conditio sine qua non per l'esercizio della medicina. Tuttavia sul piano sociale tendeva ad emergere e ad imporsi, non senza contrasti, la figura del medico "conventato", cioè uscito da regolari studi universitari e perciò dotato di particolare autorevolezza: lo attestò indirettamente l'astiosa polemica del Petrarca che proprio a Venezia, nel 1370, si ritenne offeso dagli apprezzamenti formulati sul suo conto da quattro "averroisti", fra i quali figurava anche un medico, Guido da Bagnolo, originario di Reggio Emilia e laureato a Bologna, ma cittadino veneziano de intus et extra dal 1360 (26).

Risale a questa stessa epoca il privilegio dei medici laureati di essere parificati ai giudici, ai dottori in legge ed ai cavalieri nell'esenzione dalle leggi suntuarie, che avrebbero dovuto limitare il lusso delle nozze e la pompa dei funerali. I medici poterono inoltre godere, fino al '500 inoltrato, di ampie esenzioni fiscali (27). Non meno interessante è la notizia, riferita da un'orazione quattrocentesca del medico Pietro Tommasi, secondo cui il collegio medico fu esonerato dall'obbligo (latinamente munus), comune invece a tutte le altre Arti, di presentarsi davanti al doge neoeletto, e così pure davanti agli ospiti più illustri del governo veneziano, come principi e cardinali: motivo di orgoglio per il medico umanista, che parlava appunto "pro Collegio phisicorum", e che spiegava questo singolare privilegio come il riconoscimento di una particolare "dignitas" dei medici e del loro "ordo" (26).

In effetti, un notevolissimo passo verso la concessione di una relativa autonomia alla professione medica era stato rappresentato nel corso del '300 dalla creazione, a partire da un'unica Arte, dei due collegi dei medici fisici e dei medici chirurghi, dotati entrambi di propri organi amministrativi e rappresentativi, cioè il priore e i consiglieri (29). E tuttavia chi consideri la condizione del medico a Venezia nel secolo XIV non può sottrarsi alla constatazione che, in ultima analisi, era pur sempre il governo veneziano, interamente composto di nobili estranei alla pratica medica, a determinare la politica sanitaria della Serenissima, manifestando talora un'interessante autonomia di scelte rispetto agli indirizzi allora prevalenti nello sviluppo della scienza medica delle Università.

Innanzi tutto, anche dopo la trasformazione dell'Arte nei due collegi, i medici continuarono ad essere soggetti ai controlli delle magistrature della giustizia vecchia e dei provveditori di comun, nonché ai cinque alla pace e ai signori di notte, i quali conservavano un proprio elenco dei medici e dei chirurghi, per poter affidare loro le funzioni di medici legali (30). Era poi il maggior consiglio a deliberare le assunzioni e gli aumenti di stipendi dei medici "condotti", sia pure sulla base dei pareri formulati dalla giustizia vecchia e dai rappresentanti dei medici (31).

Ancor più significativa fu però la facoltà, che l'assemblea sovrana del maggior consiglio si riservò ed esercitò ripetutamente nel corso del '300, di poter concedere "grazie", abilitando all'esercizio della professione quei medici e quei chirurghi che non avevano ottenuto l'approvazione di uno dei due collegi, ma avevano comunque fama di grande abilità (sovente si trattava di "medici de plagis", cioè di chirurghi specializzati in determinate operazioni). Il criterio di giudizio adottato in questi casi consisteva nel prendere atto del successo pratico, anche se totalmente disgiunto da un'idonea preparazione teorica, e nel considerare con particolare attenzione e benevolenza le raccomandazioni provenienti da personaggi di alto rango sociale, soprattutto nobili, che erano stati guariti (o che speravano di esserlo) ad opera di questo o quel medico, chirurgo o ciarlatano. Si creava così una categoria di medici "de gratia", che la legislazione distingueva da quelli "de Collegio" (32).

Può sembrare, ed è parzialmente vero, che in questo modo rischiasse di andare perduta una delle più positive novità della medicina delle Università: l'idea del suo carattere scientifico e non meramente empirico. È però probabile che proprio all'approccio eminentemente pratico di un patriziato avvezzo a ragionare secondo la categoria mercantile dell'"utile" si debba la sorprendente energia con cui il maggior consiglio impose nel 1368 la convocazione mensile del collegio medico, allargato per l'occasione ai medici "de gratia", per la discussione di casi clinici particolarmente interessanti; un obbligo analogo era previsto per il collegio chirurgico, cui venne inoltre affidata la lezione di anatomia che doveva celebrarsi ogni anno nel periodo invernale. Questa deliberazione, che certo risentiva anche degli sviluppi degli studi anatomici nelle Università di Bologna e Padova, fu opportunamente integrata nel 1370 da un'ancor più chiara disposizione, che impose al riluttante collegio dei "fisici" l'obbligo di partecipare alla pubblica anatomia e di sostenerne le spese assieme ai chirurghi, atteso che in questo modo i medici si sarebbero meglio informati sulla natura del corpo umano ("videndo ipsam notomiam comuniter informari possint de statu et condicionibus humani corporis") (33). Questi decreti riflettono un interesse per la solida preparazione anatomica dei medici destinato a durare nel tempo e a trasfondersi, con positivi risultati, nella politica culturale condotta da Venezia nello Studio di Padova, dopo la conquista della città nel primo '400.

Proprio con l'occupazione di Padova e delle altre città della Terraferma veneta, o forse già prima, con la crisi politica, militare e finanziaria della guerra di Chioggia (1378-1381), si apre sotto molti aspetti una nuova e diversa fase della storia della professione medica a Venezia. Infatti nel corso del '400 e del primo '500 muta progressivamente il rapporto fra il patriziato di governo ed il collegio dei medici fisici: questo corpo acquista nuova autorevolezza nel regolare i rapporti interni alla professione, mentre l'intervento diretto delle magistrature si fa meno frequente, oppure si specializza, come nel caso della nuova magistratura dei provveditori alla sanità (34).

Anche se la storia della medicina veneziana nel secolo XV è avvolta da una certa oscurità a causa della dispersione degli atti del collegio dei "fisici", non è impossibile ricostruire le tappe principali dell'ascesa di quest'antenato dei moderni ordini professionali (35). Fin dal 1384 i medici mossero all'attacco delle prerogative del maggior consiglio in merito alla concessione delle licenze per l'esercizio della professione: dovevano sentirsi appoggiati dalle massime magistrature e in particolare dai consiglieri ducali. Difatti questi ultimi si assunsero il compito di presentare al maggior consiglio le lamentele del priore dei medici e dei suoi consiglieri, secondo i quali da qualche tempo si erano troppo generosamente concesse licenze a varii medici ed empirici, senza consultare il competente collegio. Ne derivava il pericolo di funeste conseguenze per la salute dei Veneziani; ne scaturivano altresì gravi contrasti all'interno dello stesso corpo medico, giacché i medici nominati per grazia erano "ignorantes et imperiti", e tuttavia pretendevano di entrare a far parte del collegio, con "verecundia" degli altri suoi membri, che erano tutti "doctores et notabiles persone". La Signoria si era dunque convinta che occorresse provvedere "pro honore nostri Dominii": in pratica essa proponeva di far riesaminare daccapo, e questa volta nel collegio medico, quanti già avevano ottenuto la loro licenza dal maggior consiglio; il vantaggio derivante dal possesso di una "grazia" si sarebbe quindi ridotto a una semplice esenzione dal pagamento della tariffa che il collegio medico era solito riscuotere dagli aspiranti all'ammissione.

Il maggior consiglio bocciò subito questa proposta, in un impeto di sdegno che travolse anche il più moderato progetto di un altro consigliere ducale, il quale, discostandosi dalla maggioranza dei colleghi, si sarebbe accontentato di un parere preventivo del collegio medico, obbligatorio ma non vincolante, circa le "grazie" da votare nel maggior consiglio. Queste proposte non furono più ripresentate in questa forma (36).

Però l'impennata d'orgoglio del maggior consiglio era destinata a rallentare l'evoluzione in corso, ma non ad arrestarla definitivamente. Infatti, anche a prescindere dalla generale tendenza costituzionale verso una progressiva erosione delle competenze dell'assemblea sovrana (37), nel caso specifico delle grazie ai medici era fin troppo facile dimostrare l'inadeguatezza delle procedure tradizionali: inutile o dannoso affidare a una vasta assemblea politica un problema di routine, per il quale sarebbe semmai occorsa una competenza di tipo scientifico, che era meglio assicurata dal collegio medico, organo delegato, operante all'interno della cornice politico-istituzionale offerta dalle magistrature che sovrintendevano alle Arti.

Il patriziato di governo fece conoscere questo suo orientamento con modi indiretti: nel 1397, nel preambolo di una deliberazione del maggior consiglio in materia medico-legale, fu inserita l'osservazione secondo cui i più gravi inconvenienti derivavano dall'aver autorizzato all'esercizio della professione medica per via di grazia "multi barberii et medici ignorantes experientiam medicine" (38). E nel 1405 l'avogaria di comun, incaricata dalla Signoria di sovrintendere alla riorganizzazione dei collegi dei medici e dei chirurghi (dopo una breve e sfortunata fusione tra i due corpi), affidò ad essi il compito di far cessare lo scandalo della "copia imperitorum et barbitonsorum medentium" (39). Vennero poi meno nel corso del '400 le "grazie" del maggior consiglio per l'esercizio della professione medica e si accrebbero parallelamente le competenze dei due collegi, e specialmente di quello dei "fisici".

Fra tutti i problemi della professione medica, il più delicato era certamente quello dei medici privi di titolo dottorale. Documenti del 1442 ci mostrano il collegio dei fisici impegnato a studiare una soluzione definitiva, tramite amichevoli consultazioni con i colleghi del sacro collegio padovano (40). Va però precisato che in quest'epoca la questione aveva ormai mutato aspetto: essa non riguardava più tanto i barbieri e i ciarlatani, bensì coloro che, dopo aver compiuto studi universitari, non arrivavano al dottorato propter paupertatem. La laurea padovana era infatti molto cara; e come ha ben dimostrato il Le Goff il corpo docente dello Studio mostrava una sempre minore comprensione per le esigenze degli scolari poveri (41).

A giudicare dagli Statuti del collegio medico di Venezia, la cui approvazione risale al 1507, il problema venne in parte aggirato concedendo ai "viri docti in medicina" di sostenere presso il collegio veneziano un esame di licenza, sulla base del Canone di Avicenna e degli Aforismi di Ippocrate: i candidati giudicati idonei sarebbero stati abilitati all'esercizio della professione, ma non all'ingresso nel collegio, per l'ammissione al quale era rigorosamente richiesta una laurea in medicina, o almeno in arti, rilasciata da uno Studio Generale (42).

Una diversa e assai più ambiziosa iniziativa in materia di lauree e di agevolazioni agli scolari poveri fu intrapresa dal collegio medico nel 1447, allorché esso ottenne da papa Nicolò V una bolla che lo autorizzava a conferire il dottorato. La concessione rimase per il momento del tutto teorica; ma nel 1469 i medici veneziani approfittarono del famoso viaggio in Italia dell'imperatore Federico III per procurarsi il privilegio di poter creare ogni anno otto dottori in artibus et medicina. Infine nel 1470 il collegio impetrò da Paolo II, papa veneziano, la bolla per l'erezione di uno Studio Generale.

Non risulta che su quest'iniziativa siano sorti contrasti con la Signoria, intenzionata a difendere il monopolio dello Studio di Padova. Infatti i medici veneziani si servirono dell'autorizzazione pontificia al solo scopo di legittimare, al di là di ogni possibile contestazione, il conferimento delle lauree da parte del loro collegio. Non solo non costituirono tutte le facoltà, limitandosi alla medicina, alla chirurgia e alle arti, ma non dotarono lo Studio né di un corpo docente, né di un'organizzazione studentesca. Perciò gli scolari, se da un lato potevano condurre a Venezia una parte dei loro studi, usufruendo delle lezioni di filosofia della scuola di Rialto, dell'annuale sessione di anatomia e del tirocinio condotto sotto la guida di qualche affermato professionista, dovevano tuttavia completare i loro studi in qualche altra università, cioè soprattutto a Padova.

Per gli studenti, dunque, l'importanza pratica dello Studio veneziano risiedeva soprattutto nella possibilità di laurearsi a costi ragionevoli. Il confronto fra le tariffe praticate a Padova e a Venezia rende subito evidente la maggiore economicità della laurea veneziana: qui nei primi decenni del '500 si spendevano fra i 12 e i 14 ducati, mentre la laurea padovana costava tra i 15 e i 30 (ed era già una tariffa più ragionevole - forse proprio per la concorrenza veneziana - rispetto al secolo XV, quando la spesa aveva raggiunto persino i 40 ducati) (43).

In questa situazione, l'attività dello Studio veneziano doveva preoccupare non poco il sacro collegio padovano, che difatti protestò fin dal 1489, definendo il collegio medico di Venezia come "valde nobis inimicum" e denunciando che ormai i 3/4 degli studenti preferivano laurearsi a Venezia. Ma la Signoria non accolse le lamentele padovane né in questa occasione, né quando esse furono reiterate nel 1531. Così l'attività dello Studio veneziano poté continuare a pieno ritmo: nel corso del secolo XVI abbiamo sicura notizia di ben 603 lauree, conferite in prevalenza a sudditi del Dominio veneto (il 57,8%) (44).

Dietro a questa fabbrica di diplomi intravediamo l'accresciuta autorevolezza del collegio medico veneziano, capace di far fronte agli attacchi provenienti dagli illustri colleghi padovani e di esercitare uno stretto controllo sull'esercizio della professione medica a Venezia, pur in presenza delle ricorrenti rivendicazioni del collegio chirurgico (45).

Come già si è ricordato, vi erano medici membri del collegio e medici estranei ad esso: gli uni e gli altri erano però sottoposti alla sua autorità, sia per la verifica della preparazione professionale e dei titoli di studio, sia in vista dell'applicazione di norme di portata generale, come quella che prevedeva l'imposizione da parte del collegio di una tassa, proporzionata al reddito stimato di ciascun professionista e destinata al pagamento del salario del medico che serviva il capitano generale da mar nell'Armata veneziana (46). Per far fronte a questo compito il collegio eleggeva tre taxatores; altre cariche, oltre al priore annuale e ai due consiglieri, di durata semestrale, erano il tesoriere e tre sindaci; il collegio salariava inoltre un notaio e un bidello. Le entrate provenienti dalle tariffe riscosse per l'ammissione al collegio, per i dottorati e per le licenze di idoneità erano distribuite fra i membri del collegio. Erano previste forme di assistenza a favore dei medici ammalati o impoveriti; per il resto, beneficiavano regolarmente di queste entrate soprattutto i 25 membri numerarii, o anziani, cui si affiancava un numero variabile di supernumerarii, i quali subentravano man mano nei posti vacanti (47).

Va peraltro notato che, contrariamente a quanto previsto in quest'epoca per gli uffici cancellereschi, non venivano considerate come condizioni obbligatorie per l'ammissione al collegio medico né la legittimità dei natali, né la cittadinanza veneziana: l'appartenenza a una famiglia proveniente dal Dominio veneto o da altri Stati non precludeva neppure l'accesso al priorato. Il collegio veneziano conservò dunque lungo tutto il '500 un'apertura ai nuovi venuti abbastanza insolita per quest'età, che vide la "chiusura" di molti altri collegi medici (48).

Il collegio veneziano è inoltre caratterizzato da un elevato numero di membri: nel 1523 sono 61 e, dopo una flessione fra gli anni '30 e i '50, risalgono a 75 nel 1564 e ad 84 nel 1570. Tenendo presente il censimento del 1563, che indica una popolazione di 168.627 residenti, ci troveremmo di fronte, a quella data, a un rapporto di 4,5 medici di collegio ogni 10.000 abitanti: un dato apparentemente vicino a quelli della Verona di metà '500 e della Firenze del 1630 (49).

Però queste cifre ci danno solo un'idea parziale dell'offerta di prestazioni sanitarie. Non abbiamo infatti conteggiato, ignorandone il numero, i medici non inclusi nel collegio; c'erano poi i medici chirurghi, sovente laureati, il cui collegio aveva raggiunto, già prima del 1500, i 40 membri (anche se non sempre si mantenne a questi livelli di iscrizione: negli anni '40 del '500 i suoi membri erano solo 27) (50). Né bisogna trascurare il fenomeno, certo limitato sul piano quantitativo, ma economicamente e socialmente assai rilevante, dell'esercizio occasionale o continuativo della professione medica a Venezia da parte di professori dello Studio di Padova: nel 1415 pratica a Venezia Giovanni Caronelli; per il medesimo motivo nel 1423 Antonio Cermisone ottiene la nomina di un sostituto nell'insegnamento; nel 1450 Sigismondo Policastro è chiamato a Venezia per curare il doge Foscari. Verso la fine del '400 i medici di Padova sono attirati a Venezia pure dalla possibilità di farvi stampare le proprie opere o di fornirvi consulenze editoriali; così negli anni '90 il medico di origine bresciana Francesco Cavalli collaborò con Aldo Manuzio alla pubblicazione delle opere di Aristotele (51). Nel gennaio del 1499 Si arrivò infine a una protesta ufficiale del collegio medico davanti alla Signoria: constatato che durante le vacanze delle lezioni i professori dello Studio patavino Giovanni dell'Aquila, Girolamo della Torre, Gabriele Zerbi e Nicoletto Vernia (oggi ricordato più come filosofo che come medico) venivano a "miedegar in questa terra", i medici veneziani chiesero ed ottennero che fossero anch'essi sottoposti al pagamento della tassa per il medico dell'Armata (52).

Tutte le testimonianze concordano dunque nel presentare la Venezia della fine del '400 e del '500 come ben provvista di medici, professionisti di successo e professori universitari. Alla base di questa larga disponibilità vi era una domanda di cure sanitarie che si manteneva su livelli particolarmente sostenuti: come osservò col suo sicuro intuito di banchiere Girolamo Priuli, "sempre in la citade veneta ne sonno medici assai convenienti et deli più celebri d'Itallia, perché avadagnanno molta summa de danari" (53). È vero che, rispetto al '300, era venuto meno l'intervento diretto dello Stato per le "condotte": a quest'evoluzione aveva contribuito la fortissima pressione esercitata sulla finanza pubblica dalle guerre della fine del '300 e del '400; un qualche ruolo era stato giocato anche dal ciclico ripetersi delle epidemie, durante le quali i chirurghi e i medici pubblici o morivano o tendevano ad eclissarsi, incuranti della minaccia di licenziamento (54).

Ad ogni modo, per i medici che aspiravano alla sicurezza delle "posizioni ferme" c'era ancora la possibilità di trovare un posto al servizio di fondazioni monastiche e luoghi pii. Il '400-'500 è appunto l'epoca in cui si moltiplicano le fondazioni di istituzioni ospedaliere, mentre le Scuole o confraternite collegate alle Arti provvedono all'assistenza agli artigiani malati, e le maggiori confraternite di devozione - le cinque Scuole grandi, già attive nel '400, e una sesta, aggiuntasi alla metà del '500 - si assumono il compito di tenere al servizio dei confratelli due medici per ciascuna (55). C'era poi un generico impegno del collegio medico, in cambio delle esenzioni fiscali da esso godute, a visitare gratuitamente i carcerati, le monache, i "poveri di schuole" ed altri che non potevano pagare (56).

L'insieme di queste iniziative sembra attenuare la durezza classista apparentemente implicita nella riduzione del diretto intervento pubblico, che in campo assistenziale tese a concentrarsi su un solo obiettivo: la prevenzione della peste (57). In questo settore il governo veneziano adottò fin dal '400 soluzioni di avanguardia, come l'istituzione nel 1423 del Lazzaretto Vecchio, struttura permanente destinata a fungere da ospedale per gli appestati; seguì nel 1468-1471 la costruzione del Lazzaretto Nuovo, in cui ospitare durante la quarantena i risanati ed i casi sospetti. Fu altresì di grande rilievo la decisione assunta nel 1460 e rinnovata con maggior successo nel 1486 di rendere permanente la magistratura dei provveditori alla sanità, che in tempo di peste doveva provvedere alle più urgenti necessità e che ora avrebbe potuto dedicarsi più organicamente anche alla prevenzione. Lasciando questo tema ad altre specialistiche trattazioni, ci limiteremo a segnalare che l'impiego di personale medico alle dipendenze dei provveditori fu quanto mai limitato, analogamente a quanto avveniva negli altri uffici di sanità allora istituiti in Italia: nel 1541 troviamo al servizio di questa magistratura un solo medico; più tardi, un medico fisico e un medico chirurgo (58). Naturalmente i provveditori potevano consultare in qualunque evenienza il collegio medico, che però non fu mai stabilmente associato alla loro attività. A questo riguardo, va tenuto presente che le misure di prevenzione adottate dai provveditori miravano in parte ad impedire il corrompimento dell'aria (in base a dottrine mediche erronee che però produssero una positiva preoccupazione per l'igiene cittadina) e in parte ad evitare il contagio, già individuato dall'esperienza anche se non spiegato dalla scienza medica, mediante l'adozione di procedure di isolamento e di quarantena. L'applicazione di queste misure richiedeva ai provveditori capacità politico-amministrative, buon senso, spirito d'osservazione: le tradizionali virtù del ceto dirigente (59).

Una certa circolazione negli ambienti patrizi delle principali teorie mediche era comunque assicurata in virtù degli studi padovani di molti nobili veneti, non pochi dei quali giungevano a laurearsi in artibus; ma poco giovamento poteva venire ai provveditori da una medicina sostanzialmente ferma, almeno fino al Benedetti e al Fracastoro, alla concezione galenica della peste causata da "corruzione dell'aere" (60).

Così i provveditori erano costretti a battersi, con mezzi e dottrine inadeguati, contro "un nemico invisibile". Sul piano psicologico il loro atteggiamento, così come quello di tutto il patriziato, doveva quindi oscillare tra la fiducia e lo scoramento nei riguardi del corpo medico e delle sue capacità terapeutiche. Ciò appare con chiarezza nelle riflessioni dedicate alla pestilenza del 1506 dal diarista Girolamo Priuli, convinto, come già si è ricordato, che Venezia potesse contare su ottimi medici, fra i migliori d'Italia. Ma all'inizio dell'epidemia questi seri professionisti avevano pensato di praticare ai malati dei vigorosi salassi, "e tutti morivano subito salassati". Finalmente, dopo aver visto perire otto pazienti su dieci, "deliberonno li medici, vedendo che il trazer di sangue era a loro molto contrario, tentar un'altra experientia" e cambiarono terapia, con risultati questa volta un po' migliori. "Et li medici anchora loro non ponno intender il tutto, et cum la experientia et cum lo tempo imparanno, quia nemo natus est magister" (61).

Quest'appello all'esperienza non deve essere anacronisticamente interpretato in senso galileiano: esso si inserisce anzi in un contesto culturale molto complesso, giacché il Priuli, bene esprimendo il sentire comune di larghi strati del patriziato, è pur sempre convinto della grandezza degli antichi maestri, da Galeno ad Avicenna. Né sono certo estranei agli interessi medici del patriziato dell'epoca l'occultismo, la magia naturale e l'astrologia, che sono anzi oggetto di studio anche negli ambienti dell'Università di Padova (62).

Dobbiamo comunque tener conto di questa predisposizione psicologica dei Veneziani in favore della "experientia", sia pure latamente intesa, perché questo dato ambientale aiuta a comprendere in qual modo potesse coesistere nella Venezia del '400-'500 una pluralità di proposte terapeutiche di varia provenienza, la cui diffusione era certamente propiziata dall'attivo ruolo di mediazione che la città ancora svolgeva fra Oriente e Occidente. Per questa via possono essere arrivate in Europa idee feconde, fra cui forse anche quella della circolazione polmonare del sangue, già intuita dai medici arabi (63).

In concreto, questi scambi culturali furono resi possibili nel '400-'500 da quei medici che, fedeli all'antica tradizione veneziana del "mare colere, terramque postergare", sceglievano di partecipare ai viaggi delle galere, oppure trascorrevano una parte della loro vita nello Stato da mar e nelle basi consolari del Levante, in stretta comunanza di vita con i mercanti.

Fin dal '300 è possibile riscontrare la presenza di medici nelle armate navali della Repubblica: qualcuno di questi fisici riuscì a ottenere proprio sul mare, grazie ai meriti acquistati curando soldati e marinai, il pieno riconoscimento della propria condizione di cittadino veneziano (64). Al di là delle motivazioni patriottiche, non mancano del resto gli allettamenti di tipo economico: all'inizio del '500 le prestazioni del medico che segue il capitano generale da mar sono remunerate con un "salario" massimo di 25 ducati mensili (65). Anche sulle galere da mercato c'era solitamente un medico fisico o un medico chirurgo. Nel 1412 il "salario" del medico delle galere di Fiandra era di ben 16 ducati al mese, per un viaggio che solitamente durava oltre un anno. Queste condizioni così favorevoli non durarono a lungo: nell'ambito di uno sforzo teso a ridurre i costi di gestione delle galere, furono ripetutamente decretate riduzioni di stipendio, fino a un minimo di soli 7 ducati mensili, a partire dal 1472. Inevitabile dunque lo scadimento del prestigio e della qualificazione del personale sanitario (66).

Assai più interessanti erano gli stipendi dei medici condotti salariati dalle comunità d'Istria e Dalmazia, o mantenuti a spese di magistrature e consolati delle isole greche e del Levante. Come medico del consolato di Damasco, l'intraprendente bellunese Andrea Alpago († 1522), che forse non era nemmeno laureato in medicina, ma solo in artibus, riscosse dal 1487 al 1517 un "salario" annuo di 350 ducati (67). Oltre allo stipendio, devono essere messi nel conto anche i vantaggi derivanti da una stretta relazione con il mondo mercantile: lo rilevò esplicitamente nel 1507 il collegio medico veneziano, mosso a questa delazione fiscale dal desiderio di ripartire la sua famosa tassa per il medico della flotta fra un maggior numero di contribuenti. A giudizio del collegio, i medici "navigantes super navibus et galeis" non solo usufruivano degli utili della professione medica, ma "de illis plurimi etiam mercantiis lucrantur, nec ullo tempore stare videntur absque lucro" (68).

In effetti non mancano evidenti tracce dell'attività di questi medici-mercanti, nei quali la curiosità intellettuale non andava disgiunta dal senso degli affari. Nicolò Roccabonella, medico condotto a Zara, avviò nel 1449 assieme al figlio Ludovico un'intensa attività commerciale, mentre al tempo stesso completava, con l'aiuto di uno speziale proveniente dalla Germania, la più straordinaria opera illustrata della botanica quattrocentesca, il celebre codice Rinio (69). Quanto al già ricordato Andrea Alpago, voci ricorrenti lo vollero coinvolto in spregiudicate operazioni commerciali condotte in collaborazione con il patrizio Marino Corner, console a Damasco ai tempi dell'Alpago e suo esecutore testamentario nel 1522. In effetti il medico bellunese lasciò agli eredi un bel capitale, valutato a 7.788 ducati, in cui erano incluse "perle e mercanzie", la proprietà di una bottega, e poi "dinaro in banco e crediti", depositi al "monte novo" e "monte novissimo". Altra viva testimonianza delle sue attitudini mercantili sono le lettere inviate da Damasco nel primo '500 per informare i mercanti veneziani e lo stesso diarista Marin Sanudo sulle drammatiche fluttuazioni del prezzo delle spezie, in quell'agitato momento storico che vide i Portoghesi affacciarsi sull'Oceano Indiano (70).

Per diversi anni il Sanudo annotò queste corrispondenze indicando il proprio informatore come un qualsiasi "medico di Damaxo"; però a partire dal 1510 cominciò a parlarne con maggior rispetto, giacché ora l'Alpago gli era noto come colui che "traduse Avicena di arabaco in latin", offrendone una versione nettamente migliore delle precedenti (71).

C'è infatti nel viaggio mediterraneo dei medici un'importante dimensione filologica e scientifica, quella del ritorno all'antica sapienza medica, o greca o araba, a seconda delle preferenze personali e delle scuole. Questa convergenza tra peregrinazioni nello Stato da mar e umanesimo scientifico è particolarmente avvertibile a partire dalla fine del '400. Certo, anche prima di allora non era mancata al medico la possibilità di arricchirsi culturalmente approfittando degli spostamenti impostigli dall'esercizio della sua professione: nel 1412 Leonardo Buffi da Bertipaglia (che fu poi celebre docente di chirurgia a Padova) aveva clamorosamente abbandonato lo Studio patavino, senza essersi nemmeno addottorato, in violenta polemica con la medicina accademica e con l'incapacità professionale dei "doctores"; e per diversi anni aveva voluto esercitare la propria attività di chirurgo in paesi lontani, spingendosi fino ad Alessandria d'Egitto e alla Mecca ad ammirarvi le "mirabilia opera naturae" (72). Ed il medico umanista Pietro Tommasi aveva praticato la professione a Candia tra il 1414 e il 1418, cogliendo l'occasione per acquistarvi tra l'altro alcuni preziosi codici greci contenenti i Moralia di Plutarco (73).

Ma nel campo medico una vera svolta culturale fu segnata soprattutto dal viaggio nel Levante di Girolamo Ramusio (che come medico del consolato di Damasco, a partire dal 1483, precorse l'Alpago nella traduzione di Avicenna) e dall'esperienza di rapporti col mondo greco compiuta in quegli stessi anni da Alessandro Benedetti da Legnago (circa 1450-1513). Questi aveva conosciuto a Venezia gli umanisti Giorgio Merula e Giorgio Valla; dopo la laurea in arti esercitò per diversi anni la professione medica a Candia, approfondendovi lo studio del greco e degli antichi autori. Tornato in patria, si sarebbe distinto come uno dei maggiori medici del suo tempo e avrebbe tra l'altro realizzato il primo anfiteatro anatomico in legno (74).

Va comunque ricordato che non tutti questi scambi mediterranei avvenivano con facilità e avevano esito felice: oltre alla lunghezza e alla pericolosità dei viaggi, non si devono dimenticare le tensioni politiche e religiose. Parleremo più oltre della difficile e comunque precaria posizione dei medici ebrei. Ma anche qualche medico cristiano è coinvolto in vicende tragiche: uno dei più illustri docenti dello Studio di Padova, quel Gabriele Zerbi (1435-1505), di origine veronese, che si è meritato un posto nella storia della medicina per i suoi studi di anatomia, accettò nel 1504 di recarsi nella Bosnia per curare il pascià Izkander, che si era appunto rivolto alla Signoria "per aver uno miedego". Ma poco dopo il decesso dell'illustre paziente giunse a Venezia la notizia che lo Zerbi, per volontà di un figlio del defunto, "era stà da quelli turchi segato per mezo" assieme a un figlio (75).

Lo Zerbi era stato probabilmente indotto ad accettare il pericoloso incarico non solo dalla promessa di un lauto onorario e da un debito di fedeltà alla Signoria, ma anche da un più orgoglioso desiderio di gloria. Non possiamo infatti assolutamente trascurare l'importanza che questo valore così schiettamente umanistico viene assumendo per i medici veneti del '400-'500. È bensì vero che il loro rapporto con l'umanesimo rimane complesso e tormentato: in particolare, sotto l'influenza dello Studio di Padova, stenta ad affermarsi a Venezia l'"umanesimo scientifico" nella sua più specifica accezione di "critica antiaraba" e di "riconquista dei testi della medicina greca nella loro purezza" (quale si coglie ad esempio nell'opera di un Nicolò Leoniceno) (76). Anche il favore dell'ambiente padovano per l'Alpago non nasce forse dalla possibilità di riproporre con nuovi argomenti filologici la superiorità degli Arabi? Una delle ultime dispute su questi temi si svolgerà proprio a Venezia nel 1532, davanti al doge e alle massime autorità della Repubblica: qui i celebri medici Marino Brocardo e Valerio Superchio, ancora sostenuti dalla maggioranza del loro collegio, difenderanno l'autorità degli Arabi e la loro funzione nell'insegnamento medico, mentre il giovane e già affermato Vittore Trincavella sosterrà con convinzione la superiorità di quel Galeno, di cui diverrà in breve uno dei più illustri commentatori (77).

Ma ben più larga e ben più antica era stata - al di là dell'episodica polemica petrarchesca - la diffusione fra i medici veneziani dei nuovi valori civili e letterari. Infatti alcuni dei più affermati "fisici" della Venezia quattrocentesca furono anche autorevoli esponenti dell'umanesimo veneziano: Nicolò Leonardi (circa 1370-1452), Pietro Tommasi (circa 1375/80-1458) e Giovanni Caldiera (1400-1474) raccolsero manoscritti e formarono biblioteche, furono in corrispondenza con patrizi umanisti come Francesco Barbaro, Lauro Querini e Lodovico Foscarini e composero interessanti opere latine, fra cui spicca il De praestantia Venetae Politiae del Caldiera (78).

Sul piano sociologico, l'adesione ai valori umanistici può rappresentare un momento di accresciuta consapevolezza di un gruppo professionale o, al suo interno, di singoli individui e famiglie che hanno raggiunto il successo economico ed uno "status" sociale relativamente elevato. Sotto questo aspetto appaiono significativi gli scritti del Caldiera, che, nato a Venezia da buona famiglia, si presenta già come un "cittadino", nel significato più onorifico che questo termine comincia ad acquisire nella seconda metà del '400. E difatti nel De praestantia Venetae Politiae egli puntualizza le moderate aspirazioni di questo gruppo e ricorda gli onori cui esso può aspirare: l'amministrazione delle Scuole grandi, gli uffici di cancelleria (79).

Però non tutti i medici sono "cittadini originari": come si è gia ricordato, i "fisici" attivi a Venezia potevano essere originari di ogni parte della penisola e d'Europa; ma solo coloro che si erano stabiliti a Venezia da più tempo, o magari da più generazioni, ed avevano definitivamente abbandonato l'antica patria (una scelta che non era sempre scontata) (80), potevano veramente sperare di radicarsi in questa società, partendo dal successo professionale per compiere una serie di investimenti di prestigio che avrebbero consentito col tempo l'ascesa della famiglia.

La soddisfazione per l'incipiente successo di queste aspirazioni ed il loro travestimento ideologico in termini umanistici attraverso l'ideale della gloria appaiono in forme particolarmente evidenti nella biografia di un medico di origine riminese, Giacomo Surian († 1499), vissuto a Venezia nella seconda metà del '400: non legato agli ambienti universitari padovani, ma egualmente professionista di successo, egli accumula una bella fortuna comprendente, fra l'altro, due "case da statio" a Venezia, l'una a San Giuliano e l'altra a San Trovaso, dove egli possiede inoltre varie case e casette da affittare. In Terraferma il Surian ha intrapreso alcuni investimenti fondiari, poi molto ampliati dagli eredi, specie a Mirano e ad Asolo; ma ha investito capitali anche nel Monte Nuovo, ha comprato argenterie per la casa e collane di perle per la moglie. Pensando alla propria sepoltura, il Surian ha scelto la chiesa di Santo Stefano, al cui abbellimento ha contribuito con un pregevole bassorilievo in bronzo, raffigurante la Vergine col Bambino e i santi; e lì si è fatto costruire una elegante arca tombale. Ma l'immortalità non consiste per lui solo nelle preghiere assicurategli da una mansioneria perpetua: occorre che tutti conoscano gli ideali cui ha ispirato la sua esistenza. Perciò fa apporre sulle sue case e sulla tomba l'iscrizione: "RURA, DOMUS, NUMMI, FELIX HINC GLORIA FLUXIT", che anche Marin Sanudo si dà la pena di segnalare.

Né la gloria dell'individuo può essere separata dalla grandezza del casato: nel suo disegno di ascesa sociale il medico Surian non ha trascurato un'accorta politica di alleanze matrimoniali, facendo sposare la figlia Bianca a un nobile della quarantia, Marco di Mezzo. Il Surian ha poi voluto assicurarsi che i figli non disperdessero quanto egli aveva accumulato; perciò, pur dividendo l'eredità fra i tre eredi maschi in parti eguali, li ha vincolati al rispetto di un fidecommesso perpetuo. Vi è poi l'eredità, per così dire, immateriale: la reputazione del medico, gli studi. Anche a questo Giacomo ha provveduto per tempo e meticolosamente: quando redige il testamento, due figli sono già dottori in arti o in medicina, ed il più giovane si accinge a seguirne l'esempio: perciò gli esecutori testamentari dovranno procurargli il vitto, pagargli le spese della laurea ed anche quelle per l'iscrizione al collegio medico di Venezia (81).

I figli, in effetti, continueranno l'opera del padre, persino al di là delle sue più rosee aspettative: ci saranno tre generazioni di Surian medici a Venezia, mentre un altro nipote, Andrea, sceglierà la carriera burocratica e diverrà a fine '500 cancellier grande; quando poi, nel '600, la nobiltà sarà divenuta venale, anche i Surian diverranno patrizi veneti (82).

Se per quest'ultimo aspetto l'ascesa dei Surian appare certamente eccezionale, le loro vicende presentano per il resto vari punti di contatto con quelle di altre famiglie di medici veneziani del '500. Abbastanza diffusa appare la tendenza alla formazione di vere e proprie dinastie di medici (83): così gli Abbioso, originari di Ravenna, sono presenti nel collegio medico quasi ininterrottamente per tre generazioni, fra il 1528 e la fine del secolo; ottengono più volte il priorato, ed il loro radicamento veneziano è certificato nel 1590 dal riconoscimento della "cittadinanza originaria", cui approdano nel corso del secolo XVI anche altre famiglie di medici, come i Galuppo, i Marucini, i Bino, i Superchi e i Trincavella (84).

Va precisato che nel '400-'500 a Venezia l'accesso alla professione medica non è precluso a famiglie di diversa origine professionale: troviamo così medici figli di notai e giuristi (85), oppure provenienti da famiglie che avevano praticato la mercatura (86), o che si erano già accostate alle professioni sanitarie attraverso la chirurgia o con la gestione di una spezieria: però in quest'ultimo caso si vigila perché non sia violata l'antica e solenne norma che vietava qualsiasi forma di società fra medici e speziali (87). Qualche preoccupazione di carattere sociale si palesa semmai quando il collegio dei medici chirurghi viene chiamato, nel '500, ad ammettere nelle sue file il figlio di un barbiere (88).

Ad ogni modo, solo consistenti entrate familiari potevano consentire il mantenimento di un giovane studente di medicina; e questa era certo una severa discriminante di carattere economico. Poco potevano incidere su questa situazione alcuni lasciti pii, come quello del medico Andrea di Osimo, che nel primo '400 aveva destinato la somma di 100 ducati annui al mantenimento di 4 scolari poveri; oltre a tutto, pare che i procuratori di San Marco ne facessero una gestione clientelare (89). Anche le già ricordate misure del collegio medico volte a facilitare il conseguimento di una laurea si applicavano solo a "viri docti et experti", che avessero alle spalle gli studi universitari. E questo costava molto: per il '500 possiamo calcolare che il mantenimento di uno studente a Padova comportasse per la famiglia un investimento di 100-125 ducati annui (90). Non a caso, non sono rare le ultime volontà in cui si palesa da un lato il desiderio del testatore di completare l'opera intrapresa, portando i giovani della sua famiglia fino alla laurea; mentre è però viva la preoccupazione di non intaccare le entrate solo per alimentare le dissipazioni di studenti svogliati. Donde anche il ripetersi costante della medesima solenne raccomandazione di attendere con zelo agli studi di medicina, apportatori di ricchezza e di prestigio: "Vaca studio nobilissime medicine, que sola homines deos facit" è l'invito rivolto nel 1397 al giovane Pietro Tommasi, forse troppo incline agli studi umanistici, da parte del suocero, che era subentrato al padre del Tommasi, morto prematuramente, nella gestione della famiglia (91).

Data la lunga durata degli studi, questa solidarietà familiare si rendeva spesso indispensabile. Soprattutto gli zii paterni erano chiamati a interessarsi alla sorte dei loro nipoti rimasti orfani, riproponendo anche all'interno del mondo medico la tradizionale solidità della "fraterna" veneziana. Un caso esemplare è quello dei Bino: negli anni '20 del '500 Matteo Bino è un "fisico" famoso e assai stimato dalla nobiltà, tanto che nel 1526 il battesimo di suo figlio Alvise è onorato - secondo una consuetudine pretridentina - dalla presenza di ben dodici padrini, sei patrizi e sei cittadini. Dopo soli due anni, però, Matteo muore: l'avvenire di Alvise sarebbe stato gravemente compromesso se non fossero intervenuti in suo aiuto gli zii Benedetto, medico fisico, e Giovanni Piero, "ciroico", due affermati professionisti forniti di una prestigiosa clientela aristocratica, cui offrivano - spesso congiuntamente i propri servizi. Benedetto, in particolare, "teneva ser Alvise suo nepote in loco de suo fiol, per esser fiol legitimo de suo fratello, sicome lui diceva amandolo con singular amor come fiol": col suo aiuto Alvise poté compiere gli studi e laurearsi a Padova nel 1550 (92).

Il senso della famiglia era sentito anche da quei medici che avevano compiuto la scelta, allora molto diffusa, di non sposarsi (93). Oltre a tutto, era assai comune la pratica, non severamente condannata, del concubinato: il celebre fisico Vettore Trincavella fu padre di quattro figli naturali. E tuttavia le cure per la famiglia riaffiorano con forza nel suo testamento, in cui non solo riconobbe i figli, lasciandoli eredi del patrimonio da lui accumulato, ma si sforzò di istituire fra loro i medesimi rapporti patrimoniali che avrebbero tenuto unita una "fraterna" di figli legittimi (lo si vede in particolare dalle accurate disposizioni intorno alla destinazione finale della dote delle figlie). Quest'ultimo soprassalto di volontà ebbe una clamorosa affermazione postuma: infatti qualche decennio più tardi gli avogadori di comun ammisero i nipoti del Trincavella alla cittadinanza originaria, sorvolando sul concubinato dell'avo e su altre irregolarità (94).

La costante premura per i parenti ritorna come tema dominante nella biografia di un altro fra i più famosi professionisti veneziani del '500: Niccolò Massa (1489-1569) (95). Il padre era morto prematuramente ed uno solo dei fratelli maschi di Niccolò sopravvisse fino al 1529. Perciò la carriera del giovane, che non aveva ereditato quasi nulla, ebbe inizi incerti. Dapprima tentò, sulle orme del padre, la mercatura, poi aspirò al notariato; successivamente si rivolse alla professione medica, ma solo nel 1521 poté aggiungere alla laurea in chirurgia, già ottenuta nel 1515, la più prestigiosa laurea in medicina. Con questa ottenne i primi incarichi importanti, al servizio di scuole e monasteri. Intraprese anche una fortunata attività di autore di opere d'argomento medico, che lo avrebbero reso celebre in tutta Europa.

Negli anni '30 il suo successo era ormai incontrastato: i provveditori alla sanità lo interpellavano per le autopsie, gli studenti che si laureavano a Venezia lo volevano come promotore, benché egli non avesse mai insegnato dalla cattedra; e la sua clientela si allargava. Nel 1542 i suoi redditi professionali furono stimati a 225 ducati annui, saliti a 460 nel 1552. Nel frattempo, come ha dimostrato l'eccellente studio del Palmer, Niccolò Massa aveva potuto avviare proficui investimenti che ammontarono complessivamente, fino agli anni '60, a oltre 11.000 ducati; con questi denari egli acquistò due case e una novantina di campi nella podesteria di Mestre, assieme a "daie over colte" da riscuotere nel Mestrino; a Venezia comprò due case, un forno e un negozio di frutta; investì anche dei capitali nella Zecca. Poté quindi disporre di crescenti rendite, una parte delle quali era peraltro assorbita dagli obblighi che si era assunto verso i parenti.

Dovette infatti dotare due sorelle e mantenerne in casa una terza, malata. Dopo la morte dell'ultimo fratello e di un cognato, dovette inoltre occuparsi dell'educazione di due nipoti, Apollonio Massa, che divenne medico, e Lorenzo Caresini Massa, destinato ad una brillante carriera di cancelleria. A queste cure si aggiunsero quelle per la propria famiglia illegittima: celibe, Niccolò aveva lungamente convissuto con una Cecilia Raspanti, che gli aveva dato una figlia, Maria: questa andò sposa nel 1548 a un possidente veneziano dopo essere stata riconosciuta dal padre e fornita di una dote di 4.500 ducati (davvero rilevante per la figlia di un professionista) (96).

Questi retroscena familiari condizionarono l'attività professionale del Massa, spronandolo a procurarsi con tutte le sue forze il successo ed una ricca clientela, comprendente personaggi illustri che avrebbero accresciuto il suo credito. Vantare i propri successi terapeutici è dunque per il Massa un preciso dovere: serve ai fini della cura, ispira fiducia al paziente e promuove l'immagine del medico (97). A questi stessi criteri si ispira anche la produzione libraria del Massa, che, se da un lato rivela la sua straordinaria abilità nello sfruttamento delle potenzialità pubblicitarie dell'arte della stampa, al tempo stesso riflette pure le migliori qualità del medico veneziano: la sua vasta esperienza professionale e la varietà dei suoi interessi, che spaziano dal morbo gallico alla peste e fino all'anatomia.

È vero che nelle grandi dispute fra le diverse scuole il suo eclettismo si tradusse talvolta in una disponibilità al facile compromesso, come nella famosa e capziosa distinzione fra "peste" e "febbri pestilenziali", da lui teorizzata (e poi applicata, con esito catastrofico, dal Mercuriale nella peste del 1576) (98). Ottimo era invece, per l'epoca, il suo Liber introductorius anatomiae, eccellente guida pratica basata su una larga esperienza diretta di autopsie. Tuttavia anche questo manuale, pensato soprattutto come una guida pratica per studenti, era destinato ad essere superato, a distanza di soli sette anni, dal capolavoro di Andrea Vesalio, il De humani corporis fabrica. A chi gli proponeva l'imbarazzante paragone col docente dello Studio patavino il Massa rispondeva con una battuta che è anche un efficace autoritratto: "Ego qui plurimis negotiis in visendis aegris detentus, volumina ingentia minime legere possum "; aveva cioè troppo da fare nel visitare gli infermi, per trovare il tempo di leggere grandi volumi (99).

I chirurghi

Il caso del Massa, medico affermato che praticava con successo l'anatomia, è solo uno dei molti esempi che si potrebbero addurre per dimostrare la profonda (e feconda) compenetrazione fra medicina, chirurgia e anatomia tipica dell'area veneta. Infatti, malgrado la notorietà raggiunta nell'Italia del tardo '500 da un trattatista come il Tiraqueau, che aveva collocato la chirurgia (arte "mechanica et illiberalis") molto al di sotto della medicina, nella nostra penisola "la distinzione fra medici e chirurghi fu [...> assai meno profonda e accentuata che in Germania e in Francia" (100). Però nemmeno in Italia la situazione era ovunque la medesima; e le entusiastiche lodi che un visitatore inglese di fine '500, Fynes Moryson, rivolse ai "molti famosi medici che in Italia sono pure chirurghi" (101) si riferivano soprattutto all'Università di Padova, dove - partendo forse dalle valide premesse poste dal Benedetti nell'ultimo scorcio del '400 - le lezioni di anatomia ebbero nel secolo XVI grande successo e furono tenute da maestri come il Vesalio, Realdo Colombo, Gabriele Falloppio, Girolamo Fabrizi d'Acquapendente.

Certamente va sottolineato che a Padova i più insigni anatomisti, dal Vesalio in poi, furono tutti laureati in medicina: la laurea in chirurgia, che prevedeva un curriculum di studi più breve, era considerata meno prestigiosa (102). Era comunque garantita ai medici chirurghi una loro rappresentanza professionale, a Venezia più che a Padova, grazie all'esistenza di un collegio medico-chirurgico distinto da quello dei "fisici". Nel 1547 questo collegio dei chirurghi, sempre meno numeroso di quello medico, comprendeva in tutto 27 elementi, fra cui sono sicuramente identificabili 3 dottori in medicina, 15 dottori in chirurgia e 7 chirurghi non laureati. Questi ultimi avevano dimostrato la propria preparazione ai fini dell'esercizio professionale davanti a una commissione che, secondo una norma emanata nel 1487, doveva essere formata congiuntamente dai priori e dai consiglieri dei due collegi, medico e chirurgico.

Indubbiamente quest'ultima disposizione ribadiva un certo qual diritto di ingerenza e di sovraintendenza dei "fisici" sull'attività dei chirurghi; ed un altro elemento che depone a favore di una incontestabile superiorità dei primi può essere ravvisato nell'irresolutezza dei chirurghi circa l'atteggiamento da assumere nei confronti dei laureati in medicina che praticavano l'arte chirurgica. Se costoro si iscrivevano tra i "fisici", c'era chi deplorava il depauperamento del collegio chirurgico; se invece restavano fra i chirurghi, nascevano dei contrasti causati, si diceva, dall'arrogante superiorità ostentata da questi "fisici" durante le adunanze (103).

Al tempo stesso non si può negare che i chirurghi traessero notevoli vantaggi dal fatto di disporre di una propria rappresentanza e di vedersi riconosciuta una figura professionale nettamente distinta da quella dei barbieri-chirurghi, che venivano autorizzati all'esercizio della loro più modesta attività dopo aver sostenuto davanti al collegio chirurgico un esame vulgari sermone (e non in latino come per i medici chirurghi) (104). Ha dunque un particolare significato, anche sotto il profilo simbolico, la deliberazione dei provveditori alla sanità che nel gennaio del 1546 cercarono di definire in modo inequivocabile, anche sulla base di precedenti decisioni, le condizioni per l'ammissione all'esercizio della chirurgia nella Dominante. In tale occasione si presentarono davanti al magistrato i due collegi dei "fisici" e dei chirurghi, rappresentati dai rispettivi priori, e l'Arte dei barbieri, qui rappresentata dal gastaldo e dai "compagni" (105).

In questa tripartizione dell'attività sanitaria era implicita una gradazione di competenze e di onori: solo i "fisici" avrebbero potuto, in teoria, prescrivere medicine ai pazienti; anche se poi, nella prassi, questa divisione delle competenze fra medici e chirurghi veniva talora trascurata dagli stessi provveditori alla sanità, che pure avrebbero dovuto farla rispettare (106). Invece la distinzione fra medici-chirurghi e barbieri-chirurghi, puntualizzata anche dalla rilevante differenza di retribuzione, si mantenne sempre assai netta non solo a Venezia ma anche nelle province (107).

Pertanto, se si vuole comprendere l'atteggiamento psicologico dei chirurghi nei confronti della loro professione, non si deve guardare solo ai contrasti fra i due collegi, dove - in ossequio ai pregiudizi del tempo - sono quasi sempre i "fisici" ad avere la meglio (108); una riflessione di segno ben diverso può essere suggerita dalle possibilità di ascesa sociale che l'esercizio dell'arte chirurgica comunque apriva ai singoli e alle loro famiglie. Così, se il padre è barbiere, il figlio cercherà, dopo opportuni studi, di farsi iscrivere nel collegio chirurgico (è il passaggio forse più delicato) (109); ma, una volta ottenuta l'ammissione fra i chirurghi, l'ulteriore ascesa sociale sarà molto più facile: fra la fine del '400 e la prima metà del '500 il collegio esprime personalità di buon livello, apprezzate anche nell'ambiente universitario, come il veronese Pietro Mainardi (docente a Padova dal 1518), Angelo Bolognini da Piove di Sacco (priore del collegio nel 1508, poi docente di chirurgia a Bologna) e Francesco Litigato da Lendinara, lettore di chirurgia a Padova nel 1535, ammesso nel collegio chirurgico veneziano nel 1540 (110). Talvolta questi chirurghi più affermati cercavano, se erano ancora giovani, di addottorarsi anche in artibus et medicina, come fece il Massa; oppure spianavano la strada per il dottorato di un fratello minore, di un figlio o di un nipote (111).

Anche Giovanni Andrea dalla Croce, autore dell'opera Della cirurgia (Venezia 1574) faceva parte di una famiglia la cui ascesa sociale era interamente legata all'arte chirurgica. Il padre, Giuseppe, era solo un barbiere chirurgo recentemente immigrato a Venezia; ma già per Giovanni Andrea la Serenissima divenne "la dilettissima patria". Qui era stato accolto fin dal 1532 nel collegio chirurgico; qui era tornato negli anni '40, dopo un decennio trascorso a Feltre, ottenendo poi ripetutamente l'elezione a priore del collegio. Privo del prestigio accademico di un Fabrizi d'Acquapendente, si era tuttavia distinto nella pratica professionale, specie nella cura delle ferite del cranio. Nel trattato Della cirurgia sottolineò l'importanza dell'esperienza diretta: per lui il chirurgo deve essere "ottimo anatomista", deve possedere le necessarie abilità manuali, ma soprattutto deve distinguersi come "inventore di nuovi et accommodati istromenti" (112).

Però il suo rapporto con la medicina universitaria è ambivalente. Da un lato, ironizza sulla presunzione dei giovani laureati in medicina, come il nipote Alvise Bagnolo: "Gran cosa è questa, figliuolo mio, che voi altri giovani non tantosto da Padova ritornati et ivi havete quattro Aphorismi d'Hippocrate et altretante propositioni di Galeno mandate a memoria, che non volete credere a vecchi, li quali con tante fatiche e con tante speranze si sono sforzati di ritrovare la verità delle cose" (113). Ma in fondo lui stesso ha incoraggiato l'amato nipote a laurearsi in medicina.

A ciò lo ha forse indotto la constatazione che con la sola laurea in chirurgia si poteva diventare benestanti, ma non ricchi. Infatti dalla denuncia di decima del 1566 risultano rendite modeste: di suo ha solo un "livello" a frumento, che dà una rendita annua di 16 ducati. Dalla dote della moglie provengono fitti e "livelli", per poco più di 60 ducati annui. Beni dotali sono pure le due abitazioni: quella di Venezia, "un meza' nella corte di Santa Maria Mater Domini [...>, con due camarete, un portegeto, et una cusina che d'ogni tempo fa bisogno tenirvi il lume acceso", e quella di Campo San Piero ("una caseta con un broleto").

Non risultano, essendo tassati a parte, i redditi professionali: all'inizio della sua carriera era stato condotto della comunità di Feltre, con un "salario" di 150 ducati annui netti. Anche ipotizzando che il suo reddito fosse cresciuto con gli anni, non ci troviamo di fronte a un patrimonio paragonabile a quello dei maggiori "fisici ", come il Trincavella o il Massa (114).

I medici ebrei

Avanziamo un'ipotesi: se nel tardo '500 il chirurgo laureato è una peculiarità veneta con limitati riscontri nel resto della penisola; e se altrettanto raro è, al di fuori della Repubblica, il conferimento della laurea in medicina a un ebreo, da dove possono essere usciti quei medici ebrei, uno dei quali "medico e chirurgo", che nel primo '600 esercitavano a Pisa? È possibile che essi provenissero dall'ambiente veneto, e dalle lauree conferite a Padova (115). Infatti il medico ebreo è una presenza essenziale nella medicina veneziana, sia pure in forme che mutano nel corso del secolo XVI.

Tra '400 e primo '500 siamo ancora nella fase più ricca della circolazione mediterranea di ipotesi scientifiche e terapie mediche. In tale contesto la larga diffusione tra gli Ebrei della pratica medica poteva essere considerata come una sorta di naturale vocazione, non solo perché era questa l'unica via ad essi aperta per l'esercizio di una libera professione, ma anche perché la conoscenza, così diffusa nel loro ambiente, del greco e dell'arabo, oltre che naturalmente dell'ebraico e del latino, costituiva una precondizione essenziale per potersi impadronire dei segreti della medicina antica e medievale.

Così fin dal '400 molti Ebrei si recarono all'Università di Padova per ottenervi il riconoscimento dei propri studi e l'autorizzazione, col titolo di "magister", all'esercizio della professione (116). Ma gli Ebrei portarono alla medicina veneta anche un loro apporto altamente originale. Spesso infatti ci troviamo di fronte, come ha osservato Achille Olivieri, ad un particolare tipo di medico (indicato dalle fonti come "ricercatore di ingegni") che si fa promotore di una cultura medica basata sull'esperienza ed è pronto a misurarsi con le più moderne questioni urbanistiche, come "il problema della funzionalità della casa, il problema della prevenzione contro la peste, la ricerca di una salubrità nell'accezione ermetica e neoplatonica del termine, ma anche nel senso più direttamente sperimentale", pur se talora circonfuso da un alone magico (117).

Certo, anche a Venezia l'inserimento degli Ebrei nella professione medica non si realizza senza difficoltà. Anch'essi debbono sottostare, in linea di principio, alle condizioni fissate nel 1516 per il soggiorno a Venezia degli Ebrei: residenza nel Ghetto ed obbligo di portare la berretta gialla. E si pensi alle diffidenze e ai sospetti derivanti da disposizioni come quella che, fin dal '200, ordinava a tutti i medici di imporre ai malati gravi, dopo qualche giorno di cura, la chiamata del confessore (118).

Grande importanza rivestono, in questo contesto, quelle autorevoli figure di patrizi e di ecclesiastici che si circondano di dotti medici ebrei e ne assumono la protezione: così il cardinale Domenico Grimani ebbe come medico e maestro d'ebraico Abraham de Balmes († 1523). Andrea Gritti si circondò egli pure di medici ebrei, sia all'epoca della difesa di Padova (1509-1513), sia favorendone la venuta a Venezia durante il suo dogato. Nel 1529 soggiornò sulla laguna il medico Simon Jacob, personaggio polivalente, mercante ed esperto di gioie, che si interessava anche al problema del rifornimento idrico delle città. Al Gritti fu dedicata nel 1532 un'opera di Jacob Mantino, medico e rabbino, che aveva studiato a Padova e a Bologna ed aveva soggiornato a Venezia nel 1528, con il privilegio di "portar la bareta negra per doi mesi, habitando perhò in geto, come stano li altri hebrei". Il Mantino sarebbe poi morto in Siria, nel 1549, come medico del consolato veneziano di Damasco. Ma prima era stato per qualche tempo archiatra di papa Paolo III (119).

Invece verso la metà del '500 si rinnovarono le persecuzioni dell'Inquisizione contro la cultura e i libri ebraici, a cominciare dal Talmud. A quest'epoca appartiene la notevole figura di Lazzaro "de Frigeis". Figlio di un medico ebreo residente a Padova, di famiglia relativamente benestante, Lazzaro collaborò col grande Andrea Vesalio, aiutandolo sia nella lettura di Avicenna, sia nello studio della nomenclatura ebraica delle ossa, meritandosi così un'onorevole menzione nel De humani corporis fabrica. Nulla si sapeva delle sue successive vicende; ma di recente egli è stato identificato con il medico ebreo Eliezer Rofé, che nel 1545 entrò nel Ghetto di Venezia, per uscirne dopo qualche anno e convertirsi al cattolicesimo, con il nome di Giovan Battista de' Freschi Olivi. Con zelo di neofita si sarebbe violentemente battuto nel 1553 per la proibizione del Talmud, considerato come opera anticristiana; ed avrebbe provocato con la sua intransigenza gravi tensioni spirituali in seno alla sua stessa famiglia (120).

Dopo la sua conversione, l'Olivi poté solennemente addottorarsi presso il sacro collegio dei medici e dei filosofi il 21 maggio 1551. In precedenza è probabile che egli avesse dovuto accontentarsi, come tutti i suoi correligionari, di una soluzione di ripiego consistente nel conferimento della laurea, senza solennità, da parte dei conti palatini. Con questo accorgimento, e con qualche ulteriore accomodamento nel '600, quando ai "conti palatini" fu sostituito il "presidente" del "collegio degli artisti", l'Università di Padova poté continuare a laureare gli Ebrei in piena età della Controriforma (la medesima soluzione vigeva anche per i protestanti, in quanto evitava lo scoglio della professione di fede) (121).

E certo non va sottovalutata l'importanza che ebbe per la continuità degli studi medici fra gli Ebrei questa possibilità offerta dallo Studio padovano: tra il 1517 e il 1721 gli Ebrei laureati, non tutti veneti ma anzi provenienti da varie parti d'Europa, furono 250. A questi vanno aggiunti coloro che studiarono senza laurearsi. Cifre certo significative: si tratta però di una sorta di influsso della scienza occidentale sulla cultura ebraica, e non più di una libera circolazione culturale come quella che si era avuta fino al primo '500 (122).

Avvocati ordinari e avvocati straordinari

La dottrina giuridica del secolo XVI si occupò ripetutamente dell'esercizio dell'arte medica da parte degli Ebrei, giungendo a conclusioni non sempre negative, specie quando il conferimento della laurea fosse stato preceduto dalla dispensa papale (123). I medesimi giuristi si preoccuparono però di ribadire come agli Ebrei fosse assolutamente interdetta la laurea in diritto: una precisazione quasi inutile sotto il profilo pratico, come ben osserva Vittore Colorni, data "l'estraneità spirituale degli Ebrei di fronte al sistema giuridico romano-canonico, impregnato di religiosità cattolica, e oltremodo distante dal diritto talmudico-rabbinico loro proprio" (124). Più importante doveva però apparire agli occhi dei giuristi la riaffermazione solenne del principio, già accolto dal diritto giustinianeo e ribadito da Bartolo di Sassoferrato, secondo cui "nullus potest esse advocatus qui non est Christianus [...> Judeus vel non catholicus non potest esse advocatus, et judex eum admittens punitur". L'avvocato, insomma, era insignito di una dignitas, che sarebbe stato inconcepibile vedere riconosciuta a un non cattolico (125). È infatti evidente che l'amministrazione della giustizia era percepita all'interno di una dimensione quasi sacrale, intimamente connessa con l'esercizio del potere; e se il giudice esercitava un fondamentale attributo della sovranità, anche l'avvocato o il giurisperito partecipava in qualche misura a tale funzione. A Venezia, poi, quest'aspetto fondamentalmente politico dell'amministrazione della giustizia si poteva cogliere in modo più diretto, senza che avesse luogo quell'intermediazione affidata altrove ai giuristi. Affatto peculiari erano infatti gli ordinamenti giudiziari della Repubblica, il diritto che vi veniva amministrato ed il ruolo svolto dagli avvocati (126).

Fin dal '200 i giudici veneziani ebbero ingresso nel maggior consiglio (127); dopo la "Serrata" l'elettorato attivo e passivo fu riservato ai membri dell'aristocrazia, ed anche i giudici furono periodicamente scelti e rinnovati dal maggior consiglio, alla stregua di qualunque altro ufficio o magistratura, senza poter rimanere a lungo in carica e senza che nella elezione si avesse particolare riguardo alla competenza professionale del prescelto: bastava che questi avesse raggiunto l'età prescritta, che per i giudici delle quarantie era di trent'anni (128).

Le magistrature, osservò intorno alla metà del '500 un letterato inglese, William Thomas, erano tutte collegiali e talvolta assai numerose: perciò al momento di pronunciare il giudizio ci si limitava a contare i voti dei giudici, "for in every office there be dyvers judges, and that parte that hath most ballottes prevaileth ever: be it in mattier of debt, of title of land, upon life and death, or otherwise" (129). Naturalmente queste sentenze non furono mai motivate (130). Il Thomas soggiunge che le decisioni delle corti veneziane erano determinate, in ultima analisi, dalla coscienza dei giudici.

In realtà, nel rendere giustizia nelle cause civili i magistrati veneziani avevano davanti a sé gli Statuti del doge Iacopo Tiepolo risalenti alla prima metà del '200, con le integrazioni volute nel secolo seguente dal doge Andrea Dandolo. Ma è pur vero che di fronte a una carenza degli Statuti, davanti a una lacuna non colmabile né per via di analogia, né con il ricorso a consuetudini approvate, essi avrebbero dovuto giudicare "sicut iustum et aequum eorum providentiae apparebit": così nella gerarchia delle fonti non trovava posto il diritto comune (o imperiale), mentre vi campeggiava l'arbitrium del giudice (131).

Sono intuitivamente evidenti le ragioni di carattere interno ed internazionale che poterono giustificare una simile scelta: da un lato, la necessità di proclamare con forza la propria autonomia, la exemptio ab Imperio (132); dall'altro, la volontà di disporre del diritto come duttile strumento di governo, da porre interamente al servizio di quell'aristocrazia di mercanti che da sola governava la Repubblica e che aveva dunque ottimi motivi per temere sia le lungaggini avvocatesche nocive al libero sviluppo dei commerci, sia anche la relativa autonomia di un corpo di giuristi di professione depositario dell'interpretazione del diritto comune.

Questa diffidenza non cessò di manifestarsi nemmeno dopo la conquista di Padova del 1405, che sottopose alla sovranità veneziana quel prestigioso Studio dove si insegnava il diritto romano; e difatti nel 1448-1449, durante lo svolgimento di una causa dai complessi risvolti canonistici, l'antico e autorevole tribunale veneziano della curia di petizion si vide ripetutamente negare l'autorizzazione a rivolgersi per un parere alla rota romana o ai dottori di Padova: nel respingere entrambe le richieste, la Signoria ordinò ai giudici di decidere la causa secondo gli statuti e le leggi della Repubblica; se proprio avessero voluto consultare degli esperti, li avrebbero dovuti cercare a Venezia, e comunque sempre fra i "cives Venetiarum" (133). Veniva così sostanzialmente escluso il ricorso a una prassi molto diffusa nei territori in cui vigeva il diritto comune, dove era consentito ai giudici e ai podestà, spesso digiuni di diritto, il ricorso al parere vincolante di un giurisperito (il cosiddetto "consiglio di savio"): consuetudine che alla Signoria era apparsa incompatibile con il rispetto degli "statuta, leges et ordines Venetiarum". Né d'altra parte si poteva tollerare che le leggi veneziane fossero sottoposte a un'interpretazione dei giuristi tale da snaturarne il significato: perciò fin dal 1401 il maggior consiglio aveva impartito agli avogadori di comun l'ordine di cassare "omnes pustillas" dal libro degli Statuti (134).

In realtà non sfuggiva al ceto dirigente veneziano l'opportunità e la convenienza di allontanarsi in molti casi dalla lettera degli Statuti; ma questo compito non doveva essere affidato ai giuristi di professione, bensì all'attività legislativa dei consigli, le cui "parti" potevano configurarsi come un'interpretazione autentica degli Statuti, anche quando ne stravolgevano il senso. Sul piano ideologico quest'operazione era stata pienamente giustificata da un consultore della Repubblica, Riccardo Malombra († 1334), secondo il quale "quicquid fit pro conservatione status reipublice potentius est et preferendum omni statuto reipublice ", giacché in ultima analisi gli stessi Statuti, che avevano come fine il bene della Repubblica, dovevano essere subordinati a tale supremo interesse. C'è il sospetto che, nonostante tutto, il Malombra volesse ancora affidare tale compito di interpretazione e di mediazione alla scienza giuridica di cui egli era portatore; ma a Venezia i rapporti di forze erano tali che, inevitabilmente, fu il patriziato ad applicare direttamente a sé ed alla propria azione politica e giudiziaria le argomentazioni addotte dal consultore (135).

In questo clima storico, che è poi quello dell'epoca successiva alla Serrata (136), anche il ruolo affidato all'avvocato fu concepito come quello di un ufficiale della Repubblica, eletto con modalità analoghe a quelle dei giudici, assieme ai quali formava parte integrante delle varie curie di Palazzo, e dei quali spesso finiva con l'occupare il posto in seguito a una successiva elezione: sicché nel 1328 si rese necessaria una deliberazione tesa a vietare che alcuno potesse fungere prima da avvocato e poi da giudice nel corso d'una medesima causa; norma che fu poi ulteriormente precisata imponendo un intervallo minimo di un anno fra la cessazione dalle funzioni di avvocato e l'elezione a giudice della stessa curia (137).

Da questi avvocati patrizi "electi", così come dal "sapiens" eccezionalmente assegnato come avvocato a una parte per deliberazione della Signoria, ci si attendeva che operassero "recte et legaliter" e che non cercassero di dilazionare inutilmente le cause (138). Questa visione dell'avvocatura, che in astratto può apparire bellissima, non era però neutrale, né ispirata a disinteressato amore per la giustizia; essa privilegiava gli interessi del governo e configurava l'avvocato - secondo la giusta osservazione del Cassandro - come un magistrato, impegnato a dilucidare la causa in cooperazione col giudice e assai meno preoccupato di far prevalere la parte da lui rappresentata mediante l'impiego di tutti gli strumenti procedurali e delle sottigliezze legali (139). Come spontanea reazione, si manifestò una certa diffidenza dei clienti verso un avvocato che non li rappresentava abbastanza. Ecco dunque emergere, già sul finire del '200, la figura, che si è prima menzionata, dell'avvocato "datus", cioè eccezionalmente assegnato a una delle parti dal doge e dai consiglieri, anziché scelto fra gli avvocati eletti; mentre a tutti era poi consentito di farsi rappresentare e difendere in giudizio dai più stretti parenti: una concessione della quale si diede spesso un'interpretazione estensiva (140).

L'evoluzione dell'avvocatura non fu però lineare: non si passò cioè direttamente da un monopolio patrizio a una sorta di sistema misto; un'importante tappa intermedia fu costituita, fra '300 e '400, da una profonda trasformazione dell'avvocatura patrizia, che solo in questa forma rinnovata poté bene o male sopravvivere fino al '700 (141). Infatti, mentre era destinata a durare a lungo negli ambienti governativi l'illusione di poter conservare all'avvocatura il suo carattere di carica elettiva, era apparso ben presto irrazionale e obsoleto il criterio che aveva portato ad assegnare a ciascuna delle curie di Palazzo i propri avvocati, facenti organicamente parte della curia stessa: il risultato fu che questi avvocati speciali delle curie, detti anche "advocati parvi", persero il loro ruolo e la loro importanza e furono progressivamente sostituiti dagli "advocati per omnes curias", gli stessi che verso la fine del '400 sarebbero poi stati indicati come "avvocati per le Corte" o "avvocati ordinari".

Ricordati dalle leggi fin dal secolo XIV (142), questi avvocati, anch'essi patrizi, anch'essi elettivi, erano stati in origine dei semplici avvocati supplenti, chiamati di volta in volta ora in questa, ora in quella curia: le loro funzioni erano dunque in qualche modo parallele a quelle di un'altra tipica istituzione veneziana, i "zudesi per le Corte", o giudici sostituti. Mentre però questi giudici caddero nel '400 nel più completo discredito e nel '500 non furono più rieletti (143), gli avvocati supplenti finirono col prevalere su quelli delle singole curie e ne presero il posto: probabilmente li raccomandava ai potenziali clienti la loro più larga e varia esperienza del Palazzo ed anche il fatto di non essere troppo strettamente collegati ai giudici di una data curia.

La testimonianza di Marin Sanudo, risalente al 1493, descrive sia gli "ordinari", sia gli "advocati parvi". Quest'ultima istituzione è ormai drammaticamente decaduta: i venti "avocati pizoli", eletti annualmente dal maggior consiglio, sono solitamente giovani di vent'anni che, anziché esercitare l'avvocatura nell'ambito della propria curia, si accontentano del privilegio loro accordato di entrare nel maggior consiglio prima del compimento del venticinquesimo anno. Marin Sanudo, da giovane, si era comportato diversamente: eletto avvocato della curia di petizione, si era seriamente esercitato nell'incarico, "unde non passò un anno che fui fatto avocato per le Corte". È comunque evidente che anche per lui il passaggio fra gli "ordinari" rappresentò una sorta di promozione (144).

In effetti nel corso del '400 il numero degli avvocati "ordinari" era progressivamente cresciuto, soprattutto in considerazione dell'importanza attribuita dal governo alla loro funzione: nel 1466 furono portati da sei a dieci; a partire dal 1474 furono ben sedici, che diventarono venti nel primo '500. Erano detti anche avvocati "di San Marco" per distinguerli da quelli di Rialto, eletti in numero di due nel 1463 e successivamente portati a quattro, che esercitavano le loro funzioni presso i consoli dei mercanti e i sopraconsoli (145).

Questa costante crescita numerica non basta però a rassicurarci circa la vitalità dell'istituto: infatti l'avvocatura magistraturale subiva già la concorrenza, extralegale ma praticamente insopprimibile, dei veri professionisti che cominciavano ad affermarsi (col nome di avvocati "straordinari") nel foro veneziano; e già nelle deliberazioni del maggior consiglio del 1466 e del 1474 l'aumento degli avvocati "ordinari" era stato dichiaratamente concepito come una reazione alla disordinata crescita della mala pianta degli "straordinari". Ma gli "ordinari" faticavano a reggere questa concorrenza soprattutto perché, pur essendo superiori per età e preparazione agli avvocati delle singole curie, non erano neppure loro dei veri professionisti: non solo conservavano l'ibrido carattere dell'avvocatura elettiva, ma fino a una legge del 1505 (146) dovettero rispettare, tra un'elezione e l'altra, periodi più o meno lunghi di "contumacia". Era questo un tipico istituto comunale, che vietava l'immediata rielezione alle cariche: nel caso specifico, tale disposizione avrebbe dovuto conseguire il duplice obiettivo di allargare la cerchia dei patrizi forniti di preparazione legale e di consentire una più ampia partecipazione ai proventi dell'avvocatura (147), la norma aveva però un effetto perverso, ben illustrato da una successiva deliberazione del 1480, che cercava di limitarne i danni: "li Avocati nostri facti per el Gran Conseio [...> quando hanno impresa alcuna cosa, et che facti sono sufficienti finisseno al suo officio" (148).

Malgrado questi segnali di crisi, ancora sul finire del '400 Marin Sanudo si mostrava fiducioso circa la vitalità della carica: "Questi avocano per il Pallazzo a San Marco et alli Consegii, vadagnano quanto vogliono essendo esperti, et pratichi in Pallazzo" (149). E tuttavia lo stesso diarista, ritornando su questo giudizio nel 1515, lo rettificò vistosamente: ormai, fatte salve rare eccezioni, gli avvocati "ordinari" si erano ridotti a vivacchiare, accontentandosi di sfruttare il privilegio legale derivante dalla norma che rendeva obbligatoria la loro presenza per la validità delle cause. Ciò consentiva a questi patrizi di riscuotere i "carati", cioè una retribuzione pagata dalle parti in proporzione al valore delle cause trattate, anche se poi, in realtà, gli avvocati "ordinari" si limitavano ad introdurre formalmente le cause, la cui discussione era successivamente affidata agli "straordinari", entro le cui file oramai si reclutavano gli avvocati più celebri e meglio retribuiti (150).

In effetti, quantunque le origini degli avvocati "straordinari" risalgano fino al '200-'300 e la loro definitiva legalizzazione sia avvenuta appena nel 1537, la fase cruciale della loro lotta per una piena affermazione si svolse proprio nel secolo XV. Fu allora che nel foro veneziano si sviluppò una vivace dialettica fra le esigenze del ceto dirigente, che ancora diffidava dei giuristi di professione, ed una società che invece avvertiva sempre più intensamente il bisogno di siffatti professionisti (151).

Certamente non fu mai messo in discussione il monopolio del patriziato sull'esercizio del potere politico; tuttavia la posta in gioco era pur sempre molto alta. Infatti la tacita tolleranza dei giudici nei confronti dell'avvocatura straordinaria, dato di fatto ripetutamente segnalato e deprecato dalle "parti" del maggior consiglio, metteva in pericolo gli interessi economici di decine di famiglie patrizie, che anche dall'esercizio privilegiato dell'avvocatura, oltre che dalla pratica della mercatura, traevano i proventi necessari per rinsanguare le loro pericolanti finanze (152). Inoltre, la presenza di questi professionisti determinava nello svolgimento dei processi un mutamento di clima e di mentalità, di cui ancora una volta le leggi ci segnalano gli aspetti deteriori: alcuni avvocati "straordinari" si facevano pagare onorari esorbitanti; in compenso, si sentivano particolarmente coinvolti nella difesa della parte da loro rappresentata, ricorrevano sovente a tattiche dilatorie ed inveivano in modi giudicati scandalosi contro la parte avversa (153).

Dal punto di vista del patriziato, tuttavia, il rischio maggiore era legato, più che a queste intemperanze, all'eventualità della progressiva affermazione di un corpo di avvocati professionisti composto prevalentemente da dottori in legge, che avrebbero forse potuto imporsi agli stessi magistrati inesperti di diritto, suggestionandoli con le loro dottrine di ispirazione romanistica fino al punto di introdurre nella giurisprudenza veneziana principii ad essa estranei o ripugnanti (154). E, d'altra parte, non era possibile prescindere totalmente né dal diritto comune, né dalla collaborazione dei dottori, ora che i problemi della giustizia veneziana si erano intrecciati con le delicate questioni politico-giuridiche sollevate dalla "dedizione" delle città della Terraferma: occorreva infatti armonizzare il sistema giudiziario della Dominante con quello delle città conquistate, dove i giudici erano soliti applicare gli statuti e le consuetudini locali, integrandoli ove necessario con il ricorso al diritto comune.

Come prima conseguenza della "dedizione", i patrizi veneziani inviati a governare come podestà le maggiori città di Terraferma dovettero dunque essere accompagnati e assistiti da vicari e assessori, che erano generalmente originarii del Dominio, o più raramente cittadini veneziani, ma comunque sempre addottorati in diritto (155). In questa maniera anche per i giuristi di professione si aprì una carriera interessante all'interno dell'amministrazione dello Stato veneziano: tra '400 e '500 si segnalarono fra essi uomini di valore, come Paolo Ramusio che, originario di Rimini, fissò stabilmente la sua residenza a Venezia (dandovi origine a un'illustre famiglia di "cittadini"), studiò a Padova fra il 1471 e il 1481 e fu poi assessore con vari rettori a Padova, Verona, Udine, Treviso e Bergamo. Altri assessori illustri del primo '500 furono gli udinesi Gregorio Amaseo e Giacomo Florio, i quali del resto seguivano le orme dei loro predecessori Cittadino della Frattina e Francesco Manini, impiegatisi al servizio di vari podestà nella seconda metà del '400. Ma la parte del leone toccò probabilmente ai dottori di Padova, se è vero che tra il 1486 e il 1509 furono padovani un quarto di tutti gli assessori che accompagnarono i rettori veneti in Terraferma (156).

Non bastava tuttavia che i giudici di prima istanza tenessero nel debito conto il diritto comune: infatti le cause civili potevano essere portate in appello a Venezia, davanti alla magistratura degli auditori novi (157). Ed anche qui dovette ben presto affermarsi il principio, poi esplicitamente teorizzato in un trattato di Francesco Sansovino alla metà del '500, secondo cui "chi serve alle corti [di San Marco e Rialto> non importa molto se non ha le leggi imperiali alle mani. Ma chi serve agli Auditori nuovi e nuovissimi ne debbe aver cognizione: conciossiaché in quei luoghi si trattino le cause di fuori, le quali sono ordinate secondo l'istituzione delle leggi cesaree" (158). Però nella Venezia del primo '400 gli avvocati pratici del diritto comune dovevano essere ancora relativamente poco numerosi; e non si poté dunque negare ai sudditi di Terraferma il diritto di avvalersi per i loro appelli di "doctores et advocati forenses". Alcuni avvocati forestieri (nel senso di non veneziani) cominciarono dunque a esercitare la professione nei tribunali veneziani, venendo così a costituire una componente assai significativa di quel gruppo di pratici del diritto, di cui le leggi non riuscivano in alcun modo a impedire la crescita. Nel 1438 fu bensì vietato a quanti non fossero avvocati "ordinari" di perorare davanti alle quarantie, al senato o alle curie di Palazzo; ma si dovette ammettere un'importante eccezione: l'intervento degli avvocati forestieri poteva infatti essere tollerato, se essi difendevano gli interessi di "forenses, qui non habitant in civitate nostra Venetiarum". A questo punto, però, sorse nel legislatore il timore di lasciare in condizioni di grave svantaggio i cittadini veneziani che avessero avuto una causa con sudditi della Terraferma; e dunque anche i Veneziani furono autorizzati, in tale caso, a servirsi di avvocati forestieri: non era certo una prova di fiducia nei confronti degli avvocati "ordinari", di cui pure si facevano salvi gli emolumenti (159).

Sottoposta alla pressione di contrastanti interessi, la legislazione veneziana sull'avvocatura non ebbe nella seconda metà del '400 uno sviluppo coerente: nel giro di pochi mesi, tra il 1465 e il 1466, il maggior consiglio passò da una posizione di relativa apertura nei confronti degli avvocati professionisti ad una rigida riaffermazione dei diritti degli "ordinari" con conseguente annullamento di tutte le "grazie di parlare" precedentemente concesse in deroga alle leggi. E tuttavia anche questa scelta per così dire reazionaria dovette risparmiare i caposaldi fondamentali attorno ai quali si attestava la presenza a Venezia degli avvocati "forenses": infatti la deliberazione del 1466, reiterata nel 1474, non toccò il loro diritto di perorare davanti agli auditori novi per le cause "de fuora". Furono inoltre autorizzati a parlare in favore di chiunque, veneziano o forestiero, davanti a tutti i consigli e collegi, che erano poi i più importanti tribunali di ultima istanza (160). A questo punto, l'avvocato "forensis" poteva rappresentare a Venezia, in tutte le sedi competenti, gli interessi non solo dei singoli, ma anche delle comunità di Terraferma, fondendo dunque la professione d'avvocato con quella di "nunzio" e "oratore" (161). Pare inoltre che non vi fosse alcuna preclusione per l'esercizio dell'avvocatura nelle cause criminali.

Qual era dunque l'ambito che i patrizi del maggior consiglio, dopo aver ripetuto le solite invettive contro gli avvocati "extraordinari" (così chiamati a partire dal 1474) (162), cercavano disperatamente di riservare agli "ordinari"? Erano, come chiariscono alcuni decreti e deliberazioni, le "corti ordinarie" di San Marco e di Rialto (163). Ma anche queste limitazioni non erano affatto chiare e definitive: infatti fin dal 1463 lo stesso maggior consiglio aveva disposto che tutti gli avvocati, "tam forenses quam terrestres", dovessero pagare la "tansa", in proporzione al reddito stimato della loro attività professionale (164). Era forse un tacito riconoscimento, una legittimazione di fatto della presenza degli "straordinari" anche nelle corti ordinarie? No, rispose nel 1472 la Signoria (165). Ma già l'anno seguente un'ambigua deliberazione del senato pareva fatta apposta per riaprire la disputa (166).

E fu proprio il senato a comporre il dissidio tra le forme tradizionali e la nuova realtà dell'avvocatura veneziana. Tutto prese l'avvio dall'ennesimo tentativo di contenere le parcelle degli avvocati, sulla base di tariffe deliberate dai pregadi il 22 settembre 1489. In un primo tempo il provvedimento mancò il suo scopo perché i "saluberrimi ordines" furono sabotati da un vero e proprio sciopero degli avvocati professionisti. Allora il senato si convinse che la regolazione delle tariffe sarebbe dovuta rientrare in una più ampia regolamentazione della professione legale, ed ordinò che quanti già esercitavano di fatto l'avvocatura a Venezia dovessero entro otto giorni farsi registrare nella cancelleria ducale, sottoscrivendo una dichiarazione di accettazione del tariffario, ora leggermente ritoccato in favore degli avvocati. Non veniva invece rimossa la pregiudiziale contro l'impiego di avvocati "straordinari" presso le corti ordinarie di San Marco (167).

Pur con questi limiti, la deliberazione del senato rappresentava un passo decisivo verso il pieno riconoscimento del ruolo degli "straordinari". Tra il 17 e il 28 ottobre si presentarono alla cancelleria ben 78 avvocati, fra i quali si distinguevano per la loro dignità sociale 4 "nobiles", cioè patrizi veneziani, e 23 "doctores ". Ma dal registro risultano anche altri dati interessanti: oltre ai 4 patrizi, vi erano 2 figli naturali di nobili; tra i laureati, 3 erano i cittadini veneziani. C'erano poi altri 20 cittadini fra gli avvocati privi di titoli accademici: in totale, dunque, i "Veneti" erano 29. Fra i 49 "forenses", 20 dei quali insigniti del dottorato, c'era una netta maggioranza di sudditi veneti di Terraferma; ma c'era anche un avvocato di Arbe in Dalmazia, ed un Vergerio presumibilmente capodistriano (168).

C'era davvero posto a Venezia per un centinaio di avvocati fra "ordinari" e "straordinari"? Probabilmente no. Fra coloro che si erano registrati nel 1489 o erano arrivati alla professione legale negli anni immediatamente successivi, solamente pochi potevano aspirare a discutere le cause più importanti davanti alle quarantie: ricordiamo fra questi soprattutto Venerio da Faenza e il forlivese Enrico Antonio de Godis, oltre ai veneti Marino Querini e Daniele Zucuol (169). Altri, come il veneziano Alvise Brocheta ricordato dal Sanudo (170), dovevano invece accontentarsi di una mediocre carriera, destinata a concludersi in povertà. A molti si sarebbe persino potuto contestare il titolo di avvocati: erano piuttosto faccendieri o "sollecitatori", che collaboravano coi veri avvocati sbrigando le pratiche di cancelleria e raccogliendo notizie sulle cause; qualche volta però potevano sostituire gli avvocati presso le magistrature minori (171). Solo nel tardo '500 questi "sollecitatori" avrebbero avuto un esplicito riconoscimento legale ed un proprio registro: per ora intasavano quello degli avvocati. Fu anche questa, probabilmente, una delle ragioni che indussero il senato a intervenire nuovamente nel 1497, questa volta con l'obiettivo di scremare l'elenco degli "straordinari". Il compito fu affidato a un apposito collegio formato di avogadori, auditori vecchi e novi e giudici delle quarantie, che avrebbero dovuto comminare la pena della sospensione quinquennale dalla professione a quegli avvocati "straordinari" che l'avessero meritata "per i mali portamenti e condizion loro" (172).

Anche altre disposizioni emanate nella seconda metà del '400 tesero a dare dignità e certezza di regole alla professione dell'avvocato: furono vietate le invettive troppo violente; fu proibito di consumare il pasto a Palazzo o addirittura nei consigli; la durata delle arringhe fu limitata a un'ora e mezzo (misurata con la clessidra, come ancora poté vedere il Goethe); e soprattutto furono stabiliti criteri certi in base ai quali i litiganti avrebbero potuto scegliere, alternativamente, i propri avvocati, fino a un massimo di tre per parte (173).

La riforma del 1489 non costituiva però un risultato definitivamente acquisito. Infatti nel 1505 il maggior consiglio cercò di rivitalizzare il ruolo degli avvocati "ordinari" accrescendo il loro numero da sedici a venti e ribadendo le tradizionali limitazioni all'impiego degli "straordinari" (174), E fu proprio sulla base di questa legge e delle sue teoriche prescrizioni che un avogadore di comun elevò nel 1517 una ferma protesta per l'involuzione subita dall'avvocatura magistraturale, di cui tentò per l'ultima volta di rialzare le sorti.

Già in virtù della loro carica gli avogadori erano chiamati a vigilare sull'integrale osservanza delle leggi; ma anche altre più specifiche circostanze dovevano ulteriormente sollecitarli a contrastare ogni modifica della costituzione veneziana che potesse ledere le tradizioni plurisecolari e le prerogative legali dell'aristocrazia. Infatti l'avogaria di comun, pur essendo compresa nel novero delle magistrature più antiche e autorevoli, aveva visto declinare il proprio prestigio a causa del progressivo ampliamento delle competenze giudiziarie del consiglio dei dieci, la cui ascesa rispondeva a una logica tendenzialmente oligarchica (175).

Il più noto fra gli oppositori di tale indirizzo politico-istituzionale era certamente Luca Tron, che però nel corso di roventi polemiche sul ruolo dell'avogaria di comun svoltesi in senato nel 1518 fu energicamente spalleggiato da Giovanni Dolfin, un avogadore che non esitava ad opporsi, se necessario, allo stesso doge (176). È dunque in questa prospettiva che va vista anche una precedente iniziativa del Dolfin, tesa ad imporre il rispetto di quelle antiche leggi riguardanti l'avvocatura, sulla cui tacita abrogazione parevano invece concordare tutte le parti più direttamente interessate: clienti, avvocati e giudici.

La "crida" emessa nel novembre del 1517 dall'avogadore Dolfin faceva obbligo ai giudici delle corti ordinarie di ammettere in giudizio solo avvocati "ordinari", minacciando in caso contrario pesanti sanzioni pecuniarie. Ma subito i giudici delle corti di San Marco ricorsero al collegio, chiedendo la concessione di una proroga che consentisse lo smaltimento delle cause già iniziate. Infatti l'attività giudiziaria si era bloccata per il fermo rifiuto opposto dai clienti di fronte all'invito a "lassar i loro avocati vechi et tuor avocati ordinari zoveni e inesperti di cose judizial". Il Dolfin concesse una dilazione fino a Natale e tentò di trarre vantaggio da questa sospensione per pubblicizzare in modo adeguato l'imminente elezione di avvocati ordinari da parte del maggior consiglio: era infatti indispensabile per la riuscita del suo progetto la sostituzione degli avvocati professionisti con nobili dotati di talento e ben decisi ad esercitare effettivamente la carica, una volta eletti (177).

Ma su quali risorse umane poteva realmente fare affidamento il Dolfin nell'ambito del ceto dirigente veneziano? Ormai i patrizi seriamente intenzionati ad abbracciare la carriera forense preferivano non dover più sottostare ai rischi della periodica rielezione in maggior consiglio e quindi optavano per l'avvocatura straordinaria (178). Mancando il loro appoggio, potevano rispondere all'appello dell'avogadore solo i nobili più "zoveni e inesperti", oppure quelli che si trovavano in condizioni finanziarie particolarmente precarie: soggetti poco raccomandabili, che potevano vedere nella elezione a "ordinario" un semplice espediente per cercare di liberarsi dai debiti. Ma la maggior parte di costoro era debitrice anche nei confronti dello Stato per tasse non pagate: avevano quindi bisogno di una particolare autorizzazione del maggior consiglio per poter concorrere all'elezione. Nel tentativo di conseguire il loro intento essi provocarono il rinvio della votazione, screditando così ulteriormente l'iniziativa (179).

Di proroga in proroga, si arrivò a uno scontro decisivo nel febbraio del 1518: l'avogadore, ormai completamente isolato, "parlò longamente, dicendo voleva exeguir la leze qual havea zurato di observar, e lui non poteva suspenderla". Dopo un ultimo tentativo di persuasione operato dal doge, cui il Dolfin rispose "durissimo", si giunse alla decisione informale della Signoria di invitare i tribunali a trascurare il comando dell'avogaria e ad ammettere senz'altro gli avvocati straordinari (180). Al nuovo riconoscimento di fatto seguì ben presto anche una più regolare tassazione (181).

I tempi erano ormai maturi per una compiuta regolamentazione dell'avvocatura. Ma, una volta tramontato l'anacronistico sogno di restaurazione avogaresca, il problema dell'avvocatura finì coll'essere inglobato nell'ambito di una più vasta discussione sul ruolo dei giuristi e sul problema dell'interpretazione e dell'aggiornamento degli Statuti. Infatti, con l'elezione dell'ancor vigoroso doge Andrea Gritti, avvenuta nel 1523, subentrò negli affari pubblici un rinnovato spirito di umanistica fiducia nella capacità dei governanti e dei sapienti di riplasmare le istituzioni (182). Applicata alla risoluzione dei problemi della giustizia, questa filosofia politica rappresentava una sorta di rovesciamento delle posizioni sostenute dall'avogadore Dolfin: gli uomini di legge che avevano studiato a Padova o a Bologna, e che erano portatori della "scientia iuris", non sarebbero più stati sospinti ai margini del sistema giudiziario veneziano, ma anzi sarebbero stati chiamati a collaborare al riordino della legislazione, mediante la redazione di un nuovo libro degli Statuti. L'opera dei giuristi avrebbe finito coll'imprimere alle nuove leggi un'impronta romanistica, sostanzialmente estranea alla tradizione veneziana. Anche la cancelleria ducale avrebbe dovuto adeguarsi a questo nuovo clima, curando la formazione giuridica dei giovani segretari mediante un loro distaccamento presso lo Studio di Padova; la stessa importantissima carica di cancellier grande avrebbe potuto essere affidata, nelle intenzioni del doge Gritti, a un dottore di legge originario della Terraferma (183).

Solo una piccola parte di questi progetti fu concretamente realizzata. Infatti, rispetto al comune sentire del patriziato, queste novità si presentavano come troppo avanzate e troppo radicali. In particolare, la riforma del diritto veneto avviata con l'elezione di tre revisori finì progressivamente con l'arenarsi di fronte all'emergere di perplessità e resistenze, restando alla fine incompiuta (184).

In conseguenza di ciò, mutò l'iter del progetto di riforma dell'avvocatura, che era stato in un primo tempo elaborato dai revisori, ma fu poi presentato al maggior consiglio dai consiglieri ducali e dai capi della quarantia criminale, ottenendo l'approvazione dell'assemblea sovrana il 29 aprile 1537. Con l'emanazione di queste norme la Signoria compì una scelta prudente ed equilibrata, evitando strappi troppo evidenti con la tradizione, ma dando al tempo stesso una pratica risposta ai problemi emersi in seguito all'evoluzione della professione legale.

La legge cercava innanzi tutto di salvare il salvabile dell'avvocatura "ordinaria", conservandole alcuni privilegi (185); rendeva inoltre un omaggio non formale allo spirito del diritto veneto, rinunciando a introdurre l'obbligo della laurea per l'esercizio dell'avvocatura straordinaria o ordinaria (c'è da chiedersi se avrebbero concordato su questo punto anche i revisori e i "dottori in leze" che li avevano assistiti). L'apertura agli avvocati "straordinari" fu invece graduata a seconda del possesso del requisito della cittadinanza o, almeno, della residenza a Venezia; ma nel complesso si scelse una politica molto più liberale di quella adottata, per esempio, per l'ammissione alla cancelleria ducale. Nelle corti ordinarie di San Marco e negli uffici di Rialto potevano dunque parlare, fatti salvi i diritti degli "ordinari", gli avvocati "straordinari" che fossero "cittadini originari, over nativi di questa nostra città". Invece nelle cause della quarantia civil vecchia potevano affiancarsi agli "ordinari" anche avvocati "straordinari" originari del Dominio (o di altri Stati), che avessero potuto dimostrare - per mezzo di un apposito registro tenuto dai provveditori di comun - una residenza a Venezia della durata di dieci anni (o, rispettivamente, di quindici). Norme sostanzialmente analoghe valevano anche per le cause civili veneziane discusse davanti all'avogaria di comun o agli auditori vecchi. Infine, "nelle cause civili forestiere" portate davanti agli auditori novi la libertà del cliente nella scelta dell'avvocato si estendeva fino ad abbracciare anche gli avvocati sprovvisti del requisito della residenza, purché sudditi della Serenissima (186).

Malgrado l'ampiezza delle concessioni accordate dalla legge del 1537 ai dottori di Terraferma, il loro ingresso ufficiale nel foro veneziano non portò alla temuta contaminazione del diritto veneto col diritto comune: infatti anche gli avvocati "forestieri" comprendevano durante la loro residenza nella Dominante l'inutilità di troppo frequenti e insistiti richiami al diritto romano, salvo forse nelle cause portate in appello dalle città suddite; ed anche in queste occasioni, in cui in teoria si sarebbe potuto far riferimento al diritto giustinianeo, la pratica del foro li abituava a tener conto della particolare natura dei tribunali veneziani, interamente composti di patrizi avvezzi a giudicare secondo il loro diritto e con un largo impiego dell'arbitrium (187).

Non fu questa, del resto, la sola eredità trasmessa dall'antica avvocatura magistraturale alla nuova e fiorente categoria degli avvocati professionisti. Infatti, seguendo l'esempio degli avvocati "ordinari", anche gli "straordinari" avevano imparato a rivolgersi ai giudici con vivace eloquenza, conformandosi così pienamente alle procedure delle corti veneziane, che si fondavano su una sostanziale oralità del processo. Anche una certa "libertà" dell'avvocatura veneziana, già segnalata dai contemporanei e ricordata con simpatia dall'illustre liberale ottocentesco Giuseppe Zanardelli (188), traeva la propria origine dal modello rappresentato dagli avvocati "ordinari". Costoro, in quanto magistrati elettivi, avevano sempre avuto la possibilità di parlare nei consigli e di contrapporsi, se necessario, alle massime autorità della Repubblica. Subentrando gradualmente nelle medesime funzioni, gli "straordinari", che pure non erano magistrati, e a volte nemmeno patrizi o cittadini, poterono anch'essi godere di quella relativa libertà di parola, che era funzionale al dibattito processuale.

Talvolta le argomentazioni addotte dagli avvocati per contrastare le tesi degli avogadori o di altri magistrati si fondavano su considerazioni di carattere procedurale che rivelavano una conoscenza dei meccanismi consiliari non inferiore a quella dei più reputati segretari della cancelleria (189). Ciò prova come gli stessi avvocati "straordinari" avessero fatto proprio il fondamentale empirismo della giustizia veneziana e avessero perciò rinunciato a far pesare presso i giudici la propria scienza giuridica.

Una volta ristretto il loro ruolo entro questi limiti, gli avvocati erano però realmente liberi di trattare davanti ai maggiori collegi giudicanti tutti i temi più scabrosi che potevano emergere dalla difesa degli interessi particolari dei loro clienti: se si dovesse condannare la memoria del doge Agostino Barbarigo, imponendo agli eredi il pagamento di un cospicuo risarcimento per le sue malversazioni; se fosse giusto processare e condannare i comandanti della flotta che tra il 1499 e il 1503 avevano combattuto con scarso successo contro i Turchi; come dovesse essere regolato il fallimento dei Banchi dei Querini e dei Lippomano; se fosse lecito agli abitanti di Chioggia estrarre olii da Venezia senza pagare dazi; se certe iscrizioni di nascite patrizie all'avogaria di comun dovessero essere convalidate o meno, con tutte le conseguenze, anche di carattere patrimoniale, che ne sarebbero derivate, ecc. Discussioni nelle quali era permesso agli avvocati contraddire lo stesso doge e toccare, almeno indirettamente, anche gli interessi di politica internazionale della Serenissima (come accadde durante una causa in cui un avvocato provocò le ire dell'ambasciatore del re di Polonia, che assisteva per conto del suo sovrano alla seduta della quarantia) (190).

Queste notizie sull'attività degli avvocati, tratte dai Diarii di Marin Sanudo, vanno naturalmente interpretate tenendo presente la particolare ottica del diarista, che sicuramente privilegiò i processi più celebri tenuti davanti ai maggiori tribunali. Qui, dunque, la libertà e il coraggio degli avvocati potevano essere sorretti dalla consapevolezza di difendere clienti ragguardevoli per ricchezza e prestigio sociale.

Molto problematica doveva invece risultare la tutela giudiziaria di quanti occupavano i gradini più bassi delle gerarchie sociali, come i popolani più poveri e gli emarginati. A parte ogni altra considerazione sul carattere aristocratico della giustizia veneziana e sulla diseguaglianza del trattamento riservato, in taluni casi, ai nobili e ai non nobili (191), incideva negativamente sulla difesa dei più poveri l'impossibilità materiale di pagarsi un difensore: particolarmente tragica doveva risultare la condizione dei carcerati.

Su questo punto cercò di intervenire la Signoria, anche con una certa originalità rispetto alle soluzioni adottate da altri Stati italiani, ma con uno sforzo finanziario davvero modesto rispetto alle dimensioni del problema. Con due deliberazioni del 1443 e del 1475 il maggior consiglio istituì l'"avvocato dei poveri prigionieri", affidando questa carica a un patrizio veneziano dell'età di almeno trentacinque anni, incaricato di seguire l'iter delle cause giudiziarie dei carcerati, di parlare in loro difesa e di visitarli almeno due volte alla settimana. Nel 1535 Si riconobbe la necessità di affiancargli un collega: entrambi furono retribuiti dalla Signoria con uno stipendio di 120 ducati annui, che rappresentava una retribuzione appena dignitosa, ove si consideri l'espresso obbligo di non assumere il patrocinio di altri clienti (192). Assai migliore era, sotto questo ed altri aspetti, la posizione degli "avvocati fiscali", che dovevano difendere gli interessi finanziari della Signoria: erano retribuiti con soli 100 ducati annui, ma potevano coltivare anche una ricca clientela privata, che pare non fosse insensibile al prestigio derivante dall'incarico pubblico (193).

I più celebri avvocati del foro veneziano dovevano sicuramente guadagnare molto: possiamo dunque confermare il giudizio di Gaetano Cozzi secondo cui essi rappresentavano nel '500 "una categoria in formidabile ascesa" (194). Per una singola causa, sia pure importante come il fallimento del Banco Querini-Lippomano, l'avvocato "cittadino" Marino Querini riscosse una parcella di 200 ducati (195). Intorno al 1535, l'avvocato Francesco Filetto "era uno dei più grandi causidici di questa terra et guadagnava ogni anno almeno 3.000 scuti di lite" (196). Qualche anno prima, il danno derivante dal furto di uno scrigno appartenente al noto avvocato di origine vicentina Rigo Antonio de Godis era stato in un primo tempo valutato, non senza esagerazione, intorno ai 5.000 ducati (197).

Ma la fama di ricchezza che circondava la categoria era alimentata soprattutto dalla sua liberalità nelle spese. Infatti gli avvocati più celebri ostentavano un tenore di vita singolarmente elevato, che valeva ad attestare il loro successo ed anche ad incrementarlo, nella misura in cui teneva alta la loro reputazione e attirava nuovi clienti. Intorno alla metà del '500 il fenomeno era divenuto così vistoso da indurre Francesco Sansovino a formulare alcuni ironici consigli per il giovane avvocato che non avesse voluto seguire la via maestra dei buoni studi e di una vita austera: "voglio [...> sopratutto che tu metta diligenza in ornatamente vestirti, mutando tuttavia secondo i tempi le vesti [...>. Le genti vedendoti tale, giudicano che tu guadagni un tesoro, e in conseguenza che tu sia tra gli altri avvocati eccellenti, oltra che il riccamente vestire onora assai le persone [...>" (198). In fondo non diversa, anche se più raffinata, era la pubblicità che alcuni avvocati si procuravano coltivando l'amicizia dell'Aretino, che li ricompensava della loro liberalità ricordandoli nelle celebri Lettere, dove il lettore contemporaneo avrebbe trovato le lodi dell'avvocato padovano Francesco Macassola o la roboante dedica "a la magnificenzia, a la nobiltà e a la eccellenza dell'animo vago, generoso e sublime, del largo, del chiaro, del prestante veronese Brenzone Agostino, oratore, giurisconsulto e filosofo" (199).

Sul piano delle relazioni sociali uno stile di vita singolarmente dispendioso poteva assumere anche un altro significato. Infatti molti degli avvocati "straordinari" non erano patrizi, ma aspiravano anch'essi ad una sorta di nobiltà. Perciò, una volta assicuratasi la disponibilità di redditi adeguati, essi perseguivano un obiettivo di promozione sociale anche attraverso la cura amorevole rivolta alle loro case di città e di campagna, così spesso ricordate nelle dichiarazioni di decima (ma è più poetica la descrizione dell'Aretino rievocante la villa sul lago di Garda "dove il giurisconsulto Brenzone signorilmente possede"). C'erano poi le spese per la servitù, per gli abiti e per le collane di perle delle mogli; gli acquisti di libri per le loro biblioteche (fra tutte, fu rinomata quella dell'avvocato "cittadino" Alvise Balbi) (200); e soprattutto c'erano i quadri. Appassionati intenditori e collezionisti d'arte, alcuni avvocati, come Francesco Filetto, Francesco Assonica e Nicolò Crasso, ebbero un posto di rilievo fra i committenti di Tiziano, che dipinse i loro ritratti (fra cui si conserva, forse, quello del Filetto) ed altri quadri di soggetto sacro o profano: per l'Assonica, ricordato dal Vasari come "compare" di Tiziano, la tela del Riposo della Vergine durante la fuga in Egitto, ed una Venere, definita dal Ridolfi come "una femina al naturale, a canto alla quale stavasi un giovinetto suonando l'organo"; per il Crasso "una Venere rarissima, che si mira nello specchio con due amori", una Maddalena e un ritratto di Lavinia, figlia del Tiziano; ed ancora, nel 1563, il San Nicolò per l'altare della cappella familiare che l'insigne avvocato si era fatto assegnare nella chiesa di San Sebastiano (201).

Un altro quadro di Tiziano, un'Annunciazione composta intorno al 1540, era posseduto dal giurista Amelio da Cortona il giovane, che nel suo testamento del 1555 ne fece dono alla Scuola di San Rocco, di cui era confratello: il ricco lascito comprendeva anche beni immobili e alcune tenute nel Trevigiano e nel Padovano, la cui rendita sarebbe dovuta servire per procurare la dote a fanciulle povere (202). Al pari di Amelio, molti altri avvocati veneziani furono iscritti a una Scuola grande, ed alcuni - in possesso del requisito della cittadinanza originaria - furono eletti guardiani grandi. Fu in particolare la Scuola di San Marco quella che, anche in virtù della sua ubicazione, raccolse nelle sue file un numero relativamente elevato di segretari e di professionisti (203).

Nel sestiere di San Marco si è conservata fino ai giorni nostri una calle degli Avvocati; ed in effetti ai tempi della Repubblica la vita degli avvocati gravitava naturalmente intorno al Palazzo, così come quella dei mercanti attorno a Rialto: qui nelle varie corti essi si incontravano, ora come colleghi, ora come avversari (la legge infatti vietava le associazioni di professionisti), ma comunque sempre su un piede di sostanziale parità, dopo che la legge del 1537 aveva abolito alcune anacronistiche barriere. Restando nell'ambito del foro e non guardando alle possibilità di carriera al di fuori dell'avvocatura, si sarebbero potute considerare quasi superate a quella data le differenze di ceto, non nel senso di una loro aperta contestazione, ma semplicemente perché il successo professionale e la consistenza dei patrimoni familiari creavano nuove e più mobili gerarchie, solo in parte coincidenti con la ripartizione della società per "ordini": c'erano infatti avvocati "cittadini" o forestieri che guadagnavano assai più dei loro colleghi patrizi, ed erano complessivamente più ricchi, anche perché fra i nobili la professione di avvocato "straordinario", quantunque onorevole, era sovente il sintomo di una situazione di relativo disagio economico (204).

Su questo punto disponiamo purtroppo di dati molto parziali: le dichiarazioni di decima forniscono notizie relativamente attendibili solo sugli investimenti immobiliari, non sui redditi professionali o sulla partecipazione diretta o indiretta a imprese mercantili (una possibilità di investimento, quest'ultima, che ancora verso la metà del '500 poteva tentare seriamente qualche avvocato) (205). È tuttavia interessante osservare come nel 1537 le entrate di un cittadino "per privilegio", l'avvocato Alvise da Noale, consistenti nel possesso di circa 500 campi e di due case a Treviso e a Noale, fossero stimate dai dieci savi intorno ai 554 ducati, laddove le rendite di avvocati patrizi come Sebastiano Venier (il futuro doge) e Bartolomeo Soranzo raggiungevano a stento, rispettivamente, i 170 e i 100 ducati (206).

Vero è che la diversa antichità e autorevolezza della presenza familiare a Venezia lasciava le sue tracce sulla composizione di questi patrimoni: mentre cioè gli avvocati patrizi o "cittadini" traevano una parte rilevante delle proprie rendite dalle case possedute a Venezia (si trattasse di palazzi, di botteghe o di casette date in affitto a popolani), questo non avveniva o comunque si verificava in misura molto più ridotta nel caso degli avvocati che più recentemente si erano stabiliti sulla laguna: è del resto ben nota la netta prevalenza dell'aristocrazia nella proprietà degli immobili a Venezia e nel dogado (207).

Molto più serie erano però le conseguenze del progressivo irrigidimento della legislazione veneziana a proposito della condizione di "cittadino", che gli avvocati provenienti dalla Terraferma si vedevano riconoscere solo ai fini dell'attività professionale e non in vista di ulteriori brillanti carriere al servizio dello Stato. Se dunque con l'immaginazione si usciva dal Palazzo, ecco che davanti alla "speranza" di "qualche cosa maggiore" il mondo degli avvocati cessava di apparire omogeneo, giacché le leggi vincolavano le aspirazioni di ciascuno alla sua condizione di origine (208). Così un patrizio come Sebastiano Venier poteva affiancare all'esercizio della professione il cursus honorum delle magistrature, fino ad arrivare - ad onta di una preparazione esclusivamente giuridica e amministrativa - al comando della flotta veneziana a Lepanto ed alla apoteosi finale del dogato (209). Invece l'avvocato Santo Barbarigo, escluso dalla vita pubblica per la sua nascita illegittima, cercò per tutta la vita di consolidare la propria condizione di cittadino "originario", investendo i profitti della professione nell'acquisto di beni immobili, che poi nel suo testamento vincolò in parte con un fidecommesso a favore dei nipoti; ove questi fossero venuti meno, sarebbero dovuti subentrare i nobili parenti di casa Barbarigo (il che dimostra come, in fin dei conti, l'illegittimità dei natali non avesse cancellato l'orgogliosa consapevolezza di essere, comunque, il nipote di un doge) (210).

Altri uomini di legge erano invece pienamente inseriti nel ceto dei "cittadini originarii": potevano dunque concorrere alla ambitissima carica di cancellier grande, che nella prima metà del '500 non era ancora divenuta esclusivo appannaggio degli influenti segretari del consiglio dei dieci; ma per poter realisticamente aspirare al successo essi dovevano provenire da un casato di grande prestigio. Era infatti nipote di un vescovo di Feltre e figlio di un segretario ducale quell'avvocato Francesco Fasuol, dottore in legge e principe del foro, che nel 1510 giunse secondo nel voto del maggior consiglio, ma trionfò pochi mesi più tardi, quando la carica fu di nuovo vacante. Egli resse il cancellierato per quasi sei anni ed alla morte ebbe solenni esequie pubbliche a San Marco: nell'orazione funebre il segretario Giovan Battista Ramusio commemorò al tempo stesso le virtù dell'uomo e la nobiltà della famiglia, le cui prime manifestazioni di devozione allo Stato marciano risalivano ai tempi della guerra di Chioggia (211). Ancora negli anni '20-'30 del '500 parve possibile l'elezione a cancellier grande di un altro avvocato, il già ricordato Francesco Filetto, che però, dopo un lusinghiero secondo posto nell'elezione del 1529, rinunciò a questa prospettiva facendosi prete, per poter proseguire accanto all'amico Gasparo Contarini, da poco nominato cardinale, la loro comune esperienza spirituale (212).

Anche il Filetto, al pari del Fasuol, veniva da una famiglia di solide radici veneziane. Diverso era il caso dell'avvocato Alvise da Noale, che si era trasferito a Venezia alla fine del '400 ed aveva preso in moglie una veneziana, ma non aveva antenati veneti. Perciò nel 1524 la sua aspirazione, incoraggiata dal doge Gritti, a "farsi balotar Canzellier grando", venne frustrata da una decisione della Signoria, che ribadì la distinzione fra la cittadinanza "per privilegio" e quella "originaria", unico titolo legittimo per poter aspirare alle cariche della cancelleria (213).

Al di là delle motivazioni politiche contingenti, la giurisprudenza della Signoria interpretava con sostanziale fedeltà le più recenti e restrittive norme sulla "cittadinanza originaria"; e poté dunque ricevere il sostegno di quella larga parte del ceto dirigente che quelle leggi aveva voluto e votato. Erano stati semmai il Gritti ed il suo protetto a provocare "la murmuration di la terra" andando così vistosamente contro corrente (214). Sotto questo aspetto, dunque, la società veneziana si andava progressivamente chiudendo: se ne poteva dedurre che i più ambiziosi uomini di legge provenienti dalla Terraferma avrebbero sempre dovuto accontentarsi di carriere relativamente modeste, facendosi nominare tutt'al più avvocati fiscali o assessori; in alternativa, essi avrebbero potuto abbracciare la carriera ecclesiastica e il servizio della Santa Sede, come fece appunto all'inizio degli anni '30 il capodistriano Vergerio, prima avvocato e assessore, poi nunzio pontificio e vescovo (215).

Preti-notai e notai laici

La diffidenza del patriziato veneziano nei confronti dei giuristi, fattore che innegabilmente condizionò lo sviluppo dell'avvocatura e delle professioni giuridiche, poté influire, sia pure in modo mediato, anche sulle vicende dell'arte notarile (216). A riprova della ferma volontà della Signoria di mantenere sotto il proprio controllo le modalità d'esercizio di una professione dagli importanti risvolti economico-sociali e politico-giuridici, si può infatti ricordare che solo in una data assai tarda, e cioè nel 1514, il senato autorizzò la formazione di un collegio dei notai, peraltro privo di autonomi poteri (217). Ma ciò che contraddistingue maggiormente il caso veneziano è la straordinaria fortuna del notariato ecclesiastico che, in declino altrove fin dai secoli XI-XII di fronte all'impetuosa avanzata del notariato laico, qui invece si conservò almeno fino al 1475 negli uffici pubblici (eccettuata la cancelleria ducale) e durò fino al secolo XVI nella redazione di testamenti o contratti (218). Fu questa dunque, prima e dopo la "Serrata", la strada scelta dal Commune Venetiarum per contenere ogni velleità d'autonomia dei notai: una soluzione che si fondava su quel particolare rapporto di compenetrazione fra Chiesa e Stato e su quella rigida sottomissione del clero al doge e alla Signoria che caratterizzò Venezia almeno fino all'epoca della conquista della Terraferma (219).

È tuttavia opportuno precisare che fin dal secolo XIV il favore accordato al notariato ecclesiastico non comportò affatto una totale preclusione verso i laici. Già in un elenco di notai che furono approvati nel 1306 la specificazione della condizione clericale, regolarmente presente in tutti gli altri casi, viene invece omessa davanti al nome del notaio della quarantia Michele Bondumiero (220). Ancor più significative risultano poi due leggi del 1323 e del 1375, mediante le quali vennero fissate condizioni sostanzialmente eguali per tutti coloro che, laici o ecclesiastici, avessero voluto intraprendere la professione notarile: tali requisiti erano un'età di venticinque anni compiuti ed il possesso della cittadinanza veneziana oppure, in sua vece, una residenza della durata di quindici anni, attestata dai provveditori di comun e accompagnata, nel caso dei laici, dal regolare pagamento delle "factiones" (221).

Non si può comunque affermare che già in quest'epoca il prestigio dei notai laici fosse paragonabile a quello dei chierici: ciò era vero solo nell'ambiente preumanistico della cancelleria ducale, da cui uscirono notai e cancellieri come Benintendi de Ravegnani, Raffaino Caresini e Lorenzo de Monacis. Per il resto i preti-notai godevano di una migliore reputazione sia presso il pubblico, sia presso le autorità, ed erano quindi i più ricercati sia come notai ordinari, sia come notai degli officia. Spettava inoltre ad essi, almeno in linea di principio, il compito di accompagnare nei loro lunghi viaggi mediterranei i baili o i comandanti delle galere da mercato; ed anche quando venivano concesse deroghe a favore dei notai laici, queste erano solitamente accompagnate da motivazioni che non lasciavano adito a dubbi sulla diversa considerazione in cui erano tenuti gli uni e gli altri.

Nel 1406, ad esempio, si permise al console veneziano in Puglia di portare con sé un notaio laico, che certo si sarebbe accontentato di un minor compenso; e ciò appunto allo scopo di ridurre le spese di una missione altrimenti giudicata troppo onerosa "propter expensam familie" (222). Nella sostanza, dunque, anche queste concessioni del senato non contraddicevano l'orientamento ufficialmente espresso nel 1399 da una deliberazione del maggior consiglio, che aveva deplorato l'arbitraria ammissione di alcuni laici nei posti di notai delle curie di Palazzo ed aveva pertanto ribadito la ferma intenzione di riservare il notariato degli officia ai chierici, giacché - si affermava - i notai laici avrebbero benissimo potuto trovare altrove i loro "inviamenta" (223).

Ma anche nel redigere atti e nel rogare testamenti i notai laici erano solitamente posposti nelle preferenze dei potenziali clienti ai preti-notai (224). Questi ultimi erano membri del clero cittadino e facevano parte della struttura parrocchiale, non solo come preti "titolati", ma spesso addirittura come pievani (225). Giocava dunque a loro vantaggio la fitta trama dei rapporti quotidianamente intessuti coi laici di ogni condizione sociale, nell'ambito di una organizzazione della vita cittadina largamente incentrata sulle contrade e quindi anche sulla rete delle parrocchie, che certamente non esaurivano in sé la molteplice varietà di forme della vita religiosa dei Veneziani, ma fornivano ugualmente alla popolazione alcuni fondamentali servizi di carattere sociale e spirituale, che spaziavano appunto dalla pratica sacramentale fino alla redazione dei testamenti (226).

La fiducia dei laici nei confronti del clero parrocchiale scaturiva, oltre che da questa dimestichezza, anche dalla possibilità di esercitare sulla nomina dei curati e sull'amministrazione delle parrocchie un controllo diretto, che aveva pochi equivalenti nell'Europa del tempo: i pievani erano infatti eletti, solitamente all'interno del clero parrocchiale, dai più autorevoli fra i laici della contrada, e cioè dai nobili e dai cittadini proprietari di immobili. Anche gli altri sacerdoti della parrocchia erano ben integrati nella vita della loro chiesa, che era organizzata in forma di collegiata: sicché, al momento dell'elezione del nuovo pievano, il clero riunito in capitolo provvedeva a una serie di promozioni interne (da suddiacono a diacono, e da diacono a prete "titolare"), senza che fosse formalmente esclusa la possibilità di cooptare chierici provenienti da altre parrocchie (227). È vero che non mancarono contrasti coll'ordinario diocesano e con la Santa Sede in merito all'esercizio di queste tradizionali prerogative dei fedeli e del clero parrocchiale, il cui definitivo riconoscimento sarebbe intervenuto solo nel 1526 con una bolla di papa Clemente VII; ma nel complesso il duplice controllo esercitato dai Veneziani, sia a livello parrocchiale, sia a livello governativo, valse a limitare il fenomeno delle pievanie date in commenda, pur senza eliminarlo del tutto (228). In questo modo la parrocchia poté conservare una sua funzionalità anche ai fini della educazione del clero, affiancando questa più tradizionale forma di tirocinio alle nuove iniziative intraprese nel corso del '400 e del primo '500 dalle Congregazioni del clero o dall'autorità diocesana; ed è probabile che nel corso di questa formazione si trasmettessero anche le nozioni indispensabili per l'esercizio del notariato (229).

Malgrado la relativa efficienza dell'istituto parrocchiale, un severo riformatore avrebbe egualmente potuto rimproverare a questi preti vari vizi ed abusi; ma, poiché si trattava di un clero in gran parte veneziano e per giunta scelto dagli stessi parrocchiani, esso doveva presumibilmente corrispondere, in modo più o meno adeguato a seconda dei casi, alle aspettative dei fedeli e della Signoria, che pare non si turbassero troppo per certi comportamenti non corrispondenti ai più alti ideali della vita sacerdotale: in un'ottica di pratico realismo mercantile si poteva dunque ammettere che il clero fosse coinvolto in investimenti e speculazioni di vario genere (c'erano anche parroci che prestavano ad interesse agli abitanti della contrada) (230); e poiché si volevano preti-notai negli officia a San Marco e persino nella flotta era necessario tollerare queste palesi eccezioni all'obbligo della residenza.

Anche il concubinato del clero, problema comune a tutta la Cristianità tardo-medievale ed attestato per Venezia dai sinodi diocesani (231), non scandalizzava affatto la Signoria, conformemente a quello che era il generale atteggiamento dei laici su questo tema (232). Lo si vide chiaramente quando il vescovo di Treviso Giovanni Benedetto tentò di sradicare questa consuetudine, praticata e pubblicamente difesa da circa un quarto del suo clero diocesano. Montarono le proteste ed il Benedetto fu severamente ammonito da una "ducale" del doge Tommaso Mocenigo, che lo invitò a non introdurre novità ed anzi a dissimulare, come facevano gli altri vescovi del Dominio veneto e di tutto il mondo, giacché l'estirpazione di quell'abuso sarebbe stata difficile e forse avrebbe provocato mali peggiori (233).

Il contrasto non era affatto episodico, ma scaturiva dalla formazione religiosa del Benedetto, un nobile veneziano entrato nell'ordine domenicano ed educato alla scuola di Giovanni Dominici. È chiaro che chi si ispirava all'ideale di una riforma della Chiesa non poteva concordare con la paternalistica tolleranza dimostrata dal governo veneziano verso il proprio clero, che veniva in un certo senso considerato come instrumentum regni. Difatti l'ideale di una riforma continuò ad operare e a generare nuove iniziative e nuove tensioni, che infine non poterono non ripercuotersi anche sull'esercizio del notariato da parte del clero. Non a caso, la pubblica condanna dei preti-notai di Venezia fu pronunciata da un pontefice, Eugenio IV (al secolo Gregorio Condulmer), che nel primo '400 era stato fra gli animatori della vita religiosa veneziana.

Nel 1402 il Condulmer (proveniente da una famiglia non nobile, ma imparentata coi patrizi Correr e legata da rapporti d'affari anche ai Benedetto) aveva promosso assieme ad alcuni nobili amici il primo nucleo della Congregazione dei canonici secolari di San Giorgio in Alga, di cui era entrato ben presto a far parte anche Lorenzo Giustiniani (il futuro protopatriarca) (234). Il Condulmer fu poi chiamato a svolgere importantissime funzioni ecclesiastiche a Roma, come collaboratore di papa Gregorio XII; ma non dimenticò mai la sua città natale e nel 1433, divenuto ormai da due anni pontefice, scelse personalmente il nuovo vescovo di Castello nella persona dell'amico Lorenzo Giustiniani, persuadendolo a lasciare, sia pur riluttante, la vita monastica.

Del resto, già da tempo il Giustiniani aveva cominciato a riflettere, sulle orme del Condulmer, intorno alla crisi della Chiesa. "Povera Chiesa!", osserva il Cracco sintetizzando gli scritti del Giustiniani: "ecco i preti: se ne trovano pochissimi che vivano honeste, ancor meno (rariores) che sappiano occuparsi delle anime; i più pensano solo ai piaceri e vanno a gara con la gente del secolo nel comportarsi come le bestie (bestiarum more); girano per le vie e per le piazze, frequentano teatri e spettacoli, si danno ai balli, bestemmiano e sparlano senza pudore, amano le vesti lussuose, si fanno crescere i capelli contro tutte le norme" (235). Di questa intensa preoccupazione per i corrotti costumi del clero secolare il Giustiniani avrebbe dato prova anche nelle costituzioni del sinodo del 1434, insistendo soprattutto sulla eccessiva dimestichezza coi laici, vera radice del traviamento del clero (236). Non avrebbe però menzionato esplicitamente la spinosa questione dei preti-notai, forse per riguardo verso il governo veneziano, oppure - più probabilmente - perché ormai la questione veniva dibattuta ai massimi livelli, tra il pontefice e il doge.

Infatti fin dal giugno dell'anno precedente Eugenio IV aveva emanato una bolla che, muovendo da considerazioni analoghe a quelle del Giustiniani, mirava a ricondurre l'esercizio del notariato da parte del clero veneziano entro i severi limiti stabiliti dalle norme canoniche. Scopo supremo perseguito dal pontefice, fin dal momento del suo insediamento, era stato "vitam et morem clericorum reformare", in modo che i sacerdoti, dediti esclusivamente al "ministerio divinorum munerum", potessero efficacemente provvedere "animarum saluti". Era per il Condulmer un amaro ricordo di gioventù l'aver dovuto constatare in quale misura il clero veneziano fosse coinvolto nell'esercizio del notariato degli officia e delle corti: ciò infatti significava che la missione sacerdotale veniva trascurata per la maggior parte delle giornate. Ma ora gli appariva addirittura intollerabile la novità introdotta da quei chierici che, come gli veniva riferito, avevano aperto veri e propri uffici ("stationes publicas", "apotecas") in cui ricevevano i clienti a guisa di notai laici. Secondo la bolla questa situazione doveva cessare entro sei mesi: si concedevano poche eccezioni, la più significativa delle quali riguardava i chierici al diretto servizio del doge, cioè i cancellieri inferiori (237).

Per evitare una drastica applicazione della bolla intervenne prontamente la Signoria: il doge Foscari fece sapere al pontefice che l'allontanamento dei preti-notai dagli officia di palazzo Ducale avrebbe potuto provocare "incommoda et scandala". Sicché nel maggio del '34 lo stesso papa Eugenio si risolse a scrivere al vescovo di Castello, allargando le proprie concessioni fino al punto di autorizzare la permanenza negli uffici di tutti i chierici "ad sententias et alios actus iudiciarios deputati" (238).

Nelle intenzioni del pontefice, questa concessione aveva carattere provvisorio; in realtà i chierici avrebbero continuato a ricoprire il notariato degli officia per altri quarant'anni. Per la loro sostituzione dovevano infatti realizzarsi alcune fondamentali precondizioni di carattere politico e sociale: innanzi tutto, occorreva che si attenuasse il pregiudizio sfavorevole all'impiego di notai laici, alcuni dei quali cominciavano allora ad entrare nelle notarie di magistrature minori, come nel caso del celebre copista di codici latini Michele Salvatico, collaboratore di umanisti e notaio dei capi di sestiere (239). Inoltre, poiché non si trattava di sostituire singoli elementi, ma tutto un corpo di funzionari, era necessario che emergessero nuove forze sociali capaci di offrire al patriziato una valida alternativa all'impiego dei chierici. Al di sotto dell'aristocrazia doveva cioè formarsi un'élite di mercanti, professionisti e burocrati, populares o cives populares (240), capaci di sostenere la Repubblica con la loro opera, i loro mezzi finanziari e il loro patriottismo, sia in pace, sia in guerra, salvo poi a pretendere come corrispettivo l'assegnazione di determinate cariche. Questo processo cominciò a trovare significativi sbocchi legislativi a partire dal quinto decennio del '400 e si manifestò in maniera più netta negli anni '70.

L'aspetto più noto di questa lotta per l'assegnazione degli uffici pubblici fu rappresentato dalla deliberazione del consiglio dei dieci che nel 1478 riservò i posti di notaio della cancelleria ducale ai soli "cittadini originari"; ma già nel 1475 una legge del maggior consiglio aveva escluso i preti-notai dalle "nodarie" degli "offici o zudegadi nostri a palazo over de Rialto", riservando tali posti a "nostri citadini laici de questa città" (241). Come si può facilmente osservare, questa riforma, concepita per favorire un ceto in ascesa, seguiva criteri assai diversi da quelli enunciati nella bolla di Eugenio IV, in quanto escludeva il clero dal notariato degli officia, mentre risparmiava i preti-notai gestori di quelle apothecae che, già segnalate ed esecrate dal pontefice, erano ora divenute ancor più numerose, così intorno a Rialto come a San Marco (242).

Anche sotto un altro aspetto la situazione dei preti-notai non era mutata nel mezzo secolo trascorso dopo l'intervento di papa Condulmer: come egli aveva allora denunciato, diversi chierici continuavano a rogare atti e testamenti come notai "Imperiali auctoritate". Ed erano cerimonie davvero curiose quelle che ancora verso il 1480 continuavano a svolgersi in qualche apotheca del sestiere di San Marco, dove un conte palatino, che doveva il suo altisonante titolo alla generosità o all'interesse di un Asburgo precariamente insediato sul trono imperiale, conferiva a qualche chierico veneziano il titolo di notaio, osservando tutte le forme tradizionali, compreso il giuramento di fedeltà all'Impero (243). Ne derivavano per lo Stato veneziano alcuni rilevanti pregiudizi: quello teoricamente più grave, cioè il vulnus inferto alla sovranità della Repubblica, non era allora considerato con la stessa preoccupazione con la quale lo si sarebbe valutato nel secolo XVII (e infatti solo allora ci si sarebbe decisi, dopo un fermo intervento del consultore in iure Servilio Treo, ad abolire le antiche prerogative dei conti palatini in tutto lo Stato veneto) (244); più immediatamente percepibile era invece il danno derivante dall'impossibilità di istituire una seria verifica sulle qualità professionali e morali degli aspiranti notai, che venivano debitamente esaminati solo se chiedevano di rogare "Veneta auctoritate". Perciò il maggior consiglio, che fino ad allora aveva bensì legiferato sui testamenti e sui contratti, imponendo così la propria autorità anche ai notai imperiali ed apostolici, ma non era mai entrato nel merito delle nomine notarili provenienti dalle due massime istituzioni della Cristianità medievale, deliberò nel 1485 di sottoporre all'esame del cancellier grande e dei cancellieri inferiori "tutti i nodari, i quali in questa nostra città al presente esercitano l'officio di notaria, così per autorità apostolica, come imperiale, over veneziana" (245). Solo quanti fossero stati giudicati "legali et sufficienti" avrebbero avuto diritto alla registrazione presso la cancelleria ed al rilascio di un "bollettino" che li avrebbe abilitati a esercitare l'arte notarile a Venezia e nel Dogado (246).

La legge del 1485 fu sempre riconosciuta dagli storici come un momento fondamentale nella riorganizzazione del notariato veneziano. Però essa non fu rigorosamente applicata in quella parte che sospendeva le prerogative dei conti palatini. Si rese così necessaria una nuova e più energica riaffermazione dell'autorità dello Stato marciano: compito cui il senato si accinse nel 1514, quando era ancora fresco il ricordo della crisi della guerra della lega di Cambrai e si imponeva nei più vari settori dell'attività statale l'esigenza di un profondo riordino. Da queste circostanze scaturì una legge di riforma del notariato che, pur ribadendo alcuni principii della precedente normativa, risultò nel complesso altamente innovatrice. I notai di Venezia, quelli che un tempo si erano chiamati notai ordinari, furono riuniti di autorità in un collegio di 66 membri, cui però sarebbero stati ammessi (col titolo di notai "numerarii") solo i vincitori di un nuovo esame-concorso, per il cui svolgimento vennero fissati criteri non molto dissimili da quelli già in vigore per le assunzioni nella cancelleria ducale. All'esame vennero ammessi, in questa prima tornata, aspiranti di varia condizione: poterono quindi parteciparvi i notai degli officia e delle corti, la cui attività notarile sarebbe altrimenti rimasta circoscritta all'interno dei loro uffici; furono altresì ammessi alla prova gli aspiranti forestieri ed i preti-notai: per loro, però, questa sarebbe stata l'ultima occasione (247).

Quest'importante decisione faceva presagire il definitivo declino del notariato ecclesiastico applicato a negozi secolari, in quanto lo trasformava in una sorta di ruolo ad esaurimento (248). D'ora innanzi, spiegava la "parte", i posti vitalizi resisi via via vacanti sarebbero stati assegnati esclusivamente "civibus nostris originariis laicis", perché nel corso delle ultime guerre essi e le loro famiglie avevano contribuito con le loro facoltà ed il loro sangue alla difesa di "questa loro patria e stato nostro" ("pro hac eorum patria et Statu nostro") (249).

Va peraltro rilevato che sia in quest'occasione, sia nella successiva riforma dell'avvocatura, non si chiusero interamente le porte ai cittadini di più recente immigrazione. Infatti la stessa "parte", che nel preambolo parlava di "cives originarii", nella parte dispositiva escludeva i soli notai "forenses", cui contrapponeva i diritti dei cittadini, sia originari, sia per privilegio (250). L'ammissione di questi ultimi al notariato si poneva nel segno della continuità rispetto alle norme del 1375 (251); e secondo ogni verosimiglianza fu proprio la forza della tradizione a determinare l'adozione di tale scelta da parte di un ceto dirigente veneziano che a quest'epoca appariva ancora incerto e diviso sul tema delle prerogative da accordare ai due diversi tipi di cittadinanza (252).

Così, grazie alla relativa liberalità della legge del 1514, nel corso del '500 vi furono diversi notai veneziani non provenienti dalle file della cittadinanza originaria (253); ma col tempo le differenze sociali tesero ad attenuarsi perché, se è vero che non tutti i notai erano benestanti (254), almeno i più abili e fortunati riuscirono a consolidare la loro posizione a Venezia fino al punto di fondarvi una famiglia destinata a conseguire il prestigioso riconoscimento della cittadinanza originaria (255). In questa loro aspirazione essi furono certo aiutati dalla legge del 1514, non solo perché essa limitava la concorrenza nell'ambito della professione ed emarginava i notai più poveri attraverso l'obbligo di un deposito cauzionale, ma anche perché permetteva esplicitamente le sostituzioni e le rinunce a favore di terzi (previo esame di idoneità), agevolando così la formazione di vere e proprie dinastie familiari, all'interno delle quali poteva svolgersi in condizioni davvero privilegiate il tirocinio del giovane aspirante notaio, eventualmente arricchito nella sua preparazione teorica da un periodo di studi all'Università di Padova (256).

Vediamo così che Daniele Zordan, notaio di Venezia dal secondo decennio del '500, fu seguito nella professione dal figlio Vettore; analogamente, Bernardo Tomasi, notaio dal 1531, spianò la strada al figlio Marcantonio: entrambi i casati furono poi ascritti fra gli "originarii", rispettivamente nel 1573 e nel 1584. Tra i casati dei notai potevano anche formarsi alleanze cementate da matrimoni: Giuliano Mondo, notaio attivo a partire dagli anni '30, diede una figlia in sposa a Luca Gabriele, che divenne pur egli notaio: nel 1575 il figlio di Luca, Gabriele, ottenne il conferimento della cittadinanza originaria quando già era "notaio di rispetto" ed attendeva l'occasione propizia per entrare nel collegio (257).

Anche famiglie che si erano da tempo distaccate dal notariato ricordavano volentieri, al momento della domanda per la cittadinanza originaria, quegli antenati che si erano cimentati nell'arte notarile, o magari un prozio che era stato cancelliere inferiore (258). È questa una prova eloquente del fatto che a Venezia il notariato laico, pur sviluppatosi così tardivamente, aveva ormai raggiunto nella seconda metà del '500 una considerazione sociale relativamente elevata, proprio mentre, con un cammino inverso, il notariato di altre città italiane e della stessa Terraferma veneta tendeva a scadere, nella stima di quei ceti dirigenti, al livello di "arte meccanica" (259). Nel 1627 questa diversità di valutazioni avrebbe portato a un serio contrasto fra il consiglio padovano e la Serenissima Signoria; ed il collegio del doge avrebbe allora ufficialmente definito il notariato come "professione civile et honorata": non incompatibile, dunque, con quel grado di nobiltà che il patriziato veneziano era disposto a riconoscere ai propri cittadini originari o ai membri dei consigli delle città di Terraferma (260).

1. Carlo Maria Cipolla, Le professioni nel lungo andare, in Id., Le tre rivoluzioni e altri saggi di storia economica e sociale, Bologna 1989, pp. 263-277.

2. Convivio, trattato III, XI. E cf. Paradiso, XI, 4-5. In generale, cf. Franco Gaeta, Dal comune alla corte rinascimentale, in Letteratura italiana, a cura di Alberto Asor Rosa, I, Il letterato e le istituzioni, Torino 1982, pp. 184-197 (pp. 149-255).

3. Cf. Giorgio Cracco, Relinquere laicis que laicorum sunt. Un intervento di Eugenio IV contro i preti notai di Venezia, "Bollettino dell'Istituto di Storia della Società e dello Stato Veneziano", 3, 1961, pp. 179-189; Lucia Greco, Sulle rotte delle galere veneziane: il cartulario di bordo del prete notaio Giovanni Manzini (1471-1486), "Archivio Veneto", ser. V, 172, 1991, pp. 5-37; Matteo Casini, La cittadinanza originaria a Venezia tra i secoli XV e XVI. Una linea interpretativa, in AA.VV., Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi, Venezia 1992, p. 140 n. 41 (pp. 133-150).

4. Mi limito a rinviare a Frederic C. Lane, L'ampliamento del Maggior Consiglio di Venezia, "Ricerche Veliete", 1, 1989, pp. 21-58.

5. Carlo Goldoni, Memorie, a cura di Guido Davico Bonino, Torino 1993, p. 105 (come è noto, i Mémoires apparvero a Parigi nel 1787). In generale, cf. Gaetano Cozzi, Note su Carlo Goldoni, la società veneziana e il suo diritto, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti. Cl. di scienze morali, lettere ed arti", 137, 1978-1979, pp. 141-157; Id., Repubblica di Venezia e Stati italiani. Politica e giustizia dal secolo XVI al XVIII, Torino 1982, pp. 319 ss.

6. Giuseppina De Sandre, Dottori, Università, Comune a Padova nel Quattrocento, "Quaderni per la Storia dell'Università di Padova", 1, 1968, p. 16 (pp. 15-47).

7. Ibid., pp. 16, 24, 29-30. Cf. in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/I-III, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1980-81, il saggio di François Dupuigrenet Desroussilles, L'università di Padova dal 1405 al Concilio di Trento, 3/II, p. 623 (pp. 607-647).

8. Cf. Bruno Nardi, Letteratura e cultura veneziana del Quattrocento, in La civiltà veneziana del Quattrocento, Venezia-Firenze 1957, pp. 101-145; Id., La scuola di Rialto e l'umanesimo veneziano, in Umanesimo europeo e umanesimo veneziano, a cura di Vittore Branca, Firenze 1963, pp. 93-139; Fernando Lepori, La scuola di Rialto dalla fondazione alla metà del Cinquecento, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/II, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1980, pp. 539-605.

9. In generale, cf. Vittore Branca, L'umanesimo veneziano alla fine del Quattrocento. Ermolao Barbaro e il suo circolo, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/I, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1980, pp. 123-175; Manlio Pastore Stocchi, Scuola e cultura umanistica fra due secoli, ibid., pp. 98 ss. (pp. 93-121); Paul F. Grendler, La scuola nel Rinascimento italiano, Roma-Bari 1991, pp. 69 si. Sull'Egnazio, cf. Eugenio Massa, L'eremo, la Bibbia e il Medioevo in Umanisti veneti del primo Cinquecento, Napoli 1992, passim. Sul Fausto, cf. Ennio Concina, Navis. L'umanesimo sul mare (1470-1740), Torino 1990, pp. 26 ss.

10. Non disponiamo di statistiche per il '400 e il primo '500. Nel 1587 c'erano a Venezia 258 maestri; il 39% era nato a Venezia, il 28% era originario del Dominio, gli altri venivano da altre parti d'Italia. Gli ecclesiastici erano in maggioranza. La loro presenza era preponderante nelle scuole in cui si insegnava il latino, e ancor più fra i precettori privati. Cf. P.F. Grendler, La scuola, pp. 49 ss.

11. Cf. M. Pastore Stocchi, Scuola e cultura umanistica, pp. 101 ss.

12. Cf. Guido Ruggiero, The Status of Physicians in Renaissance Venice, "The Journal of the History of Medicine and Allied Sciences", 36, 1981, pp. 168-184. Sulle lauree veneziane, cf. Richard Palmer, The Studio of Venice and Its Graduates in the Sixteenth Century, Trieste 1983, p. 41.

13. Cf. Angelo Ventura, Nobiltà e popolo nella società veneta del '400 e '500, Bari 1964, p. 78; G. De Sandre, Dottori.

14. Infatti a Verona la presenza dei medici in consiglio fu molto più limitata e nel '500 venne anche contestata. Cf. A. Ventura, Nobiltà e popolo, pp. 104, 256 ss. Sull'organizzazione dell'attività medica a Verona, cf. ora Alessandro Pastore, L'onore della corporazione. Il collegio medico di Verona fra il tardo Quattrocento e gli inizi del Seicento, in AA.VV., Studi di storia per Luigi Ambrosoli, Verona 1993, pp. 7-28.

15. R. Palmer, The Studio.

16. Cf. Gino Luzzatto, Les activités économiques du patriciat vénitien (Xe-XIVe siècles), in Id., Studi di storia economica veneziana, Padova 1954, pp. 125-165.

17. I Capitolari delle arti veneziane sottoposte alla Giustizia e poi alla Giustizia Vecchia dalle origini al MCCCXXX, I, a cura di Giovanni Monticolo, Roma 1896, pp. 145-149. Cf. Richard Mackenney, Tradesmen and Traders. The World of the Guilds in Venice and Europe c. 1250 - c. 1650, London 1987, p. 13. Sulle deliberazioni del 1281 e 1321 (edite in I Capitolari delle arti veneziane, I, pp. 270-271, 342-344), cf. Guido Ruggiero, Patrizi e malfattori. La violenza a Venezia nel primo Rinascimento, Bologna 1982, pp. 92 ss.; Giuseppe Ongaro, La medicina nello Studio di Padova e nel Veneto, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/III, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1981, pp. 92 ss. (pp. 75-134).

18. Giorgio Cosmacini, Storia della medicina e della sanità in Italia dalla peste europea alla guerra mondiale, 1348-1918, Bologna 19925, pp. 29-30. Sull'Alderotti rimane fondamentale Nancy G. Siraisi, Taddeo Alderotti and His Pupils. Two Generations of Italian Medical Learning, Princeton, N.J. 1981.

19. I Capitolari delle arti veneziane, I, pp. 282-283. Cf. Carlo Maria Cipolla, La professione medica in Toscana nel 1630, in Id., Contro un nemico invisibile. Epidemie e strutture sanitarie dell'Italia del Rinascimento, Bologna 1986, pp. 297-298 (pp. 273-324).

20. Cf. G. Ruggiero, The Status of Physicians, pp. 179 ss.

21. Ibid., pp. 183-184.

22. Reinhold C. Mueller, Aspetti economici della peste a Venezia nel Medioevo, in AA.VV., Venezia e la Peste. 1348-1797, Venezia 1979, pp. 71-76; Andrea Zannini, Burocrazia e burocrati a Venezia in età moderna: i cittadini originari (sec. XVI-XVIII), Venezia 1993, pp. 25-32. Si vedano le concessioni di cittadinanza a medici del secolo XIV in I Capitolari delle arti veneziane, I, pp. 297-298, 314-315. Interessante condanna di un medico per violazione, forse involontaria, delle leggi sulla cittadinanza ed il commercio, ibid., p. 323.

23. Cf. Karl J. Von Beloch, Bevölkerungsgeschichte Italiens, III, Berlin 1961, pp. 3-5; Frederic C. Lane, Storia di Venezia, Torino 1978, pp. 23-27, 532-533; R.C. Mueller, Aspetti economici della peste, pp. 71-76, 93-96.

24. Cf. Gino Luzzatto, Il costo della vita a Venezia nel Trecento, in Id., Studi di storia economica veneziana, Padova 1954, pp. 285-297; G. Ruggiero, The Status of Physicians.

25. I Capitolari delle arti veneziane, I, pp. 354-355 Il rapporto di un medico fisico per ogni 10.000 abitanti è singolarmente alto (cf. C.M. Cipolla, La professione medica, pp. 297 ss.). Sul chirurgo Gualtieri, cf. F.C. Lane, Storia di Venezia, p. 255.

26. Cf. Paul O. Kristeller, Il Petrarca, l'umanesimo e la scolastica a Venezia, in Storia della civiltà veneziana, a cura di Vittore Branca, II, Firenze 1979, pp. 79-92; B. Nardi, Letteratura e cultura veneziana.

27. Cf. Giulio Bistort, Il magistrato alle pompe nella Repubblica di Venezia, Venezia 1912, pp. 292, 301-302; R. Palmer, The Studio, p. 11 e n. 40.

28. Cf. Emanuele Djalma Vitali, Il prestigio del medico nella Repubblica Veneta del sec. XV in un'inedita allocuzione di Pietro Tommasi, in Miscellanea 7, a cura dell'Istituto di Storia della Medicina dell'Università di Roma, Roma 1963, pp. 3-30.

29. I Capitolari delle arti veneziane, I, pp. 324, 339, 342-344, 367. Cf. Francesco Bernardi, Prospetto storico-critico dell'origine, facoltà [...> e vicende del Collegio Medico-chirurgico, e dell'arte chirurgica in Venezia, Venezia 1797, pp. 3 ss.; Davide Giordano, Venezia ne' suoi chirurghi. Il Collegio iatro-chirurgico, in Id., Scritti e discorsi pertinenti alla storia della medicina e ad argomenti diversi, Milano 1930, pp. 59-93; G. Ongaro, La medicina, pp. 129-130.

30. Cf. sopra, n. 17.

31. Si veda ad esempio la deliberazione del maggior consiglio del 18 giugno 1329 (I Capitolari delle arti veneziane, I, p. 367).

32. Varie concessioni di "grazie" di medicare sono edite in I Capitolari delle arti veneziane, I, pp. 360, 363, 369, 370, 372-374. Cf. Bartolomeo Cecghetti, La medicina in Venezia nel 1300, "Archivio Veneto", 25, 1883, pp. 368 ss. (pp. 361-381) e 26, 1883, pp. 77-111, 251-270; G. Ruggiero, The Status of Physicians, p. 170; Giampaolo Lotter, L'organizzazione sanitaria a Venezia, in AA.VV., Venezia e la Peste. 1348-1797, Venezia 1979, pp. 99-102.

33. Cf. Loris Premuda-Giuseppe Ongaro, I primordi della dissezione anatomica in Padova, "Acta Medicae Historiae Patavina", 10, 1963-1964, pp. 139-140 (pp. 117-142). Naturalmente, non si può qui affrontare in tutta la sua complessità il problema dell'origine delle pubbliche anatomie: è questo un settore di studi in pieno sviluppo, in cui la psicologia sociale e l'antropologia possono portare importanti contributi. Cf. Giovanna Ferrari, Public Anatomy Lessons and the Carnival: the Anatomic Theatre of Bologna, "Past and Present", 117, 1987, pp. 50-116; Luigi Lazzerini, Le radici folkloriche dell'anatomia. Scienze e rituale all'inizio dell'età moderna, "Quaderni Storici", n. ser., 85, 1994, pp. 192-233. Per Venezia e Padova si veda il contributo di Luciano Bonuzzi, Medicina e sanità, nel volume V di quest'opera, pp. 407-440.

34. Cf. Salvatore Carbone, Provveditori e sopraprovveditori alla Sanità della Repubblica di Venezia, Roma 1962; Carlo Maria Cipolla, Origine e sviluppo degli Uffici di Sanità in Italia, in Id., Le tre rivoluzioni e altri saggi di storia economica e sociale, Bologna 1989, pp. 243-262.

35. Sulla dispersione dell'archivio, cf. R. Palmer, The Studio, pp. 51-56. Qualche notizia sulla sanità a Venezia in Maria Gargiolli - Emanuele Djalma Vitali, La medicina nella Repubblica Veneta del XV secolo, in Miscellanea 7, a cura dell'Istituto di Storia della Medicina dell'Università di Roma, Roma 1963, pp. 61-77.

36. A.S.V., Maggior Consiglio Deliberazioni, reg. 21, Leona, c. 7v, 11 novembre 1384. Cf. F. Bernardi, Prospetto, p. 5 e n. 2. Alcuni storici non si sono avveduti della mancata approvazione.

37. Mi limito a rinviare a Giorgio Cracco, Un "altro mondo". Venezia nel Medioevo. Dal secolo XI al secolo XIV, Torino 1986, pp. 113 ss.

38. A.S.V., Maggior Consiglio Deliberazioni, reg. 21, Leona, c. 97r-v, 29 aprile 1397.

39. Ivi, Compilazione delle Leggi, b. 277, cc. 958v-960, "terminazione" degli avogadori di comun, 12 agosto 1405.

40. R. Palmer, The Studio, p. 21.

41. Jacques Le Goff, Spese universitarie a Padova nel secolo XV, in Id., Tempo della Chiesa e tempo del mercante. E altri saggi sul lavoro e la cultura nel Medioevo, Torino 1977, pp. 120-122 (pp. 115-131).

42. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 2369 (= 9667), Statuta Medicorum Physicorum, c. 14r-v.

43. Cf. R. Palmer, The Studio, pp. 3 ss., 31 ss.

44. Cf. ibid., pp. 22 Ss., 40 ss.

45. Cf. più oltre nel testo.

46. Statuta Medicorum citati alla n. 42, cc. 8, 24r-v. Cf. R. Palmer, The Studio, pp. 9, 11-12.

47. R. Palmer, The Studio, p. 8. La norma era dichiaratamente ispirata al modello dei collegi medici di Bologna, Padova e Pavia.

48. Ibid., pp. 13-14. Sulla chiusura dei collegi, cf. in generale C.M. Cipolla, Le professioni, pp. 276-277. Per la Terraferma veneta, A. Ventura, Nobiltà e popolo, pp. 285 n. 11, 324 ss., 353 ss. Ma cf. ora A. Pastore, L'onore della corporazione.

49. Cf. R. Palmer, The Studio, p. 9. Dati su Verona e Firenze in C.M. Cipolla, Le professioni, p. 269.

50. Cf. D. Giordano, Venezia ne' suoi chirurghi, p. 65; Richard Palmer, Physicians and Surgeons in Sixteenth Century Venice, "Medicai History", 23, 1979, pp. 453-456 (pp. 451-460).

51. Tutte le notizie biografiche sono tratte da Tiziana Pesenti, Professori e promotori di medicina nello Studio di Padova dal 1405 al 1509. Repertorio bio-bibliografico, Trieste 1984.

52. Marino Sanuto, I diarii, a cura di Federico Stefani et al., I-LVIII, Venezia 1879-1903: II, col. 314. Cf. Levi R. Lind, Studies in pre-Vesalian Anatomy. Biography, Translations, Documents, Philadelphia 1975, p. 145.

53. Girolamo Priuli, I diarii, in R.I.S.2, XXIV, 3, vol. II, a cura di Roberto Cessi, 1933-1937, p. 414. Fondamentale l'interpretazione di Achille Olivieri, Un momento della sensibilità religiosa e culturale del Cinquecento veneziano: "I diarii" di Girolamo Priuli e gli orizzonti della "esperientia", "Critica Storica", 10, 1973, pp. 397-414.

54. La minaccia di licenziamento, con divieto di riassunzione, fu ad esempio comminata dal maggior consiglio nel 1348 e nel 1382 (AA.VV., Venezia e la Peste, p. 363; B. Cecchetti, La medicina, p. 380).

55. Cf. Brian Pullan, La politica sociale della Repubblica di Venezia, 1500-1620, I, Roma 1982, p. 154. Sul passaggio delle competenze medico-assistenziali dai governi cittadini alle confraternite nelle città italiane del '500 ha giuste osservazioni Gianna Pomata, La promessa di guarigione. Malati e curatori in Antico Regime, Bologna XVI-XVIII secolo, Roma-Bari 1994, p. 124 n. 86.

56. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 2369 (= 9667), c. 23r-v, terminazione dei dieci savi alle decime, 21 ottobre 1513.

57. Michael Knapton, Guerra e finanza (1381-1508), in Gaetano Cozzi-Michael Knapton, La Repubblica di Venezia nell'età moderna. Dalla guerra di Chioggia al 1517, Torino 1986, p. 303 (pp. 275-353).

58. S. Carbone, Provveditori, p. 16; Richard Palmer, L'azione della Repubblica di Venezia nel controllo della peste, in AA.VV., Venezia e la Peste. 1348-1797, Venezia 1979, p. 107 (pp. 103-110).

59. Cf. le considerazioni generali di Carlo Maria Cipolla, Cristofano e la peste, Bologna 1976, pp. 22, 36.

6o. Cf. Andreina Zitelli-Richard Palmer, Le teorie mediche sulla peste e il contesto veneziano, in AA.VV., Venezia e la Peste. 1348-1797, Venezia 1979, p. 24 (pp. 21-28).

61. Cf. sopra, n. 53.

62. Cf. Giancarlo Zanier, Ricerche sull'occultismo a Padova nel secolo XV, in Scienze e filosofia all'Università di Padova nel Quattrocento, a cura di Antonino Poppi, Trieste 1983, pp. 345-372.

63. Cf. Francesca Lucchetta, Il medico e filosofo bellunese Andrea Alpago ( 1522) traduttore di Avicenna. Profilo biografico, Padova 1964; Giuliano Lucchetta, L'Oriente mediterraneo nella cultura di Venezia tra il Quattro e il Cinquecento, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/II, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1980, pp. 422-423 (pp. 375-432).

64. Henricus de Beldemadiis ottenne nel 1386 il conferimento "per grazia" della cittadinanza originaria con una tale motivazione. Cf. B. Cecchetti, La medicina a Venezia, 26, pp. 102-103; M. Casini, La cittadinanza originaria, pp. 149-150. Il medico umanista Pietro Tommasi fu nel 1403 alla battaglia di Modone contro i Genovesi (T. Pesenti, Professori e promotori, p. 206).

65. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 2369 (= 9667), c. 19v.

66. Nel 1504, in una galera in partenza per le Fiandre troviamo solo un barbiere-chirurgo (Ugo Tucci, Mercanti, navi, monete nel Cinquecento veneziano, Bologna 1981, p. 196). Sugli stipendi, cf. E. Gargiolli - E. Djalma Vitali, La medicina, pp. 75-76.

67. Cf. F. Lucchetta, Il medico, pp. 26 ss.

68. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 2369 (= 9667), c. 20v.

69. Michelangelo Minio, Il quattrocentesco codice "Rinio" integralmente rivendicato al medico Nicolò Roccabonella, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti. Cl. di scienze morali", III, 1952-1953, pp. 49-64.

70. Cf. F. Lucchetta, Il medico, pp. 17 ss., 92.

71. Ibid., pp. 33 ss.; Nancy G. Siraisi, Avicenna in Renaissance Italy: the "Canon" and Medical Teaching in Italian Universities after 1500, Princeton, N.J. 1978, pp. 93 ss.

72. Cf. Tiziana Pesenti Marangon, "Professores chirurgie", "medici ciroici" e "barbitonsores" a Padova nell'età di Leonardo Buffi da Bertipaglia, "Quaderni per la Storia dell'Università di Padova", 11, 1978, pp. 1-38.

73. Cf. T. Pesenti, Professori e promotori, pp. 205-210 (con bibl.).

74. Ibid., pp. 48-52 (con bibl.). Cf. L.R. Lind, Studies, pp. 69 ss.; Loris Premuda, Le conquiste metodologiche e tecnico-operative della medicina nella scuola padovana del secolo XV, in Scienza e filosofia all'Università di Padova nel Quattrocento, a cura di Antonino Poppi, Trieste 1983, pp. 395-428; G. Ongaro, La medicina, pp. 87-89, 97-98. Ma cf. ora Giovanna Ferrari, Gli errori di Plinio. Fonti classiche e medicina nel conflitto tra Alessandro Benedetti e Nicolò Leoniceno, in Sapere e/è potere, a cura di Andrea Cristiani, Bologna 1990, pp. 173-204.

75. M. Sanuto, I diarii, VI, coll. 78, 101, 120, 122, 124. Cf. L.R. Lind, Studies, pp. 139-156, 323-324.

76. Cf. Jerome J. Bylebyl, The School of Padua: Humanistic Medicine in the Sixteenth Century, in Health, Medicine and Mortality in the Sixteenth Century, a cura di Charles Webster, Cambridge-London-New York 1979, pp. 335-370; Daniela Mugnai Carrara, La biblioteca di Nicolò Leoniceno. Tra Aristotele e Galeno: cultura e libri di un medico umanista, Firenze 1991.

77. Cf. Giovanni Degli Agostini, Notizie istorico-critiche intorno la vita e le opere degli scrittori viniziani, II, Venezia 1754, pp. 529-548. Sul Superchio e sul Trincavella, cf. inoltre Emmanuele A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, I-VI, Venezia 1824-1853: I, pp. 55, 354; II, pp. 213, 447 ss.; R. Palmer, The Studio, passim.

78. Cf. Margaret L. King, Umanesimo e patriziato a Venezia nel Quattrocento, I-II, Roma 1989 (però le mie citazioni sono tratte dall'edizione originale Venetian Humanism in an Age of Patrician Dominance, Princeton, N J. 1986). Sull'opera del Caldiera, cf. ibid., pp. 98 ss.; Angelo Ventura, Scrittori politici e scritture di governo, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/III, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1981, pp. 544-545 (pp. 513-565).

79. Cf. il passo citato da M.L. King, Venetian Humanism, p. 108 n. 48. L'opera è dedicata al segretario del senato Antonio Vinciguerra.

80. Antonio Giunio, di Chiari nel Bresciano, fu priore del collegio medico di Venezia nel 1503 e, nel 1522, medico del capitano generale da mar Domenico Trevisan; ma nel testamento dello stesso anno lasciò ben 40 ducati a scuole di devozione di Chiari. Il figlio Giovanni Paolo, membro del collegio veneziano dal 1532, rientrò a Brescia, dove fece parte del locale collegio medico dal 1541 (A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 50, nr. 5; Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 2379 [= 9686>, c. 1; cf. R. Palmer, The Studio, p. 92). Giulio Mainardi, figlio di Pietro (che fu celebre medico del collegio veneziano e docente a Padova dal 1520) Si laureò nel 1527 a Venezia, ma entrò nel 1529 nel collegio medico di Verona, città di cui il padre era originario (ibid., pp. 85-86).

81. A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 878, nr. 184, testamento di Giacomo Surian, 3 novembre 1499; Dieci Savi alle Decime, b. 127, nr. 702, redecima del 1566 di Andrea Surian e fratelli, q. Giovanni "fisico", q. Giacomo. Cf. Francesco Sansovino, Venetia città nobilissima et singolare, ampliata da Giovanni Stringa, I, Venezia 1604, cc. 97-98; Giuseppe Tassini, Curiosità veneziane, Venezia 19708, pp. 50-51; Giulio Lorenzetti, Venezia e il suo estuario, Trieste 1974, pp. 503-505.

82. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 361 (= 8623), cc. 221-222.

83. Qualche esempio del '500: tre generazioni di Grattarol, di origine bergamasca (Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 341 [= 8623>, c. 164; E.A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, I, pp. 125-126; R. Palmer, The Studio, indice, alle voci Grattarol, Girolamo e Antonio). Padri e figli: Ambrogio e Camillo Leo, nolani; Francesco e Vincenzo Ottato, napoletani; Alessandro e Giovanni Alberto da Bagnacavallo. Zii e nipoti: Annibale e Girolamo Zucchella; Niccolò ed Apollonio Massa (ibid., indice, ad voces).

84. A.S.V., Avogaria di Comun, Cittadinanza originaria, b. 361/1, nr. 97 (famiglia Abbioso); ibid., b. 365/5, nr. 83 (Galuppo); b. 363/3, nr. 28 o 30 (Bino); b. 366/6, nr. 48 (Superchi) e nr. 76 (Marucini). Cf. inoltre R. Palmer, The Studio, indice, alla voce Abbioso, Girolamo, Agostino e Bartolomeo; E.A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, III, p. 450 e V, p. 148 (sui Bino); ibid., I, pp. 55, 354 e II, pp. 213, 447 ss. (Superchi).

85. Fra gli esempi più illustri, Pietro Tommasi (1380-1458), figlio di un notaio e genero di un giureconsulto (cf. Arnaldo Segarizzi, La corrispondenza familiare di un medico erudito del Quattrocento (Pietro Tomasi), "Atti dell'Accademia di Scienze, Lettere ed Arti degli Agiati in Rovereto", ser. III, 13, 1907, pp. 5-34). Il riminese Bartolomeo di Giovanni Surian, giureconsulto, fu padre del medico Giacomo (cf. sopra, n. 81).

86. Così i Massa (cf. Richard Palmer, Nicolò Massa, His Family and His Fortune, "Medical History", 25, 1981, pp. 385-410), i Barbaro (A.S.V., Avogaria di Comun, Cittadinanza originaria, b. 365/5, nr. 99) ed i Marucini (ibid., nr. 76).

87. La famiglia del medico Pietro Martinelli possedeva la spezieria all'Angelo (R. Palmer, The Studio, p. 105); Nicolò Bragadin, entrato nel collegio veneziano nel 1532, ereditò dal padre la "spezieria del Sol" (A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 210, nr. 457; R. Palmer, The Studio, p. 92); Girolamo Rizio, medico di Murano, si vide negata nel 1541 l'autorizzazione a ordinare medicine nella spezieria di un fratello (ibid., p. 100).

88. Cf. R. Palmer, The Studio, p. 108. Il caso, presentatosi nel maggio 1543, riguardava "Hieronymus Lancius, Venetus, f. magistri Francisci barbitonsoris": il candidato fu infine ammesso.

89. Cf. A. Segarizzi, La corrispondenza familiare, pp. 26, 30-31.

90. Cf. Angelo Martini, Tentativi di riforma a Padova prima del Concilio di Trento, "Rivista di Storia della Chiesa in Italia", 3, 1949, p. 74 (pp. 66-94); E.A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, II, pp. 447 ss. (Valerio Superchi lamenta di aver speso 500 ducati in 4 anni per gli studi padovani del figlio Girolamo).

91. A. Segarizzi, La corrispondenza familiare, pp. 9-10. Espressioni analoghe si ritrovano ancora nel 1573, nel testamento del medico Francesco Sforza (A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 1258, nr. 360). Il medico Maffeo de Maffei († 1563), nell'istituire un fedecommesso a favore dei figli e dei discendenti, introduce una clausola che prevede una temporanea riserva delle entrate a favore di quelli che studieranno a Padova (ibid., b. 1210, nr. 714).

92. Cf. sopra, n. 84.

93. Cf. in generale C.M. Cipolla, La professione medica, pp. 310-311.

94. A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 1214, nr. 1032; Avogaria di Comun, Cittadinanza originaria, b. 366/6, nr. 63. Cf. R. Palmer, The Studio, pp. 19-20; A. Zannini, Burocrazia e burocrati a Venezia, p. 64.

95. Cf. R. Palmer, Nicolò Massa (studio fondamentale); L.R. Lind, Studies, pp. 167 ss., 325 ss.

96. Lo stesso Vittore Trincavella, pur cumulando libera professione e docenza universitaria, aveva assegnato alle figlie doti di 2.500-3.000 ducati (A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 1214, nr. 1032).

97. R. Palmer, Nicolò Massa, p. 394.

98. Ibid., pp. 396-397. Cf. Paolo Preto, Peste e societi a Venezia, 1576, Vicenza 19842, pp. 48-50.

99. R. Palmer, Nicolò Massa, p. 399 n. 28.

100. Arturo Castiglioni, Storia della medicina, I, Milano 1948, p. 346. Sui Commentarii de nobilitate et de iure primigeniorum di André Tiraqueau, apparsa a Lione nel 1559, cf. Claudio Donati, L'idea d nobiltà in Italia. Secoli XIV-XVIII, Roma-Bari 1988, pp. 113-117.

101. Cit. da C.M. Cipolla, La professione medica, p 316. Il quadro tracciato dal Cipolla non è applicabile all'area veneto-padovana. Cf. J.J. Bylebyl The School of Padua, p. 354 n. 83; R. Palmer Physicians and Surgeons.

102. Cf. J.J. Bylebyl, The School of Padua, pp. 353 ss.

103. Cf. la composizione del collegio chirurgico ne 1547 in R. Palmer, Physicians and Surgeons, pp. 453 ss. La presenza dei "fisici" agli esami fu imposta da una terminazione del 20 ottobre 1487; del collegio dei XII savi sopra i dazi e i mestieri (A.S.V., Compilazione delle Leggi, b. 277, cc 1081v-1084). Sulle polemiche sollevate dal collegio chirurgico, cf. F. Bernardi, Prospetto, pp. 8 ss., 28 n. 2; D. Giordano, Venezia ne' suoi chirurghi pp. 65 ss., 71 ss.

104. Cf. G. Ongaro, La medicina, p. 130.

105. A.S.V., Provveditori alla Sanità, b. 2, cc. 58v-60, 8 gennaio 1545 m.v.

106. Nel 1557 i provveditori nominarono "medico pei la terra" il chirurgo Zuan Francesco Strata (R Palmer, Physicians and Surgeons, p. 455).

107. Intorno al 1520 la comunità di Feltre retribuiva un "fisico" con 200 ducati annui, e un chirurgo "graduatus" con 100 ducati; mentre un barbiere-chirurgo si sarebbe accontentato di 40 ducati (Mario Gaggia, Medici e chirurghi della comunitc di Feltre dal secolo XVI al XIX, "Archivio Storico di Belluno, Feltre e Cadore", 12, 1940, pp. 1181 ss. [pp. 1181-1185, 1197-1201, 1215-1220 1232-1237>; R. Palmer, Physicians and Surgeons p. 455).

108. "Essendo de molta maggior importantia li physici che li ceroychi alla salute corporal", esordisce una terminazione dei provveditori alla sanità del 29 gennaio 1549 (A.S.V., Provveditori alla Sanità b. 2, c. 62r-v).

109. Cf. sopra, n. 88.

110. Cf. G. Ongaro, La medicina, p. 130.

111. Giovanni Francesco Strata, di Burano, dottore i1 chirurgia dal 1527 e 7 volte priore del collegio chirurgico, ebbe un figlio, Giovanni Giacomo, che entrò nel collegio medico nel 1539. Pietro di Castello (figlio di un Valentino di Castello "chyrurgicus") si laureò in chirurgia nel 1530; suo figlio Domenico entrò nel collegio medico nel 1543 (cf R. Palmer, The Studio, indice, ad voces).

112. Davide Giordano, Discorso comparativo su Ambro gio Paré e Giovannandrea Dalla Croce, in Id., Scritti e discorsi pertinenti alla storia della medicina e ad argomenti diversi, Milano 1930, p. 123 (pp. 115-132); Id., Intorno ad un chirurgo del '500. Giovanni Andrea Dalla Croce, ibid., pp. 156-163. Sulle innovazioni introdotte dal dalla Croce in chirurgia, cf. ora il saggio di L. Bonuzzi, Medicina e Sanità.

113. D. Giordano, Discorso comparativo, p. 121. Su Alvise Bagnolo, cf. R. Palmer, The Studio, p. 145.

114. A.S.V., Dieci Savi alle Decime, b. 137, nr. 416, 28 giugno 1566 (il 5 settembre 1564 il senato aveva assoggettato anche i medici alla decima).

115. C.M. Cipolla, La professione medica, pp. 281, 326 (tab. 8).

116. Pier Cesare Ioly Zorattini, Gli Ebrei a Venezia, Padova e Verona, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/I, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1980, pp. 560-567 (con bibliografia) (pp. 537-576). Cf. Daniele Carpi, Note su alcuni ebrei laureati a Padova nel Cinquecento e all'inizio del Seicento, "Quaderni per la Storia dell'Università di Padova", 19, 1986, pp. 145-156; Emilia Veronese Ceseracciu, Ebrei laureati a Padova nel Cinquecento, ibid., 13, 1980, pp. 151-168; David B. Ruderman, The Impact of Science on Jewish Culture and Society in Venice (with Special Reference to Jewish Graduates of Padua's Medical School), in Gli Ebrei e Venezia. Secoli XIV-XVIII, a cura di Gaetano Cozzi, Milano 1987, pp. 417-448.

117. Achille Olivieri, Il medico ebreo nella Venezia del Quattrocento e Cinquecento, in Gli Ebrei e Venezia, p. 542 (pp. 449-468, 542-543).

118. In ossequio alla costituzione 22 del Concilio Laterano IV (Conciliorum Oecumenicorum Decreta, Bologna 19733, pp. 245-246). Cf. I Capitolari delle arti veneziane, I, p. 145.

119. Cf. Daniele Carpi, Sulla permanenza a Padova nel 1533 del medico ebreo Jacob di Shemuel Mantino, "Quaderni per la Storia dell'Università di Padova", 18, 1985, pp. 196-199; A. Olivieri, Il medico ebreo; Nelli Elena Vanzan Marchini, Medici ebrei a Venezia nel Cinquecento, in Venezia ebraica, a cura di Umberto Fortis, Roma 1982, pp. 55-84.

120. Francesco Piovan, Nuovi documenti sul medico ebreo Lazzaro "de Frigeis", collaboratore di Andrea Vesalio, "Quaderni per la Storia dell'Università di Padova", 21, 1988, pp. 67-74. Cf. Brian Pullan, Gli Ebrei d'Europa e l'Inquisizione a Venezia dal 1550 al 1670, Roma 1985, pp. 433 ss.

121. Cf. D.B. Ruderman, The Impact; Paolo Sarpi, Opere, a cura di Gaetano e Luisa Cozzi, Milano-Napoli 1969, pp. 562 ss.

122. Cf. D.B. Ruderman, The Impact, pp. 417-448, e l'intervento di Roberto Bonfil, nel medesimo volume su Gli Ebrei e Venezia, pp. 543-548.

123. Vittore Colorni, Sull'ammissibilità degli Ebrei alla laurea anteriormente al secolo XIX, in Id., Judaica minora, Milano 1983, pp. 473-489.

124. Ibid., p. 483.

125. Ibid., p. 478 e n. 24.

126. Cf. Gaetano Cozzi, La politica del diritto nella Repubblica di Venezia, in Id., Repubblica di Venezia e Stati italiani. Politica e giustizia dal secolo XVI al XVII, Torino 1982, pp. 217-318.

127. Cf. Giorgio Cracco, La cultura giuridico-politica nella Venezia della Serrata, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 2, Il Trecento, Vicenza 1976, p. 247 (pp. 238-271).

128. Cf. Marin Sanudo, De origine, situ et magistratibus urbis Venetae ovvero La città di Venetia (1493-1530) a cura di Angela Caracciolo Aricò, Milano 1980, p. 113; Gaetano Cozzi, Fortuna o sfortuna del diritto veneto nel Settecento, in Id., Repubblica di Venezia e Stati italiani. Politica e giustizia dal secolo XVI al XVII, Torino 1982, p. 323 (pp. 319-410).

129. William Thomas, Historie of Italie, London 1549, in Venice, a Documentary History, 1450-1630, a cura di David Chambers - Brian Pullan, Oxford 1992, p. 99. E cf. G. Cozzi, Fortuna o sfortuna del diritto veneto, p. 325.

130. Cf. Mario Ascheri, Tribunali, giuristi e istituzioni dal Medioevo all'età moderna, Bologna 1989, pp. 118-119.

131. Cf. G. Cozzi, La politica del diritto, pp. 219 ss.; Aldo Mazzacane, Lo Stato e il Dominio nei giuristi veneti durante il "secolo della Terraferma", in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/I, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1980, pp. 579 ss. (pp. 577-650).

132. Cf. G. Cozzi, La politica del diritto, pp. 221 ss.; Angelo Ventura, Politica del diritto e amministrazione della giustizia nella Repubblica veneta, "Rivista Storica Italiana", 94, 1982, pp. 589-608. In particolare sul parere dei giuristi, da Baldo degli Ubaldi al Diplovatazio, cf. A. Mazzacane, Lo Stato e il Dominio nei giuristi veneti, pp. 584 ss., 622 ss.; Ugo Petronio, "Civitas Venetiarum est edificata in mari", in AA.VV., Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi, Venezia 1992, pp. 171- 185.

133. Cf. G. Cozzi, La politica del diritto, p. 293.

134. Id., Fortuna o sfortuna del diritto veneto, p. 324 e n. 21. Cf. G. Cracco, La cultura giuridico-politica, p. 240 e n. 12.

135. A. Mazzacane, Lo Stato e il Dominio nei giuristi veneti, p. 579. Leggermente diversa l'interpretazione di G. Cracco, La cultura giuridico-politica, p. 243 e n. 26.

136. Cioè una sorta di "controrivoluzione", su cui cf. G. Cracco, Un "altro mondo", p. 113.

137. Cf. Giovanni I. Cassandro, La curia di Petizion, "Archivio Veneto", ser. V, 37-38, 1936, p. 94 n. 6 (pp. 72-144); e ibid., 39-40, 1937, pp. 162-163 (pp. 1-210).

138. A.S.V., Compilazione delle Leggi, b. 64, c. 8, "parte" del 6 novembre 1273.

139. G.I. Cassandro, La curia di Petizion, 37-38, p. 106.

140. Ibid., pp. 106-107; Silvia Gasparini, I giuristi veneziani e il loro ruolo tra istituzioni e potere nell'età del diritto comune, in Diritto comune diritto commerciale diritto veneziano, a cura di Karin Nehlsen von Stryk - Dieter Nörr, Venezia 1985, pp. 80-81, 85 (pp. 67-105).

141. Sul passaggio dagli "advocati parvi" agli "advocati per omnes curias" un fondamentale contributo è venuto da S. Gasparini in I giuristi veneziani, pp. 78-80.

142. Si veda la "parte" del maggior consiglio del 20 luglio 1393 (edita in G.I. Cassandro, La curia di Petizion, 39-40, p. 171).

143. M. Sanudo, De origine, situ et magistratibus, pp. 119, 256.

144. Ibid., p. 144. Del resto, già nel 1429 l'età minima degli avvocati della curia del proprio era stata ridotta da 25 a 20 anni, perché "illi nostri nobiles qui sunt annorum XXV, non curant esse in dicto officio" (A.S.V., Compilazione delle Leggi, b. 64, c. 100).

145. A.S.V., Compilazione delle Leggi, b. 64, cc. 140 e 156, "parti" del maggior consiglio del 13 luglio e 23 novembre 1466; ibid., cc. 166-167, "parte" del 20 marzo 1474. Gli avvocati di Rialto erano stati istituiti con deliberazione del maggior consiglio del 20 marzo 1463 (ibid., c. 128). Cf. M. Sanudo, De origine, situ et magistratibus, pp. 123-124; Vettor Sandi, Principi di storia civile della Repubblica di Venezia dalla sua fondazione sino all'anno di Nostro Signore 1700, pt. III, vol. II, Venezia 1755, pp. 616, 619; G.I. Cassandro, La curia di Petizion, 37-38, pp. 108, 112; S. Gasparini, I giuristi veneziani, pp. 85-87.

146. A.S.V., Compilazione delle Leggi, b. 64, c. 230, "parte" del maggior consiglio del 26 gennaio 1504 m.v.

147. Insiste sulla prima motivazione la "parte" del maggior consiglio del 20 luglio 1393, edita in G.I. Cassandro, La curia di Petizion, 39-40.

148. Cit. da S. Gasparini, I giuristi veneziani, p. 84.

149. M. Sanudo, De origine, situ et magistratibus, p. 124.

150. Ibid., p. 260. Cf. S. Gasparini, I giuristi veneziani, p. 88.

151. S. Gasparini, I giuristi veneziani, pp. 80 ss.

152. Si veda la "parte" del maggior consiglio del 20 marzo 1474 (A.S.V., Compilazione delle Leggi, b. 64, cc. 166-167), con il suo lamento per la perdita dello "honesto et limitato lucro" di cui erano soliti godere "aliquot nobiles nostri". Per un esempio, cf. Frederic C. Lane, I mercanti di Venezia, Torino 1982, pp. 16-17.

153. Critiche del maggior consiglio agli avvocati per l'eccessiva lunghezza delle arringhe nella "parte" del 27 dicembre 1469 (A.S.V., Compilazione delle Leggi, b. 64, c. 158); eccessiva lunghezza delle cause ed esosità delle parcelle, "parte" del 19 settembre 1465 (ibid., c. 138); gli avvocati straordinari suscitano liti e scandali, "parte" del 16 gennaio 1479 m.v. (ibid., c. 190). Invettive contro la parte avversa: varie leggi a partire dal 1480 (S. Gasparini, I giuristi veneziani, p. 86 n. 72). E cf. la vivacissima testimonianza cinquecentesca di Francesco Sansovino, L'avvocato e il segretario, a cura di Piero Calamandrei, Firenze 1942, p. 69. Come è noto, L'avvocato del Sansovino era stato pubblicato a Venezia nel 1554.

154. Cf. S. Gasparini, I giuristi veneziani, pp. 51-52.

155. Cf. G. Cozzi, La politica del diritto, pp. 278 ss. Tra i cittadini veneziani che furono assessori in Terraferma si segnala nel primo '500 Agostino de' Freschi, figlio del segretario del consiglio dei dieci Zaccaria de' Freschi. Cf. Mary Neff, A Citizen in the Service of the Patrician State: the Career of Zaccaria de' Freschi, "Studi Veneziani", n. ser., 5, 1981, pp. 60-61 (pp. 33-61).

156. Su Paolo Ramusio (circa 1443-1506), cf. E.A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, II, pp. 311-315; M.L. King, Venetian Humanism, pp. 423-424. Sugli assessori friulani, cf. Giovanni G. Capodagli, Udine illustrata da molti suoi cittadini, Udine 1665 (riprod. anast. Bologna 1977), pp. 163, 244, 291-302, 404. Sugli assessori padovani: Michael Knapton, Tribunali veneziani e proteste padovane nel secondo Quattrocento, in AA.VV., Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi, Venezia 1992, pp. 168-169 (pp. 151- 170). In generale cf. L'assessore. Discorso del sig. Giovanni Bonifaccio, in Rovigo MDCXXVII, a cura di Claudio Povolo, Pordenone 1991.

157. Cf. Cefarino Caro Lopez, Gli Auditori noni e il dominio di Terraferma, in Stato società e giustizia nella Repubblica veneta (sec. XV-XVIII), a cura di Gaetano Cozzi, I, Roma 1980, pp. 259-316; G. Cozzi, La politica del diritto, pp. 283-293.

158. F. Sansovino, L'avvocato e il segretario, p. 136.

159. A.S.V., Compilazione delle Leggi, b. 64, c. 101, "parte" del senato del 2 giugno 1436.

160. Ibid., b. 64, c. 138, "parte" del maggior consiglio del 19 settembre 1465; ibid., c. 140, "parte" del maggior consiglio del 13 luglio 1466; ibid., cc. 166-167, "parte" del maggior consiglio del 20 marzo 1474. Cf. S. Gasparini, I giuristi veneziani, pp. 85-87.

161. M. Knapton, Tribunali veneziani e proteste padovane, p. 167.

162. Cf. S. Gasparini, I giuristi veneziani, pp. 86-87.

163. Su questi tribunali, cf. M. Sanudo, De origine, situ et magistratibus, pp. 119 ss.

164. A.S.V., Compilazione delle Leggi, b. 64, c. 132, "parte" del maggior consiglio del 12 settembre 1463.

165. Ibid., c. 160.

166. Ibid., c. 164, "parte" del senato del 6 maggio 1473.

167. Ibid., c. 203, "parte" del senato del 22 settembre 1489. Cf. S. Gasparini, I giuristi veneziani, p. 87.

168. A.S.V., Notatorio di Collegio, reg. 14, c. 9, 17 ottobre-26 ottobre 1489. Cf. S. Gasparini, I giuristi veneziani, p. 87 (sulla base di una copia del documento dà un totale di 64 avvocati straordinari); M. Knapton, Tribunali veneziani e proteste padovane, p. 167 n. 53.

169. Cf. M. Sanuto, I diarii, III-VI, indice, ad voces.

170. Ibid., III, col. 95.

171. Cf. Marco Ferro, Dizionario del diritto comune e veneto, I-X, Venezia 1778-1781: X, pp. 81 ss.; S. Gasparini, I giuristi veneziani, pp. 90-92.

172. A.S.V., Compilazione delle Leggi, b. 64, c. 211, senato, 31 dicembre 1497. Cf. S. Gasparini, I giuristi veneziani, p. 88. Questa delibera sembra ispirarsi alle norme disciplinari vigenti per il personale della cancelleria ducale (Francesco Marini, Luigi Marini segretario della serenissima repubblica di Venezia nel secolo XV e XVI, Treviso 1910, pp. 47-48; Giuseppe Trebbi, La cancelleria veneta nei secoli XVI e XVII, "Annali della Fondazione Luigi Einaudi", 14, 1980, pp. 87 n. 62, 100 [pp. 65-125>).

173. Scelta degli avvocati regolamentata dalla già citata "parte" del senato del 6 maggio 1473 (cf. Ivone Cacciavillani, La legge forense veneziana [1537>, Padova 1987, p. 89). Divieto di consumare i pasti: "parte" del senato del 31 dicembre 1497, A.S.V., Compilazione delle Leggi, b. 64, C. 211.

174. Cf. sopra, n. 146.

175. Cf. Gaetano Cozzi, Autorità e giustizia a Venezia nel Rinascimento, in Id., Repubblica di Venezia e Stati italiani. Politica e giustizia dal secolo XVI al secolo XVIII, Torino 1982, pp. 96 ss.

176. Sul dibattito dell'aprile 1518, cf. ibid., p. 122. Il Dolfin vi sostenne Luca Tron (M. Sanuto, I diarii, XXV, coll. 356-357). Precedente scontro del Dolfin e del Tron col doge Loredan, ibid., col. 354. Sul Tron, cf. in generale Robert Finlay, La vita politica nella Venezia del Rinascimento, Milano 1982, pp. 294-306.

177. M. Sanuto, I diarii, XXV, coll. 113, 115.

178. Infatti erano nobili sette dei sedici avvocati straordinari provvisoriamente autorizzati a esercitare la professione nelle corti di San Marco (ibid., col. 115).

179. Ibid., coll. 190, 194.

180. Nella conclusione della vicenda è evidente un certo disagio, perché tutti sapevano che l'avogadore aveva formalmente ragione. Difatti l'ordine della Signoria "fo notà simpliciter senza sotoscrition di Consieri; poi la Signoria non dia né pol far contra le leze" (ibid., col. 245).

181. Cf. S. Gasparini, I giuristi veneziani, p. 88.

182. Cf. G. Cozzi, La politica del diritto, pp. 295 ss.

183. Sull'elezione dei tre revisori nel 1528, cf. ibid., pp. 296 ss. Invio di segretari a Padova: ibid., p. 304 (ma la decisione fu revocata nel 1534, cf. M. Neff, A Citizen, p. 36 n. 8). Sulla contrastata candidatura dell'avvocato Alvise da Noale a cancellier grande, cf. più oltre nel testo.

184. Cf. G. Cozzi, La politica del diritto, pp. 304 ss.

185. Cf. S. Gasparini, I giuristi veneziani, p. 93.

186. Testo edito in I. Cacciavillani, La legge forense veneziana.

187. Cf. G. Cozzi, La politica del diritto, pp. 292-293.

188. Cf. W. Thomas, Historie of Italie, pp. 81-82; Giuseppe Zanardelli, L'avvocatura. Discorsi, Firenze 18912, pp. 39 ss. Lo Zanardelli ravvisava un limite dell'oratoria forense nell'uso del veneziano. Con ottica più moderna, il problema è studiato per il '700 da Nereo Vianello, Il veneziano lingua del foro veneto nella seconda metà del secolo XVIII, "Lingua Nostra", 18, 1957, pp. 68-73.

189. Cf. M. Sanuto, I diarii, IV, coll. 158, 369; XXVI, coll. 340-341.

190. Interventi degli avvocati: in difesa degli eredi del doge Agostino Barbarigo (dicembre 1501, ibid., IV, coll. 181-182, 184); per i comandanti della flotta (settembre 1501, ibid., col. 112); fallimento del Banco Querini-Lippomano (marzo 1503, ibid., col. 822); dazi di Chioggia (settembre 1506, ibid., VI, co1. 429); iscrizione di patrizi all'avogaria (maggio 1519, ibid., XXVII, coll. 265-266). Incidente con l'ambasciatore del re di Polonia, ibid., XXXVI, col. 571. L'episodio, dell'agosto 1524, si inserisce nell'ambito del celebre processo al gioielliere Jacob, figlio di Anselmo dal Banco (Asher Meshullam), su cui cf. B. Pullan, La politica sociale, II, p. 132.

191. Cf. Guido Ruggiero, I confini dell'eros. Crimini sessuali e sessualità nella Venezia del Rinascimento, Venezia 1988, pp. 178-179 (crimini sessuali). Più cauto il giudizio dello stesso autore circa i reati relativi ad altri generi di violenze (Patrizi e malfattori, pp. 205 ss.; ma cf. ibid., p. 207).

192. Cf. Antonio Pertile, Storia del diritto italiano dalla caduta dell'impero romano alla codificazione, VI, pt. I, Torino 19002, pp. 278-282; Vittorio Lazzarini, L'Avvocato dei carcerati poveri a Venezia, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 70, 1910-1911, pt. II, pp. 1471-1507; B. Pullan, La politica sociale, I, p. 396; Giovanni Scarabello, Carcerati e carceri a Venezia nell'età moderna, Roma 1979, pp. 17-18.

193. A.S.V., Compilazione delle Leggi, b. 64, c. 217, "parte" del maggior consiglio, 18 marzo 1498; ibid., c. 264, decreto del consiglio dei dieci e "zonta", 8 agosto 1522. Nel 1532 erano avvocati fiscali il nobile ser Francesco Michiel ed il ricco e famoso avvocato Alvise da Noale (ibid., c. 268).

194. Gaetano Cozzi, La donna, l'amore e Tiziano, in AA.VV., Tiziano e Venezia, Vicenza 1980, p. 60 n. 78 (pp. 47-63).

195. M. Sanuto, I diarii, IV, col. 822, 15 marzo 1503.

196. London, British Library, Cotton, ms. Nero B. VII, c. 109, Bernardo Sandro a Thomas Starkey, Padova, 25 giugno 1535 (documento gentilmente segnalato da Ugo Tucci).

197. M. Sanuto, I diarii, XXVII, col. 618, in data 2 settembre 1519.

198. F. Sansovino, L'avvocato e il segretario, pp. 89-90.

199. Pietro Aretino, Lettere, introduzione, scelta e commento di Paolo Procaccioli, Milano 1990, pp. 507-508, 700-701, 778-779.

200. Cf. Marco Foscarini, Della letteratura veneziana ed altri scritti intorno ad essa, Venezia 1854, p. 91 e n. 1.

201. Cf. Giorgio Vasari, Le vite de' più eccellenti pittori scultori ed architettori, a cura di Gaetano Milanesi, VII, Firenze 1881, pp. 425-484, segnatamente pp. 453-456, 460; Carlo Ridolfi, Le maraviglie dell'arte ovvero Le vite degli illustri pittori veneti e dello stato, a cura di Detlev von Hadeln, I-II, Berlin 1914-1924 (riprod. anast. Roma 1965); E.A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, III, pp. 151-152; IV, pp. 141, 159; Giovan Battista Cavalcaselle - Joseph Archer Crowe, Tiziano, la sua vita e i suoi tempi con alcune notizie della sua famiglia, I-II, Firenze 1877-1878; Rodolfo Pallucchini, Tiziano, I-II, Firenze 1969; Harold E. Wethey, The Paintings of Titian, I-III, London 1969-1975; G. Cozzi, La donna, l'amore e Tiziano.

202. Cf. E.A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, IV, p. 141; R. Pallucchini, Tiziano, I, pp. 85, 276; H.E. Wethey, The Paintings of Titian, I, p. 70.

203. B. Pullan, La politica sociale, I, pp. 105-106, 124. Gli avvocati patrizi, e i nobili in generale, non erano esclusi, pur non potendo aspirare alle cariche: Sebastiano Venier era iscritto alla Scuola grande di San Marco (A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 196, nr. 969, testamento in data 22 giugno 1568).

204. Nel gennaio 1519 il patrizio Giovanni Antonio Venier, avvocato straordinario, parlando in senato esordì "scusandosi feva officio di avochato in Quarantia per esser nato povero" (M. Sanuto, I diarii, XXVI, coll. 340-341). Nel 1524 l'avvocato straordinario ser Marco Antonio Contarini, q. ser Antonio, ritornò alla avvocatura dopo l'eccezionale vincita di 12.000 ducati al lotto pubblico. Ma il Sanuto annota: "la farà per piacer, per esser ricco in perpetuo". In precedenza, poteva invece essersi trovato in ristrettezze finanziarie, come padre di numerosi figli legittimi e naturali (ibid., XXXVI, coll. 54, 265, 272, 285, 292, 483-484).

205. Sulla partecipazione alla mercatura col Levante degli avvocati Nicolò Crasso e Labieno Vellutello, cf. E.A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, IV, pp. 99, 159; Claudio Povolo, Crasso, Nicolò, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXX, Roma 1984, pp. 572-573.

206. A.S.V., Dieci Savi alle Decime, b. 93, nr. 517, dichiarazione di decima, anno 1537, di Sebastiano e Leonardo Venier, q. ser Moisé; ibid., nr. 571, dichiarazione di Bartolomeo Soranzo, q. ser Maffeo; ibid., nr. 600, Alvise da Noale.

207. Le rendite di Santo Barbarigo, figlio naturale di un nobile, erano stimate a ducati 226: provenivano per circa i 3/4 dalla Terraferma, ma comprendevano anche una "pistoria" a San Stae e due vigneti a Malamocco (ibid., b. 92, nr. 110). Matteo Filetto, zio del celebre avvocato Francesco, possedeva immobili in Terraferma, ma anche una grande casa a San Geremia affittata al nipote per 50 ducati, oltre a parti di altre case a San Zulian e a San Basso, e 4 casette da "sarzenti" a San Pietro di Castello (ibid., b. 92, nr. 168). Altre denunce di avvocati, che invece comprendono solo proprietà di Terraferma: Girolamo Gigante (ibid., b. 92, nr. 343); Matteo Fedeli (ibid., b. 92, nr. 409); Giacomo Antonio Zonca (ibid., b. 93, nr. 468); Iacopo Bonfiglio (ibid., b. 93, nr. 739); Zuan dal Sol (ibid., b. 93, nr. 771). Sulla distribuzione per ceto della proprietà degli immobili a Venezia, cf. Ennio Concina, Venezia nell'età moderna. Strutture e funzioni, Venezia 1989, p. 19.

208. In una lettera del 1532 Pier Paolo Vergerio, appena passato dalla condizione di avvocato a quella di funzionario pontificio, confrontava la vecchia e la nuova carriera: "questa è grado a qualche cosa maggiore. Quella non aveva altra futura (che di quel quasi ch'io era) speranza". Cit. da Anne Jacobson Schutte, Pier Paolo Vergerio e la Riforma a Venezia, 1498-1549, Roma 1988, p. 51.

209. Andrea Da Mosto, I dogi di Venezia nella vita pubblica e privata, Milano 1966, pp. 353-368.

210. A.S.V., Notarile, Testamenti, b. 1214, nr. 984, atti del notaio Antonio Marsilio, 15 marzo 1558.

211. Giovan Battista Ramusio, In funere Francisci Faseoli Magni Venetiarum Cancellarii oratio, in Orationes clarorum hominum, vel honoris officiique causa ad principes, vel in funere de virtutibus eorum habitae, Venetiis 1559, cc. 138-140. Vicende dell'elezione: Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 1667 (= 8459), c. 38.

212. Sull'elezione del 1529, cf. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 1667 (=8459), c. 38. Sulla scelta religiosa, cf. la lettera di Bernardo Sandro, London, British Library, Cotton, ms. Nero B. VII, c. 109. Altre testimonianze sono riferite da Gigliola Fragnito, Gasparo Contarini. Un magistrato veneziano al servizio della Cristianità, Firenze 1988, p. 39 n. 94. Il soggetto del quadro di Tiziano realizzato intorno al 1538 e riconosciuto da una parte della critica come ritratto di Francesco Filetto e del figlio potrebbe essere meglio compreso alla luce di questa esperienza religiosa. Sul dibattito fra i critici, cf. H.E. Wethey, The Paintings of Titian, II, pp. 99-100.

213. M. Sanuto, I diarii, XXXVI, coll. 467, 471, alle date 11 e 14 luglio 1524. Alvise da Noale si appoggiava a una legge del 1407 sulla cittadinanza de intus (su cui cf. Reinhold C. Mueller, Mercanti e imprenditori fiorentini a Venezia nel tardo Medioevo, "Società e Storia", 55, 1992, pp. 29-60, segnatamente pp. 38 ss.). Sulla cittadinanza originaria per l'ammissione alla cancelleria, cf. G. Trebbi, La cancelleria veneta, pp. 67 ss.; Gaetano Cozzi, Politica, società, istituzioni, in Id. - Michael Knapton, La Repubblica di Venezia nell'età moderna. Dalla guerra di Chioggia al 1517, Torino 1986, pp. 133, 143-144 (pp. 1-271); A. Zannini, Burocrazia e burocrati a Venezia, pp. 34-47; M. Casini, La cittadinanza originaria.

214. M. Sanuto, I diarii, XXXVI, col. 467.

215. Cf. sopra, n. 208. Non si vuole peraltro negare la funzione che l'ufficio di assessore poté svolgere nel legare alla Serenissima alcuni giuristi della Terraferma. Cf. L'assessore; Alfredo Viggiano, Ascesa sociale e burocrazia di stato; la carriera di assessore nello stato di terraferma veneto, "Annali Veneti", 2, 1985, pp. 67-74.

216. Cf. Marco Folin, Procedure testamentarie e alfabetismo a Venezia nel Quattrocento, "Scrittura e civiltà", 15, 1990, pp. 247 ss. (pp. 243-270).

217. "Parte" del senato del 28 settembre 1514, edita in Marco Antonio Bigalea, Capitulare legum notariis publicis Venetiarum et ex parte aliarum civitatum serenissimi Veneti Dominii impositarum, Venetiis 1689, pp. 40-41.

218. In generale, cf. Armando Petrucci, Notarli. Documenti per la storia del notariato italiano, Milano 1958, pp. 3-44; Enzo Petrucci, An clerici artem notariae possint exercere, in AA.VV., Studi storici in onore di Ottorino Bertolini, II, Pisa 1972, pp. 553-598. Sul caso veneziano resta fondamentale G. Cracco, Relinquere laicis que laicorum sunt, pp. 179-186. Cf. M. Folin, Procedure testamentarie, pp. 247-250.

219. Cf. G. Cracco, La cultura giuridico politica, p. 248 n. 48. Sulla Chiesa veneziana nel tardo Medio Evo, cf. in generale Paolo Prodi, The Structure and Organization of the Church in Renaissance Venice: Suggestions for Research, in Renaissance Venice, a cura di John R. Hale, London 1973, pp. 409-430; G. Cozzi, Politica, società, istituzioni, pp. 233-252.

220. M.A. Bigalea, Capitulare, p. 11. Desidero ringraziare la dottoressa Maria Pia Pedani Fabris per aver messo a mia disposizione i risultati di suoi studi ancora inediti sul notariato veneziano.

221. "Parti" del maggior consiglio del 9 luglio 1327 e del 14 ottobre 1375, edite in M.A. Bigalea, Capitulare, pp. 13, 17.

222. "Parte" del 13 febbraio 1405 m.v. (A.S.V., Senato, Misti, reg. 47, c. 99).

223. Ivi, Maggior Consiglio, Deliberazioni, reg. 21, Leona, c. 108, 25 novembre 1399. Cf. G. Cracco, Relinquere laicis que laicorum sunt, p. 183.

224. Cf. M. Folin, Procedure testamentarie, pp. 252 ss.

225. "Plebani, clerici et sacerdotes", secondo l'esplicita denuncia della bolla di Eugenio IV del 1433 (G. Cracco, Relinquere laicis que laicorum sunt, pp. 187-189).

226. Cf. Dennis Romano, Patricians and Popolani. The Social Foundations of the Venetian Renaissance State, Baltimore-London 1987, pp. 91-118.

227. Cf. Flaminio Corner, Ecclesiae Venetae antiquis monumentis nunc etiam primum editis illustratae, I-XV, Venetiis 1749, passim e segnatamente, XIII, pp. 282-283, 310-314; Giuseppe Cappelletti, Storia della Chiesa di Venezia, II, Venezia 1851, pp. 209 ss., 427 ss.; Franco Gaeta, Un nunzio pontificio a Venezia nel Cinquecento, Venezia-Roma 1960, p. 52 e n. 1; P. Prodi, The Structure and Organization of the Church, pp. 419-420; E. Concina, Venezia nell'età moderna, pp. 163-165.

228. Talvolta erano gli stessi pievani che, nominati vescovi, ottenevano dal papa la pieve in commenda. Cf. Cesare Cenci, Senato veneto: "Probae" ai benefici ecclesiastici, in Celestino Piana - Cesare Cenci, Promozioni agli ordini sacri a Bologna e alle dignità ecclesiastiche nel Veneto nei secoli XIV-XV, Quaracchi-Firenze 1968, pp. 429-430 n. 2.

229. Sull'educazione del clero veneziano, cf. Silvio Tramontin, Gli inizi dei due Seminari di Venezia, "Studi Veneziani", 7, 1965, p. 363 (pp. 363-377); Id., Dall'episcopato castellano al patriarcato veneziano, in La Chiesa di Venezia tra Medioevo ed età moderna, a cura di Giovanni Vian, Venezia 1989, p. 60 (pp. 55-90); Bianca Betto, Le nove congregazioni del clero di Venezia, ibid., pp. 113-145 P.F. Grendler, La scuola nel Rinascimento italiano, pp. 64 ss.

230. Cf. D. Romano, Patricians and Popolani, pp. 99 ss.

231. Cf. S. Tramontin, Dall'episcopato castellano, p. 57.

232. Cf. in generale, le equilibrate osservazioni di Roberto Bizzocchi, Clero e Chiesa nella società italiana alla fine del Medio Evo, in Clero e società nell'Italia moderna, a cura di Mario Rosa, Bari 1993, pp. 6 ss. (pp. 3-44)

233. Cf. Luigi Pesce, La chiesa di Treviso nel primo Quattrocento, I-III, Roma 1987: I, pp. 242 ss.

234. Cf. Giorgio Cracco, La fondazione dei canonici secolari di S. Giorgio in Alga, "Rivista di Storia della Chiesa in Italia", 13, 1959, pp. 70-88; Id., "Angelica societas": alle origini dei canonici secolari di San Giorgio in Alga, in La Chiesa di Venezia tra Medioevo ed età moderna, a cura di Giovanni Vian, Venezia 1989, pp. 91-112.

235. Id., Lorenzo Giustiniani: la città un deserto, in Venezia e Lorenzo Giustiniani, a cura di Silvio Tramontin, Venezia [1981>, p. 126 (pp. 115-132).

236. Cf. Giuseppe Cappelletti, Storia della Chiesa di Venezia, VI, Venezia 1850, p. 187 (dal Synodicon di Lorenzo Giustiniani).

237. G. Cracco, Relinquere laicis que laicorum sunt, pp. 183 ss.

238. Ibid., pp. 184-185, 189.

239. Ce Elisabetta Barile, Michele Salvatico a Venezia, copista e notaio dei Capi sestiere, in Gilda P. Mantovani - Lavinia Prosdocimi - Elisabetta Barile, L'umanesimo librario tra Venezia e Napoli. Contributi su Michele Salvatico e su Andrea Contrario, Venezia 1993, pp. 53-103.

240. La deliberazione del maggior consiglio del 16 aprile 1443 sull'assunzione di giovani aspiranti agli uffici della cancelleria ducale è motivata coll'interesse ("contentamentum et spes") dei cittadini popolari ("plurimorum civium nostrorum popularium") cioè non nobili. Il medesimo gruppo sociale è indicato come "populares nostri" nel prologo della "parte" del 10 maggio 1444 sulla durata quadriennale degli uffici assegnati dalla quarantia criminale. Cf. G. Trebbi, La cancelleria veneta, p. 69; A. Zannini, Burocrazia e burocrati a Venezia, p. 191 n. 15.

241. Cf. M. Casini, La cittadinanza originaria, p. 140 n. 41.

242. Cf. M. Folin, Procedure testamentarie, p. 264.

243. Cf. A. Petrucci, Notarii, pp. 119-121, doc. 72.

244. Cf. Paolo Sarpi, Opere, a cura di Gaetano e Luisa Cozzi, Milano-Napoli 1969, pp. 562-576.

245. "Parte" del maggior consiglio dell'11 novembre 1485, edita in M.A. Bigalea, Capitulare, pp. 29-31.

246. Non si legiferava sul notariato delle città di Terraferma, che - come già detto - non avrebbero ricevuto da Venezia una precisa normativa fino al secolo XVII. Cf. Giancarlo Bisazza, Notai tristi e notai sufficienti. Il ceto notarile di Vicenza tra Cinque e Seicento, "Società e Storia", 59, 1993, pp. 3-33.

247. "Parti" del senato del 3 maggio e 28 settembre 1514, edite in M.A. Bigalea, Capitulare, pp. 35-39, 40-41.

248. Difatti, in occasione di un nuovo esame cui i notai furono sottoposti nel 1531, furono ammessi alla prova solo "quelli [...> ecclesiastici, che sin al presente hanno esercità la nodaria", con un esplicito richiamo alla deliberazione del 1514 ("parte" del senato del 27 aprile 1531, edita ibid., pp. 44-46).

249. Si noti la scelta straordinariamente pregnante degli aggettivi, che ben descrive il rapporto fra "cittadini" non patrizi e Repubblica aristocratica.

250. "Non possit probari, nec ad examinationem admitti aliquis forensis (intelligendo forenses omnes qui non essent cives originarii Veneti, aut per privilegium)" (M.A. Bigalea, Capitulare, pp. 38-39).

251. Cf. sopra, n. 221.

252. Nel dicembre 1503 la Signoria si divise sulla decisione se i "sanseri" di Rialto dovessero essere cittadini originari o anche solo per privilegio (M. Sanuto, I diarii, V, col. 541); successivamente si deliberò a favore degli originari (A.S.V., Compilazione delle Leggi, b. 134, c. 391, 5 marzo 1508). Per le discussioni provocate nel 1524 dalla candidatura di Alvise da Noale a cancellier grande, cf. sopra, n. 213.

253. Cf. A. Zannini, Burocrazia e burocrati a Venezia, p. 103 (però non posso condividere la sua tesi che la legge del 1514 richiedesse la cittadinanza originaria per i notai).

254. L'applicazione delle leggi sul notariato fu ripetutamente ostacolata dalla impossibilità di trovare un adeguato numero di notai disposti a sostenere il peso di un deposito cauzionale (M.A. Bigalea, Capitulare, pp. 39-41).

255. Tra le famiglie di notai, o comunque discendenti da notai, che ottennero la "cittadinanza originaria" nella seconda metà del'500 si segnalano i Groppi nel 1572 (A.S.V., Avogaria di Comun, b. 361/1, nr. 60); i Renio e gli Zordan nel 1573 (ibid., nrr. 49 e 90); i Gabrieli nel 1575 (ibid., b. 363/3, nrr. 38 e 40); i Marsilio nel 1578 (ibid., b. 365/5, nr. 93); i Galese nel 158o (ibid., b. 366/6, nr. 14); i Tommasi nel 1584 (ibid., nr. 39); i Mondo nel 1594 (ibid., b. 363/3, nr. 23).

256. La formazione di dinastie di notai è segnalata da Gabriele Fantoni, L'archivio notarile di Venezia, "Archivio Veneto", 26, 1883, pp. 403-404 (pp. 380-409). Sulla scuola notarile dell'Università di Padova, cf. Jacobi Facciolati Fasti gymnasii Patavini, I, Patavii 1757, pp. 191-195; Annalisa Belloni, Professori giuristi a Padova nel secolo XV. Profili bio-bibliografici e cattedre, Frankfurt am Main 1986, pp. 72, 333-334.

257. Fonti citate alla n. 255.

258. La famiglia Groppi, che in origine "teniva botega de seda", aveva visto il suo prestigio accresciuto grazie a prè Domenico Groppi, pievano di S. Barnaba e cancelliere inferiore, morto intorno al 1508 (F. Corner, Ecclesiae Venetae, XV, p. 343; M. Folin, Procedure testamentarie, p. 264 n. 73). I Marsilio, speziali "da grosso" e poi "di medicine" (A.S.V., Avogaria di Comun, b. 365/5, nr. 93) vantavano la memoria di un prozio Antonio Marsilio, cancelliere inferiore, probabilmente identificabile con il colto personaggio della prima metà del '500 segnalato dal Sanudo ed amico di Marco Musuro (Elpidio Mioni, La biblioteca greca di Marco Musuro, "Archivio Veneto", ser. V, 128, 1971, p. 16 [pp. 5-28>).

259. Cf. C.M. Cipolla, Le professioni, pp. 273-276; Giorgio Doria - Rodolfo Savelli, "Cittadini di governo" a Genova: ricchezza e potere tra Cinque e Seicento, in Gerarchie economiche e gerarchie sociali, secoli XII-XVIII, a cura di Annalisa Guarducci, Firenze 1990, pp. 458, 504-505; A. Ventura, Nobiltà e popolo, pp. 353 ss.; G. Bisazza, Notai tristi e notai sufficienti (non veniva contestata l'onorevolezza dei notai vicentini; ma di fatto essi furono progressivamente emarginati dal consiglio dei centocinquanta).

260. Cf. A. Ventura, Nobiltà e popolo, p. 358.

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