LE FORME DELLA POLITICA

XXI Secolo (2009)

Le forme della politica

Carlo Galli

La politica dell’età globale si deve sempre misurare, a ogni livello e in ogni spazio, con problemi che si producono su scala planetaria; la sua caratteristica non è solo la tradizionale interdipendenza fra i soggetti che la compongono, ma la complessità, cioè il formarsi di uno spazio e di un tempo nuovi che si dispongono su molteplici livelli intersecantisi, e l’ambivalenza, cioè la mancanza di una direzione univoca dei suoi processi: questi presentano infatti lati di disordine, di frammentazione e di caotica violenza, ma consentono anche di ipotizzare l’embrionale delinearsi di nuovi ordini del mondo e di nuove forme di pluralismo e di democrazia.

Il disordine globale

Le dinamiche della globalizzazione hanno avuto inizio dalle politiche economiche e sociali di Ronald Reagan e di Margaret Thatcher, negli anni Ottanta del 20° sec., e dal 1989, l’anno del collasso del comunismo, che ha segnato un cambiamento di paradigma nella politica mondiale, sancendo la fine dell’‘età del Due’, del confronto fra Occidente e comunismo reale, e l’inizio dell’‘età dell’Uno’, l’età globale del mondo come spazio unico. Tuttavia, l’evento terroristico dell’11 settembre 2001 ha segnato una cesura, dando vita alla seconda fase dell’età globale, quella in cui emerge chiaramente che la globalizzazione non è solo un nuovo ordine economico del mondo caratterizzato dal dilagare dell’economia di mercato nella sua forma neoliberistica, ma anche un nuovo disordine; un insieme di equilibri economici autoprodotti, ma anche di squilibri (come si era già visto, peraltro, con la crisi della new economy nel 2000); che non è solo sviluppo mondiale, ma anche violenza; che non è solo mescolanza e ‘mobilitazione globale’, ma anche frammentazione del mondo, da cui si produce una ‘modernità liquida’ una ‘società del rischio’; che il mondo è sì unico, ma non unificato né unito; che lo spazio globale privo di confini è in realtà attraversato da molteplici fratture; che la globalizzazione non è esclusivamente il dilagare mondiale di un modello di civiltà, ma anche l’insieme delle reazioni a quel modello. Dal punto di vista politico, queste si presentano come affermazioni di identità collettive a base etnica, nazionale, religiosa, ossia di differenziazioni ‘culturali’ rivolte contro il ‘pensiero unico’, il presunto dominio mondiale di un unico modello di civiltà (quella occidentale) che della globalizzazione sarebbe il vero contenuto; il revival etnico-culturale si è manifestato, con finalità relativamente tradizionali, negli anni Novanta del 20° sec. come riemersione di nazionalità represse che chiedevano un’autoaffermazione politico-statuale (ne sono esempi il disgregarsi della Iugoslavia, così come il separatismo ceceno); in generale, il riaccendersi dei nazionalismi aumenta la pericolosità della scena internazionale, secondo le consuete logiche e dinamiche di ostilità interstatale. Ma il dato più nuovo è che la ricerca di identità spesso si presenta come un’identificazione sommaria fra religione e politica; questa immediata valenza politica della religione (soprattutto, ma non solo, islamica) può dar vita a fondamentalismi e a integralismi (che spesso coesistono con forme di vita materiali profondamente segnate dall’occidentalizzazione) e, nella sua forma estrema non certo maggioritaria benché assai rilevante, a una guerra santa terroristica rivolta sia contro simboli e poteri del mondo occidentale, identificato con il cristianesimo, sia contro i regimi islamici filoccidentali.

La centralità che la dimensione del rischio, o del conflitto, viene ad assumere dopo gli attentati alle Twin Towers – preceduti da alcuni in Africa e seguiti da altri, ovunque nel mondo – ha un forte valore di discontinuità dal punto di vista politico. La forma politica centrale nell’età moderna – lo Stato – appare in difficoltà per quanto riguarda il controllo non solo dell’economia, ma anche della violenza. È in crisi la classica capacità sovrana dello Stato di dar vita a uno spazio interno in cui vige la legge, distinto dallo spazio esterno delle relazioni internazionali, anch’esse, dalla seconda metà del 20° sec., in via di giuridificazione; questa capacità implica, al tempo stesso, la difesa dei cittadini da violenza, rischi e pericoli straordinari: ovvero, la capacità di creare normalità. Ora, invece, ogni punto dello spazio interno agli Stati è potenzialmente a immediato contatto – scavalcata la mediazione delle istituzioni politiche a base territoriale – con le dinamiche conflittuali del mondo globalizzato; e quindi il ciclo di violenza e di rischio che si è aperto con l’11 settembre 2001, e che connota l’inizio del 21° sec., induce a leggere la globalizzazione non solo come ‘mobilitazione globale’ ma anche come ‘l’epoca in cui tutto può succedere ovunque, in qualunque momento’ (Galli 2001; Joxe 2002), e a interpretare la sua nuova spazialità non come spazio liscio ma come spazio striato, più che da confini, da caotiche fratture mobili e instabili, da flussi di violenza che attraversano il mondo, concentrandosi di volta in volta in luoghi differenti. La politica dell’inizio del 21° sec. pare atteggiarsi secondo intrecci multiformi di dinamiche amico-nemico, che si differenziano da quelle della statualità moderna perché non conoscono mediazioni istituzionali e deterritoriali. Lungi dal costituirsi come epoca pacifica e postpolitica, la globalizzazione si mostra come un’epoca in cui la politica assume aspetti di eccezionalità permanente: la globalizzazione è anche guerra globale, cioè l’insieme asistematico dei conflitti che costantemente attraversano, ora conclamati ora potenziali, lo spazio globale.

La guerra globale è una guerra postradizionale e poststatuale, che estremizza le caratteristiche assunte dai conflitti armati nel corso del 20° sec.: la progressiva scomparsa della distinzione fra pace e guerra; l’apparire di soggetti non statuali e irregolari come protagonisti delle ostilità, fatto che conferisce alla guerra un carattere asimmetrico, quando uno dei nemici è un’entità statale e l’altro non lo è; la conseguente obsolescenza pratica della differenza fra nemico e criminale (strettamente dipendente da quella fra interno – dove si colloca tradizionalmente il criminale – ed esterno, lo spazio del nemico) e fra civili e militari (tanto perché entrambi sono bersaglio della violenza, quanto perché entrambi ne sono attori, come terroristi irregolari o come miliziani o come contractors privati ingaggiati al fianco delle forze armate regolari, o in sostituzione di esse); il carattere totale della guerra rivolta non solo contro le forze armate del nemico ma contro un’intera società e le sue forme produttive, riproduttive e simboliche. In sintesi, la guerra globale, reale o potenziale, disegna un orizzonte biopolitico: è cioè un insieme immediato di minacce alla vita – individuale e collettiva – che sfida il controllo dello Stato, del sistema internazionale degli Stati, del diritto internazionale nel suo complesso.

Figura importante della guerra globale è il terrorista che – organizzato in modo mobile e leggero, ‘a rete’, cioè con scarsi legami fra i diversi nuclei – si presenta come integralmente e assolutamente combattente: egli afferma la propria identità in modalità che giungono fino al cosciente e programmato sacrificio di sé e fino all’utilizzazione del proprio corpo come arma, e considera legittimo bersaglio, in quanto nemico oggettivo, ogni esponente della società o della civiltà nemica. Anche questa violenza, che ha come obiettivo indiscriminato i corpi di tutti i soggetti nemici e che al tempo stesso si serve dei corpi come di armi, rientra in un orizzonte biopolitico extraistituzionale. Attraverso il terrorista la guerra globale mostra il grado supremo di intensità e di potenziale ubiquità; per suo tramite la non distinzione fra pace e guerra si manifesta come un tratto caratteristico dell’età globale.

Ma l’orizzonte biopolitico della guerra globale è reso visibile anche da altre conflittualità o contraddizioni che attraversano il mondo, investendo le risorse di base della stessa sussistenza: si tratta non solo della proliferazione nucleare, gravissima minaccia globale alla vita dell’umanità, ancora su base statuale (almeno fino a quando non saranno le organizzazioni terroristiche a dotarsi di armi atomiche, le crisi più gravi riguardano infatti Stati sovrani come la Repubblica Democratica Popolare di Corea e l’Irān), ma anche delle sfide climatiche legate al riscaldamento globale (che produce effetti disastrosi a cui sono per prime esposte le zone più svantaggiate del mondo), dell’accesso alle fonti d’energia, vitali per l’Occidente e per le economie in via di sviluppo (benché foriere di effetti perversi, come il global warming) e anche all’acqua, bene sempre più raro, inegualmente fruito e quindi conteso, e ai generi alimentari di base come il grano e il riso, il cui incremento di prezzo (fino al 2008 dovuto alla concorrenza delle coltivazioni orientate a produrre piante combustibili) li sottrae, tendenzialmente, alle popolazioni più povere. La sete e la fame – di cibo, prima ancora che di energia – stanno diventando ormai un grandissimo problema politico globale.

Benché non sia soltanto la lotta al terrorismo, ma l’insieme disordinato dei conflitti mondiali, la guerra globale assegna un ruolo centrale agli Stati Uniti che, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, si sono proposti – in modalità differenziate fra l’era di Bill Clinton e l’era di George W. Bush, cioè fra la fine del 20° e l’inizio del 21° sec. – come la nazione leader del mondo, e che all’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 hanno dato risposte improntate all’unilateralismo, cioè al superamento della concertazione multilaterale in ambito ONU, e, per certi aspetti, anche del diritto internazionale. Nell’ottobre del 2001 i consiglieri neocons del presidente hanno ottenuto il lancio dell’operazione Enduring freedom, cioè l’attacco statunitense all’Afghānistān, base riconosciuta di al-Qā῾ida ospitata dal governo dei Ṭālibān. In questo contesto gli Stati Uniti si sono avvalsi del tradizionale diritto sovrano di autodifesa, legittimandolo però attraverso la contrapposizione fra Bene e Male: è questo il seme di uno dei volti dell’ideologia della guerra giusta, ossia la guerra al terrore e agli Stati ‘canaglia’ che lo sponsorizzano, della risposta globale all’attacco globale; mentre nel marzo del 2003, contro l’Irāq, gli Stati Uniti hanno utilizzato tanto la motivazione – poi rivelatasi pretestuosa – del disattendimento da parte irachena delle risoluzioni dell’ONU che vietavano al Paese mediorientale la produzione di armi di distruzione di massa, quanto un’altra modalità di guerra giusta, cioè la teoria che giustifica la guerra d’aggressione (o di difesa preventiva) per attuare un cambio di regime, ossia per eliminare una dittatura antidemocratica e destabilizzante, e per instaurare una democrazia, vista come la forma politica più confacente ai popoli del mondo e più vicina agli interessi degli Stati Uniti. Alla guerra santa dei terroristi si è risposto quindi con una guerra giusta antiterroristica e antidittatoriale – e con un impegno mondiale più intenso e sistematico del pur notevolissimo interventismo americano posteriore al 1945 – che ha visto impegnati gli Stati Uniti e i loro alleati (assai importante il Pakistan, oltre a Israele) ovunque nel mondo, dalle Filippine (2002) alla Somalia e al Libano (2006). Le guerre ‘umanitarie’ degli anni Novanta del 20° sec., condotte in nome dell’ONU, sono state ormai sostituite da guerre decise dagli Stati Uniti, a cui si uniscono alcuni alleati, che solo in un secondo momento vengono trasformate in operazioni di pace delle Nazioni Unite.

La dimensione poststatuale, e quindi posterritoriale e postgiuridica, della guerra globale è visibile non solo nella sua asimmetria (in realtà, è ormai quasi solo un insieme di conflitti tra forze regolari statali e milizie irregolari), ma anche nella sua relativa libertà da limiti fisici e giuridici: consiste infatti in un dispiegamento mobile e tendenzialmente fulmineo della violenza, che prescinde sia dai confini degli Stati sia dai tradizionali usi di guerra, tanto nella condotta dei combattimenti (caratterizzati dal confronto fra alta tecnologia e forme arcaiche di violenza, oppure fra armi di nuovo tipo e nuovi tipi di armi) quanto nel trattamento dei prigionieri, ai quali è talvolta negato, oltre che l’habeas corpus (come è apparso evidente nel 2004 nella prigione irachena di Abū Ghrayb), anche lo status di prigioniero di guerra. Sono esemplari di questa dimensione della guerra globale la pratica delle extraordinary renditions – il rapimento di sospetti, che vengono trasportati in luoghi segreti per essere duramente interrogati – e il caso di Guantanamo, territorio cubano in concessione perpetua agli Stati Uniti, nel quale, a partire dal 2002, sono stati internati presunti terroristi e Ṭālibān con la qualifica di ‘nemici combattenti’, sottratti sia alle garanzie dei prigionieri di guerra sia a quelle dei prigionieri comuni (la nuova amministrazione Obama insediatasi nel gennaio 2009, sta riportando la legalità in quest’ambito).

Nuove configurazioni della politica

All’interno di questo nuovo aspetto della politica dell’età globale, il cui tratto fondamentale è il prevalere del potere nei suoi aspetti violenti e orientati più al caos e alla frammentazione che alla configurazione ordinativa, si delineano tuttavia differenziate strategie che, pur senza neutralizzare del tutto le dinamiche mobilitanti e destabilizzanti della globalizzazione, tendono a riordinare e a rispazializzare la politica e di conseguenza a consentire, almeno in parte, nuove distinzioni fra interno ed esterno, fra pace e guerra.

Il livello più alto, e più incerto, del riordinamento della politica è dato dagli imperi. Si intende qui per impero una realtà politica sovrastatuale che tenta un parziale superamento delle dinamiche disordinate dell’età globale; è infatti un ‘ordine regionale’ a vasto raggio, ovvero più di una semplice area d’influenza e meno di un impero formalizzato, ed esiste in una dimensione chiaramente plurale poiché prevede sempre accanto a sé, sia pure interpretandoli come minaccia, altri imperi. L’impero come ‘ordine regionale’ non è quindi l’impero di cui parlano Michael Hardt e Antonio Negri (2000), il comando biopolitico mondiale del capitale sui corpi e non sui territori, ma una forma politica orientata a esercitare stabilmente in alcune aree un’egemonia politico-militare diretta e riconosciuta e, in altre aree, un’egemonia indiretta di tipo ideologico-culturale ed economico, e quindi nel suo insieme a controllare uno spazio internamente complesso che include più soggetti politici istituzionalmente differenziati (diversi Stati). Benché i confini di un impero come ordine regionale non siano nettamente definiti come quelli di uno Stato, e benché l’impero possa sopportare al proprio interno un tasso di conflitto superiore a quello che è tollerato dalle forme politiche statuali, nondimeno l’impero si prefigge di escludere dal proprio spazio il conflitto ‘barbarico’ del terrorismo (Münkler 2005).

All’interno della guerra globale, e come cuore di essa, si può sostenere che gli Stati Uniti combattono una guerra imperiale che persegue una configurazione ordinativa del mondo, ossia che cerca di rispazializzare la politica e di porsi come momento costituente di una ‘democrazia imperiale’, di un ‘impero democratico’. Accanto al controllo delle risorse petrolifere, sembra infatti questa l’ambizione strategica che guida l’intervento statunitense in Medio Oriente e in Asia centrale: la rioccupazione fisica dello spazio per drenare radicalmente – dopo averle attirate in loco – le forze del terrorismo e per stabilizzare l’area favorendo l’attecchimento di istituzioni democratiche e di una economia di mercato.

L’impero degli Stati Uniti sarebbe quindi fondato sia su una capacità di azione globale (cioè sul controllo dei mari, dei cieli e dello spazio stratosferico) sia su una massiccia presenza di truppe statunitensi in spazi ben definiti: in Europa – dove la NATO si è estesa, dopo il crollo del comunismo, a comprendere a vario titolo molti Paesi ex membri del disciolto Patto di Varsavia –, in Corea del Sud, in Asia centrale, nel Pacifico. È inoltre un impero molto articolato, perché contiene in sé aree di stabilità e altre di grave incertezza e disordine, perché in certi spazi è informale (cioè è egemonia economica e culturale, soft power) in altri invece formale e militare (hard power), e anche perché conosce al proprio interno ulteriori determinazioni regionali, come il Sudamerica, il Giappone e la stessa Unione Europea (UE); ed è chiaramente un impero vastissimo, ma nondimeno ‘regionale’ appunto perché prevede gli si possano affiancare e contrapporre, nel presente o nel futuro prossimo, altre potenze di grande peso economico o demografico o territoriale. Non a caso la presenza statunitense in Medio Oriente e in Asia centrale si è stabilizzata in una serie di basi militari, la cui collocazione indica una strategia non solo di controllo delle risorse petrolifere e metanifere del Caspio, ma anche di accerchiamento dell’Irān, di sorveglianza della Russia (che sull’immensa disponibilità di riserve energetiche e sulla stabilizzazione politica autoritaria di Vladimir Putin fonda le proprie rinnovate pretese di vedersi riconosciuta come potenza maggiore) e di contenimento della potenza economico-politica la cui crescita più inquieta gli Stati Uniti, cioè della Cina (che, protagonista di un impetuoso sviluppo già in alcune aree dell’Africa compete con gli Stati Uniti per le materie prime), oltre che, anche attraverso l’alleanza con il Pakistan, dell’India (anch’essa protagonista di un decollo capitalistico). La rispazializzazione della politica sembra quindi accennare a una nuova configurazione geopolitica polarizzata e pluralistica – non coincidente né con le civiltà in ipotetico reciproco scontro di Samuel P. Huntington (1927-2008), né con i grandi spazi chiusi di Carl Schmitt (1888-1985) –, dopo la fine del mondo duale e dopo il caos globale che ne è emerso: è questo il tragitto che va da Berlino a Baġdād (e Kābul). Questa prospettiva si pone come concorrenziale rispetto all’ONU, espressione di un universalismo che trae senso dagli Stati sovrani, del cui disordine rappresenta un superamento.

Anche la difficoltà di organizzare forme politiche in spazi relativamente chiusi, in un mondo dominato da un’economia globalizzata, potrebbe essere in via di parziale superamento; in seguito alla crisi finanziaria mondiale del 2007, e alla recessione del 2008 e del 2009, iniziata dai mutui subprime statunitensi e poi estesasi alla finanza e all’economia reale, il capitalismo mondiale potrebbe infatti venire ridisegnato secondo prospettive più territoriali o comunque più controllate dalla politica. Infatti, la dimensione tipica degli imperi non è solo la geopolitica ma anche la geoeconomia, cioè i differenti modi di realizzare il rapporto fra economia e politica: le dinamiche globali del capitalismo, e della sua crisi, sono governate o assecondate diversamente da Europa e Stati Uniti – benché entrambe le potenze abbiano elaborato forme di politica democratica, divergono sullo Stato sociale, debole negli Stati Uniti, mentre in genere la politica europea rivendica la redistribuzione di parte della ricchezza prodotta, al fine di consolidare la coesione sociale – e, con lontananza ancora più radicale, dalla Cina che, politicamente legata al modello comunista autoritario e aliena da quasi ogni forma di tutela del lavoro, legittima il proprio sviluppo capitalistico attraverso il riferimento all’armonia e all’operosità di matrice confuciana, costituendo così un’alternativa alla modernizzazione occidentale.

Insomma, la politica contemporanea vede affermarsi una governance globale polidimensionale, pluralistica e policentrica (l’Occidente non è più il centro del mondo – né come vecchia Europa né come Stati Uniti – ma solo uno dei centri), i cui attori sono gli imperi in competizione geopolitica e geoeconomica per il controllo dei Paesi emergenti del ‘secondo mondo’ (Khanna 2008), gli Stati – che continuano a svolgere un ruolo politico, benché non più esclusivo, e che con i trattati internazionali e con l’ONU danno vita al quadro di legalità formale del diritto internazionale – e i poteri caratteristici della prima fase dell’età globale, ossia tanto le nuove potenze economiche che attraverso il diritto commerciale internazionale (lex mercatoria), nato da basi privatistiche e non da autorità territoriali, hanno generato l’infrastruttura giuridica del mercato globale (Ferrarese 2000), quanto gli organismi economici internazionali come il FMI (Fondo Monetario Internazionale), la WTO (World Trade Organization), la World bank, il G8.

Il principale ostacolo allo stabilizzarsi di questo ordine mondiale, complesso e mutevole, è dato – oltre che dalla difficoltà di controllare le dinamiche della crisi economica globale – dalla incertezza sulla capacità statunitense (la volontà, da parte del nuovo presidente Barack Obama, c’è) di neutralizzare la guerra globale e di spegnere la conflittualità terroristica che, nonostante qualche recente successo degli Stati Uniti, continua a manifestarsi, almeno per ora, estremamente virulenta, ancora più in Afghānistān che in ῾Irāq. Più in generale, il disordine globale resta notevolissimo nell’arco di crisi al proprio interno altamente differenziato, che si estende dal Marocco all’Indonesia. Infatti, al centro di questo spazio si colloca il conflitto israelo-palestinese, irrisolto e generatore di radicalismo antioccidentale e antisemitico destabilizzante su scala globale, che peraltro si manifesta anche nella politica estera di uno Stato importante come l’Irān. Inoltre, lo spazio islamico, salvo casi relativamente rari, stenta ancora a darsi forme politiche stabili e originali, e pertanto dotate di legittimità agli occhi della popolazione. La questione centrale sta nello squilibrio di potere che separa sulla scena mondiale l’islam e l’Occidente, e nella polemica reazione identitaria che tale squilibrio suscita in parte delle popolazioni, mobilitate da formazioni politiche a forte impronta religiosa. Il problema è quindi se il rapporto fra religione e politica possa, nei contesti islamici, prendere una forma che abbia qualcosa a che fare con una democrazia in grado – benché non individualistica come quella occidentale, e anzi orientata a una dimensione comunitaria su base religiosa (ma non ierocratica) – di rispettare i basilari diritti umani e di garantire il pluralismo, oppure se quel rapporto debba configurarsi in guise integralistiche, tanto nelle forme autoritarie di alcuni governi quanto nelle forme fondamentalistiche dei movimenti antioccidentali (Islams and democracies, 2007).

Fortemente integrata con gli Stati Uniti attraverso la NATO, l’Europa se ne differenzia tuttavia sia per il diverso rapporto che qui la politica intrattiene con il capitalismo, sia per la specifica qualità della sua esistenza politica. Questa non è pensabile né come una stabile federazione di Paesi come gli Stati Uniti, né tantomeno come un macrostato westfaliano, con chiare gerarchie interne di potere e con confini certi e rigidi, ma neppure come un sistema anarchico interstatale. La costruzione dell’Unione Europea è avvenuta a partire dal 1957 in un orizzonte non federale ma funzionale, orientato cioè a mettere in comune funzioni (alcune inerenti la sovranità, come il battere moneta) e a dar vita, così, a istituzioni sempre più connotate politicamente e sempre più autonome (per es., la Commissione e il Parlamento europeo), che si sono affiancate a quelle che derivano dagli Stati (il Consiglio europeo e il Consiglio dei ministri dell’Unione Europea). Nella sua governance complessa, che fa perno sul principio di sussidiarietà fra regioni, Stati, istituzioni comunitarie, l’Unione Europea è un costrutto politico originale, esterno alle categorie della politica moderna di impianto statale (legittimità democratica, potere costituente, sovranità monistica), e anche a quella di impianto federale: è uno spazio politico in cui vigono valori democratici comuni, sanciti e ribaditi nei trattati europei, e tuttavia diverso da quello internamente omogeneo di uno Stato, dato che è organizzato secondo forme giuridiche differenziate e abitato da una pluralità di soggetti politici ed economici, legati fra loro da innumerevoli vincoli che non danno vita a istituzioni sovrane, ma generano una pluralità di lealtà. Non a caso l’UE è stata interpretata (Zielonka 2006) come un impero neomedievale in forma postmoderna, caratterizzato da autorità diffusa e non monopolizzata, da pluralismo istituzionale a più livelli, e da una mancanza di identità politica unitaria; un impero che nondimeno è in grado di generare output di tipo democratico nei riguardi degli Stati nazionali interni e di agire all’esterno come potenza civile (Telò 2004). Si intende con questo termine una politica volta a influenzare Paesi terzi – con il prospettare i vantaggi che derivano dall’associarsi alla sua area di prosperità e di pace – perché adottino adeguati standard di politica interna e di politica estera. Una ‘esportazione della democrazia’ – una diffusione di ordinamenti costituzionali rispettosi della dignità delle persone, nonché di forme economiche capaci di coniugare l’efficienza con lo sviluppo non dipendente – che sa creare forme molteplici di associazione degli Stati confinanti, anche sull’altra sponda del Mediterraneo. Appartiene alla natura e alla struttura della politica europea proporsi come soft power anziché come hard power, come paritaria anziché gerarchizzante, come ipotetica alternativa mediterranea alla potenza atlantica anglosassone. Il culmine di questa costruzione si colloca nel 2002, anno di introduzione della moneta unica, l’euro, e nel 2004, anno in cui l’allargamento fino a 27 Paesi, molti dei quali ex comunisti, ha conferito all’UE una dimensione di fatto continentale. Nel 2003, inoltre, si è conclusa la stesura della cosiddetta Costituzione europea, approvata nel 2004: si tratta di una sistematica revisione dei trattati che hanno scandito la vita della comunità europea, volta a modificare il sistema di voto nel Consiglio dei ministri europeo (aumentando i temi su cui non è d’obbligo l’unanimità), a definire una ‘cittadinanza europea’ accanto a quelle nazionali e a rafforzare la capacità dell’UE di collocarsi sulla scena internazionale con una politica estera autonoma dai Paesi che la compongono. Ma nel 2005 la ratifica della Costituzione europea da parte dei singoli Stati è stata bloccata da due voti popolari negativi, in Francia e nei Paesi Bassi, nei quali si è manifestata sia la diffidenza nazionalistica verso la costruzione sovranazionale, sia l’insofferenza di sinistra verso l’UE vista come un insieme di burocrazie, deficitarie dal punto di vista della partecipazione popolare e della legittimazione democratica. A Lisbona, nel 2007, è stata adottata una versione ridotta e meno ambiziosa della Costituzione europea, mentre si è varata una Carta dei diritti fondamentali. Nel complesso, l’UE sta attraversando una fase di incertezza sulla direzione del proprio futuro, come appare anche dalla bocciatura, nel 2008, del Trattato di Lisbona a opera dell’Irlanda: si prefigura un’Europa a cerchi concentrici, ovvero a più velocità, in cui possono acquistare peso, accanto al rinnovato direttorio informale anglo-franco-tedesco, Paesi emergenti come Spagna e Polonia.

Questa incertezza strategica – insieme alla sua peculiare qualità politica, che le rende difficile presentarsi sulla scena globale come un soggetto in grado di attuare proiezioni di potenza militare – rende debole l’azione dell’Europa davanti alle sfide storico-politiche che l’età globale propone. Nell’età del dualismo la posizione dell’Europa era di fatto subalterna agli Stati Uniti, se non altro per ragioni inerenti la difesa militare; ma le relazioni fra loro erano improntate al rispetto reciproco. Nell’età globale, pur essendo scomparsa la minaccia sovietica, l’Europa resta ancora più subalterna agli Stati Uniti per quanto riguarda la capacità d’iniziativa politico-militare (un’eccezione, limitata, è il prevalente impulso europeo all’intervento dell’ONU in Libano nel 2006); per di più, al momento dell’invasione dell’Irāq (marzo 2003) i toni e gli obiettivi della politica estera statunitense sono stati accettati solo da una parte dei Paesi dell’UE (non, tra gli altri, da Francia e Germania).

Si è quindi creata una differenziazione fra i due poli dell’Occidente che – più che come la contrapposizione fra idealismo europeo e realismo americano – si può di fatto interpretare come la distinzione fra la ‘democrazia uguale’ e la ‘democrazia imperiale’.

La democrazia

Il contrario della guerra globale, cioè la pace globale, potrà forse nascere dall’equilibrio di imperi che rispazializzano la politica internazionale, dandole un nuovo ordine. Ma questa prospettiva geopolitica e geoeconomica per legittimarsi dovrà fare i conti con il fatto che la democrazia – una politica legittimata dal dipendere in qualche modo dalla libera espressione della volontà del popolo – è la forma politica in cui tutti i popoli e tutti i regimi (anche quelli autoritari) si riconoscono, almeno a parole; la competizione fra imperi dovrebbe anche essere una competizione per diverse interpretazioni della democrazia. Ma non sembra questa la principale preoccupazione delle grandi potenze, se non dal punto di vista propagandistico: le sorti della democrazia nel mondo sono affidate, piuttosto, all’azione degli Stati, dell’ONU e di nuove realtà come le Organizzazioni non governative (ONG), e ai problemi che questi soggetti politici incontrano.

La democrazia globale

Si intende per democrazia globale la sistematica diffusione planetaria dei diritti umani: vita, salute, indipendenza sociale e politica, sviluppo pacifico della personalità in un contesto vitale liberamente scelto (Nussbaum 2000). Tale diffusione è ben lungi dall’essere realizzata; nonostante reddito, urbanizzazione, industrializzazione – i prerequisiti socioeconomici della democrazia – siano aumentati nel mondo, soprattutto dopo il 1989, questi incrementi non sono sempre andati di pari passo (il caso della Cina è il più eclatante) con l’affermarsi di forme politiche democratiche, caratterizzate dal rispetto dei diritti umani e da qualche elemento di pluralismo politico.

Sotto il profilo teorico, la questione della democrazia globale è se essa debba essere raggiunta con una strategia universalistica che proietta immediatamente la difesa dei diritti su scala mondiale. Si è pensato (Held 2004) che la democrazia consista nell’affermazione mondiale di un diritto cosmopolitico inerente alle singole persone e deterritorializzato, cioè svincolato dalla cittadinanza statale, e sostenuto da un potere esecutivo (una modifica dell’attuale Consiglio di sicurezza dell’ONU) che, accanto a un parlamento mondiale, assicuri l’ordine mondiale. È evidente – e non solo nel caso estremo della ‘guerra per la democrazia’ – il potenziale polemico che in questa forma diritti e democrazia presentano e suscitano: se i diritti sono interpretati come un imperativo etico, cioè come la doverosa affermazione di valori attinenti l’essenza dell’umanità, allora chi si sappia presentare come loro difensore è in grado di svalutare i propri nemici come nemici dei diritti umani, e quindi come inumani (Zolo 2000).

Secondo differenti strategie di valorizzazione dei diritti, invece, si ritiene che la democrazia intesa come liberaldemocrazia o socialdemocrazia a base giuridico-statale, cioè come democrazia procedurale, pluralistica e individualistica (ovvero rispettosa degli uguali diritti dei singoli individui), sia concepibile solo là dove è nata e ha attecchito, cioè in Occidente (Paesi europei ex comunisti compresi). In quest’ambito vi è chi pensa (Sen 2005) che questa democrazia non sia esportabile e che semmai una dimensione globale della democrazia possa consistere nel riconoscere e valorizzare istituti e concetti differenti, ma a essa funzionalmente assimilabili, nati all’interno di tradizioni e forme politiche non europee (cinesi o indiane, per es., ma per alcuni anche islamiche), venendo quindi a proporre un cosmopolitismo senza cosmo, ossia alieno da facili universalismi, che coniuga la dimensione individuale del liberalismo occidentale (da cui indubbiamente proviene) con culture non occidentali (gli Asian values), più inclini a concepire l’individuo all’interno di comunità e di identità collettive, legate a nozioni come onore e deferenza (Appiah 2006); oppure vi è chi sostiene (Höffe 1999) che una democrazia globale è l’applicazione su scala mondiale della ‘modernizzazione normativa’, cioè dei valori e degli interessi universalmente umani che, benché nati in Occidente, non hanno nulla di ‘regionale’ o di ‘culturale’ ma sono affermati dalla filosofia che, nella sua transculturalità e interculturalità, è l’‘avvocato dell’umanità’. Da qui la necessità, per la pace globale e la democrazia globale, di seguire le indicazioni kantiane relative al primato dei diritti umani, alla separazione dei poteri negli Stati, al principio di sussidiarietà e al federalismo su base macroregionale.

Una modalità di democrazia globale ancora diversa è quella di chi (Hardt, Negri 2004) ipotizza l’esistenza, accanto alla sovranità globale dell’impero, della ‘moltitudine’, che – non coincidente né con la classe, né con le masse, né con il popolo – sarebbe la nuova forma della democrazia, intesa come insieme delle diverse forme della produzione biopolitica del ‘comune’, ossia della vita relazionale globale socialmente prodotta. Si tratta di una democrazia che fa a meno della dimensione rappresentativa, statale, e che passa attraverso le pratiche di lotta dei movimenti no global. Gli studi coloniali e postcoloniali, poi, hanno decostruito logiche di cittadinanza e di appartenenza, eurocentrismi, Stato-centrismi, e hanno consentito la riscrittura della storia moderna e del suo momento globale dal punto di vista materialistico delle molteplici soggettività ribelli, antagonistiche, nomadiche che non si lasciano assoggettare dal potere, dai suoi confini e dalle sue categorie (Mezzadra 2008).

Dal punto di vista delle concrete pratiche politiche, la democrazia è oggi, sulla scena internazionale, prima di tutto la lotta per l’affermazione dei diritti umani, minacciati da dittature e da conflitti a livello di singoli o di gruppi, in Paesi come il Myanmar, il Tibet, la Cina, il Sudan, e nei molti altri in Asia e in Africa in cui interi popoli o minoranze etniche sono soggetti a dominio, vessazioni, minacce di sterminio. Accanto a lotte endogene, disobbedienze e rivolte, a veri e propri conflitti di liberazione o a interventi armati ‘umanitari’, che confluiscono nel caotico alveo della guerra globale, l’implementazione della democrazia passa anche attraverso la ‘società civile globale’, un insieme di controforze transnazionali, di individui, di ONG, di gruppi di attivisti (tra i quali i movimenti no global, protagonisti dei forum sociali mondiali, fra cui quello di Porto Alegre del 2003, e di controvertici alternativi a quelli del G8 – drammatico quello di Genova del 2001 – che però, nonostante una riuscita mobilitazione globale contro la guerra in ῾Irāq nel febbraio-marzo 2003, hanno assistito a una decrescita della loro influenza), che elaborano riflessioni e proposte, istanze e sfide, in relazione a tematiche che hanno a che fare positivamente con i diritti umani, civili e sociali, e con le questioni ecologiche planetarie (Kaldor 2003). La società civile globale interagisce con i livelli tradizionali della politica, quindi con l’ONU e con gli Stati, ma meno con gli imperi (tranne l’Europa, che è tale in modo molto condizionato), rispetto alle cui logiche geopolitiche è concorrente. Due esempi di reazione del sistema politico internazionale, e in particolare dell’ONU, agli input della società civile globale sono dati dall’istituzione della Corte penale internazionale e del Protocollo di Kyoto.

La Corte penale internazionale – il cui Statuto è stato adottato nel 1998 per giudicare sia della guerra d’aggressione e dei crimini di guerra, sia di fatti non solo inerenti la guerra come il genocidio e i crimini contro l’umanità, ed è entrato in vigore nel 2002 – è l’evoluzione del tribunale di Norimberga (1945), del diritto umanitario di Ginevra (1949, e Protocolli del 1977) e dei tribunali speciali per la Iugoslavia (1993) e per il Ruanda (1994). Il suo lavoro – fondato sul diritto penale internazionale – non ha prodotto risultati definitivi, e si basa sulla insussistenza di una riserva penale per le azioni di individui che rappresentano Stati o che appartengono ai vertici delle politiche statali, e sul principio di sussidiarietà: la Corte penale internazionale entra in funzione se lo Stato a cui la giurisdizione penale spetta in prima battuta non sappia, non possa, non voglia fare giustizia. I sostenitori della Corte penale internazionale ne sottolineano la natura aperta e plurale, che ne fa un luogo di comunicazione fra le diverse culture giuridiche. I suoi critici ribattono che la formazione di un diritto penale universale senza Stato risulta inefficace e controproducente perché la pretesa di dare al mondo una forma giuridica e morale universalistica acuisce la violenza globale: infatti, l’azione giuridico-morale della Corte è di fatto al servizio della volontà punitiva (espressa in forma discriminatoria) degli attuali potenti della Terra (Stati Uniti, Cina, Russia, che non vi hanno aderito) contro chi si ribella a essi (Gaeta 2006). Il Protocollo di Kyoto è un trattato elaborato nel 1997, entrato in vigore nel febbraio 2005, che ha l’obiettivo di fronteggiare la minaccia dell’effetto serra e dei cambiamenti climatici. Sottoscritto da 141 nazioni, ma non dagli Stati Uniti, impegna i Paesi industrializzati che vi hanno aderito ad assicurare che le emissioni di anidride carbonica, responsabili dell’effetto serra e quindi del riscaldamento atmosferico, vengano ridotte, entro il 2008-2012, di almeno il 5% rispetto ai livelli del 1990. Nonostante i suoi risultati siano di fatto insoddisfacenti, questo tentativo è l’esempio di una forma della politica contemporanea in cui la dimensione globale diventa un orizzonte di collaborazione concreta – non di conflitto caotico, né di formalismo universalistico – fra entità politiche differenziate, e tuttavia intenzionate a farsi carico di responsabilità globali.

Stato e democrazia

Una democrazia globale e una pace globale possono essere realizzate solo se tutta l’umanità affronta gli squilibri derivanti dall’attuale modello economico e dall’attuale assetto politico del pianeta, nell’ottica di affermare i diritti elementari delle persone in un orizzonte di sviluppo sostenibile (dal punto di vista ecologico) e non troppo sperequato (quanto alla dipendenza di aree del pianeta da altre).

Nondimeno, complementare alla prospettiva della immediata globalizzazione dei diritti umani e della democrazia si pone quella della democratizzazione dello Stato, che è la primaria dimensione politica in cui concretamente vivono gli uomini. Benché la sua sovranità sia largamente sfidata a molti livelli, lo Stato – anche se inserito all’interno di una compagine ‘imperiale’ – rimane ancora l’unica forma di esistenza politica legittima. Snodo dei poteri globali e loro articolazione decisiva, solo lo Stato è in grado di dare forma efficace alle esigenze di stabilità giuridica e di competitività delle sezioni locali del capitalismo mondiale, e di affermare positivamente le istanze di identità politica nazionale che la globalizzazione suscita: lo dimostra sia il fatto che la lotta per lo Stato e per la sua indipendenza è il cuore di conflitti cruciali a livello globale (come quelli ancora aperti fra palestinesi e Israele, fra Cecenia e Russia, e quello recentemente risoltosi fra Kosovo e Serbia), sia che dove lo Stato fallisce (il caso della Somalia è paradigmatico) non si instaurano le condizioni per un decente sviluppo umano. Ma se è vero che non ci sono democrazia globale e pace globale se non ci sono Stati democratici che garantiscano la cittadinanza democratica, è anche vero che la dimensione interna della politica non è più impermeabile alla dimensione esterna; sono proprio le dinamiche globali a mettere in crisi l’autorità dello Stato e a sfidare la democrazia all’interno degli Stati, così come si è prodotta nel 20° sec., ossia come forma politica che si pone l’obiettivo della più larga inclusione e del più vasto consenso, e che realizza la sintesi di Stato di diritto (che garantisce l’uguaglianza giuridica fra i soggetti), di Stato costituzionale (che salvaguarda i diritti individuali e collettivi) e di Stato sociale (che attua una redistribuzione della ricchezza). Le difficoltà della democrazia – che sono a volte vere e proprie aporie, altre volte sfide che implicano anche possibilità di evoluzione positiva – si manifestano infatti proprio lungo i tre assi portanti della statualità, cioè intorno alla crisi della capacità dello Stato di distinguere e mediare fra interno ed esterno, fra pubblico e privato, fra unità e pluralità.

Le insicurezze. Le democrazie occidentali, assai differenziate fra di loro quanto a sistemi istituzionali ed elettorali, sono sì vive, ma anche afflitte da problemi e malesseri che investono la loro tenuta sostanziale. Del resto, i problemi che la globalizzazione genera nella democrazia sono l’amplificazione di alcuni suoi deficit di lungo periodo, che toccano tutto l’Occidente (e, in misura maggiore, a causa della efficienza relativamente bassa del suo sistema politico ed economico e della debolezza del suo spirito pubblico, anche l’Italia).

È evidente, prima di tutto, che la democrazia a livello dei singoli Stati, particolarmente in Occidente (ma non solo), si trova a fronteggiare la questione della sicurezza, ossia lo stato d’eccezione semipermanente a intensità più o meno alta – sostenuto anche da strategie della paura e dell’allarme a livello mediatico che costruiscono la figura minacciosa dell’altro, del nemico interno – in cui molte società sono state precipitate dal terrorismo. Le reazioni a questo – paradigmatico il Patriot act, votato nell’ottobre del 2001, e poi ancora nel 2005, dal Parlamento statunitense – sono orientate a introdurre negli ordinamenti limitazioni ai diritti fondamentali e alle libertà dei cittadini, che hanno fatto parlare di ‘democrazia illiberale’ e semiautoritaria (Zakaria 2003). Questa minaccia allo Stato di diritto rappresentata dalla ‘democrazia protetta’ – ma a volte anche teorizzata come struttura permanente, per es., attraverso il ‘diritto penale del nemico’, che prefigura un doppio standard giuridico di godimento dei diritti civili e politici da parte dei cittadini e da parte degli avversari di un ordine sociopolitico (Delitto politico e diritto penale del nemico, 2007) – risponde all’esigenza che lo Stato si faccia carico delle insicurezze della società, bloccando e stabilizzando, con una autoimmunizzazione che riproduce la differenza fra amico e nemico all’interno dell’ordine politico, i processi di contaminazione e di indifferenziazione innescati dalla globalizzazione.

Ma anche altre sono le insicurezze che minacciano la democrazia: si tratta di varie linee di disgregazione e di riaccorpamento della società in senso orizzontale (fra ricchi e poveri, profitti e salari, colti e incolti, garantiti e non garantiti, cittadini e non cittadini) e in senso verticale (fra le generazioni). Queste insicurezze costituiscono il lato oscuro delle grandi trasformazioni sociali – pluralismo, dinamismo, cosmopolitismo – indotte dalla globalizzazione, che possono avere anche effetti di crescita delle autonomie individuali e collettive, e della collaborazione fattiva, ma anche di anomia e di crisi. Il capitalismo neoliberista implica la fine della grande fabbrica fordista, e quindi anche del potere organizzativo e rappresentativo di sindacati e partiti di massa, e crea un ambiente sociale instabile, facile a divenire precario e frammentato. Il prevalere delle logiche di immediata valorizzazione del capitale, la necessità da parte dei lavoratori di adeguarsi alle esigenze di flessibilità avanzate dalle imprese che devono fronteggiare la concorrenza asiatica, fanno sì che il singolo soggetto sia sempre più libero da antiche appartenenze ma che, pur in questa sua nuova libertà, gli riesca sempre più difficile – tranne che non faccia parte di ristrette élites – portare a compimento un progetto di vita e professionale di lungo periodo, affermando la propria individualità e socializzandosi attraverso le proprie competenze. La centralità del lavoro scompare, e il valore socialmente centrale diviene semmai la capacità di consumo, che tende a costituirsi non solo come status symbol ma come vera e propria prestazione politica, come architrave della socializzazione dell’individuo (Sennett 2006). Ma oltre che attraverso il consumo, la valenza pubblica del singolo soggetto passa sempre di più anche attraverso il crescente rilievo che assumono questioni inerenti la sfera vitale, un tempo privata o intima: gli orientamenti sessuali, il far nascere, il poter morire, il benessere psichico e fisico, la gestione delle malattie, delle paure e delle angosce di cui pullula la società contemporanea, sono oggetto privilegiato del discorso pubblico e dell’intervento legislativo. Il fatto che la vita di ogni singolo sia interamente esposta alle potenze del lavoro, del consumo, della tecnica, della scienza medica, costituisce la sempre più chiara dimensione biopolitica delle democrazie contemporanee, esposte al rischio di perdere la loro originaria qualità umanistica.

Queste dinamiche, che interessano il modo con cui gli individui costituiscono il tessuto della società, implicano un logoramento della coesione sociale tradizionale e, da una parte, generano pluralismo, creatività e mobilità, dall’altra, determinano una tendenziale frammentazione della società, che è incline a disporsi in agglomerati determinati dal tasso di cultura, dall’ammontare del reddito, dalla propensione alla mobilità e connotati da egoismo corporativo: il legame sociale viene così sostituito da chiusure, da paura, invidia e risentimento. Sullo sfondo restano i grandi blocchi di potere economico e mediatico, le cui dinamiche sfuggono in larga misura al controllo della pubblica opinione e delle istituzioni politiche. Centrale in questa frammentazione sociale è la crisi del lavoro salariato e dei ceti medi, risucchiati verso il basso dalla precarizzazione del lavoro e dal venir meno delle forme di sostegno pubblico, che potevano offrire una chance di innalzamento di status nel corso delle generazioni; l’annebbiarsi delle prospettive di riuscito inserimento sociale è causa non ultima di un’ulteriore linea di frammentazione sociale, quella che riguarda i giovani, fra i quali si fanno via via più frequenti fenomeni di marginalizzazione in universi culturali subalterni e spesso violenti.

Una evidente linea di scomposizione sociale è poi, sempre più chiaramente, la ‘linea del colore’, ovvero la crescente presenza, dovuta a processi di migrazione, legali e illegali, di forti minoranze allogene all’interno degli Stati. Questo fenomeno è il multiculturalismo – essenzialmente, il dato di fatto che la pluralità delle culture particolari non si dispone ordinatamente in spazi contigui distinti da chiari confini ma si addensa in ogni parte del mondo –; il disordine globale come revival delle ‘culture’ non è solo una questione di politica internazionale ma costituisce anche un problema per gli Stati europei, i quali vedono messa a repentaglio l’omogeneità culturale ed etnica che avevano creato nel corso dei secoli, presupposto inesplicito della loro politica, anche di quella democratica. Il multiculturalismo, in quanto problema, coinvolge, come si vedrà oltre, i livelli più profondi delle architetture della politica dello Stato democratico; ma si presta anche a essere interpretato in modo semplificatorio secondo coordinate xenofobe (non assenti e non irrilevanti, anche se ancora minoritarie, nel panorama politico dei Paesi occidentali); e si presta ancora di più a essere letto in chiave securitaria, perché la povertà e la marginalità degli immigrati e anche delle seconde generazioni (come dimostra la rivolta del 2005 nelle banlieues parigine) li dispone, più di altri gruppi, a infrangere la legge. La percezione di illegalità e di insicurezza diffusa nelle società si indirizza così verso gli stranieri e verso i non integrati: strati sempre più larghi dell’opinione pubblica, mossi da diffidenza e risentimento, istituiscono un collegamento fra immigrazione (e questione giovanile) e problemi di ordine pubblico e di degrado urbano. Il razzismo torna a essere una forma relativamente influente di decifrazione della realtà, in chiave difensiva e offensiva.

Le nuove forme della politica interna. Queste fratture interne rendono le società occidentali opache; quindi le istituzioni democratiche risultano sempre meno adeguate a rappresentarle e a realizzare inclusione e consenso; esse infatti presuppongono che il nucleo politico della società sia l’individuo sovrano, capace di libera scelta e di autodeterminazione, e che lo spazio sociale sia attraversato da poche e definite linee di conflitto fra gli interessi di parti ben determinate, che, organizzate in partiti, trovano un punto di compromesso e di mediazione in istituzioni rappresentative, le quali sono in grado di creare uno spazio politico unitario e condiviso: la democrazia è tanto un discorso pubblico comune in cui si confrontano opinioni secondo procedure argomentative razionali quanto un’arena in cui gli interessi si negoziano pubblicamente, secondo regole accettate. Oggi, i mutati assetti della società fanno sì che le istituzioni della rappresentanza, cioè i parlamenti, e i soggetti della rappresentanza, cioè i partiti, pur restando indicatori fondamentali di un assetto politico democratico, siano percepiti sempre più come insufficienti a esprimere le potenzialità e le domande politiche di una società, dalla quale hanno maturato, ormai da decenni, un crescente distacco. Ciò comporta un’accentuazione del fenomeno, di lungo periodo, dell’aumento del peso dell’esecutivo sul legislativo; e comporta anche che nelle democrazie contemporanee a fianco di quella costituzionale, che passa per le istituzioni e per i partiti, ci sia anche una politica oligarchica fatta di contrattazioni (visibili, come nel caso della cosiddetta concertazione, ma anche opache) fra poteri economici e sociali, gruppi di pressione e di interesse di ogni genere e natura, fra corporazioni formali e informali, pubbliche e private, legali e criminali. Poiché gli esiti di queste interazioni sono spesso determinati dal mero potere, i principi di uguaglianza e di legalità escono vulnerati da queste dinamiche, che rivelano una sproporzione – più o meno evidente a seconda che lo Stato democratico conservi o meno una qualche efficacia – tra politica formale e politica reale; quest’ultima appare più un conflitto tra differenze – che hanno la tendenza a disporsi in senso gerarchico – che una interazione tra uguali. Ne risulta un deterioramento dello spirito pubblico democratico, della lealtà verso le istituzioni, una inclinazione a concepire la coesistenza associata come un assemblaggio conflittuale degli interessi particolari dei singoli o dei gruppi, e a negare legittimità alla stessa dimensione della politica, vista come un interesse particolare del ceto politico.

L’avversione verso la politica istituzionale e i suoi esponenti può prendere le forme dell’antipolitica oppure del populismo: la prima è una disaffezione passiva rispetto alle pratiche politiche ufficiali, che si manifesta nell’indifferenza e nell’astensionismo elettorale; il secondo è invece una ‘quasi ideologia’, un coerente atteggiamento politico, che si sostanzia in una veemente critica alla politica – espressione in realtà di una nuova volontà politica – che contrappone un ‘noi’, il popolo, a un ‘loro’ composto di professionisti della politica, dai loro padroni occulti e dai loro clienti. Nel populismo il popolo si sottrae al ruolo che la politica gli assegna, cioè di essere il titolare di una sovranità esercitabile solo attraverso la rappresentanza, e si affida a forme alternative a questa, alla partecipazione ma anche alla identificazione emotiva, ossia all’investimento fiduciario verso un leader carismatico; il populismo si propone quindi come il vero elemento democratico rispetto alle istituzioni (Laclau 2005).

A queste si aggiunge un’ancora più rilevante trasformazione della politica: le insicurezze sociali, la difficoltà di funzionamento delle istituzioni democratiche e la loro sempre più debole capacità di proporsi come luogo di identificazione collettiva, danno vita a risposte etico-politiche che si presentano come la rassicurante riscoperta di identità comunitarie, capaci di fornire nuove coesioni, intorno a valori tradizionali. Mentre il soggetto e la classe sono largamente in crisi, mentre la differenza di genere – anche se non del tutto neutralizzata – non costituisce più una linea strategica di frattura politica, assumono ruolo pubblico-politico la nazione, le appartenenze etniche e territoriali, le fedi religiose, le culture, i valori etici. Questo revival identitario e comunitario ha, nell’ambito politico interno, effetti ambivalenti: infatti ricompatta in senso tradizionale gli Stati, costituendo intorno alla nazionalità riscoperta o alla eticità condivisa l’unità politica che le procedure e le istituzioni democratiche non garantiscono più appieno. In tal modo si integra il deficit di spirito pubblico delle democrazie contemporanee nella direzione della ‘religione civile’ repubblicana, cioè l’individuazione di un patrimonio vissuto di valori condivisi di libertà e di democrazia a fondamento della politica; ma si può anche stravolgere la sintassi della democrazia, se la nuova enfasi su valori e culture significa che il godimento dei diritti dei singoli dipende dal loro adempimento di doveri verso una comunità preesistente, non soggetta a discussione. Una politica che si fondi su valori creduti ‘veri’, cioè su un collante della società preteso naturale, tende a rifiutare la critica e il pluralismo delle opinioni come ‘relativismo etico’ e come ‘nichilismo’, e a divenire una democrazia affermativa, dell’appartenenza, orientata all’esclusione, o almeno alla limitazione dei diritti di libertà, degli internal others, estranei alle ‘radici’ della politica. Che sono più immaginate che reali: il revival comunitario tende a sostituire la dimensione rappresentativa della politica con quella fantasmatica.

Quindi, questi processi hanno anche effetti, pressoché opposti, di ulteriore frammentazione della politica. Infatti, le aggregazioni culturali che si generano all’interno delle forme politiche occidentali, in risposta ma anche in imitazione rispetto all’insediarsi negli spazi politici occidentali di nuclei di culture allogene, tendono spesso a veicolare identità costruite intorno a un’appartenenza religiosa. Questa affermazione di un ruolo pubblico della religione inverte il moderno processo della secolarizzazione e della interiorizzazione della fede, il che avviene, in forme diverse, tanto da parte cattolica quanto da parte protestante, sia in Europa sia negli Stati Uniti; questa ripoliticizzazione delle religioni – innescata anche da questioni come l’aborto, lo status etico-giuridico dell’embrione e del feto, l’eutanasia, la libera disponibilità del corpo, la clonazione, l’uso terapeutico di cellule staminali, l’eugenetica, l’insegnamento scolastico dell’evoluzionismo, l’utilizzazione di simboli religiosi negli spazi pubblici, la definizione di famiglia – investe la nozione stessa di laicità. Questa cessa di essere il prodotto dell’azione politica dello Stato moderno, l’esito della sua costruzione di un ordine neutrale e viene invece interpretata come l’affermazione pubblico-politica di differenze identitarie, e come la rivendicazione di un pluralismo che chiede garanzie, diritti speciali e riserve rispetto alla legge, ovvero spazi per l’esercizio pubblico di quelle identità (tipico, in Italia, il caso delle scuole private e del loro finanziamento). La ricchezza pluralistica delle società multiculturali e multietniche – la nuova frontiera della democrazia, poiché implica la possibilità di uscire in senso progressivo dalla crisi delle logiche dello Stato – si accompagna così al rischio che la sfera pubblica democratica sia abitata da soggetti che non sottopongono preventivamente i propri valori a test di democraticità, e che la democrazia invece di essere il presupposto etico e istituzionale della politica sia solo il parallelogramma delle forze che risulta dal confronto fra le identità; che la frammentazione a mosaico, secondo linee culturali, della democrazia la trasformi in una serie di aggregazioni irrappresentabili e non riconducibili ad alcuna unità, ad alcun consenso minimo, ossia che divenga un’arena in cui le realtà identitarie, esposte all’integralismo e all’intolleranza, giungono a conflitto o a fragili armistizi anziché a un reciproco riconoscimento (Multiculturalismo, 2006).

Ai suoi compiti tradizionali lo Stato democratico ne deve quindi aggiungere altri: gestire e regolare la nuova forma della politica intesa come lotta (simbolica e dialogica) per il riconoscimento fra culture e comunità di valori diverse, garantendo al contempo l’unità delle forme politiche rispetto al rischio della balcanizzazione, ma al tempo stesso assicurando anche che le nuove realtà politiche – le culture – non prevarichino la libertà degli individui che ne fanno parte (per es., non tengano in soggezione le donne) e non impediscano di far valere il ‘diritto alla singolarità’ di coloro che non vogliono farne parte. Una sfida difficile da affrontare a livello teorico, poiché implica il far coesistere l’unità della forma politica con la pluralità delle culture, e che può comportare l’enfatizzazione ora delle esigenze tradizionali di uguaglianza della democrazia (in questa ipotesi si prevede un agire dello Stato più orientato se non all’assimilazione certo alla neutralizzazione delle differenze) ora invece delle istanze di differenziazione implicite nelle logiche del riconoscimento interculturale (in questo caso aumenta lo spazio per le rivendicazioni delle culture, a condizione che siano aperte al confronto, alla tolleranza reciproca e che riconoscano un set di valori minimi comuni). Una sfida che, dal punto di vista pratico, sovraccarica le istituzioni dello Stato democratico, implica una faticosa negoziazione delle politiche pubbliche e accresce il tasso di scontento e di conflitto all’interno delle forme politiche. Presenti in misura diversa in tutti i Paesi occidentali, questi fattori di affaticamento e di malessere della democrazia comportano da parte della politica istituzionale risposte orientate verso tentativi di governo della complessità, ovvero di parziale ricomposizione della società in forme politicamente riconoscibili e gestibili, e di nuova neutralizzazione dei conflitti. Devoluzione, autonomia e sussidiarietà, sono i concetti grazie ai quali si sono tentate correzioni ‘federali’ della democrazia, soprattutto per risolvere questioni di identità territoriale e di riequilibrio fiscale regionale; quando la democrazia federale non è un semplice decentramento di funzioni statali si propone di pensare la coesistenza politica ‘dal basso’, cioè come iniziativa di realtà locali autonome, che non devono la loro esistenza allo Stato.

Ma al di là delle soluzioni di ingegneria costituzionale, principali attori della politica restano i partiti, molti dei quali si sono trasformati in formazioni largamente postideologiche che non vogliono più essere l’espressione politica di precise parti sociali e che – accettando la fine della leggibilità della società e della politica attraverso le grandi narrazioni otto-novecentesche – presentano sulla scena pubblica offerte politiche non radicalmente alternative fra di loro, benché distinte. Infatti, le società occidentali risultano abbastanza nettamente polarizzate, così che destra e sinistra continuano a essere categorie politiche e interpretative utili, anche se il loro significato è dislocato rispetto a quello tradizionale. Le forze moderate di destra e di sinistra (la loro interpretazione estrema è minoritaria) hanno certo in comune la consapevolezza della centralità della sicurezza e della necessità di riformare Stato e partiti: per entrambe, le istituzioni devono essere trasparenti ed efficienti, e i partiti devono riavvicinarsi alla società. Benché fronteggino questioni comuni con risposte per alcuni versi simili, le forze di destra e di sinistra si differenziano, soprattutto su alcune questioni: come governare la frammentazione sociale e culturale, come garantire la sicurezza, come individuare i confini delle libertà civili dei singoli e come rapportarsi allo Stato sociale. Questo – esito della collaborazione tra le forze del capitale e del lavoro, ossia del ‘compromesso socialdemocratico’ del dopoguerra, orientato a rendere possibile, fra i cittadini, un concreta uguaglianza delle possibilità – è infatti sotto stress (pur con velocità e intensità differenti fra Stati Uniti ed Europa, e anche all’interno delle singole realtà statali europee) in tutto il mondo avanzato, per l’aumento dei costi e per le nuove prestazioni che gli vengono chieste.

Schematicamente, le forze politiche di destra non puntano più, come nell’ultimo ventennio del 20° sec., solo o prevalentemente, sulle virtù del libero mercato, ma enfatizzano la questione della sicurezza, riaccreditando a questo riguardo l’azione dello Stato, mentre restano critiche dello Stato sociale e dei suoi costosi apparati burocratici, a cui contrappongono il principio di sussidiarietà fra pubblico e privato, o fra i diversi livelli di prestazione (locale e centrale), o la compassione verso i meno fortunati. La coesione politica che le destre privilegiano nasce dal riferimento a forme di identità politica nazionali o religiose, o a coerenti comunità territoriali: e queste identità si possono anche presentare in modi che producono differenziazione gerarchica (per es., fra cittadini e non cittadini) nell’accesso ai diritti, o che improntano la legislazione a valori religiosi; invece, verso le logiche dello sviluppo economico le destre conoscono al proprio interno una distinzione tra posizioni liberiste – che subordinano la politica alle esigenze dell’economia, mentre ai cittadini prospettano la riduzione della pressione fiscale – e nuovi corporativismi, che possono anche fronteggiare ostilmente le logiche del mercato, o nuovi interventismi della politica sull’economia, per controllarne le crisi. In ogni caso, tanto come libertà del mercato quanto come libertà dal mercato, la tendenza delle politiche di destra è di assecondare la frammentazione sociale, incorporandola all’interno di una qualche comunità simbolica sovraindividuale.

Le sinistre che pure non criticano il capitalismo e l’economia di mercato alla radice, ma solo in alcuni aspetti d’illegalità e di sfruttamento, restano invece debitrici all’idea che lo Stato debba essere anche Stato sociale, e quindi affermare e garantire, in regime di uguaglianza delle condizioni di partenza, i diritti sociali dei cittadini, e realizzare la coesione attraverso politiche di inclusione generalizzata nelle istituzioni e nei servizi, di moderata redistribuzione dei redditi, e di lotta contro i più opachi e pervasivi agglomerati di potere sociale. È dalle politiche che realizzano la sicurezza dei diritti che le forze di sinistra tendono a fare discendere il diritto alla sicurezza. Sul tema dell’identità politica le sinistre interpretano la cittadinanza come l’esito della lealtà di tutti verso la costituzione, e non come la conseguenza di un’appartenenza a una comunità, e tendono a dare enfasi alle libertà civili e alla laicità dello Stato e a riaffermare la centralità del lavoro e della giustizia sociale. Insomma, la frammentazione deve essere sbloccata, e trasformarsi in attivo e libero pluralismo, all’interno di un quadro unitario fornito dai principi costituzionali. Queste politiche sono declinate in modalità diverse: come terza via liberal – se la società è vista come ormai scomposta in individualità e se si vede quindi lo Stato sociale come un insieme di servizi alle persone in un regime di ‘mercato regolato’ – oppure come socialdemocrazia tradizionale, se si fa riferimento a blocchi sociali riconoscibili (essenzialmente, il lavoro dipendente) e allo Stato sociale come strumento istituzionale di redistribuzione del reddito. Queste posizioni sono variamente articolate nei diversi contesti nazionali, soprattutto nella pratica politica si presentano relativamente sfumate, data l’esigenza che i maggiori partiti hanno di rivolgersi in realtà a tutta la popolazione. In concreto, la differenziazione tra partiti passa attraverso il confronto fra le personalità dei leader più o meno carismatici: a questi, anche grazie all’utilizzazione di forme di comunicazione politico-mediatica vicine al marketing, spetta di fatto la creazione di consenso, il che dà vita a una democrazia in cui i cittadini tendono a trasformarsi in ‘pubblico’. Perfino questa personalizzazione è caratteristica della politica contemporanea e si accompagna spesso a elementi di populismo. Il successo di queste strategie nel legittimare democraticamente i governi delle società contemporanee dipende certo dalla capacità dei partiti e delle istituzioni di riformarsi, di essere più attenti alle esigenze della società e meno chiusi in caste e corporazioni, ma dipende anche dal fatto che sia ancora possibile una politica fondata su inclusione, consenso e tolleranza – di individui e di culture –, e che non prevalgano invece forme politiche sempre più segnate dalla differenziazione, dalla gerarchizzazione, dalla potenziale esclusione. A loro volta, le proposte di democrazie che si propongono di organizzare la politica intorno al riconoscimento e alla promozione delle differenze e delle pluralità, oltre le logiche dello Stato divergono profondamente fra di loro. Così, sulla scia di Jürgen Habermas, si è pensata una ‘democrazia deliberativa’ che non affida solo alle istituzioni (cioè alle burocrazie e ai politici di professione) e ai media (cioè ai potentati che li controllano) il peso delle decisioni pubbliche, e che vuole addestrare alla cittadinanza attiva, al dibattito informato e razionale sui problemi, in modo tale che possa nascere una democrazia della partecipazione e della discussione, in alternativa alla democrazia formale-statuale. Altri invece propongono, seguendo Jacques Derrida, una ‘democrazia a venire’, centrata non su un’identità ma su una costitutiva apertura alla differenza, alla contingenza, all’incontro con l’altro (singolo o collettivo); altri ancora ipotizzano il superamento della stessa cittadinanza in nome dell’attribuzione dei diritti alla persona, oppure dell’appartenenza di ciascun soggetto a più sfere politiche e a più identità culturali (la intraculturalità); oppure ancora si enfatizza la dimensione biopolitica, riletta in positivo come primato dell’affermazione spontanea della vita; mentre si è anche delineata una ‘democrazia insorgente’, oppure una ‘democrazia agonistica’, cioè un superamento delle logiche inclusive e rappresentative dello Stato nella direzione di un più aperto riconoscimento della inevitabile conflittualità interna alla società contemporanea.

Le divergenze fra queste prospettive, tutte orientate al superamento democratico delle logiche politiche della statualità, testimoniano, anche nell’ambito interno, la complessità e l’ambivalenza della politica contemporanea, la sua apertura a molteplici rischi e differenti possibilità.

Bibliografia

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