Lavoro

Enciclopedia Italiana - VII Appendice (2007)

Lavoro

Paolo Piacentini
Rosanna Memoli

economia del lavoro

di Paolo Piacentini

La lingua italiana dispone del solo sostantivo lavoro, che non consente la distinzione concettuale colta nell'inglese corrente dai due termini work e labour. Il primo rinvia genericamente a ogni applicazione di abilità umana finalizzata a uno scopo immediatamente utile; il secondo allude a un impegno faticoso e necessitato, prevalentemente in condizioni subordinate.

Pertanto il dispendio di labour è stato generalmente considerato, nella teoria economica, come un bene 'negativo', fonte di disutilità diretta esprimibile, oltre che come fatica, in termini di un costo-opportunità, di un valore del tempo sottratto a un suo impiego li-beramente scelto in funzione delle inclinazioni personali. Nell'ambito di un approccio marginalistico all'analisi economica, la formalizzazione del comportamento di un agente razionale che offre l. si fonda sulla sua disutilità diretta, che l'agente eguaglia, al margine, alla soddisfazione derivante dal consumo dei beni acquistabili attraverso la remunerazione.

Le visioni del l., nelle elaborazioni dei maggiori economisti, possono ovviamente differire nell'ampiezza e nei dettagli, ma rimangono centrali per inquadrare una più ampia concezione delle interazioni umane e sociali che hanno ispirato il loro pensiero. Anche se queste visioni si sforzano generalmente di delimitare un programma di ricerca ritenuto specifico di una riflessione propriamente economica, forme e norme che emergono nello scambio e nella remunerazione del l. inevitabilmente rinviano ai nodi costitutivi della divisione del l., e di conseguenza dell'articolazione sociale dell'attività di produzione.

In Wealth of nations (1776) di A. Smith, un passaggio, giustamente famoso, bene anticipa e riassume la complessità delle sfere individuali e collettive dell'agire umano implicate dagli impieghi del l., e la problematicità di una valutazione economica del suo contributo: "il prezzo reale di ogni cosa, ciò che ogni cosa costa realmente a chi ha bisogno di procurarsela, è la pena e il disturbo di procurarsela" (trad. it. 1995, p. 82). Nella visione di Smith sono pertanto già chiaramente evocate la nozione di un costo privato dello sforzo lavorativo e una de-finizione di ricchezza, o potere economico, come capacità di 'comando' sul l. (o sui frutti del l. altrui).

Ritorniamo alla distinzione evocata dalla dualità fra work e labour. È Smith stesso a ricordare come un'identica attività (nell'esempio specifico, la caccia) possa essere considerata come fatica, oppure come ricreazione, e quindi con valenze negative o con valenze positive in un calcolo utilitaristico, secondo il ruolo e i fini della persona che lo esercita, e secondo le circostanze istituzionali e il grado di sviluppo economico della società. K. Marx sviluppa una visione duale del l. in diverse direzioni: si ricordi l'opposizione ideale fra un l. 'astratto' e alienato, da una parte, puro dispendio quantitativo di energia umana e unico bene di scambio offribile sul mercato da parte di una classe proletaria priva di altri modi di assicurare la propria sussistenza; e, dall'altra parte, la visione, nell'utopico traguardo di un comunismo realizzato, di un l. 'liberato', prima fonte di realizzazione delle inclinazioni umane più elevate.

Anche in un contesto, come quello odierno, di Paesi sviluppati a economia di mercato, e per una quota largamente maggioritaria della popolazione, il l., al di là delle differenziazioni che gli sono proprie (in termini di maggiore o minore remunerazione, penosità o soddisfazione, subordinazione o autonomia ecc.), rimane sostanzialmente una necessità, mezzo primo e frequentemente unico per poter disporre di un potere d'acquisto sui beni. È dallo scambio della forza-lavoro contro una remunerazione monetaria che derivano circa i due terzi del reddito disponibile delle famiglie.

Si proporrà ora una breve rassegna di aspetti e comportamenti dal lato della domanda e dell'offerta sul/i mercato/i del l., e dell'influenza dei fattori, tecnologici, istituzionali oppure organizzativi, che appaiono condizionare in modo assai significativo gli esiti di mercato. Prima di affrontare l'argomentazione principale, è utile un'ulteriore distinzione tra fattispecie del lavoro. Ossia: una considerazione dei servizi del l., esclusivamente limitata alle fenomenologie di un suo scambio sul mercato, comporta una significativa restrizione del campo delle attività umane che possono definirsi come work. Tuttavia le impostazioni moderne di 'economia della famiglia', e in special modo i modelli di produzione familiare, sottolineano correttamente che la disponibilità di un reddito monetario è una condizione necessaria, ma non sufficiente, per l'effettivo godimento dei beni. Le prestazioni di l. gratuito, dedicate ai servizi di organizzazione e di cura familiare in senso lato, devono essere considerate quali input complementari al 'denaro' nell'ambito di una 'produzione domestica' attraverso la quale i beni grezzi vengono trasformati in consumi utili. Un'analisi di comportamenti e atti che privilegia la sfera di scambio rimane tuttavia il terreno di specializzazione dell'economista. La voce di riferimento più adatta, al fine di inquadrare le problematiche tradizionali o più recenti di un'analisi economica del l., potrebbe pertanto essere quella di 'mercati del l.', piuttosto che di l. tout court.

Richiamarsi, al sostantivo plurale, ai mercati del l. serve a far ricordare l'eterogeneità dei l. concreti che vengono domandati e offerti. Certo, in ambito di analisi macroeconomica, spesso ci si riferisce a un mercato 'aggregato' del lavoro. In questo caso, infatti, l'attenzione si concentra sul livello di attivazione complessiva del sistema economico, misurata attraverso la stima statistica di quantità di un bene fittizio 'composito' (il Prodotto interno lordo, PIL), cui si associa un impiego complessivo di servizi di l., che si puo quantificare in unità di l. occupate oppure in ore complessivamente lavorate. Ma un'indagine applicata che voglia entrare in un maggiore dettaglio, non potrà mancare, prima o poi, di fare riferimento a 'segmenti' del mercato del l., che sono definiti in base a caratteristiche dell'applicazione (l. manuale e l. intellettuale), forme contrattuali e istituzionali dell'impiego (l. stabile e l. precario), settore, genere, età, nazionalità d'origine, e così via. Ciascun segmento compreso in questo spettro eterogeneo di l. e lavoratori potrà essere analizzato in modo parziale come un mercato specifico.

Tuttavia, i mercati del l. così definibili appaiono di fatto reciprocamente interdipendenti, attraverso relazioni di complementarità e di so-stituibilità reciproche. Dall'insieme di queste relazioni possono emergere situazioni di relativo privilegio, o di discriminazione, di un segmento rispetto ad altri. Per es., alla protezione contrattuale e legale di lavoratori stabili possono contrapporsi le difficoltà di segmenti di forza lavoro che spesso oscillano fra stati di disoccupazione e impieghi precari. La discriminazione si manifesterebbe sotto forma di elevati tassi specifici di disoccupazione o sottoccupazione per il segmento colpito, e/o come penalizzazione in termini di un differenziale salariale negativo che non appare giustificabile sulla base delle abilità e produttività individuali (per fare un esempio, differenziali di 'genere').

Se prevalgono le condizioni idealizzate della concorrenza pura, dato ciascun livello di salario reale la scheda di offerta, individuale o collettiva, individua le quantità di l. che si desidera erogare al fine di rendere massima l'utilità derivante dalle disponibilità di consumo e di tempo libero; la scheda di domanda individua il fabbisogno di l. che rende massimo l'utile netto (profitto) per l'impresa che lo impiega. In condizioni di equilibrio, il salario reale di mercato eguaglia domanda e offerta; situazioni di disequilibrio si manifesteranno invece in eccessi di domanda (posti di l. non coperti) oppure di offerta (lavoratori che rimangono involontariamente disoccupati).

Una presenza contemporanea, in un dato momento, di eccessi di domanda e di offerta, per un l. omogeneo e per un mercato in cui vigono le condizioni di perfetta mobilità, perfetta informazione, perfetta flessibilità di prezzo, esce dai canoni della concorrenza classica. Tuttavia, nel loro funzionamento di fatto, i mercati del l. sperimentano spesso una coesistenza di disoccupazione e di fabbisogni insoddisfatti delle imprese, nei diversi segmenti e contesti territoriali, professionali, settoriali. Una più recente linea di rappresentazione degli interscambi di l. considera allora l'evento di un incontro (job match) fra posto di l. e lavoratore come l'unità elementare di analisi ai fini della costruzione di modelli formali e dell'indagine empirica. L'analisi dei fenomeni di mobilità e degli squilibri e degli aggiustamenti di mercato risulta generalmente arricchita attraverso l'osservazione congiunta di domanda e offerta nell'ambito dell'episodio lavorativo.

I processi di creazione e di distruzione dei posti di l., a seguito di espansione o contrazione del livello di attività, oppure dell'impatto delle innovazioni tecnologiche che attivano nuove imprese e professionalità spiazzando al contempo altre, possono venire colti misurando i flussi lordi coinvolti e non solo i risultati netti in termini di variazione delle consistenze di occupati o disoccupati. L'allargamento della visione è rilevante, ove si consideri che nel contesto di una tipica economia europea, mentre le variazioni dei saldi occupazionali raramente superano un punto percentuale in più o in meno all'anno, gli episodi di mobilità nel loro complesso arrivano a coinvolgere in un anno più del 10% dei partecipanti al mercato. Gli episodi di mobilità sono, evidentemente, più frequenti nelle fasi di inserimento delle classi giovanili, mentre una quota, finora maggioritaria, di lavoratori riesce ad approdare a forme di impiego più stabili nelle fasi centrali della vita attiva.

L'inquadramento sia dinamico sia'longitudinale' delle forme di partecipazione al l., e della differenziazione fra percorsi individuali più o meno fortunati, appare oggi più che mai d'attualità, alla luce di una evoluzione, auspicata o deprecata secondo i punti di vista, verso una maggiore 'flessibilizzazione' dei mercati del lavoro. Su questo termine, usato e di frequente abusato, appare infatti incentrata una parte preponderante del dibattito più recente intorno alle politiche del l., sia tra economisti specializzati sia tra operatori politici o sindacali e mass media. Come spesso accade in questi casi, si tratta in parte di una ripresa di posizioni e controversie più antiche, che partono dalle origini della scienza economica. La percezione delle positività e delle negatività associabili a caratteristiche di flessibilità del mercato si è tuttavia modificata negli ultimi decenni del 20° sec., ed è stata profondamente influenzata dal confronto tra le performances di attivazione occupazionale fra le due sponde dell'Atlantico. Il divario di crescita economica e di capacità di creazione occupazionale fra gli Stati Uniti e la maggior parte dei Paesi membri dell'Unione Europea si è infatti ampliata: nel periodo 1992-2000, gli Stati Uniti hanno registrato un tasso di crescita media annua del PIL del 3,2%, con un tasso di occupazione della popolazione in età di l., al 2000, del 74%; per l'insieme dei 15 Paesi UE prima del recente allargamento, i relativi valori sono stati del 2,1% e del 64%.

L'associazione fra i diversi contesti istituzionali nonché le relative performances è stata variamente proposta ed enfatizzata in modelli macroeconomici del mercato del lavoro. Il caso degli Stati Uniti è stato considerato come paradigmatico di un mercato flessibile e scarsamente regolato, più vicino ai canoni classici di interazione concorrenziale. La flessibilità dei prezzi e delle quantità assicura l'equilibrio fra domanda e offerta e l'efficiente allocazione delle risorse produttive, tra cui in primis il lavoro. Una qualsiasi azione correttiva o di regolazione rispetto all'operazione della 'mano invisibile' sarebbe giustificabile solamente nell'eventualità di 'fallimento' del mercato, vale a dire di risultati sub-ottimali che possano essere univocamente associati a un'incapacità intrinseca del mercato di conseguire esiti di equilibrio ed efficienza.

La presenza di una disoccupazione persistente e involontaria appare, a prima vista, come l'esempio più eclatante di fallimento del mercato: si è infatti in presenza di un eccesso fondamentale di offerta di l. che i comportamenti individuali non paiono in grado di correggere; la mancata attivazione di quote di lavoratori si traduce inoltre in perdita di prodotto, e quindi in inefficienza a livello complessivo del sistema economico. La risposta keynesiana alla depressione economica e all'elevata disoccupazione, che aveva raggiunto i suoi massimi storici negli anni della Grande depressione, si basava infatti sulla convinzione di essere di fronte a un fallimento fondamentale del capitalismo maturo, e aveva invocato il ruolo supplementare di una mano 'visibile', attraverso la regolazione delle leve monetarie e fiscali, e in particolare un maggior intervento diretto di spesa da parte dello Stato.

La 'controrivoluzione' neoclassica, o neoliberista, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, ha rovesciato questo orientamento attraverso un'attribuzione degli esiti inefficienti o indesiderabili ai vincoli e ostacoli che sarebbero stati imposti al mercato stesso, nonché ai suoi meccanismi di autocorrezione, da parte di fattori di rigidità (forme contrattuali, eccessi di regolazione, costo e inefficacia dell'operato della mano pubblica). Si tratterebbe, quindi, non di surrogare il mercato, ma di ridimensionare interferenze e velleità dirigistiche su di esso: quindi più concorrenza e un'istanza verso la rottura di assetti corporativi o oligopolistici nei mercati di beni e servizi, compresi i mercati dei servizi lavorativi. Istituzioni e norme che interferiscono con i corretti incentivi concorrenziali, anche se concepite per motivi in sé apprezzabili di solidarietà sociale, finirebbero con il produrre effetti collaterali perversi. Sussidi di disoccupazione troppo generosi, in termini di copertura di reddito come anche di durata della prestazione, agirebbero da incentivo negativo a un effettivo sforzo di ricerca di l. da parte del disoccupato, il quale sarebbe indotto, per es., a rifiutare impieghi non graditi e a prolungare la ricerca, oppure a cumulare i sussidi con i ricavi di prestazioni 'in nero'. Una legislazione che voglia tutelare i lavoratori, supposti come controparte più debole del mercato, offrendo, per es., forme di protezione legale, oppure imponendo penalità pecuniarie per le imprese, in caso di licenziamenti individuali non motivati da 'giusta causa', anche se difficilmente contestabile sul piano etico, può avere l'effetto di disincentivare la propensione ad assumere da parte dei datori di l., i quali dovrebbero sopportare dei costi di separazione nell'eventualità di prestazioni del lavoratore ritenute insoddisfacenti. Inoltre, i costi monetari sia diretti sia indiretti, imposti dalle forme di protezione dell'impiego sugli aggiustamenti dei fabbisogni di l. delle imprese, rafforzerebbero la posizione dei lavoratori cosiddetti regolari, contrattualmente tutelati, ma renderebbero più difficile l'accesso alle stesse condizioni per fasce marginali della forza lavoro (per es., giovani senza esperienze lavorative, donne che desidererebbero rientrare sul mercato dopo un periodo dedicato esclusivamente agli impegni familiari, sottoccupati relegati in aree di l. sommerso e così via).

Una protezione previdenziale universale, gestita centralmente dallo Stato, contro gli eventi naturali e contingenti che comportino perdita di capacità di guadagno (per es., vecchiaia, malattia) rappresenta certamente il cardine centrale di un welfare state che si pone l'obiettivo di contemperare la libertà di iniziativa di mercato con la tutela sociale di coloro che sarebbero esclusi dalla partecipazione a questo. Tuttavia, i costi delle prestazioni sociali, associabili in senso lato al welfare, hanno finito con il rappresentare da tempo il capitolo con l'incidenza maggiormente onerosa nei bilanci pubblici; i costi relativi sono stati riversati (quando non hanno direttamente alimentato il deficit dello Stato o delle gestioni previdenziali) sugli oneri fiscali e su quelli contributivi, diversamente ripartiti fra lavoratori e datori di l., ma in ogni caso comportanti un aggravio del costo lordo, e relativo, del lavoro.

Viene spesso proposta la contrapposizione fra la situazione della Germania, costituzione esemplare di un welfare state con un'ampia base di consenso sociale, e quella degli Stati Uniti, dove ogni tutela previdenziale al di sopra di una soglia minima viene di fatto demandata alla responsabilità individuale. Essa rivela la complessità delle opzioni e le difficoltà di un equilibrio fra incentivi economici e garanzie sociali con cui si confronta un capitalismo più o meno 'maturo'.

Tuttavia, al fine di non dare l'impressione di un trade-off orientato in una particolare direzione, sarà opportuno richiamare il modello scandinavo, che sembra essere stato capace di continuare ad assicurare elevati livelli di attivazione occupazionale, evitando nel contempo sacrifici sostanziali sul fronte del welfare. L'elaborazione da parte dell'OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) di un ampio rapporto (OECD 1994-95), in cui si suggerivano linee guida per una nuova politica del l., ha segnato un momento importante per diffondere la convinzione della necessità di procedere verso la deregolamentazione e di ridurre i costi 'impropri' associati all'impiego di l., al fine di stimolare la ripresa occupazionale. Un discutibile neologismo, occupabilità, è stato assunto alla stregua di parola d'ordine nella 'strategia europea dell'occupazione', codificata dal Consiglio dei ministri della UE di Lussemburgo (luglio 1990). Su questa base, così, la Commissione effettua annualmente un monitoraggio dei progressi in materia di politica del l. dei Paesi membri, con la facoltà di avanzare raccomandazioni ai governi nazionali.

'Occupabilità' significa sostanzialmente che le caratteristiche di qualificazione e di costo d'uso dell'offerta di l. devono essere tali da poter soddisfare le esigenze e le compatibilità dal lato della domanda. La visione analitica del funzionamento dei mercati del l. sottesa in questi orientamenti consiste nel fatto che le situazioni di carenza occupazionale (disoccupazione, sottoccupazione, l. sommerso, aree di l. a bassa remunerazione) emergono prevalentemente in conseguenza di carenze qualitative di offerta, di una scarsa corrispondenza fra percorsi formativi e fabbisogni del sistema economico, o di un costo lordo di manodopera eccessivo rispetto al suo contributo in termini di produttività. Nella fenomenologia attuale di esiti insoddisfacenti del mercato, sarebbero quindi più rilevanti i fenomeni di mismatch (mancato incontro tra offerta e domanda potenziali a causa di una non corrispondenza delle caratteristiche qualitative) piuttosto che un eccesso 'fondamentale' di offerta. Nasce così la convinzione che il superamento di tali carenze sia perseguibile principalmente attraverso politiche e azioni istituzionali dal lato dell'offerta. Alcune implicazioni di questo orientamento sono certamente rilevanti, come l'accento posto sulla formazione e sulla necessità di fornire occasioni di riqualificazione, anche in età adulta, a una forza lavoro che rischia di essere resa obsoleta dai cambiamenti tecnologici e organizzativi, l'auspicio che una funzione pubblica di collocamento non sia più una sede di registrazione dei disoccupati, più o meno involontari, ma che agisca come intermediario attivo dei processi di matching. Rimane, però, il dubbio che l'accento posto sulle carenze formative dell'offerta finisca con il trascurare fattori di debolezza che possono emergere, invece, dal lato della domanda, a causa, per es., di uno scarso dinamismo dei processi di investimento e di innovazione, o caduta di competitività, vincoli macroeconomici e di bilancio all'estensione e riqualificazione di aree di servizi collettivi.

Tornando alla nozione di flessibilità, va osservato che un suo uso che non si riduca a slogan deve consapevolmente ragionare sulle sue forme e implicazioni. Il concetto di flessibilità 'numerica' allude al grado di libertà del datore di l. di aggiustare impieghi, manodopera e orari secondo le circostanze del ciclo o per altri motivi. Leggi o prassi contrattuali che assumano come norma un rapporto di l. a tempo pieno e di durata indeterminata, e impongano al datore di l. tempi e costi onerosi per eventuali risoluzioni, contrastano evidentemente con le esigenze di flessibilità numerica. In Italia, e più generalmente in Europa, diverse riforme normative hanno ampliato le aree di applicabilità e diffusione di forme contrattuali più flessibili. Il passaggio attraverso forme di l. precario è oggi diventato un'esperienza obbligata per gran parte delle leve giovanili; d'altra parte, in Paesi come l'Italia, in cui si registrano anche i tassi fra i più elevati di disoccupazione/inoccupazione giovanile, i contratti 'contingenti' possono favorire l'emersione di una nuova domanda di l., permettendo una verificabilità nel tempo del match, in termini di impegno del lavoratore e di conferma del fabbisogno secondo le circostanze congiunturali. Tale incentivo ad assumere deve però essere confrontato con i rischi e costi sociali della diffusione di condizioni di precarietà, non programmabilità delle scelte e incertezza delle prospettive di vita.

Un secondo aspetto della flessibilità riguarda forme e rilevanza dei processi di mobilità del l. sul piano territoriale o professionale. Istituti e sussidi che prolunghino l'esistenza di match non più economicamente validi possono ritardare la capacità di riconversione del sistema economico, di fronte all'evoluzione tanto delle tecnologie quanto della specializzazione internazionale. Tuttavia gli ostacoli alla mobilità possono più ampiamente derivare da altri fattori, e in particolare dai costi sia individuali sia sociali della mobilità stessa. Recenti ricerche hanno rilevato la correlazione negativa fra percentuale di popolazione con titolo di proprietà sull'alloggio e indici di mobilità territoriale.Una terza accezione della flessibilità chiama in causa la variabilità di 'prezzo', piuttosto che di quantità, del lavoro. Sarebbe di particolare rilevanza, a questo riguardo, la flessibilità dei differenziali salariali, o dei salari relativi, rispetto all'evoluzione della domanda e offerta nei diversi segmenti. Le rigidità possono essere rappresentate in questo caso da remunerazioni minime contrattuali, stabilite a livello nazionale e per tutte le imprese, che non tengano conto di specificità regionali, situazioni di crisi settoriale e così via. In mercati flessibili, una situazione locale di carenza di domanda si manifesterebbe principalmente sotto forma di penalizzazione delle remunerazioni dei lavoratori coinvolti rispetto a segmenti più fortunati. Ove le rigidità ostacolassero tale aggiustamento, i postulati canonici della teoria della domanda di l. prevedono una caduta quantitativa della domanda e un aumento della disoccupazione. Sistemi più flessibili consentirebbero una migliore tenuta occupazionale, accompagnata tuttavia da un approfondimento degli indici di ineguaglianza economica e sociale; mentre sistemi più rigidi comporterebbero disoccupazione più ampia, anche se con minore dispersione dei redditi.

Appare difficilmente contestabile che diversi tipi di rigidità possano inibire segmenti della domanda di l., alimentando la disoccupazione o incoraggiando la sottoccupazione in aree discriminate e deregolate del mercato che sfuggano alle rigidità stesse. Vanno ricordate tuttavia le implicazioni negative, anche da uno stretto punto di vista di efficienza economica, degli eccessi di flessibilità nel medio periodo. L'incentivo a un impegno formativo, per il lavoratore come per il datore di l., può essere scarso in un match contingente destinato a esaurirsi in un breve periodo. L'eventuale ampliamento quantitativo della base occupazionale può allora non correlarsi con un adeguato investimento in 'capitale umano', universalmente riconosciuto come un fattore fondamentale della crescita economica.

Il riferimento ai differenziali salariali come pure ai tassi specifici di disoccupazione conduce al problema dell'impatto sul l. delle tendenze fondamentali che caratterizzano lo sviluppo economico su scala globale, vale a dire il progresso tecnico e la specializzazione internazionale. Ci si confronta oggi con la diffusione di un nuovo paradigma tecnologico, la 'rivoluzione microelettronica', e con una crescente intensificazione e liberalizzazione degli scambi e della mobilità dei fattori su scala mondiale. Su quest'ultimo fronte, si può affermare che il capitale, sotto forma di investimento reale o finanziario, è ormai completamente mobile sul fronte globale; la mobilità del l., al momento, è limitata soltanto da ostacoli posti da parte delle collettività che ne temono un impatto dirompente sugli assetti sociali.

L'idea che l'implicazione principale del progresso tecnico consista in un 'risparmio di l.' tendenzialmente sfavorevole ai lavoratori, risale alle origini del pensiero economico; in particolare a D. Ricardo e Marx. In ciascun periodo di intensificazione degli impieghi di tecnologie potenzialmente sostitutive del l., si sono levate voci 'catastrofiste' su scenari di disoccupazione di massa (v., per es., Rifkin 1995). Secondo riflessioni più adeguate, gli effetti diretti di risparmio di l. possono essere compensati dagli effetti di espansione, resi possibili precisamente dalle nuove opportunità di investimenti e consumi aperte dai processi innovativi, come avevano già intravisto Ricardo e Marx. Analisi em-piriche mostrano che il tasso di disoccupazione, nel lungo periodo, non ha un trend crescente.

Bisogna tuttavia andare al di là di un generico riferimento a quantità aggregate di lavoro. La caratteristica dei processi innovativi è, infatti, di essere allo stesso tempo sostitutivi e complementari rispetto a diverse tipologie del lavoro. Con riferimento alle tecnologie dell'informazione, la letteratura specializzata sottolinea l'espansione delle opportunità di impiego qualificato a fronte dello spiazzamento di mansioni meno qualificate. I rischi di potenziale caduta dei fabbisogni di l. meno qua-lificato non provengono soltanto dalle caratteristiche intrinseche ai processi innovativi in corso. Piuttosto, è l'accresciuta competitività su scala globale, con la partecipazione sempre più ampia di nuovi Paesi produttori, con condizioni di uso e remunerazione del l. ancora tipiche di contesti di sottosviluppo, che giustifica oggi i timori per le prospettive di assorbimento quantitativo e di qualità del l. nei Paesi di più antica industrializzazione.

P. Samuelson e altri già negli anni Quaranta avevano elaborato il 'teorema della equalizzazione dei prezzi dei fattori', secondo cui i Paesi con una maggiore dotazione e un minor costo del l. realizzano vantaggi competitivi nelle filiere a elevata intensità di lavoro. Nei Paesi più sviluppati ne conseguirebbe una caduta della domanda di lavoratori meno qualificati; una sovrabbondanza relativa di questi segmenti comporterebbe un abbassamento delle loro retribuzioni reali, fino, al limite, a tendere all'eguaglianza con i livelli dei nuovi competitori, la cui economia nel frattempo è in decollo. La globalizzazione odierna rende più attuali i risultati 'limite' del modello teorico, ma il fenomeno più eclatante di questa, piuttosto che a livello degli scambi commerciali, si misura nella completa liberalizzazione del movimento di capitali, e quindi nell'allargamento su scala mondiale delle opzioni di investimento e di localizzazione produttiva. I fenomeni di delocalizzazione verso i Paesi a basso costo del l. sono certamente rilevanti, appare tuttavia valida una prospettiva non catastrofica, pur se inquietante, circa le prospettive del l. in un mondo globalizzato. Attraverso i processi di delocalizzazione, e una migrazione internazionale che è sempre più difficile da contenere, si è allargata la competitiva'del mercato del lavoro. Non sono più i disoccupati 'locali' a essere i po-tenziali concorrenti di lavoratori già in condizioni di relativa sicurezza e tutela, ma piuttosto l'enorme offerta di un proletariato mondiale che è disponibile nelle sue sedi o, in seguito ai movimenti migratori, potenzialmente ovunque.

Qualora i miglioramenti delle condizioni di vita delle classi lavoratrici, nel corso di ben due secoli e più dalla prima rivoluzione industriale, fossero stati legati all'ampliamento delle protezioni istituzionali e al potere contrattuale delle organizzazioni rappresentative dei loro interessi, tali assetti rischierebbero certamente di subire un drastico impatto dai processi in corso. Si è accennato agli orientamenti delle politiche del l., le quali vedono nell'interazione concorrenziale sul mercato un incentivo positivo per le potenzialità occupazionali e per i processi di riqualificazione strutturale dei sistemi produttivi; tuttavia ci si può chiedere se tali ipotesi valgano anche in condizioni di competizione inasprita, laddove prevalga la legittima aspirazione di Paesi che escono dal sottosviluppo o da dolorosi processi di transizione di diventare meno poveri anche a costo di rendere altri più poveri. La teoria neoclassica insegna che una merce è tanto più vile quanto più relativamente sovrabbondante; e il l. è oggi certo una merce troppo spesso sovrabbondante. Ma diversamente dalle quotazioni di un'azione in Borsa oppure degli ortaggi sul mercato all'ingrosso, la valutazione del l. non può ridursi soltanto al corso del suo prezzo nella contrattazione quotidiana. La costituzione delle società e la sussistenza di una quota maggioritaria della popolazione sono basate sulle condizioni di partecipazione al l., e di ciò si deve tenere conto.

Bibliografia

U. Pagano, Work and welfare in economic theory, Siena 1983; OECD, The OECD jobs study, 4 voll., Paris 1994-95.

J. Rifkin, The end of work: the decline of the global labor force and the dawn of the post-market era, New York 1995, 20042 (trad. it. Milano 1995).

P. Cahuc, A. Zylberberg, Le marché du travail, Bruxelles 2001.

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