Le innovazioni delle armi portatili

Il Contributo italiano alla storia del Pensiero - Tecnica (2013)

Le innovazioni delle armi portatili

Gregorio Paolo Motta

Lo sviluppo delle armi da fuoco è visto come un processo lineare nel quale un nuovo sistema d’arma ne sostituisce uno meno efficiente. Tale processo si è realizzato molte volte in questi semplici termini, ma un’analisi storica più attenta fa scoprire una complessità di relazioni tra la tecnica costruttiva delle armi, il modo di produrle, la dottrina d’impiego e le organizzazioni sociali (Stato, eserciti, imprese) che le creano e le utilizzano. In altre parole, la sostituzione di un sistema d’arma con un altro non è sempre dettata dalla massimizzazione di un parametro, come, per es., la gittata o la precisione, ma coinvolge aspetti che non sono necessariamente tecnici. Ragioni sociali, organizzative, considerazioni culturali hanno spesso segnato la sostituzione di uno strumento bellico con un altro. Le armi portatili, corte e lunghe, non fanno eccezione. Dall’avvento dell’archibugio al moderno fucile d’assalto la storia economica e militare è un continuo susseguirsi di innovazioni che riguardano nuovi sistemi di accensione, caricamento e radicali mutamenti nel modo di condurre la guerra. Queste note, confinate alle sole armi portatili, si prefiggono di descrivere come la tecnica costruttiva di tali prodotti abbia influenzato il modo di condurre la guerra e ne sia stata a sua volta interessata in un processo che, in alcuni casi, ha assunto la forma di una spirale, mentre in altre occasioni è stato più semplice e lineare.

Miccia e ruota

Lo strumento che alla fine del 17° sec. dominava il campo di battaglia era il moschetto a miccia, derivato dall’archibugio che aveva fatto la sua comparsa oltre un secolo prima. All’inizio del Settecento sui campi di battaglia europei il moschetto a miccia venne sostituito dal moschetto a pietra focaia; in Giappone, invece, le armi a miccia continuarono a essere usate ancora per oltre un secolo. La sostituzione del sistema di accensione a miccia con quello a pietra potrebbe far pensare che quest’ultimo sia un’innovazione relativamente recente. Così non è: sistemi di accensione a pietra focaia erano ben conosciuti e utilizzati già nella seconda metà del Cinquecento e coesistevano con il sistema a miccia e con il sistema detto a ruota che sfruttava le proprietà della pirite. Il sistema di accensione a ruota viene comunemente datato, benché non del tutto a ragione, ad alcuni decenni prima dell’avvento della pietra, con cui coesistette, assieme alle armi a miccia, per lungo tempo. Le armi a ruota sono un interessante e rilevante caso da indagare ai fini di comprendere come la tecnica costruttiva sia interrelata con il modo di combattere.

L’applicazione principale del sistema a ruota si ebbe sulle pistole utilizzate dalla cavalleria corazzata, specialità che rivestì un ruolo non secondario nelle guerre europee tra la seconda metà del Cinquecento e la prima metà del Seicento. Il sistema di accensione a ruota utilizzava una scheggia di pirite per provocare scintille con cui accendere la carica di lancio. Il cuore del meccanismo era costituito da una rotellina opportunamente temprata e rigata. Un braccino metallico, simile alla serpe del sistema a miccia, tratteneva la scheggia di pirite. La ruota era agganciata, tramite una catenella, a un rebbio di una molla. Per sparare occorreva prima caricare la molla che azionava la ruota, impiegando un’apposita chiave. Si metteva della polvere di innesco in un incavo (bacinetto) posto in comunicazione con la ruota, superiormente. Si abbassava a questo punto il cane sulla ruota. Premendo il grilletto, la ruota scattava avanti di una porzione di giro e, sfregando contro la pirite, provocava una cascata di scintille. Si accendeva così la polvere nel bacinetto e, attraverso un foro (focone) praticato in corrispondenza nella canna, le scintille innescavano la carica di lancio. Il sistema fu migliorato con l’introduzione di uno sportellino mobile che copriva il bacinetto. Sullo sportellino chiuso si poteva abbassare il cane in sicurezza. Nel momento in cui si tirava il grilletto, lo sportellino scattava automaticamente in avanti: la pirite così poteva andare a contatto diretto della ruota. Lo sportellino garantiva anche una certa impermeabilità. Il sistema a ruota era abbastanza efficiente, garantendo la partenza del colpo con una certa sicurezza. Ci si può chiedere perché fu adottato in particolare sulle pistole e perché fu abbandonato.

La cavalleria corazzata nella prima metà del Cinquecento soffriva di una crisi notevole. In essa militavano i migliori guerrieri del tempo, equipaggiati con lance e corazze, che però, a differenza dei loro predecessori medievali, dovevano affrontare reparti integrati di picchieri e archibugieri. Le picche impedivano ai cavalieri di piombare sulla fanteria e archibugi e moschetti avevano ragione delle corazze, per quanto robuste. I fanti stavano per prevalere su quello che veniva considerato lo strumento principe per la vittoria in battaglia. Era necessario pensare un uso diverso della cavalleria, dal momento che la tradizionale tecnica di caricare in linea con la lancia abbassata comportava ormai un rateo di perdite elevato non garantendo la vittoria. La soluzione parve essere quella di dotare di armi da fuoco anche i cavalieri, ispirandosi al modello degli arcieri e balestrieri a cavallo. Tuttavia apparve subito evidente un problema. L’archibugio a miccia era l’arma meno adatta a essere usata a dorso del cavallo. Micce accese, fiaschette della polvere, briglie erano poco compatibili tra di loro. Le difficoltà erano aggravate dalla necessità per i cavalieri di indossare guanti spessi e corazzati nella mano sinistra che reggeva le briglie: venivano così rallentati o impediti i movimenti fini delle dita necessari a ricaricare l’arma. Inoltre, il pettorale della corazza rendeva difficoltoso appoggiare il calcio del fucile.

La soluzione fu trovata attorno al 1540 proprio nella pistola a ruota, ossia in un’arma che poteva essere sparata con una mano sola. I cavalieri corazzati incominciarono a sostituire la lancia con una o più coppie di pistole a ruota. Tali armi avevano una portata pratica di una decina di metri al massimo. Per poter impiegare la pistola con una qualche probabilità di successo, era necessario avvicinarsi al nemico, fermarsi e, reggendosi sulle staffe, fare fuoco. Il vero problema consisteva però nel fatto che la pistola a ruota poteva essere sparata con una mano sola, ma doveva essere ricaricata con due mani. La ricarica della pistola era un affare da giocolieri, stando in equilibrio su un cavallo nel pieno del combattimento. Di conseguenza i cavalieri portavano più pistole per minimizzare la probabilità di trovarsi nell’impossibilità di sparare avendo l’arma scarica.

Un rimedio operativo fu individuato nella tecnica del caracollo. I cavalieri erano disposti su formazioni organizzate in numerose file. La prima fila sparava quando arrivava a contatto balistico con il nemico. Dopo di che i cavalieri che la componevano eseguivano una contromarcia e si posizionavano sul retro della formazione dove, in relativa tranquillità, potevano tentare di ricaricare. Il caracollo massimizzava le capacità offensive della pistola a ruota, ma aveva inconvenienti molto gravi. Il cavallo, con questa tecnica, si trasformava unicamente in un mezzo con cui portare il fuoco vicino al nemico. Si perdeva totalmente la funzione dell’urto in velocità. Il caracollo era adatto a contrastare principalmente la cavalleria nemica armata di lancia, dal momento che la portata pratica della pistola eccedeva la lunghezza della lancia avversaria. Anche contro formazioni di picchieri questo modo di combattere aveva una sua valenza positiva perché i cavalieri potevano sparare stando in sicurezza, fuori dalla portata delle picche.

Le probabilità di successo del caracollo si azzeravano invece se esso veniva impiegato contro i picchieri appoggiati da moschettieri. Il moschetto sparava una palla più pesante di quella della pistola. Tale palla era capace di perforare le corazze dei cavalieri grazie alla velocità iniziale di oltre 300 m/s. Inoltre il moschetto aveva una portata effettiva almeno doppia rispetto alla pistola. Il vero punto debole del caracollo risiedeva nell’interfaccia umana della pistola a ruota. Si doveva richiedere al cavaliere di muoversi in perfetta sincronia con i compagni, fermarsi, prendere la mira e sparare. Queste operazioni dovevano essere svolte stando ben all’interno del raggio tattico del moschetto. I cavalieri spesso non eseguivano il caracollo con la velocità necessaria a portarsi tutti, in fila e in sincrono, davanti ai moschetti. In tal caso la scarica di colpi di pistola perdeva grandemente la sua efficacia non essendo simultanea. I cavalieri si limitavano a sparare più in fretta che potevano per ridurre al minimo la loro permanenza in una pericolosa killing zone.

Un altro limite esistente per l’impiego del caracollo era costituito dalla complessità costruttiva delle piastre delle armi a ruota. Il locus minoris resistentiae di questo meccanismo era la catenella, realizzata in ridotte dimensioni, che aveva la tendenza a spezzarsi con allarmante frequenza. Inoltre il mollone che, tramite la catenella, faceva girare la ruota, non reggeva a lungo la tensione: era consigliabile caricarlo con la chiave poco prima dell’azione. Il caracollo fu modificato radicalmente dal re svedese Gustavo Adolfo (1594-1632) durante la guerra dei Trent’anni. Con la riforma del ‘campione’ protestante i cavalieri svedesi si limitavano a scaricare una o due pistole sul nemico, poi spingevano i cavalli in avanti, sciabole alla mano, appoggiati da reparti di moschettieri. Le altre eventuali pistole in dotazione ai cavalieri svolgevano unicamente il ruolo di arma di difesa personale. Il caracollo cadde così in disuso. La pistola cessò quindi di essere un’arma di una qualche importanza tattica sul campo di battaglia.

L’archibugio a ruota era la versione lunga della pistola. Non ebbe la stessa rilevanza dell’arma corta: il suo uso, in ambito militare, fu confinato ai dragoni, ossia ai reparti di fanteria montata che combattevano sia a piedi sia a cavallo e ai soldati che scortavano i cassoni della polvere da sparo. Anche i reparti d’élite, come le guardie del corpo, ricevettero gli archibugi a ruota, soprattutto per motivi di prestigio. Le armi a ruota erano tecnologicamente più avanzate delle coeve armi a miccia, ma furono queste ultime a durare più a lungo in servizio. Sui campi di battaglia la necessità di avere armi da fuoco in gran numero fece premio sulla maggiore sofisticazione. Le armi a miccia erano meno costose, più facili da riparare delle armi a ruota, così i militari le preferirono per l’armamento base della fanteria. La produzione di pistole e archibugi a ruota si concentrò in alcune aree d’Europa come a Suhl in Germania e nel Bresciano in Italia. Il distretto del ferro bresciano produsse una grande quantità di armi a ruota di buona fattura destinate all’esportazione e all’armamento della Repubblica di Venezia.

La produzione delle armi a ruota fece compiere un salto tecnologico e organizzativo agli artigiani bresciani che producevano già armi a miccia. Essa assunse inoltre connotati quasi industriali nel tentativo di rispondere alla forte domanda proveniente dall’Europa; questo aspetto è evidente soprattutto nella divisione del lavoro. Tra gli artigiani bresciani si possono pertanto individuare gli specialisti nella costruzione delle canne: bollitori, livellatori, invidadori o fondellieri, molatori, distinti dagli azzalinieri, che realizzavano gli acciarini. Gli incassadori, invece, curavano l’accoppiaggio delle parti metalliche con la cassa in legno.

Una delle operazioni più complesse, compiuta dai livellatori, era il raddrizzamento delle canne eventualmente uscite storte dalle precedenti fasi di saldatura e rettifica interna. Il livellatore doveva guardare attraverso la canna e giudicare il difetto dall’andamento delle rette d’ombra. L’attrezzatura necessaria a raddrizzare era costituita da un vitone a bilanciere che premeva sulla canna sospesa tra due supporti.

Gli artigiani bresciani produssero anche un’interessante modifica al sistema a ruota. L’innovazione consisteva nello sfruttare il movimento del cane per caricare la ruota. In altri termini, attraverso opportuni leverismi, l’azione di abbassare il cane sullo sportellino armava nel contempo la molla della ruota. Si semplificava così drasticamente l’uso delle pistole e dei moschetti dal momento che non era più richiesto di caricare preliminarmente la ruota con la chiave. Per la complessità del meccanismo, realizzare una piastra con armamento automatico della ruota era alla portata unicamente di un valente artigiano. Da qui la mancanza di una produzione su larga scala.

La pietra focaia e il combattimento in linea

L’innovazione che davvero ebbe un impatto notevole sulla condotta della guerra fu il sistema di accensione a pietra focaia. Contrariamente a una comune credenza, l’acciarino a pietra è quasi coevo al sistema a ruota. Per quanto sia estremamente difficile datarne la nascita con esattezza, si può ragionevolmente ipotizzare che risalga agli anni tra il 1520 e il 1560. In quel periodo compaiono diversi tipi di acciarino, tra i quali spicca quello cosiddetto di Anselmo, di origine portoghese. Questo meccanismo traeva ispirazione da un particolare sistema a miccia, dotato di serpe a scatto e piastrina mobile copribacinetto. La serpe venne trasformata nel classico cane con le ganasce che rinserravano la pietra focaia; per aprirsi, la piastrina copribacinetto ruotava ora in avanti. Quando il cane si abbatteva sulla piastrina, la pietra focaia, urtandola, generava scintille che accendevano la polvere di innesco. La vampa della combustione si trasmetteva, come nelle armi a miccia e a ruota, alla carica di lancio.

Per un lungo periodo, fino all’inizio del 18° sec., le armi dotate di acciarino a pietra coesistettero con quelle a ruota, più complesse, e con quelle a miccia, più semplici, ma di più lento impiego. Il balzo decisivo con cui l’acciarino a pietra soppiantò gli altri sistemi avvenne allorché, grazie a un miglioramento sostanziale nella pratica dei trattamenti termici, le molle, come chiariscono i trattati dell’epoca, raggiunsero l’affidabilità desiderata dai militari. L’entrata in servizio sistematica delle armi a pietra coincise anche con l’adozione generalizzata della cartuccia, ovverosia di un tubetto di carta che conteneva la polvere e la palla. Tale artificio, già comparso con il moschetto a miccia, semplificava l’introduzione in canna della carica di lancio. Il soldato strappava la cartuccia, versava la polvere nella canna e spingeva giù la palla di piombo con la bacchetta di caricamento. Parte della polvere della carica di lancio doveva essere messa nel bacinetto come innesco. In molti casi si caricavano i moschetti a doppia palla o a palla e pallettoni per aumentare la probabilità di colpire.

Colossi militari come l’esercito del re di Francia avevano bisogno di alcune centinaia di migliaia di moschetti di costruzione standard. Per soddisfare una domanda così elevata fu necessario affidare buona parte della produzione ai grandi arsenali di Stato. Gli opifici artigianali furono impiegati principalmente come subfornitori e per soddisfare picchi improvvisi di domanda. In Francia, per es., il grosso della produzione fu concentrato dalla seconda metà del Settecento negli arsenali di Saint-Étienne e Charleville.

Il moschetto a pietra, nella sua forma più evoluta, segnò il passaggio da un sistema basato su unità produttive artigianali di piccole dimensioni a uno nel quale gli arsenali di Stato giocarono un ruolo fondamentale. Gli eserciti europei tennero in servizio fino al 1830 l’arma a pietra, che nel francese Charleville modello 1777 e nel britannico Brown Bess, trovò l’espressione più evoluta del moschetto militare. Per capire le fortune del moschetto a pietra occorre tuttavia rifarsi anche alla dottrina d’impiego che è interrelata con la sua tecnica costruttiva. Il moschetto a pietra trova la sua esaltazione nel combattimento lineare.

La tecnica del combattimento lineare della fanteria è la forma finale e compiuta del modo di combattere che i principi di Nassau avevano introdotto sul finire del Cinquecento e che era basato sull’impiego degli archibugieri e dei moschettieri. Questa tecnica di combattimento era imperniata sulla realizzazione di scariche continue e sincronizzate contro il nemico. Per raggiungere tale obiettivo gli uomini venivano schierati su tre o quattro file, opportunamente posizionate. Il fuoco veniva comandato per file o per sezioni. Nel fuoco per file era l’intera fila a tirare. Nel caso di fuoco per sezioni, era un intero plotone o compagnia che sparava con tutte le sue file contemporaneamente. Un attacco alla baionetta chiudeva la partita quando il nemico avesse vacillato per perdite elevate subite. La distanza di ingaggio si mantenne su una trentina di metri, rimanendo più o meno la stessa dei fucili a miccia. In realtà, la palla del moschetto era lesiva a distanze ben superiori alle poche decine di metri, ma ciò era praticamente irrilevante per il combattimento lineare.

Il moschetto era un’arma individuale, però il suo uso era di tipo collettivo. La capacità di piazzare un colpo singolo con precisione anche a lunga distanza non era infatti decisiva, mentre era essenziale che la scarica di moschetteria colpisse il fronte nemico in maniera simultanea e con continuità. Nel combattimento lineare la velocità nella ricarica e l’affidabilità del meccanismo di accensione erano doti premianti rispetto alla precisione. Il moschetto a pietra aveva la canna liscia quindi si poteva ricaricare agevolmente dalla bocca, il suo acciarino era discretamente affidabile. Costruttivamente era abbastanza robusto e facile da riparare. Il materiale di consumo e le parti di ricambio necessarie si potevano limitare alle pietre focaie, alla molla del cane e a quella della martellina. Gli armieri di reparto, anche a livello di reggimento, erano perfettamente in grado di effettuare le principali riparazioni necessarie. Il combattimento lineare era il modo perfetto di utilizzare il moschetto a pietra sfruttandone tutte le potenzialità. Ovviamente non tutti gli scontri furono gestiti secondo lo schema del combattimento lineare.

Nei teatri operativi nordamericani, durante le guerre franco-indiane (1754-63), i contendenti impiegarono formazioni molto più elastiche e tattiche di ingaggio mutuate dalle tribù indiane. Tuttavia, durante la guerra d’Indipendenza americana (1775-83), gli eserciti inglesi e continentali (statunitensi) si affrontarono secondo i dettami della tattica lineare. Solo in sporadici, ma emblematici casi i moschetti rigati in mano ai tiratori scelti dei ribelli americani ebbero un ruolo importante.

Il combattimento lineare rimase però una prerogativa degli eserciti europei come testimonia la diversa tecnica costruttiva dei moschetti ottomani. Questi erano in genere poco standardizzati, prodotti mediamente con meccanismi di qualità inferiore a quelli occidentali. Il tratto distintivo era però costituito dall’assenza di baionetta. Questa caratteristica testimonia come il moschetto per i turchi fosse pensato ancora come un’arma personale e di uso singolo.

Le guerre napoleoniche furono contemporaneamente la massima espressione del moschetto a pietra e il suo canto del cigno. Fu infatti il volume di fuoco a determinare l’esito delle battaglie. A Waterloo (1815) le truppe inglesi, ben schierate sul terreno da Arthur Wellesley duca di Wellington, svilupparono una serie di scariche controllate e sincrone contro i reggimenti francesi della Guardia facendone crollare la coesione e lo spirito combattivo.

La capsula e il fucile Minié

L’acciarino a capsula di fulminato, innovazione che attorno al 1830 segnò in modo rapido e definitivo la fine del moschetto a pietra, non ebbe in realtà un effetto rilevante sulle tecniche di combattimento. Lo scopo della sua introduzione fu quello di porre rimedio ad alcuni difetti del sistema a pietra tra i quali spiccava il ritardo di accensione. In altri termini, tra il momento in cui il cane si abbatteva sulla martellina e quello in cui partiva il colpo passavano a volte alcuni decimi di secondo. Negli acciarini sofisticati, prodotti per armi da tiro o da duello, il ritardo di accensione era trascurabile, ma nelle più rozze armi militari era invece perfettamente avvertibile. Il tiratore poteva muovere l’arma durante questo ritardo con effetti deleteri sulla precisione. Inoltre, per quanto ben realizzato, il bacinetto della batteria a pietra non era del tutto impermeabile. La ricarica del fucile a pietra richiedeva infine un notevole numero di movimenti. Varie furono le proposte tecniche indirizzate a ovviare a questi inconvenienti; fu però solo applicando le proprietà del fulminato di mercurio e passando così all’acciarino a luminello, che si risolsero i problemi ottenendo un’accensione pressoché immediata della carica di lancio, un’elevata difesa dall’umidità e la velocizzazione della manovra di innesco.

Convenzionalmente viene attribuita al reverendo scozzese Alexander John Forsyth (1768-1843) la sostituzione della pietra focaia con un’ampolla di fulminato. L’invenzione di Forsyth è databile al 1807, anno in cui ottenne un brevetto in merito. L’applicazione pratica della sua idea fu realizzata quando il fulminato fu inserito in una capsula di rame a opera pare (ma l’attribuzione è controversa) di François Prélat, armaiolo parigino. Il meccanismo di accensione fu così semplificato drasticamente. Il cane ora cadeva su una capsula di rame contenente il fulminato. La capsula era montata su un tubetto forato, il luminello, che era in diretta comunicazione con la carica di lancio. La capsula percossa generava un potente dardo di fiamma che accendeva la polvere. Il sistema detto a capsula era molto più semplice di quello a pietra, assai affidabile e con ottime qualità di impermeabilità.

L’introduzione della capsula fece rapidamente sparire il moschetto a pietra come arma d’ordinanza. I vecchi fucili a pietra furono esportati in Africa o trasformati in armi a capsula. La capsula migliorò drasticamente l’affidabilità e la rapidità di caricamento. Le qualità balistiche del moschetto a capsula erano però le stesse del moschetto a pietra. Di conseguenza il modo di impiego del nuovo moschetto rimase invariato rispetto al vecchio che sostituiva. Il caricamento dalla bocca, in una canna liscia, di una palla tonda, caratteristica comune alle armi a pietra e a quelle a capsula, non consentiva di allungare la distanza di ingaggio. I moschetti a capsula con canna liscia rimasero in servizio nei principali eserciti europei grosso modo per una decina di anni. L’esercito piemontese condusse ancora la campagna del 1859 armato per lo più con moschetti a capsula a canna liscia. Occorreva trovare il modo di passare ad armi dotate di rigatura per ricaricare le quali però non servissero tempi lunghi.

Le canne rigate risalivano agli albori delle armi da fuoco, ma il loro uso era incompatibile con la tecnica del combattimento lineare. La palla, per ‘prendere’ la rigatura, doveva essere forzata in canna a colpi di mazzuolo. Tale pratica era adatta solo a essere impiegata nei poligoni per il tiro a segno o a caccia. In guerra, i reparti di tiratori scelti o di altre truppe d’élite erano gli unici a essere dotati di moschetti rigati. Per es., gli inglesi impiegarono con successo il moschetto rigato Baker, in servizio con le truppe scelte del 95° Rifleman, nelle guerre napoleoniche. Il Baker consentiva di colpire un bersaglio umano fino a oltre un centinaio di passi circa. In combattimento, i tiratori scelti inglesi erano addestrati a tirare a bersagli particolarmente ‘paganti’ come ufficiali nemici, cannonieri, cassoni della polvere da sparo.

La precisione del moschetto rigato Baker e di armi simili, come i Kentucky americani o gli Jäger germanici, si deve anche all’innovazione, di difficile datazione, costituita dalla pezzuola in stoffa o in pelle che avvolgeva il proiettile, calibrato sui pieni della rigatura. La pezzuola aveva il compito di impedire che i gas della combustione sopravanzassero la palla, riducendo così la precisione e la spinta. In altre parole la pezzuola sigillava la canna. I moschetti rigati tipo Kentucky furono impiegati, con successo, anche dagli americani proprio contro gli inglesi nella guerra d’Indipendenza, ma il loro uso fu in realtà sporadico e per lo più limitato a scontri di bassa intensità. La pezzuola ingrassata facilitava l’introduzione della palla in canna, ma non risolveva il problema della velocità di caricamento. Tuttavia, la vera grande debolezza delle armi impieganti il proiettile tondo risiedeva nelle caratteristiche di balistica del proiettile medesimo. La sfericità conferiva un pessimo coefficiente balistico alla palla e di conseguenza questa perdeva rapidamente velocità dopo che era uscita dalla canna. Inoltre, ‘piantare’ la palla in canna a colpi di bacchetta di caricamento o di mazzuolo deformava la palla in maniera asimmetrica e irregolare, facendole assumere imprevedibili traiettorie. Una palla cilindrica sarebbe stata più adatta a essere stabilizzata dalla rigatura. Il proiettile cilindrico, inoltre, aveva un coefficiente balistico nettamente superiore a quello della palla tonda; grazie al maggior peso, a parità di calibro, manteneva meglio l’energia alle lunghe distanze. Continuava però a essere estremamente difficoltoso far entrare una palla cilindrica in un’arma ad avancarica a canna rigata. In una canna liscia la palla cilindrica si poteva invece agevolmente caricare, ma non era stabilizzata e si capovolgeva in volo, con effetti deleteri sulla precisione.

Al capitano Claude-Étienne Minié (1804-1879) è attribuita la soluzione più efficiente (attorno al 1850) del problema di sparare la palla cilindrica in un’arma ad avancarica fornita di canna rigata. All’atto dello sparo, le palle in piombo subivano una deformazione della base per la pressione dei gas. Minié sfruttò questa caratteristica ideando una palla cilindrica più piccola del calibro della canna e quindi agevole da introdurre, ma a base cava. All’atto dello sparo la pressione dei gas allargava la base e il proiettile impegnava così le rigature e sigillava nel contempo la canna.

La semplice idea di Minié coniugava facilità di caricamento di una palla cilindrica con una efficiente stabilizzazione giroscopica. Gli effetti in termini di prestazioni balistiche furono impressionanti. Con fucili a canna rigata impieganti la palla Minié era possibile estendere, in linea teorica, la killing zone fino a quasi un migliaio di metri. Nel giro di pochi anni tutti gli eserciti dei Paesi più importanti si convertirono ai fucili Minié. Centinaia di migliaia di vecchi fucili a canna liscia furono rigati per poter adottare la nuova palla; un numero ancora maggiore di fucili fu appositamente costruito ex novo grazie alle moderne macchine installate negli arsenali militari. Il nuovo fucile aveva le seguenti caratteristiche: caricamento ad avancarica, canna rigata, acciarino a capsula e congegni di mira costituiti da un alzo regolabile e da un mirino.

Il Minié fu sperimentato con successo nella guerra di Crimea (1853-56), dove i nuovissimi Enfield modello 1854 in mano ai soldati professionisti inglesi fermarono a lunga distanza una carica di cavalleria russa. La guerra civile americana vide il trionfo di questo fucile che fu impiegato da entrambi i contendenti. Il Minié era in grado di dilatare le dimensioni del campo di battaglia: si poteva aprire un fuoco di sbarramento contro masse di fanteria distanti circa 600 metri oppure effettuare tiri di precisione su bersagli singoli anche sui 300 metri. Inoltre, la facilità di ricarica consentiva di sparare molto rapidamente. Un soldato addestrato poteva, in condizioni ottimali, raggiungere una cadenza di 2 o 3 colpi al minuto e mantenere questo ritmo di fuoco per qualche minuto.

L’adozione di un’arma con le potenzialità offensive del Minié avrebbe dunque potuto provocare un cambiamento radicale nelle tecniche di impiego dell’arma lunga, ma non sempre i militari dimostrarono una chiara visione dei risultati raggiungibili. In altri termini incominciò con il Minié a manifestarsi uno iato tra la tecnica costruttiva dell’arma e la tecnica d’impiego. In altre parole, lo sviluppo della tecnologia correva più rapidamente della dottrina d’uso dei prodotti messi a disposizione dalla rivoluzione industriale. La maggior portata del Minié sarebbe stata sfruttabile se i soldati fossero stati addestrati al tiro di precisione. Un simile addestramento avrebbe dato risultati soddisfacenti se destinato a volontari con un buon grado di dimestichezza con le armi oppure a professionisti a lunga ferma, come accadeva nell’esercito di sua maestà britannica. Addestrare masse di centinaia di migliaia di coscritti all’uso di un fucile tecnologicamente avanzato era un compito che eccedeva le risorse finanziarie e di tempo a disposizione di molti Stati maggiori. Spesso i soldati venivano inviati al fronte dopo una sommaria istruzione che prevedeva di sparare pochissimi colpi di fucile. Inoltre, l’uso dell’alzo del fucile richiedeva che i soldati riuscissero a effettuare i movimenti fini necessari a manipolare con le dita quel congegno. In condizioni di stress, disagio ambientale e fatica, nella confusione del campo di battaglia, con le mani sudate o intordipite dal freddo, l’operazione, in apparenza molto semplice, di far scorrere la tacca di mira su una scala graduata, poteva diventare drammaticamente difficoltosa. A questi fattori che complicavano l’uso ottimale del fucile Minié, si aggiungeva il fatto che l’alzo e il mirino erano progettati avendo presente l’ambiente asettico di un poligono di tiro, dove si spara, con tranquillità, in condizione di luce perfetta. Di conseguenza, anche la guerra civile americana vide un uso non omogeneo del fucile Minié: in molti casi questo fu impiegato per aprire il fuoco contro masse di nemici a distanza notevole, in altre situazioni, invece, lo schema dello scontro ricalcava quello delle battaglie settecentesche con il Minié usato come un fucile a pietra a canna liscia.

La retrocarica e la polvere infume

Il Minié era un grande passo avanti rispetto al moschetto a canna liscia, ma era sempre un’arma ad avancarica, che doveva essere caricata in piedi se si voleva avere rapidità nell’esecuzione della manovra. Nella guerra civile americana i contendenti erano ancora schierati, quasi sempre, su due o tre file, come le truppe di Wellington e Napoleone sessant’anni prima.

Il fucile Minié, adottato dalla quasi generalità degli eserciti mondiali, non aveva che una quindicina di anni di storia quando un’ulteriore innovazione lo rese obsoleto decretando nel contempo la sparizione del fucile ad avancarica che, dal lontano Cinquecento, aveva dominato i campi di battaglia. Il suo posto venne preso dal fucile a retrocarica.

La retrocarica, in realtà, era antica quanto le armi da fuoco. Le prime bombarde di inizio Quattrocento erano a retrocarica. Anche armi da fuoco portatili a retrocarica erano comparse di quando in quando nei secoli precedenti. Alcune di queste armi avevano avuto un discreto successo, come il moschetto a pietra Ferguson adottato, durante la guerra di Indipendenza americana, da qualche reparto dell’esercito inglese. L’innovazione del retrocarica, che prendeva il posto del Minié, va vista quindi come un miglioramento e un affinamento di tecniche costruttive precedentemente note e non come l’introduzione di qualcosa di radicalmente nuovo. L’evoluzione delle armi portatili, in questo come in altri casi, si sviluppa ritornando, per così dire, indietro, ripensando, alla luce di tecniche costruttive nuove, soluzioni vecchie. È un processo più rappresentabile con una spirale che con una linea retta.

Il primo esempio di fucile a retrocarica di grande successo, il Dreyse, adottato dalla Prussia attorno al 1847, rappresenta un curioso esempio di mancanza di linea evolutiva, essendo stato ben presto abbandonato in favore di altri sistemi a retrocarica. È da notare anche che il Dreyse precedette temporalmente l’entrata in servizio dei moschetti Minié. L’innovazione del prussiano Johann Nikolaus von Dreyse (1787-1867) consisteva in un otturatore mobile, chiaramente ispirato dal chiavistello di una porta, che conteneva al suo interno un lungo ago che fungeva da percussore. Da qui il nome di fucile ad ago. Una manetta consentiva al tiratore di aprire l’otturatore e di chiuderlo. La cartuccia in carta, contenente palla, polvere e capsula di innesco, era un’altra componente del sistema. La capsula di fulminato era posizionata alla base della palla cilindrica. Allorché il tiratore premeva il grilletto, l’ago, caricato da una molla, scattava in avanti, attraversando la polvere nella cartuccia. La capsula di fulminato era così percossa; la sua esplosione accendeva la carica di lancio. La tenuta dei gas del sistema Dreyse era assicurata, in linea ipotetica, dalla conicità della testa dell’otturatore, che si inseriva in un recesso, a sua volta conico, ricavato nella canna. Era essenziale che il Dreyse venisse prodotto industrialmente per assicurare il perfetto accoppiamento del cono dell’otturatore con il cono realizzato nella canna. La cartuccia del Dreyse avrebbe dovuto essere quasi totalmente combustibile, tuttavia il tiratore, prima di introdurne una nuova in canna, doveva togliere con le dita i resti della capsula di rame e il materiale eventualmente rimasto incombusto lasciati dal colpo precedente.

Il Dreyse fu impiegato dai prussiani nelle guerre contro la Danimarca (1864) e contro l’Austria (1866). Nel 1870 il fucile ad ago prussiano venne usato contro le truppe francesi che erano dotate anch’esse di un fucile ad ago: lo Chassepot. Il modello 1866 francese, conosciuto come Chassepot, era un miglioramento rispetto al prussiano Dreyse soprattutto nella tenuta dei gas. Nel fucile francese i gas della combustione erano sigillati nella camera di scoppio da anelli di caucciù montati sulla testa dell’otturatore. Lo Chassepot fu impiegato per la prima volta a Mentana nel 1867 contro i garibaldini. L’esito di quella battaglia fu determinato però dall’abile uso da parte dei francesi dell’artiglieria, nonché dalla scarsa qualità del comando dei garibaldini.

Nella guerra del 1870 lo Chassepot francese si dimostrò superiore al prussiano Dreyse per precisione e gittata. In linea teorica i fucili ad ago consentivano di effettuare dieci o dodici colpi al minuto; in realtà la cadenza di fuoco era nettamente più bassa e soprattutto non poteva essere mantenuta per molti minuti. Le perdite di gas, le fecce della combustione, mal si conciliavano con un uso sostenuto delle armi. Ci si può chiedere in cosa, se si eccettua la rapidità di tiro, i fucili ad ago fossero superiori al più semplice e robusto Minié. La risposta risiede proprio in una qualità che non venne sfruttata al meglio dai generali prussiani e francesi: ossia la possibilità, per il soldato, di usare il fucile stando coricato. Con i fucili ad ago si poteva ricaricare senza esporsi al fuoco del nemico. La copertura del terreno diventava un elemento chiave in battaglia. L’essenza stessa del combattimento lineare veniva così messa in discussione. Per esercitare un volume di fuoco continuo ed elevato non era più necessario organizzare gli uomini in file che sparavano a comando. I soldati in ordine sparso, sfruttando le coperture naturali del terreno, erano adesso in grado di sviluppare un volume di fuoco accurato anche alle lunghe distanze. Era necessario un cambio radicale di mentalità. Per poter sfruttare appieno le qualità del fucile a retrocarica occorreva che il soldato venisse educato a scegliere autonomamente il momento in cui fare fuoco valutando adeguatamente le distanze di ingaggio.

Nel giro di un trentennio si era passati dal fucile a pietra al fucile a retrocarica, ma l’assimilazione del modo in cui impiegare correttamente quest’ultimo richiese più tempo. La dottrina di impiego era lenta ad adeguarsi alle novità che il progresso tecnologico proponeva a ritmo incalzante. Proprio i prussiani, che avevano introdotto il Dreyse nella battaglia di Gravelotte Saint-Privat, nel 1870, impiegarono la loro fanteria in ordine chiuso, manovrando i reggimenti come aveva fatto il maresciallo Gebhard Leberecht Blücher a Waterloo. Le perdite subite dagli uomini dei reparti prussiani furono tremende e la battaglia fu vinta solo grazie alla qualità dell’artiglieria e all’insipienza dei generali francesi.

I fucili ad ago, tanto Dreyse che Chassepot o Carcano, finirono in un ramo morto del progresso tecnologico. I loro difetti di impiego, consistenti soprattutto nella fragilità dell’ago e nella scarsa tenuta dei gas, ne decretarono rapidamente l’obsolescenza. Già nel 1870 erano disponibili armi che avrebbero permesso di ovviare agli inconvenienti notati: si trattava di armi a retrocarica che impiegavano un bossolo in ottone come contenitore della carica di lancio. Ancora una volta si trattava della ricomparsa di un sistema già presente nella storia delle armi da fuoco. Le prime bombarde erano infatti dotate di mascolo, ossia di un contenitore, separabile dalla canna, costruito in quel caso in ferro. Tuttavia, soltanto con lo sviluppo delle macchine per imbutire i metalli fu possibile realizzare resistenti bossoli in ottone.

L’attribuzione esatta dell’innovazione rimane controversa, ma di certo essa ebbe molti padri come, per citare solamente i più noti, Nicolas Flobert (1819-1894) e Casimir Lefaucheux (1802-1852). L’apparire del bossolo metallico si può datare a ben prima del fucile ad avancarica Minié, tuttavia fu soltanto negli anni della guerra civile americana, grazie a Hiram Berdan (1824-1893) e a Edward Mounier Boxer (1823-1898), che raggiunse la piena maturità nella forma tuttora utilizzata.

Il bossolo in ottone risolveva tutti i problemi di tenuta dei gas che avevano afflitto il sistema ad ago. A cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento i principali eserciti si dotarono di fucili monocolpo a retrocarica che sparavano proiettili di calibro tra gli 8 mm e i 12 mm. Le prestazioni balistiche di queste armi erano di tutto rispetto, con velocità iniziali della palla di oltre 400 m/s e una gittata pratica di un migliaio di metri. Mentre i militari cercavano di sviluppare dottrine di impiego per le nuove armi, il progresso tecnologico conobbe un’altra accelerazione. Agli inizi degli anni Ottanta comparvero fucili a ripetizione manuale affidabili. Ancora una volta si trattò di una rivisitazione migliorativa di sistemi già esistenti in forma meno sofisticata. Fin dalla nascita del moschetto gli inventori si erano sbizzarriti a tentare di applicare sistemi di ripetizione alle armi monocolpo. Tuttavia, solamente durante la guerra civile americana apparvero serbatoi tubolari che permettevano di sparare un certo numero di colpi senza dover ricaricare a ogni colpo. Con il Mauser 71/84 tedesco e con il Vetterli svizzero lo sviluppo dei fucili a ripetizione con serbatoio tubolare raggiunse il suo punto evolutivo più alto. Pareva che questa generazione di armi dovesse soppiantare i fucili monocolpo appena entrati in servizio, ma nel 1884 si ebbe un’innovazione di carattere epocale che rivoluzionò la tecnica costruttiva delle armi e le dottrine di impiego.

La polvere da sparo utilizzata fino a quella data era una mistura di carbone, zolfo e salnitro. Nel corso dei secoli furono sperimentate composizioni con diverse percentuali dei componenti, ma senza ottenere alcun miglioramento sostanziale. La polvere nera presentava molti e gravi inconvenienti: bruciando, sviluppava una grande quantità di fumo che impediva la visibilità sul campo di battaglia. Lo sparo generava un pennacchio di fumo biancastro che denunciava l’origine del fuoco. Circa il 50% del volume della polvere si trasformava, all’atto dello sparo, in residui catramosi che, insinuandosi nei meccanismi delle armi, ne ostacolavano il funzionamento. Le armi a ripetizione erano in particolar modo soggette a questo tipo di inconveniente. I residui della combustione erano inoltre fortemente igroscopici. Di conseguenza si doveva procedere a un’accurata pulizia dell’arma immediatamente dopo aver sparato. In particolare, la canna doveva essere oliata tra una sessione di sparo e l’altra per evitare la corrosione. Le esplosioni accidentali della polvere nera erano all’ordine del giorno a causa della sua prerogativa di accendersi anche per compressione. Il polverino finissimo, che si sollevava durante le manipolazioni della polvere, era altamente infiammabile. Il contenuto energetico della polvere nera non era elevato; ne conseguiva che le velocità iniziali dei proiettili superavano di poco quella del suono, con traiettorie dall’ordinata massima molto alta.

Un chimico francese, Paul Vieille (1854-1934), inventando la polvere B (bianca) nel 1884, cambiò totalmente le carte in tavola. La nuova polvere era derivata dal processo di nitrazione della cellulosa. Il suo contenuto energetico era almeno tre volte superiore a quello della polvere che sostituiva. La combustione era molto pulita: non vi era emissione di fumo e i residui dello sparo erano generati in quantità irrilevanti. La polvere bianca era anche più facile da trasportare e stoccare, essendo meno soggetta a esplosioni involontarie. L’invenzione di Vieille fu subito affinata grazie anche al contributo di Alfred Nobel (1833-1896). Nel processo di miglioramento della polvere senza fumo un ruolo non irrilevante fu giocato anche dall’Italia, dove proprio Nobel aveva aperto, ad Avigliana, in provincia di Torino, uno stabilimento per la produzione della cosiddetta balistite. I militari francesi capirono subito che la poudre B era un prodotto dalle qualità eccezionali: nel giro di due anni fu adottato il nuovo fucile Lebel, camerato per la cartuccia 8 mm Lebel, contenente la nuova polvere.

Tutti gli Stati maggiori dei principali Paesi del mondo rimasero attoniti di fronte alle prestazioni della cartuccia francese e diedero immediatamente inizio a una forsennata corsa al riarmo. Decine di centinaia di migliaia di fucili monocolpo e a ripetizione, a volte appena consegnati, furono tolti dal servizio e sostituiti con quelli progettati espressamente per impiegare le cartucce di nuova concezione. Le grandi commesse mondiali se le aggiudicarono imprese private come la Mauser, la Steyr, la Winchester e la Remington. Gli arsenali di Stato non furono tuttavia da meno: Tula in Russia, Carl Gustav in Svezia, Enfield in Gran Bretagna produssero quantità superiori al milione di fucili di vari modelli.

In Italia la costruzione del modello 1891, un mediocre fucile, frutto dell’ibridazione dell’otturatore Mauser con il caricatore Mannlicher, fu affidata a vari arsenali di Stato. La produzione di questo modello subì una netta accelerazione durante la guerra di Libia (1911), ma ovviamente il vero salto dimensionale avvenne durante la Grande guerra. L’Arsenale di Terni sfornò oltre due milioni di fucili mentre quello di Brescia ne realizzò circa mezzo milione. Anche la costruzione di parti di rispetto raggiunse dimensioni considerevoli nel periodo bellico con oltre 5 milioni di pezzi divisi tra gli arsenali di Torino e una miriade di imprese private quali la Beretta che curò anche la fornitura di pistole semiautomatiche come la modello 1915. In genere, lo standard qualitativo della produzione bellica dei fucili 91 si mantenne a livelli decorosi anche se, per es., una perfetta intercambiabilità tra gli otturatori non venne garantita nella sua interezza.

L’innovazione di Vieille dette quindi origine a una generazione di fucili a ripetizione ordinaria manuale, con serbatoio (caricatore) verticale contenente da 5 a 10 cartucce: i cosiddetti magazine rifles. La polvere infume garantì ai nuovi fucili caratteristiche balistiche notevoli e che si conservano tali ancora oggi. Le velocità iniziali delle cartucce caricate con la nuova polvere raggiunsero e superarono gli 800 m/s. La gittata massima si aggirava sui 3 o 4 km, con una capacità di vulnerare di ben oltre 2 km. La tensione della traiettoria era tale che un fucile, azzerato a 400 m, poteva ingaggiare un bersaglio umano tra 0 e 400 m senza che il soldato dovesse manipolare l’alzo. I cinque colpi del caricatore di un Mauser potevano essere esplosi in pochi secondi e il serbatoio era rapidamente ricaricabile. Tutte queste prestazioni erano rese possibili da un grappolo di innovazioni che il ritrovato di Vieille contribuì a originare. Le palle dei fucili della generazione precedente, in piombo nudo o avvolte in carta, non erano adatte alle alte velocità ora raggiungibili. Fu necessario incamiciare i proiettili con un rivestimento in lega di rame o in ferro dolce. Il calibro delle palle si ridusse notevolmente passando dagli oltre 10 mm ai 6 mm, per es., dell’americano Lee-Navy. Le cartucce divennero più leggere, consentendo così ai soldati di portarne un numero più elevato. Le maggiori pressioni in camera di scoppio costrinsero a modificare gli otturatori, che furono dotati di robusti tenoni di chiusura. Con il fucile Mauser 98 si raggiunse il punto più alto dell’evoluzione della specie dei magazine rifles. Tuttora i moderni fucili a otturatore girevole e scorrevole derivano direttamente da quel progetto. Si adeguarono anche gli acciai, portandoli a livelli più elevati in termini di resistenza. Miglioramenti nelle tecniche di produzione, come l’adozione di precisi strumenti di misurazione, furono una conseguenza dei nuovi fucili. È sufficiente menzionare il ruolo dei blocchetti comparatori introdotti per la lavorazione del fucile Carl Gustav dallo svedese Carl Edvard Johansson (1864-1943).

I magazine rifles furono subito impiegati con successo sui campi di battaglia: gli inglesi nel 1898 a Omdurman annientarono le truppe mahdiste sparando a lunga distanza con i nuovi Lee Enfield. Sarebbe stato possibile ricavare da questo episodio insegnamenti utili a rinnovare le tecniche di combattimento, ma così non avvenne, per lo meno in modo completo e generalizzato. I nuovi fucili impedivano di tenere sotto il fuoco gli uomini in piedi e in formazioni compatte. Era imperativo che i soldati cercassero copertura, approfittando del terreno, oppure scavassero rifugi.

Gli effetti tattici e le implicazioni strategiche dell’innovazione di Vieille furono colti, in maniera sorprendentemente acuta, da un esponente del mondo economico anziché da un militare, ossia il russo di origine polacca Ivan S. Bloch (1836-1902), il quale asserì che la polvere infume aveva dato ai fucili delle capacità tali che gli attacchi frontali, condotti allo scoperto, sarebbero risultati degli inutili massacri (Modern weapons and modern war, 1900). Secondo Bloch, la tecnologia delle nuove armi aveva trasformato il volto della guerra in modo radicale; la difesa avrebbe trionfato sull’offesa e le operazioni belliche avrebbero visto un uso massiccio di trincee e altre opere di fortificazione campali. La polvere infume, sempre seguendo il pensiero dell’economista russo, avrebbe spazzato via il vecchio modo di condurre la guerra che si sarebbe trasformata in uno stallo sanguinoso tra contendenti trincerati. È inutile sottolineare che le predizioni di Bloch, quindici anni dopo la pubblicazione del suo libro, furono drammaticamente confermate dagli avvenimenti sui campi di battaglia europei. Nonostante gli esempi ricavabili dal conflitto anglo-boero (1898-1902) e da quello russo-giapponese (1904-1905), la maggior parte degli Stati maggiori entrò in guerra nel 1914 con la ferma convinzione che, fidando nel ‘freddo acciaio’ della baionetta, un attacco frontale sarebbe stato comunque risolutivo. Drill and courage e l’élan vital avrebbero avuto comunque ragione dei fucili a ripetizione, delle mitragliatrici e delle trincee. Tale modo di ragionare si esemplifica proprio nella fiducia ossessiva, quasi mistica, nella baionetta. Quest’arma, che si era rivelata in gran parte già un oggetto inutile nella guerra civile americana, era rimasta al contrario ben viva nella mentalità militare. Le centinaia di migliaia di morti nella Prima guerra mondiale, provocati da dissennati attacchi all’arma bianca, contrastati da fucili e mitragliatrici, mostrarono la fallacia di questa fiducia.

Ancora una volta il progresso tecnico aveva corso più in fretta della dottrina d’impiego e i generali utilizzarono le nuove armi con una mentalità adatta a dei fucili di una o due generazioni precedenti. L’insistenza nell’ideologia dell’attacco a ogni costo è difficile da comprendere, dal momento che tutti gli eserciti avevano comunque elaborato dottrine di combattimento più sofisticate, che prevedevano l’uso della copertura del terreno e dell’infiltrazione di nuclei di truppe speciali per limitare le perdite che i fucili a ripetizione erano in grado di procurare. Moltissimi manuali dell’epoca insistevano sulla necessità per i soldati di trovare ripari e di non esporsi inutilmente al fuoco nemico. Tali tattiche furono però implementate, in modo sistematico, solo verso la fine della guerra, soprattutto dai tedeschi con le truppe d’assalto e dagli italiani con i loro Arditi. La Prima guerra mondiale resta un tragico esempio di come idee di impiego delle armi, modellate da tecnologie obsolete, rimangano il pensiero dominante, in campo tattico e strategico, anche in presenza di sistemi d’arma molto più avanzati e performanti.

Le armi portatili conobbero, dunque, tra il 1830 e il 1890 circa, un periodo di intenso e rapidissimo sviluppo. Si passò dal fucile a pietra a quello a ripetizione, con un processo che spesso consisteva nel portare a un livello di efficienza superiore realizzazioni già esistenti da tempo. La tecnologia delle armi interagì con le dottrine d’uso in modo complesso e articolato. Di frequente i militari impiegarono le nuove armi in maniera non ottimale, non avendone ben chiare le potenzialità a causa dei legami culturali e ideologici con il passato. Il campo di battaglia fu tuttavia un giudice implacabile nel pronunciare le sentenze: i sistemi d’arma obsoleti e le dottrine d’impiego errate furono spazzati via in maniera sanguinosamente definitiva.

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