La Rivoluzione scientifica: modelli di conoscenza. Cosmologie

Storia della Scienza (2002)

La Rivoluzione scientifica: modelli di conoscenza. Cosmologie

Antonella Del Prete

Cosmologie

Il Seicento si apre con il rogo di Giordano Bruno, accusato dal tribunale dell'Inquisizione di Roma di molti crimini, tra cui quello di aver sostenuto che l'Universo è infinito e di aver aderito alle opinioni copernicane, e si chiude con la pubblicazione in Francia degli Entretiens sur la pluralité des mondes (1686) di Bernard Le Bovier de Fontenelle, con la stampa postuma in Olanda del Kosmotheoros (1698) di Christiaan Huygens e con la diffusione in Inghilterra della fisico-teologia dei newtoniani. Questi eventi chiave segnano l'affermarsi di un processo iniziato nel secolo precedente: l'abbandono, lento ma definitivo, dell'immagine tradizionale del Cosmo aristotelico-tolemaico. Un processo che è certamente fondato e accompagnato dall'enorme sviluppo di teorie matematiche e osservazioni astronomiche (basti pensare all'opera di Copernico, Brahe, Kepler, Galilei e Newton), ma che richiede, al tempo stesso, un profondo mutamento dell'immagine del mondo nel suo complesso, che coinvolge dottrine teologiche, tesi filosofiche e persino dati del senso comune. "Dal mondo chiuso all'Universo infinito": la suggestiva formula usata da Alexandre Koyré (1957) in un saggio giustamente famoso, se ha il pregio di sottolineare un aspetto fondamentale di questo processo, il passaggio dal mondo aristotelico, ordinato e finito, all'Universo aperto dei cartesiani e dei newtoniani, tace però un altro elemento, altrettanto importante da un punto di vista cosmologico e filosofico, ossia il rifiuto di un mondo gerarchicamente strutturato a favore di un Cosmo del tutto omogeneo e uniforme. Non solo, il punto d'arrivo di questo processo, almeno nel Seicento, è un Cosmo non più chiuso e di immense dimensioni, ma perlopiù non infinito. Per motivi essenzialmente teologici, infatti, la maggior parte degli autori preferisce parlare non d'infinità, ma di pluralità dei mondi, aderendo così a un'ipotesi che permette di accogliere la nuova immagine dell'Universo, senza rischiare di attribuire a un essere creato l'infinità, che appartiene soltanto a Dio.

Antichità e Medioevo

All'inizio del secolo il modello cosmologico largamente prevalente resta quello aristotelico-tolemaico: il mondo è finito, ha una struttura geocentrica, è separato in due zone nettamente distinte (una, quella elementare, soggetta a fenomeni di generazione e corruzione, dominata da movimenti in linea retta; l'altra, quella celeste, composta dall'etere o quinto elemento, perfetta e incorruttibile, regno dei moti circolari), richiede complessi modelli geometrici per rendere conto del movimento degli astri, sulla cui esistenza reale nel cielo, però, gli astronomi sono divisi. La maggior parte dei manuali di fisica e di astronomia ripete gli argomenti aristotelici a favore della finitezza dell'Universo e dell'unicità del mondo: la nozione di quantità e di corpo infinito in atto è contraddittoria e dà luogo ad aporie insolubili; perfettamente pensabile è invece una grandezza infinita in potenza, ossia che si accresce indefinitamente per addizione. Anche questa ipotesi è esclusa nel caso del nostro mondo, sia perché contrasterebbe con le nozioni di luogo e di movimento naturale adottate da Aristotele, sia perché la sfera è la più perfetta e capiente di tutte le figure geometriche.

Tuttavia, già nel mondo antico circolavano ipotesi cosmologiche diverse: per Epicuro e per gli atomisti in generale, l'Universo era infinito e composto da un'infinità di mondi (ossia di sistemi includenti una Terra, i pianeti, il Sole e le stelle fisse); per gli stoici, invece, il Cosmo era sì infinito, ma la sua struttura prevedeva un mondo unico, immerso in uno spazio infinito; Plutarco, infine, in due dialoghi celebri, De defectu oraculorum e De facie in orbe Lunae, aveva argomentato a favore della pluralità dei mondi (non della loro infinità, ritenuta in contrasto con la provvidenza divina) contestando le dimostrazioni aristoteliche dell'unicità del mondo. Il grande movimento di riscoperta dei Classici antichi tra Quattro e Cinquecento aveva ben presto riportato alla luce e diffuso questi e altri testi ‒ come le Naturales quaestiones di Seneca o la Naturalis historia di Plinio il Vecchio ‒ in cui si esaminavano ipotesi contrastanti con la rigida divisione aristotelica tra mondo sublunare e mondo celeste. Il mondo classico aveva dunque lasciato in eredità quattro differenti modelli cosmologici riconducibili ad Aristotele (1), ai physiologoi e agli stoici (2a), a Plutarco (2b) e agli atomisti (2c). Schematizzando, è possibile individuare due diverse posizioni rispetto al rapporto fra il mondo e il tutto: per Aristotele (1) il mondo è il tutto, riunisce in sé tutta la materia esistente ed è necessariamente unico; per i physiologoi, gli stoici, Plutarco e gli atomisti (2) il tutto e il mondo non coincidono. All'interno di questo secondo modello si distinguono tre diverse posizioni: (2a) per physiologoi e stoici il mondo è unico, ma è circondato da una sostanza o da uno spazio infinito; (2b) per Plutarco l'Universo è finito, ma è formato da molteplici mondi; (2c) per gli atomisti l'Universo è infinito e composto da infiniti mondi.

Vi sono dunque due tipi di Universo infinito (2a e 2c) e due di Universo finito (1 e 2b), ma due sono anche i gruppi di sostenitori dell'unicità del mondo (1 e 2a). Per quanto neppure gli stoici e Plutarco condividano la separazione aristotelica tra mondo sublunare e mondo celeste, in realtà solo gli atomisti sposano totalmente l'ipotesi dell'uniformità dell'Universo: le leggi di Natura sono dovunque le stesse (nel De rerum natura Lucrezio usa questo argomento a favore dell'infinità dei mondi) e tutto l'Universo è composto dagli stessi elementi, il vuoto e gli atomi.

Già per gli Antichi la scelta tra l'uno o l'altro genere di Universo aveva implicazioni teologiche, ne sono testimonianza le pagine dei dialoghi di Plutarco, percorse da una duplice polemica, contro gli atomisti e il loro determinismo infinitista da un lato, contro Aristotele e i fautori dell'unicità del mondo dall'altro, in nome di una provvidenza divina che meglio si rispecchierebbe in una molteplicità di mondi. Questo aspetto diverrà prevalente, però, nei dibattiti medievali, i cui echi non tanto lontani si sentiranno ancora nel Seicento, per esempio nella ripetuta accusa mossa a Descartes di rifiutare la teoria dei mondi possibili. A partire dal XIII sec., ma con maggior vigore nel secolo successivo, sia i maestri delle Facoltà delle Arti, sia i teologi si confrontano con una serie di problemi che hanno implicazioni cosmologiche, raggruppabili sotto quattro questioni principali: l'esistenza di spazi immaginari, la possibilità per Dio di creare una quantità infinita in atto, o una pluralità di mondi, o un mondo diverso e migliore del nostro. I 'luoghi' in cui queste ipotesi vengono discusse sono non solo i commenti ai testi aristotelici, ma anche i trattati teologici, il che determina in parte il tipo di risposte date: più ligie all'ortodossia aristotelica, nel primo caso, almeno nel XIII sec.; a volte apertamente in polemica con lo Stagirita nel secondo caso, soprattutto nel XIV secolo. Il carattere prevalente di questi dibattiti è, però, squisitamente teologico: non si tratta di determinare quale sia la struttura del mondo reale, che rimane in genere aristotelico-tolemaica, ma di esaminare quali siano gli eventuali limiti dell'onnipotenza e dell'azione divina e di garantire la libertà di Dio da ogni possibile vincolo. Ne consegue che, nonostante l'estrema raffinatezza logica e matematica di cui fanno mostra i filosofi e i teologi medievali, la fisica e l'astronomia vengano ben poco coinvolte da questo riesame del paradigma aristotelico. Nondimeno, alla fine del Trecento è chiaro che se il nostro mondo è unico e finito e se ha una struttura geocentrica, ciò deriva da una libera scelta di Dio, che avrebbe potuto comportarsi altrimenti. La condanna comminata nel 1277 dal vescovo di Parigi, Étienne Tempier, contro chi limitava la libertà divina, negando la possibilità per Dio di creare più mondi o di muovere il nostro mondo in linea retta, stabilisce in modo netto quali siano i confini che non devono essere oltrepassati da chi discute di queste materie.

La misura dei cambiamenti intercorsi è data dal confronto tra le posizioni di Tommaso d'Aquino e quelle di Guglielmo di Ockham. Nei commenti alla Fisica e al De caelo di Aristotele, Tommaso segue abbastanza fedelmente le orme dello Stagirita, per quanto riguarda la possibilità di un corpo finito, e lo stesso avviene nella Summa theologiae. La strategia messa in atto per il problema della pluralità dei mondi è diversa: lungi dal ripetere l'argomentazione aristotelica, Tommaso arriva alle stesse conclusioni, spinto da motivazioni del tutto differenti. Egli cerca di dimostrare che la scelta dell'unicità è la migliore: l'azione divina deriva da un complesso concatenamento di onnipotenza, saggezza, bontà e volontà che può avere come risultato solo l'unicità del nostro mondo. Al contrario, Dio potrebbe creare un mondo diverso e migliore del nostro, perché, agostinianamente, è vero che una creatura è buona e perfetta per il solo fatto che Dio ha deciso di crearla, e non che Dio decide di creare una cosa perché buona e perfetta.

Se esaminiamo il commento alla Fisica di Ockham e quello al Liber sententiarum possiamo constatare che la situazione è mutata. Ockham, come Tommaso, crede che Dio non possa creare quantità infinite in atto. Ma il suo atteggiamento nei confronti di Aristotele è decisamente critico: gli argomenti addotti dallo Stagirita per confutare i sostenitori dell'infinità dell'Universo non sono ritenuti conclusivi e probanti. Non solo: nel rifiutare la teoria della pluralità dei mondi, Aristotele si basa spesso sulle proprie dottrine fisiche, in particolare su quella dei luoghi e dei moti naturali. Questo procedimento è considerato scorretto da Ockham, che invece ritiene perfettamente possibile, da un punto di vista fisico, che esistano più mondi: gli elementi di questi altri mondi rimarrebbero nel loro ordine senza dirigersi verso quelli del nostro ed è perfettamente pensabile che Dio crei più materia di quanta ne abbia creata per il nostro mondo, disponendola diversamente. Che più mondi siano possibili è confermato anche da un esame dell'onnipotenza divina: a differenza di Tommaso, il filosofo inglese non analizza l'interazione tra gli attributi divini, ma concentra la propria attenzione sulla potenza, arrivando a conclusioni diverse.

Il desiderio di salvaguardare l'onnipotenza e la libertà di Dio ha dunque spinto un numero sempre crescente di filosofi a ritenere che le tesi fisiche e cosmologiche di Aristotele avessero un carattere contingente e non necessario, che fossero cioè il risultato di una libera scelta divina, fatto che ha reso possibile immaginare strutture cosmologiche diverse da quella aristotelico-tolemaica. Un caso emblematico è quello di Nicola Oresme che, nel Livre du ciel et du monde, prende in esame l'ipotesi di rotazione della Terra sul proprio asse. Il movimento diurno del nostro pianeta permetterebbe di spiegare i fenomeni in modo semplice, eliminando tutti i complessi meccanismi richiesti dalla dottrina tradizionale. Questi vantaggi non sono però considerati sufficienti da Oresme per abbandonare la teoria che prevede una Terra immobile al centro del mondo, teoria secondo lui conforme alla ragione naturale e alle Scritture. Nel corso del XIV sec., autori come Gregorio da Rimini e Jean Mair metteranno in discussione anche un altro pilastro della fisica aristotelica, l'impossibilità dell'infinito in atto. I loro trattati, tuttavia, si concentrano, in modo significativo, non sul problema delle dimensioni dell'Universo, ma sull'analisi del continuo e, pur utilizzando strumenti logici e matematici estremamente complessi, non hanno rilevanza per le discussioni cosmologiche.

Eredità rinascimentali

Mentre i dibattiti sulla possibilità di un corpo infinito e sulla teoria della pluralità dei mondi nascono e si sviluppano del tutto indipendentemente dai dati forniti dalle osservazioni astronomiche ‒ che rimangono sostanzialmente quelli già a disposizione degli Antichi ‒, le polemiche sulla fluidità dei cieli e sulla loro composizione, che caratterizzano la fine del Cinquecento e l'inizio del Seicento, pur avendo antecedenti quattrocenteschi, ricevono un decisivo impulso dallo studio delle comete e delle novae apparse alla fine del XVI secolo. Il crescente favore goduto dalle filosofie non aristoteliche riveste un'importanza non secondaria: non è un caso che sia un platonico come Marsilio Ficino a fare dello spiritus la sostanza del cielo, abbandonando la tradizionale divisione in sfere e, allo stesso tempo, rendendo possibile un avvicinamento tra Terra e cielo. Lo spiritus, infatti, è onnipresente ed è il mediatore che permette l'interazione tra l'anima e il corpo, anche nell'uomo. Fondamentale, dunque, è la sua funzione per permettere quel processo di ascesa al mondo celeste che caratterizza il 'genio'. Un ruolo simile hanno svolto non solo le dottrine stoiche e quelle paracelsiane, ma anche il desiderio di attenersi al dettato biblico; ne è un esempio la discussione svoltasi tra Tycho Brahe e Christoph Rothmann sulla natura delle comete. Sembra ormai assodato che Brahe non sia arrivato, né immediatamente né in modo lineare, alla convinzione che i cieli fossero fluidi. Pur avendo già stabilito che la cometa del 1577, essendo priva di parallasse, non poteva essere collocata al di sotto della Luna, come voleva la filosofia aristotelica, non vi è traccia di un'immediata presa di posizione contro l'esistenza delle sfere celesti, che, invece, compare molto più tardi, prima privatamente, nello scambio epistolare intercorso con Rothmann durante il 1586, poi pubblicamente, nel De mundi aetherei recentioribus phaenomenis (1587), motivata non solo con argomenti matematici, ma anche con una serie di citazioni bibliche attestanti la fluidità dei cieli. Brahe, però, rifiuta nel modo più assoluto di accettare l'altra convinzione di Rothmann, ossia che la natura del cielo sia simile a quella dell'aria. Per l'astronomo danese la materia celeste è più perfetta di quella terrestre, non è soggetta a generazione e corruzione e può tranquillamente essere chiamata etere o quintessenza, come voleva Aristotele. Non a caso, Brahe considera la nova del 1572 come un evento miracoloso, mentre è Jerónimo Muñoz, cultore di filosofia stoica ed estimatore di Seneca e di Cicerone, a dedurre immediatamente, dalla comparsa della nova, la natura aerea dei cieli e la loro corruttibilità, nel Libro del nuevo cometa (1573).

La fine del Cinquecento lascia tuttavia in eredità al secolo successivo anche ipotesi che sconvolgono del tutto l'immagine tradizionale del mondo. Vi sono autori che non si limitano ad abbandonare la dottrina aristotelica della quintessenza e la suddivisione del cielo in diverse sfere, ma arrivano ad abolire la sfera delle stelle fisse, affermando chiaramente che l'Universo è infinito. I loro modelli cosmologici non sono del tutto equivalenti, e questo consentirà loro di avere una fortuna più o meno duratura nel corso del Seicento. Analizzando il passaggio dalle discussioni medievali sulla possibilità dell'infinito attuale e la pluralità dei mondi (sempre puramente speculative e mai dirette a descrivere uno stato di fatto) alla decisa affermazione dell'infinità dell'Universo, si constata che in almeno due casi non è l'adozione del sistema copernicano ‒ che astronomicamente rendeva di fatto inutile la sfera delle fisse ‒ a generare questa convinzione, bensì il recupero di alcuni argomenti elaborati dagli stoici e dagli epicurei e, soprattutto, una diversa concezione dell'onnipotenza divina, basata su quello che Arthur O. Lovejoy (1936) ha chiamato il 'principio di pienezza'. Se per la maggior parte dei filosofi medievali l'onnipotenza divina è tale solo a condizione di rimanere inesauribile, per Marcello Palingenio Stellato e Francesco Patrizi essa può manifestarsi unicamente in un'azione infinita, che genera un mondo altrettanto infinito. Secondo l'antico detto platonico, bonum effusivum sui est, nulla può ostacolare la manifestazione dell'infinita bontà divina; l'applicazione di questi principî permette il passaggio dall'ipotetico al reale che segna, da questo punto di vista, l'ingresso dell'Età moderna. Ma uno sguardo più approfondito ai modelli cosmologici proposti da questi due filosofi permette di notare immediate e importanti differenze. Tutto lo Zodiacus vitae di Palingenio è percorso da una profonda opposizione tra il saggio e il volgo, gli uomini e gli abitanti degli astri, la Terra e il cielo. L'adesione al geocentrismo è in lui segno di un profondo disprezzo per la situazione mondana degli uomini, più vicini all'inferno che al cielo. Non stupisce dunque che questo dualismo si ripercuota anche sulla struttura cosmologica: Palingenio, in realtà, segue esplicitamente Aristotele nel suo rifiuto di un corpo infinito in atto. Il suo è un Cosmo di tipo stoico, uno spazio infinito, pieno di una luce incorporea e sede di intelligenze immortali, al cui centro si trova il mondo fisico propriamente detto. Non basta, questo mondo propriamente detto è a sua volta diviso in una regione eterea, compresa tra la Luna e le stelle fisse, anch'essa abitata da esseri immortali, e la Terra, circondata dalle sfere degli elementi. Molto tradizionale è il ricorso alle sfere celesti e anche l'affermazione che unicamente il Sole sia dotato di luce propria.

Se ci rivolgiamo alla Nova de universis philosophia di Francesco Patrizi (1591), vi troviamo forti somiglianze con l'Universo di Palingenio, anche se in questo caso la filosofia di riferimento è quella platonica. Da Dio emanano quattro entità: lo spazio, la luce, il calore e la fluidità. Tutte infinite, queste emanazioni non sono però sullo stesso livello, ma si avvicinano progressivamente alla materia, che occupa il loro centro con il mondo fisico vero e proprio. Patrizi elabora, sulla scorta degli Antichi, un concetto di spazio che si può definire moderno e che, recepito da Pierre Gassendi, fa sentire il suo influsso anche su Isaac Newton. Lo spazio è infatti definito come continuo, immobile, omogeneo, dotato di dimensioni incorporee, estraneo alla divisione aristotelica degli enti in sostanze e accidenti. Ma, a ben guardare, in Patrizi l'omogeneità dello spazio non è assoluta: lo spazio infinito della Nova de universis philosophia ha un centro e le sue proprietà vengono modificate dalla presenza in esso del mondo, dal momento che egli giunge alla conclusione che esistono due tipi di spazio, quello finito, occupato dal mondo, e quello infinito, che si estende al di là del cielo delle stelle fisse. Una forma di eterogeneità rimane dunque presente anche nel Cosmo patriziano.

Nemmeno gli astronomi si affrancano del tutto da una visione gerarchica del mondo. Emblematici sono i casi rappresentati da Thomas Digges e Raymarus Ursus: il primo, copernicano, concepisce e, quel che è ancora più importante, disegna un Universo aperto, in cui la sfera delle stelle fisse non esiste più e gli astri si estendono all'infinito al di là dell'orbita di Saturno. Il suo è un 'cielo teologico', sede della corte di Dio, non un'entità fisica. Il secondo, in concorrenza con Tycho Brahe per il titolo di inventore del sistema geo-eliocentrico, si allontana dalle convinzioni dell'astronomo danese perché crede che le stelle possano trovarsi a distanze immense dalla Terra e che il cielo sia composto di aria. Poi però fa del nostro pianeta il centro di attrazione magnetica di tutti i corpi gravi, lo pone nel mezzo dell'Universo e ritiene che sia l'unico corpo composto, mentre gli astri sono corpi semplici. Sembra a volte di sentir riecheggiare nelle sue pagine il profondo pessimismo antropologico di Palingenio, con il disprezzo per il minuscolo e miserabile mondo da noi abitato e per la vanità dello spettacolo che gli uomini offrono ai felici abitanti del cielo.

Rispetto a questi modelli cosmologici, tutti tendenti all'abolizione della sfera delle fisse ma anche tutti segnati più o meno profondamente da forme di eterogeneità, risulta maggiormente evidente l'anomalia costituita dal pensiero bruniano alla fine del Cinquecento e l'importanza della sua eredità nel secolo successivo. Bruno eredita e utilizza una complessa serie di prove dell'infinità dell'Universo, tratte in primo luogo dalle tesi infinitiste, confutate da Aristotele e dai suoi commentatori, ma anche da Cusano e da Lucrezio. Un ruolo fondamentale è assunto dal concetto di spazio: la definizione di luogo data da Aristotele è inaccettabile proprio per il mondo nel suo complesso e l'unico modo per districarsi da una serie di contraddizioni altrimenti insolubili è quello di adottare un concetto di spazio inteso come ente infinito e, quel che forse conta ancora di più, uniforme. Se le analogie con la dottrina atomistica sono evidenti, bisogna anche tener conto delle differenze: lo spazio per Bruno non è il vuoto assoluto, ma finisce per coincidere con l'etere. Nel De immenso (1591) Bruno fa proprie le considerazioni di Giovanni Filopono sullo spazio: si tratta di una quantità continua, che precede per natura le cose corporee, indifferente a ciò che contiene, impenetrabile (ossia non separabile in parti), un ente che comprende tutto e non è compreso da nulla e che non è né sostanza né accidente.

Proprio l'assoluta uniformità dello spazio permette a Bruno di arrivare a conclusioni molto diverse da quelle di Patrizi e di Palingenio, esplicitamente criticati nelle sue opere: lo spazio è omogeneo e quel che si trova in una parte deve trovarsi anche altrove. Se dunque una regione è occupata dal nostro mondo, anche le altre devono ospitare mondi simili, e per mondi Bruno intende sia altri pianeti abitati, sia altri sistemi solari. Egli ci offre l'immagine di un Cosmo in cui vige una duplice analogia: spodestata dalla sua sede al centro del tutto, la Terra è simile agli altri pianeti che girano intorno al Sole, il che vuol dire anche, però, che i pianeti sono terre, ossia hanno una composizione simile a quella del corpo celeste su cui viviamo, e sono abitati; le stelle non sono altro che soli, centro delle orbite di pianeti a noi invisibili per l'eccessiva lontananza. L'Universo è composto, quindi, dalla ripetizione all'infinito di sistemi tra loro simili, un po' come avveniva nel modello cosmologico proposto dagli atomisti; ma questi sistemi sono eliocentrici, non possono avere forme e aspetti completamente diversi dal nostro, in nome del principio di uniformità, sono in collegamento tra loro e non isolati dagli intermundia. La fisica aristotelica è completamente abbandonata: non esistono più i luoghi naturali, verso cui si dirigono gli elementi, ma ogni movimento è dettato dal desiderio dei corpi di conservarsi.

Ciò che definisce il moto come naturale o violento non è più, come voleva Aristotele, il fatto di essere circolare o rettilineo, ma l'avere un motore interno o esterno: quando il motore è interno, il moto è naturale. La distinzione fra moto circolare e moto rettilineo deriva piuttosto da quella che differenzia il tutto dalle sue parti. I corpi che costituiscono un tutto, infatti, si muovono in cerchio: ruotano sul proprio asse o intorno ai loro soli cercando di conservare l'equilibrio tra gli elementi umido e igneo; le loro parti, invece, si muovono in linea retta quando cercano di ritornare al tutto da cui sono state separate oppure, se la lontananza diventa eccessiva, di raggiungere un altro tutto che possa garantire la loro conservazione. È quest'ultimo elemento a segnare la differenza con Copernico: le parti di un pianeta si comportano come un sistema meccanico, partecipano quindi del moto di rotazione di quel pianeta non perché ne condividano la natura, ma semplicemente perché sono su di esso. Se quindi prendessimo una pietra dal nostro pianeta mettendola tra la Luna e la Terra, essa non si dirigerebbe automaticamente verso il suo luogo d'origine, ma verso l'astro che meglio può assicurare la sua conservazione. Ne consegue che, sebbene le stelle e i pianeti siano organismi viventi, le loro parti non sono specificamente 'terrestri', 'lunari' o 'gioviali'; anzi, perfino tra i pianeti e le stelle la differenza di composizione è quantitativa e non qualitativa. I pianeti sono infatti astri in cui prevale l'elemento acqueo, mentre nelle stelle predomina il fuoco; in contrasto con la tradizione astronomica, e in accordo con Cusano, Bruno ritiene che gli uni e le altre siano corpi composti e che non esistano corpi semplici.

In questo quadro vanno inseriti anche gli eventi celesti più straordinari come le comete che, lungi dall'essere fenomeni effimeri o miracolosi, sono veri e propri pianeti orbitanti intorno al Sole, visibili solo periodicamente a causa della particolare inclinazione rispetto all'eclittica che non permette alla loro superficie acquosa di riflettere la luce solare in modo costante. Forse proprio questo desiderio di portare all'estremo il principio di uniformità dell'Universo spinge Bruno a elaborare, soprattutto dal 1588 in poi, una radicale riforma dell'ordine dei pianeti nel nostro Sistema Solare. Recuperando l'antica dottrina pitagorica che voleva la Terra accompagnata da un'anti-Terra, Bruno crede che i pianeti si sistemino intorno al Sole a coppie: la prima è formata da Venere e Mercurio, la seconda dalla Terra e dalla Luna, che quindi non sarebbe un satellite, ma un vero e proprio pianeta. Privo di qualsiasi corrispondenza con le osservazioni celesti, questo sistema, proposto da Bruno come compimento della riforma avviata da Copernico e proseguita dai più illustri astronomi del tempo, sembra avere una sua giustificazione solo nella 'filosofia della storia' bruniana: la riscoperta dell'antico sapere egizio e pitagorico e il tentativo di evitare subordinazioni gerarchiche all'interno dell'Universo eliminano ogni distinzione tra comete, satelliti e pianeti che non rientri in quella tra corpi acquei e corpi ignei.

La riabilitazione della cosmologia atomistica e il rifiuto della fisica aristotelica sono solo uno degli aspetti della filosofia bruniana. Un altro elemento fondamentale emerge dall'esame della seconda prova dell'infinità dell'Universo, che Bruno condivide con Patrizi e Palingenio. La 'potenza passiva dell'Universo' e 'l'attiva potenza dell'efficiente' sono un'unica e medesima cosa; una causa infinita non può non produrre un effetto infinito; Dio non può rimanere ozioso. Alla base di queste tesi non vi è solo l'identificazione della libertà e della necessità, ma anche una netta contestazione del dogma dell'Incarnazione. Per la dottrina cristiana, infatti, Dio manifesta in modo completo la sua onnipotenza ma lo fa ad intra, rispecchiandosi nelle persone della Trinità, mentre la sua attività ad extra, la Creazione, produce un effetto finito. Per Bruno, invece, la vera immagine di Dio non è il Figlio incarnato, ma l'Universo: dimenticando questa verità e creando mostruose commistioni di divino e umano, il cristianesimo ha portato a termine quel processo di decadenza iniziato con la diffusione della filosofia aristotelica. Sono questi gli elementi che differenziano Bruno da Cusano, per il quale, invece, il mondo non esaurisce l'onnipotenza di Dio ed è un prodotto della sua volontà.

Tav. III

All'inizio del Seicento, le diverse ipotesi riguardanti la materia di cui sono composti i cieli e il suo grado di uniformità si possono ricondurre ai quattro modelli illustrati nella Tav. III.

Il passaggio dall'uno all'altro dei modelli proposti non riveste alcuna forma di necessità e le combinazioni possono essere molteplici. Ben presto la diffusione dei dialoghi di Plutarco e dei racconti di Luciano, l'impatto delle osservazioni telescopiche di Galilei, che attribuivano alla Luna una superficie irregolare simile a quella terrestre, e la plausibilità dell'analogia tra Terra e pianeti, per chi rifiuti il sistema aristotelico-tolemaico, fanno prosperare una dottrina della pluralità dei mondi ben diversa da quella che nel Medioevo portava questo nome. La Scolastica aveva elaborato, come abbiamo visto, una teoria che rendeva possibile a Dio creare sistemi Terra-astri erranti-stelle fisse diversi e separati da quello in cui viviamo, per salvaguardare la libertà e l'onnipotenza divina; questa dottrina, che non scomparirà mai del tutto nel Seicento, viene affiancata dall'ipotesi che esistano altri mondi abitati, dove per 'mondi' s'intende pianeti (o satelliti, nel caso si stia parlando della Luna) simili alla Terra, in orbita intorno al Sole o, in altri casi, anche intorno alle stelle. Ma il percorso che porterà a questa conclusione ha richiesto prima la neutralizzazione delle tesi sostenute da Bruno. La sua proposta aveva infatti due elementi inaccettabili: appariva troppo legata alla tradizione atomistica, da sempre bollata con il marchio dell'empietà e dell'ateismo, e fondava la dimostrazione dell'infinità dell'Universo e dei sistemi planetari su una forma di necessitarismo teologico che arrivava al rifiuto dei dogmi della Trinità e dell'Incarnazione. Fu Marin Mersenne il primo a denunciare con chiarezza questo elemento della cosmologia bruniana: il secondo volume della sua Impiété des déistes, apparso nel 1624, è in gran parte dedicato alla confutazione delle tesi cosmologiche esposte da Bruno nel De l'infinito, universo e mondi e nel De la causa, principio et uno (1584). Ciò che preme al futuro corrispondente di Descartes è ristabilire e difendere i dogmi cristiani: la Creazione è un prodotto della volontà di Dio, che sceglie liberamente quali dimensioni dare all'Universo senza essere in nessun modo 'costretto' a farlo infinito, e il mondo non può affatto pretendere di rispecchiare e rappresentare l'infinita potenza di Dio, che invece si manifesta pienamente solo nella generazione delle tre persone della Trinità. Queste pagine faranno scuola, e anche chi, come Charles Sorel e Pierre Gassendi, cercherà di difendere il filosofo italiano o integrerà tacitamente alcuni elementi della sua filosofia nei propri scritti, non metterà mai in dubbio la libertà di Dio e si mostrerà estremamente cauto nei confronti dell'ipotesi dell'Universo infinito.

Tavola I - LE COMETE

Un mondo finito e disomogeneo: Kepler e Campanella

Vi sono altre ragioni che possono portare a un rifiuto del modello cosmologico infinito e uniforme di Bruno. Pur avendo una base filosofica e religiosa, esse non hanno un carattere così apertamente apologetico come quelle che spinsero Mersenne a confutare il filosofo italiano. Prenderemo in esame le posizioni di Kepler e Campanella: copernicano l'uno, mai del tutto convinto dall'eliocentrismo l'altro, entrambi si confrontano con le novità proposte da Bruno e da Galilei, novità di segno molto diverso ma accomunate dall'essere interpretate come una forma di rinascita del pitagorismo antico.

Kepler analizza a più riprese le dottrine bruniane e le rifiuta con argomenti sia scientifici sia filosofici, per approdare sempre a una propria originalissima proposta di pluralità dei mondi abitati, in un Cosmo non omogeneo e finito. Le ragioni di tipo filosofico, che lo portano a respingere l'Universo infinito di Bruno, ricalcano spesso le tesi elaborate da Aristotele e dai suoi seguaci. Nel De stella nova in pede Serpentarii (1606), per esempio, si afferma che un corpo infinito in atto non può esistere perché ogni punto sarebbe infinitamente distante dagli estremi e al tempo stesso sarebbe il centro del mondo e non lo sarebbe; oppure perché a qualunque distanza noi immaginiamo sia posta una stella, si tratta sempre di una distanza finita, anche se eccede le nostre capacità di misurazione. Nell'Epitome astronomiae Copernicanae (1618), invece, Kepler sostiene che, sommando le masse di un numero infinito di astri, si arriverebbe al risultato paradossale di un corpo tridimensionale di grandezza infinita. Altrettanto assurdo è pensare che due corpi possano essere separati da una linea infinita: tutto ciò che ha due estremi è finito. Infine, seguendo i commenti alla Sfera di Giovanni di Sacrobosco, è necessario che il Cosmo sia una sfera, in quanto si tratta del solido più capiente e della figura che ha maggiori somiglianze con Dio, per tacere del fatto che, in caso contrario, le parti (ossia gli astri) avrebbero una figura più perfetta del tutto di cui fanno parte (ossia dell'Universo).

Più originali sono le motivazioni di ordine astronomico addotte da Kepler a favore della finitezza del mondo. Nel De stella nova, l'astronomo tedesco ricorda che, secondo le misurazioni disponibili all'epoca, le stelle hanno un diametro apparente di due minuti di grado. Se esse fossero disseminate a distanze elevate dalla Terra, dovrebbero possedere dimensioni enormi per giustificare questo loro aspetto. Come affermerà anche nell'Epitome astronomiae Copernicanae, l'ipotesi che le stelle crescano di dimensioni in rapporto alla loro distanza dalla Terra contraddice proprio il principio dell'uniformità dell'Universo in base al quale Bruno ha sviluppato le sue ipotesi. Sempre in questo scritto, Kepler sostiene che se le stelle fisse fossero equidistanti, esse si dovrebbero disporre sugli angoli di un icosaedro (solido scelto perché in esso la distanza tra il centro e un angolo è uguale a quella tra due angoli). Dopo le prime dodici stelle dovrebbero essercene altre dodici, a una distanza doppia, e così via; ma questa disposizione geometrica non è in grado di rendere ragione dell'enorme numero di stelle a noi visibili e del loro raggruppamento in costellazioni. Infine, nella Dissertatio cum Nuncio sidereo (1610) troviamo un ultimo argomento per dimostrare che il Cosmo non può essere omogeneo: se le stelle fisse fossero luminose quanto lo è il Sole, di notte ci dovrebbe essere più luce che di giorno, dal momento che sommando il diametro apparente delle stelle si arriva a comporre un corpo di magnitudine ben più grande di quella del Sole.

Scartata dunque la soluzione proposta da Bruno, non rimane che accettare quella elaborata da Kepler stesso: l'Universo è finito, ha un centro, in cui ha sede il Sole, e una periferia, formata da una sfera delle stelle fisse di esiguo spessore. Nel mezzo si estende un'immensa regione vuota, occupata dai pianeti, che la saggezza divina ha disposto secondo i cinque solidi platonici. Questo è un Universo non soltanto finito, ma anche disomogeneo. Infatti, come viene spiegato nella seconda parte dell'Epitome astronomiae Copernicanae (1620), la quantità di materia contenuta dal Sole, dallo spazio vuoto fino alle stelle fisse e dall'ultima sfera, deve essere uguale (secondo il modello trinitario cui rimandano le frequenti analogie presenti negli scritti di Kepler); ciò impedisce che le stelle possano essere dei soli.

Se questa è l'immagine dell'Universo nel suo complesso offerta da Kepler, la sua reazione alle osservazioni telescopiche di Galilei permette, però, di mettere in luce quale sia la sua opinione sulla struttura del Sistema solare. Come racconta nella Dissertatio cum Nuncio sidereo, inizialmente Kepler ha notizie solo vaghe delle scoperte galileiane, talmente vaghe da fargli temere che abbia ragione il suo amico Johann Matthäus Wacker von Wackenfels: l'astronomo italiano potrebbe aver osservato dei pianeti orbitanti intorno ad altre stelle, offrendo una conferma sperimentale alle ipotesi bruniane. Kepler scopre invece con sollievo, leggendo il libro di Galilei, che le osservazioni riguardano i satelliti di Giove. Bruno aveva previsto l'esistenza di pianeti (acquei) orbitanti intorno alle stelle (ignee), ma non quella di satelliti (acquei) intorno a pianeti (acquei): il suo sistema, fondato sull'analogia tra il Sole e le stelle, è dunque inficiato dall'esperienza. Anche le altre osservazioni galileiane confermano le tesi sostenute da Kepler: la scoperta di un numero incredibile di stelle invisibili a occhio nudo rafforza le dimostrazioni da lui elaborate contro l'infinità dell'Universo (anche se deve ammettere che le fisse assomigliano al Sole perché emettono luce propria), mentre la natura 'terrestre' della Luna, messa in luce dal cannocchiale, depone a favore di opinioni che l'astronomo tedesco aveva esposto già in una disputa universitaria sostenuta nel 1593. L'unico fatto su cui deve fare autocritica è l'interpretazione delle macchie lunari. Galilei ha dimostrato con osservazioni telescopiche che avevano ragione gli Antichi: le macchie sono mari e le parti luminose terra.

Mescolando in continuazione dati provenienti dalle osservazioni astronomiche e tesi tratte dalla tradizione letteraria e filosofica ‒ esattamente come farà nel Somnium ‒ Kepler si lancia in una serie di congetture sulla natura e sulle caratteristiche degli abitanti della Luna: devono essere molto più grandi di noi, dal momento che i monti lunari sono più alti di quelli terrestri, e devono essere anche in grado di eseguire opere immani se, come è verosimile, a loro si deve l'enorme cavità circolare che si nota all'angolo sinistro della 'bocca' della Luna. Opere, queste, che di certo sono finalizzate a proteggerli dall'incredibile calore che li brucia durante il lunghissimo giorno lunare, nonostante le piogge che mitigano in parte il clima. Ancora più ricco di osservazioni sugli abitanti della Luna è il Somnium seu opus posthumum de astronomia lunari, opera i cui primi spunti risalgono al 1593 e che è stata redatta tra il 1609 e il 1620, per essere poi pubblicata postuma nel 1634. L'intento didascalico (portare prove a favore del sistema copernicano) traspare da osservazioni come quelle riguardanti il fatto che anche ai lunicoli sembra di essere fermi al centro dell'Universo, o che essi devono aver sviluppato un'astronomia planetaria del tutto diversa dalla nostra, dal momento che i movimenti dei pianeti sono per loro totalmente diversi da quelli che appaiono a noi. La descrizione degli abitanti della Luna è tutta dominata dalla necessità di adattare la vita all'eccessivo calore che deve caratterizzare il giorno lunare: gli esseri viventi o abitano i recessi dei mari, che si mantengono freschi anche quando la superficie bolle, o passano il giorno nelle caverne ed escono solo la sera per mangiare. La necessità di proteggersi dal Sole fa sì che abbiano tutti una cute particolarmente spessa che, se esposta ai raggi solari, si ustiona e cade. Per alcuni di loro accade il contrario di quel che si dice delle mosche: durante la grande calura diurna giacciono inerti e tornano a muoversi con il fresco della notte. Elementi di carattere autobiografico (la madre di Kepler era stata a fatica discolpata dall'accusa di stregoneria) e reminiscenze letterarie (in particolare del De facie in orbe Lunae di Plutarco, la cui traduzione accompagna l'edizione del Somnium) comportano che questa pur fantasiosa descrizione degli abitanti della Luna includa dottrine magico-misteriche: chi descrive la geografia e la vita lunare, infatti, è un demone, che vive nel cono d'ombra della Terra e sfrutta le eclissi per discendere sulla Luna. Per quanto fortemente allegoriche, come chiariscono le note al testo redatte da Kepler stesso, queste pagine del Somnium contaminano due tipi di tradizioni diverse, da un alto quella che considera gli abitanti degli astri esseri superiori all'uomo, dall'altro quella che invece li immagina, mutatis mutandis, della nostra stessa natura e simili a noi. Espediente narrativo nel Somnium, questo stesso tipo di oscillazione si ritroverà con ben altra forza e valenza in Tommaso Campanella.

La Luna non è l'unico corpo celeste che Kepler crede possa essere abitato: nella Dissertatio cum Nuncio sidereo, infatti, egli argomenta a favore dell'esistenza di abitanti anche su Giove. Nel caso della Luna tale teoria era stata avanzata tenendo conto delle presunte somiglianze fisiche e geomorfiche tra questo corpo e la Terra (presenza di montagne, mari, atmosfera, piogge) e in base all'osservazione sulla sua superficie di figure talmente regolari da sembrare artificiali. L'analogia tra la Terra e la Luna (confortata dalle osservazioni galileiane) era estesa alla presenza di abitanti sul nostro satellite. La possibilità dell'esistenza di extraterrestri deriva dunque dal principio di uniformità della Natura e a tale proposito si potrebbe fare riferimento alle formulazioni lucreziane: dove la Natura mette in gioco cause simili, c'è da aspettarsi di trovare effetti simili. Nel caso di Giove, invece, prevalgono considerazioni esclusivamente finalistiche, forse anche per l'esiguità dei dati sperimentali; non è privo di interesse notare che Kepler non si vieta questo genere di speculazioni in un testo che, se non è un vero e proprio trattato scientifico, certamente non è neanche un mero ludus. Per l'astronomo tedesco non si può certo sostenere che i pianeti medicei siano stati posti intorno a Giove propter nos, neanche se si intende il propter nella maniera più estesa e vaga possibile, cioè per dilettarci e istruirci con i loro periodi di rotazione e rivoluzione: li abbiamo appena scoperti, e soltanto pochi uomini sono in grado di vederli con l'aiuto del telescopio. L'unica ipotesi possibile è che questa funzione l'abbiano comunque, ma per gli abitanti di Giove.

A questo punto però, si pone, per Kepler un problema molto serio: se si ammette che un altro dei pianeti del nostro Sistema solare sia abitato, non si rischia di ricadere nell'errore bruniano, sebbene in una versione più debole, cioè nell'annullamento di ogni gerarchia spaziale, fondata da Kepler non più su una differenza metafisica, ma su una diversa disposizione geometrica dei corpi nello spazio? La necessità di dimostrare la superiorità dell'uomo su ogni altra creatura spinge Kepler a riconsiderare ancora una volta il simbolo di ogni relativismo, l'Universo infinito di Bruno, prima di proporre una soluzione del problema. Ne consegue, da un lato, la formulazione di una variante di un argomento tomistico: gli altri mondi sarebbero simili o diversi dal nostro; se fossero simili, questa infinita ripetizione sarebbe inutile, perché ciascuno sarebbe perfetto; inoltre, non si potrebbe evitare il progresso all'infinito e cadremmo nell'assurdo di immaginare innumerevoli Galilei che nello stesso momento in quei mondi osservano nuove stelle. Se fossero diversi, lo sarebbero per la disposizione geometrica delle loro componenti, ma la struttura delle orbite planetarie non seguirebbe il modello fornito dai cinque solidi regolari, il che li renderebbe imperfetti rispetto al nostro.

Dall'altro lato, anche l'eccellenza della Terra nell'ambito del nostro Sistema solare deriva dalla struttura geometrica elaborata nel Mysterium cosmographicum (1596). In assoluto, il luogo più nobile del nostro Sistema solare è occupato dal Sole, cor mundi. Segue la Terra: essa è in posizione centrale tra i corpi celesti (Sole-Mercurio-Venere e Marte-Giove-Saturno); la sua orbita separa le due classi di solidi platonici (cubo-tetraedro-dodecaedro e icosaedro-ottaedro); la sua posizione intermedia consente agli uomini di osservare tutti i pianeti del Sistema solare (Mercurio, così piccolo e così vicino al Sole, deve essere invisibile da Giove) e dunque ci permette di riconoscere il segno di Dio nella Natura, la sua struttura geometrica.

Volendo schematizzare, la reazione di Kepler alle teorie bruniane è dettata dallo stesso tipo di preoccupazioni che muovono l'interlocutore di Plutarco nel De defectu oraculorum: in entrambi i casi si tratta di proporre un superamento del modello cosmologico aristotelico, opponendosi nello stesso tempo all'empio materialismo degli atomisti o di Bruno. Bisogna, cioè, mantenere la presenza della divinità nel mondo e mostrarne l'azione provvidenziale attraverso il suo sigillo sulla Natura, l'ordine. Per Plutarco questo scopo è raggiunto escludendo che i mondi possano nascere dall'incontro fortuito degli atomi; per Kepler attribuendo al Cosmo una struttura geometrica che nello stesso tempo testimonia l'intervento creatore di Dio ed esclude l'infinità dell'Universo. La distribuzione non perfettamente omogenea delle stelle è dunque condizione necessaria affinché l'uomo possa orientarsi tra di esse, esercitando le proprie capacità immaginative e razionali, mentre la struttura del Sistema solare pone la Terra in una posizione che risulta privilegiata. Il Dio di Kepler, dunque, non solo costruisce il Sistema solare secondo i solidi platonici e riserva a noi il posto d'onore, ma dispone le stelle in modo da rendere unico questo luogo dell'Universo e facendo sì che l'uomo, creato a sua immagine e somiglianza, possa leggere e apprezzare la sua opera.

Non è facile individuare quale sia l'opinione di Campanella sulla struttura dell'Universo. Quel che si è conservato della sua opera è spesso frutto di innumerevoli riscritture, elaborate quasi sempre in carcere, che lasciano a volte intravedere i diversi strati compositivi del testo e i ripensamenti dell'autore. Non ci è dato sapere quanto sia dovuto a profonda convinzione e quanto invece sia un compromesso, frutto del tentativo di evitare di peggiorare la propria situazione di sorvegliato speciale, senza rinunciare a esprimere le proprie opinioni. Telesiano convinto, Campanella parte da posizioni estremamente lontane dall'eliocentrismo copernicano: l'elemento igneo, concentrato prevalentemente nel Sole, ma presente anche nei cieli, causa i movimenti di tutti gli astri; quello terrestre, la cui sede è il nostro pianeta, è invece immobile al centro dell'Universo. Non solo, nel De sensu rerum gli astri, compresi i pianeti, sono forse mossi da vere e proprie anime e, di certo, sono sedi dei beati, mentre nell'Atheismus triumphatus questa stessa convinzione assume un ruolo importante nella teodicea, in quanto la perfezione degli abitanti delle stelle rende meno grave, almeno quantitativamente, la presenza del male fisico e morale sulla Terra.

Nonostante queste premesse, la reazione dello stilese alle osservazioni galileiane riportate nel Sidereus nuncius è quasi entusiasta, e anche in seguito gli attestati di stima e di amicizia verso lo scienziato pisano saranno numerosi. In una lettera indirizzatagli nel gennaio del 1611, Campanella istituisce immediatamente un nesso tra l'eliocentrismo in versione galileiana e un modello di uniformità dell'Universo che permette di ipotizzare l'esistenza di forme di vita extraterrestri molto simili a quelle del nostro pianeta; talmente simili, anzi, che per gli abitanti degli altri astri si porrebbero gli stessi problemi inerenti alla salvezza delle loro anime che si pongono per gli uomini.

Campanella ha perfettamente compreso che la cosmologia proposta dai 'pitagorici' non solo prevede un Universo aperto, di cui la Terra non costituisce più il centro, ma assimila anche le stelle al Sole. Paradossalmente, è proprio questo l'elemento che Campanella rifiuterà sempre di adottare. Nella Metaphysica (1637), per esempio, egli dichiara che, se non ci fossero state le condanne ecclesiastiche del 1616 e del 1633, sarebbe stato disposto ad apportare una serie impressionante di modifiche al proprio originale impianto telesiano: avrebbe accettato definitivamente la natura composita delle stelle; l'analogia tra la Terra e gli altri pianeti; la fissità del firmamento; la presenza di pianeti intorno alle altre stelle; l'assenza di un centro, e dunque di un basso e di un alto assoluti. Sarebbe stato perfino disposto ad abbandonare la connessione tra cosmologia e teodicea, purché fosse rimasto fisso il legame tra unicità del mondo (ma suddiviso in più sistemi) e unicità di Dio. Solamente su un punto ribadisce il suo dissenso: le stelle non possono essere del tutto simili al Sole perché emanano luce colorata, il che dimostra che non sono formate esclusivamente di materia ignea, come il nostro astro, ma sono composte. Questo non impedisce che possano essere il centro di sistemi planetari, dal momento che anche Giove è circondato da satelliti.

Anche Campanella, come Kepler, non può esimersi dall'evocare le teorie di Bruno quando prende in esame l'ipotesi dell'uniformità dell'Universo. Ne è testimone l'Apologia pro Galileo (1622), dove il nome dello scienziato pisano è associato a quello di Bruno. Ancora una volta, però, è Plutarco la fonte autorevole che permette di differenziare l'infinitismo bruniano dal Cosmo immenso di Galilei: secondo Campanella, quest'ultimo non ricalca le orme degli atomisti in quanto ammette l'esistenza di un ordine nell'Universo. In breve, i suoi molteplici sistemi si ricompongono in un tutto, in cui è riconoscibile la mano divina. Anzi, la dottrina della pluralità dei mondi consente di interpretare la Bibbia in senso letterale, in tutti quei passi che contraddicono la teoria aristotelica dell'incorruttibilità dei cieli, ed è conforme al decreto parigino del 1277, che condannava proprio coloro per i quali Dio non poteva creare più mondi. Campanella può ora dedicarsi all'esame di un altro problema: le conseguenze teologiche dell'eventuale presenza di abitanti sugli altri pianeti. Ci sono tre vie di scampo praticabili, per evitare le implicazioni più apertamente eretiche dell'ipotesi dei mondi abitati, e tutte vengono percorse da Campanella: sostenere che gli abitanti degli altri pianeti non sono degli uomini e che dunque i loro rapporti con Dio seguono itinerari diversi da quelli descritti dalla Bibbia; oppure affermare che, pur essendo degli uomini come noi, i loro capostipiti non si sono macchiati del peccato originale; o ancora proporre che il sacrificio di Cristo sulla Terra sia valido per redimere tutti gli extraterrestri. La prima soluzione è quella quasi universalmente accettata nel Seicento e nel secolo successivo, ed è anche quella che Campanella preferirà in altri scritti; essa ha il pregio di rendere possibile la discussione sull'esistenza e sulle caratteristiche degli extraterrestri senza doversi impegnare nell'esegesi biblica. Nella Realis philosophia epilogistica (1623), Campanella ritorna su questo stesso problema, aggiungendo significative sfumature, interessanti in quanto si ripresenteranno nelle pagine del Syntagma philosophicum di Gassendi. In primo luogo compare un appello alla potenza e alla saggezza divine, insondabili e infinite, che potrebbero spiegare la presenza degli extraterrestri e i mezzi della loro redenzione. In secondo luogo Campanella sembra decisamente propendere per l'esistenza di esseri che non siano uomini: i climi della Terra danno vita a razze umane molto diverse l'una dall'altra e le differenze climatiche con gli altri pianeti devono essere probabilmente molto maggiori di quelle che osserviamo sul nostro. Questo fa pensare che i loro abitanti siano talmente lontani da noi da non poter essere ritenuti uomini, ma esseri appartenenti a generi diversi dal nostro, forse migliori (ciò apre uno spiraglio che consente di usare l'esistenza degli extraterrestri, per quanto privi di caratteri angelici, nella teodicea).

Un mondo immenso e uniforme: Galilei e Descartes

Rispetto alle speculazioni di Kepler e di Campanella, la posizione di Galilei e di Descartes è al tempo stesso molto più audace e molto più prudente. Molto più audace, perché entrambi disegnano un Cosmo in cui vale la duplice analogia tra la Terra e i pianeti da un lato, e tra il Sole e le stelle fisse dall'altro. Nel loro Universo vige una rigorosa omogeneità, che elimina ogni tipo di gerarchizzazione dello spazio e della materia: il nostro Sistema solare in generale, e la Terra in particolare, non hanno in alcun modo una posizione che li distingua dagli altri corpi celesti, né in positivo, come avveniva in Kepler, né in negativo, come era per Campanella. In maniera analoga, sia Galilei sia Descartes fustigano ogni velleità di immaginare un Universo a uso e consumo dell'uomo. Pagine celebri del Dialogo sopra i due massimi sistemi (1632) e dei Principia (1644) invitano a non giudicare le opere di Dio in base alle nostre capacità, invece che alla sua onnipotenza.

Ne consegue quasi direttamente, anche se in modo non del tutto esplicito, il rifiuto di credere che il mondo sia finito. Descartes, come è noto, elabora la nozione di indefinito e la applica a tutto ciò che non può avere una fine, ma che al tempo stesso non gode dell'infinita perfezione divina. Già i suoi contemporanei rimasero perplessi di fronte a questo tentativo di introdurre una terza categoria oltre al finito e all'infinito: ne è testimone lo scambio epistolare tra Descartes e Henry More, nel corso del 1648 e del 1649, in cui il filosofo inglese espone i propri dubbi anche a questo proposito. La proposta cartesiana ebbe ancor meno fortuna nei decenni successivi: anche alcuni dei suoi seguaci di stretta osservanza se ne distaccarono, mentre tutti gli avversari ne dedussero che si trattava di un semplice espediente per evitare di attribuire l'infinità all'Universo in maniera esplicita. Non è un caso se il frontespizio degli Entretiens sur la pluralité des mondes (1686) di Fontenelle ci offre una rappresentazione dell'Universo solo in parte distante da quelle tradizionali. Se da un lato, infatti, le stelle sono simili al Sole in quanto circondate da pianeti, dall'altro esse sono disposte in cerchio attorno al nostro sistema, come avveniva nei diagrammi tolemaici o copernicani che rappresentavano un mondo finito. Il testo è privo di ogni riferimento alle discussioni sull'Universo infinito, ma è invece prodigo di particolari sugli abitanti degli altri pianeti e assimila esplicitamente le stelle fisse al Sole.

Sul tema delle dimensioni del mondo Galilei è ancora più cauto di Descartes: nei suoi scritti editi si limita a sostenere che il mondo non ha un centro e che le dimostrazioni aristoteliche sono valide solo se si accetta la premessa che l'ultima sfera ruoti su sé stessa. In alcune lettere a Fortunio Liceti, del 1639 e 1641, così come in uno scritto composto nel 1624 in risposta al trattato anticopernicano di Francesco Ingoli, e pubblicato solo postumo, troviamo, invece, affermazioni più decise in merito al fatto che non possiamo sapere se lo spazio sia dotato o meno di una figura e se l'Universo sia finito o meno: per esempio nella lettera a Fortunio Liceti del 24 settembre 1639, Galilei scrive:

Ho sentito in particolare nominarmi da lei con laude in quella [lettera] ove diffusamente disputa della grandezza dell'universo, se si deva credere finito o infinito. Molto argute sono le ragioni che si apportano per l'una e per l'altra parte, ma nel mio cervello né quelle né queste concludono necessariamente, sì che resto sempre ambiguo quale delle due asserzioni sia vera; tuttavia un solo mio particolare discorso m'inclina più all'infinito che al terminato, essendo che non me lo so né posso imaginare né terminato né interminato e infinito; et perché l'infinito ratione sui non può essere compreso dal nostro intelletto terminato, il che non accade del finito e da termine circonscritto, debbo riferire la mia incomprensibilità alla infinità incomprensibile che alla finità, nella quale non richiede ragione di essere incomprensibile. Ma questa, come V.S. Eccell. liberamente afferma, è una di quelle questioni per avventura inesplicabili da i discorsi umani, simile forse alla predestinazione, al libero arbitrio, et ad altre, nelle quali le Sacre Pagine e le divine asserzioni sole piamente ci possono quietare. (EN, XVIII, p. 106)

Galilei è indotto a pensare che l'Universo sia forse infinito, visto che solo l'infinito sfugge alla nostra comprensione. In ogni caso, il Cosmo galileiano è aperto e ha dimensioni incomprensibili per le facoltà umane: contro Kepler e Tycho Brahe, lo scienziato pisano sostiene che non è necessario credere che le stelle fisse siano enormi, se le disponiamo a grandi distanze dalla Terra, perché in realtà il loro diametro apparente è molto minore di quanto sia stato creduto fino ad allora, mentre l'estrema lontananza delle stelle spiega perché la loro luce sia, complessivamente, meno della decima parte di quella del Sole.

Nessuna reticenza, invece, sull'analogia tra le stelle fisse e il Sole: Descartes arriva perfino a disegnare nei Principia i vortici che circondano tutte le stelle, trascinando nel loro corso i pianeti. Ma la novità maggiore dell'Universo cartesiano è che si tratta di un mondo in evoluzione. Da un lato, egli ricostruisce nel Monde la genesi dell'Universo a partire dalla materia indeterminata, fino a dotarlo dell'aspetto che conosciamo; per dichiarazione esplicita di Descartes stesso, si tratta però solo di un espediente euristico, mirante a spiegare una situazione di fatto tramite un procedimento genetico, e non di una ricostruzione che abbia la pretesa di essere 'storicamente' vera. Dall'altro lato, nel trattare delle macchie solari il filosofo francese ipotizza chiaramente che i vortici, ossia i sistemi solari, possano venire distrutti: l'accumularsi delle macchie sulla superficie delle stelle spiegherebbe il fatto che esse possano sembrarci più o meno brillanti a distanza di tempo, oppure che ci appaiano delle stelle nuove quando le macchie vengono dissipate e la luce emana liberamente, ma sarebbe anche all'origine della trasformazione di una stella in una cometa o in un pianeta. Infatti, se le macchie coprono l'intera superficie dell'astro e si dispongono in vari strati solidificandosi, può avvenire che si rompa l'equilibrio con la pressione esercitata tra i vortici confinanti, in questo caso il vortice che circonda la stella 'soffocata' dalle macchie si dissolve e la stella stessa viene inglobata dai vortici vicini come pianeta, oppure comincia a passare da un vortice a un altro diventando una cometa.

Se l'abbandono dell'immagine tradizionale del Cosmo è molto evidente negli scritti di Galilei e di Descartes, una maggiore prudenza caratterizza la loro posizione rispetto al tema della pluralità dei mondi abitati. Va innanzitutto fatta una premessa: in alcuni paragrafi dei Principia Descartes deduce dalla propria definizione di estensione l'impossibilità dell'esistenza di più mondi: se il vuoto è contraddittorio, tutta la materia esistente deve essere concepita come un continuum e fa quindi parte di un unico mondo. Quel che Descartes avversa è la teoria antica e medievale della pluralità dei mondi, ossia la possibilità che esistano o vengano creati vari sistemi separati dal vuoto, mentre invece egli è, come si è visto, favorevole all'esistenza di diversi mondi intesi come pluralità di sistemi planetari simili al nostro, tra di loro contigui. L'espressione 'pluralità dei mondi' è ambigua: accade così che Descartes venga accusato dai sostenitori della philosophia recepta (e non solo da loro, come dimostrano, per es., le obiezioni mossegli da Henry More e da Antoine Arnauld) di ledere l'onnipotenza divina e di infrangere il decreto del 1277 ‒ dal momento che argomenta a favore della necessaria unicità del mondo ‒ sebbene la sua filosofia sia alla base degli Entretiens sur la pluralité des mondes di Bernard le Bovier de Fontenelle. A differenza di quest'ultimo, e in sintonia con Galilei, Descartes è molto prudente quando deve pronunciarsi sull'esistenza di abitanti sugli altri pianeti. Lo scienziato pisano nella Terza lettera sulle macchie solari (1613) da un lato aveva escluso che sugli altri pianeti potessero esistere degli esseri viventi del tutto simili a quelli ospitati dalla Terra, dall'altro non aveva preso posizione rispetto all'ipotesi che vi fossero forme di vita diversissime dalle nostre fino a essere per noi quasi inimmaginabili. Affermazioni di questo tenore comparivano anche nel Dialogo sopra i due massimi sistemi a proposito della Luna: la struttura fisica del nostro satellite, che Galilei crede privo di pioggia (in una lettera escluderà anche l'esistenza dell'acqua sulla Luna, a differenza di quanto aveva affermato nel Sidereus nuncius), impedisce di pensare che possa ospitare forme di vita paragonabili a quelle terrestri. Tuttavia, intervengono due principî a favore della presenza su di esso di esseri viventi: in primo luogo la Luna sarebbe un corpo inutile e superfluo se non fosse abitata, e in secondo luogo la ricchezza della Natura e l'onnipotenza divina eccedono i limiti che le nostre deboli capacità conoscitive vorrebbero imporre loro.

Se ci rivolgiamo alle opere di Descartes, in una lettera indirizzata a Hector-Pierre Chanut, ambasciatore in Svezia, egli risponde alla regina Cristina con toni simili a quelli usati da Galilei. Le enormi dimensioni dell'Universo descritto nei Principia non sembrano al filosofo francese un motivo di preoccupazione, non solo perché altri autorevoli personaggi, come Niccolò Cusano, hanno sostenuto tesi simili, ma anche perché l'immensità della Creazione ci spinge a lodare Dio con maggior vigore e ammirazione. Per quel che riguarda la presenza di extraterrestri, il racconto biblico dà testimonianza di una particolare sollecitudine di Dio nei nostri confronti, ma non esclude che Egli abbia potuto dimostrare altrettanta attenzione nei confronti di altre creature. Tuttavia Descartes preferisce non prendere posizione rispetto a questa ipotesi, in quanto le ragioni pro e contro gli sembrano equivalenti.

Dibattiti sulla pluralità dei mondi

Prendendo in considerazione anche autori e testi di minor spicco rispetto a quelli esaminati finora, vediamo delinearsi con precisione lo stesso tipo di fenomeno: l'Universo infinito degli atomisti e di Bruno non viene accettato, ma in compenso si recupera l'uniformità del modello cosmologico proposto dal filosofo italiano per elaborare una teoria della pluralità dei mondi in cui valgano le analogie tra la Terra e i pianeti e tra il Sole e le stelle. Esistono, tuttavia, alcune eccezioni: autori come John Wilkins e Pierre Borel sembrano piuttosto condividere il tipo di Universo descritto da Kepler, in quanto mantengono la sfera delle fisse e non accettano di fare delle stelle il centro di rivoluzioni planetarie. Sia The discovery of a world in the moone (1638) di Wilkins, sia il Discours nouveau prouvant la pluralité des mondes habités (1657) di Borel sono estremamente ricchi di riferimenti alla letteratura precedente su questo tema ma, forse proprio per questo, non sempre la loro linea argomentativa risulta lineare. Significativa, in particolare, è la presenza dell'opera di Campanella: egli ha di fatto avuto il merito di formulare l'argomento che permette di credere nell'esistenza di extraterrestri senza entrare in contrasto con il racconto biblico della Redenzione. Gli abitanti degli altri pianeti non sarebbero uomini e non dobbiamo quindi porci problemi in merito alla loro salvezza. Quel che sembra stare a cuore a questi due autori è, soprattutto, portare argomenti a favore del sistema copernicano (Borel, pur esprimendosi a favore dell'infinità dell'Universo in alcune sezioni della sua opera, parla poi del Sole come centro del mondo) e sviluppare l'analogia tra la Terra e corpi opachi del nostro Sistema solare, in particolare la Luna. Come avverrà sempre più di frequente con il passare dei decenni, le enormi dimensioni dell'Universo e la presenza di forme di vita sugli altri pianeti sono utilizzate come strumenti dell'apologetica.

In senso diametralmente opposto, Savinien de Cyrano de Bergerac nell'opera L'autre monde ou les empires et états de la lune (1657) si schiera a favore dell'infinità dell'Universo. Non sappiamo se egli avesse letto i dialoghi bruniani, ma è certo che nelle sue opere l'infinitismo rivela ancora una volta tutto il suo potenziale eterodosso. L'Universo di Cyrano, infatti, non soltanto è infinito, ma è anche eterno e in esso, come se non bastasse, l'uomo ha perso del tutto la propria preminenza. È questo l'elemento che interessa di più all'autore; che il mondo sia privo di gerarchie e di luoghi privilegiati riflette il fatto che tutte le forme di vita sono pensate come un continuum e che non vi sia più nessuna differenza tra l'uomo e gli animali. Cyrano usa tutti gli strumenti a sua disposizione per raggiungere questo scopo: espone teorie filosofiche, non sempre coerenti, ma che giungono comunque allo stesso risultato di stampo naturalista e, soprattutto, si serve della rappresentazione rovesciata. Spesso attribuisce agli abitanti della Luna e del Sole costumi e opinioni simili ai nostri: l'effetto straniante di veder recitare argomenti antropocentrici da chi uomo non è, e di vederli utilizzati in veri e propri processi contro il protagonista, ha il risultato di mostrarne tutta la vanità. In altri casi Cyrano procede secondo la tecnica dell'elogio paradossale: come avviene per il cavolo, che si rivela alla fine più elevato dell'uomo nella gerarchia degli esseri. Da Copernico, insomma, si passa alla materia infinita ed eterna, che non ha bisogno di un Dio provvidente per organizzarsi; mentre l'antiantropocentrismo diventa un'occasione per mettere alla berlina le idées reçues, per sottolineare l'unità dei viventi e per insinuare dubbi sul dogma dell'immortalità dell'anima, ponendo fine a ogni pretesa superiorità dell'uomo sugli animali.

Se si escludono queste eccezioni, l'ampia letteratura sulla pluralità dei mondi rifiuta l'Universo infinito ma fa delle stelle il centro di altri sistemi planetari. A volte per portare prove a favore dell'analogia tra le stelle e il Sole vengono esplicitamente riutilizzati elementi tratti dai testi bruniani, ma estrapolati dal contesto necessitarista in cui avevano avuto origine. È questo il caso di Pierre Gassendi che nel Syntagma philosophicum (1658) dedica un capitolo alla questione se il mondo sia unico e rifiuta la teoria dell'infinità dell'Universo, menzionando esplicitamente il filosofo italiano in una nota marginale, ma poi in altre sezioni della sua opera ricalca argomenti bruniani per dimostrare che le stelle sono sparse nel cielo come gli alberi in un bosco e che il mondo è uniforme. Più spesso, però, come avviene nei testi di Wilkins e di Borel, intervengono altre tradizioni filosofiche, molto distanti dall'eterodossia bruniana. La dimostrazione della pluralità dei mondi abitati viene condotta con argomenti che si ripetono con poche varianti da un testo all'altro. In primo luogo, le enormi dimensioni dell'Universo diventano uno strumento per glorificare l'onnipotenza divina. Avviene così nel Syntagma philosophicum di Gassendi, ma anche nella Defensio Cartesiana (1652) di Johannes Clauberg, un filosofo tedesco che si distinse per la sua difesa di Descartes dagli attacchi dei sostenitori della philosophia recepta i quali volevano impedire che le sue teorie fossero insegnate nelle università. Alla fine del secolo questo argomento diverrà un vero e proprio Leitmotiv negli scritti dei newtoniani inglesi. Una valenza apologetica può avere anche una delle prove addotte a favore dell'esistenza degli extraterrestri: se soltanto la Terra fosse abitata, gli innumerevoli altri pianeti dispersi nelle profondità dello spazio sarebbero sterili e inutili. Usano questo argomento non solo Galilei e Borel, ma anche Fontenelle, Huygens e Bentley. Se è evidente il richiamo all'adagio aristotelico per il quale la Natura non fa nulla invano, il che non implica necessariamente un rinvio all'onnipotenza e alla saggezza divina, è anche possibile partire da questa constatazione per tessere le lodi del Creatore. Meno spesso, e in scritti che in genere hanno un carattere scientifico ‒ anche se a volte sono diretti a un vasto pubblico ‒, l'esistenza degli extraterrestri viene dedotta dalle analogie tra la Terra e gli altri pianeti: è questo il procedimento usato da Fontenelle e da Huygens. L'uso di argomentazioni finalistiche non esclude, infine, la presenza di un'insistente polemica antiantropocentrica; come affermano Gassendi, Borel e Huygens, proprio perché l'Universo non è interamente finalizzato all'uomo e proprio perché non dobbiamo pensare che tutto sia a nostra immagine e somiglianza, è verosimile che gli altri pianeti siano abitati. Anche i corpi la cui struttura fisica è meno simile a quella della Terra possono ospitare esseri viventi, magari diversissimi da quelli che popolano il nostro pianeta.

Sulla natura degli extraterrestri le opinioni sono discordi. La maggior parte degli autori propende per la soluzione, già prospettata da Campanella, che li differenzia al massimo dagli uomini; è il modo più semplice per evitare di porsi imbarazzanti problemi in merito alla loro origine e alla loro salvezza (non a caso un teologo olandese, Samuel Desmarets, deprecava la teoria dei mondi abitati perché permetteva il diffondersi di dottrine altrettanto pericolose di quelle sostenute da Isaac de La Peyrère sui preadamiti). Ci sono tuttavia alcune eccezioni. La prima è quella costituita da Christiaan Huygens: ufficialmente, nel Kosmotheoros egli afferma che gli extraterrestri non sono dei veri e propri uomini. Quando li descrive, però, le cose vanno diversamente: devono avere i nostri cinque sensi, visto che ognuno di essi ci è indispensabile ed è requisito necessario per fondamentali attività dell'uomo; devono avere mani e piedi; è presumibile che siano affetti da vizi, perché senza di essi non si sarebbero sviluppate le arti presso di noi, tutte nate dalla necessità di superare gli ostacoli che ci vengono dalla Natura o dalle nostre limitazioni. Soprattutto, devono aver elaborato scienze (in particolare l'astronomia) e principî morali simili ai nostri. Quanto a questi ultimi, la ragione ci detta come conservare la vita e il vivere civile: è impensabile che, al di là delle differenze dei costumi, non ci sia un accordo anche su Giove o su Marte riguardo ai principî del giusto e dell'ingiusto. A maggior ragione, le leggi della ricerca del vero, della consequenzialità logica e dei principî matematici devono essere universalmente diffuse anche tra di loro.

Non è mancanza di immaginazione questa di Huygens, né gretto antropomorfismo: nella descrizione degli extraterrestri agisce lo stesso principio che guidava la dimostrazione dell'abitabilità dei mondi, ossia la necessità di non fare della Terra un luogo privilegiato e singolare. Emerge qui il motivo per il quale l'argomentazione dello scienziato olandese segue un curioso cammino che procede dal più complesso al più semplice: poiché il nostro pianeta deve essere uguale a tutti gli altri, i primi aspetti su cui si fermano le sue congetture non sono quelli più semplici (come l'acqua, elemento indispensabile alla vita), ma quelli più complessi, senza i quali tale uguaglianza sarebbe incompleta. Se la catena delle analogie si interrompesse a un certo gradino, si creerebbero delle differenze che rischierebbero di assumere una portata assiologica, e ciò lo spinge a partire dall'alto per arrivare al basso: devono esistere gli animali sugli altri pianeti, il che implica che vi siano anche le piante e l'acqua; solo la presenza di quest'ultimo elemento è discussa sulla base di dati osservativi. Una delle caratteristiche fondamentali della teoria della pluralità dei mondi è l'applicazione del principio di uniformità dell'Universo, da cui discendono il ricorso all'analogia e il rifiuto dell'antropocentrismo; ne consegue che nei diversi pianeti non si può manifestare una varietà di creature talmente infinita da non permettere di riconoscere leggi e strutture fisse ricorrenti a livello non soltanto fisico, ma anche biologico. In altri termini, sui mondi devono esistere alcune forme di vita e devono essere quanto meno comparabili con le nostre. Ciò equivale a sostenere che, pur nell'esplicazione della sua infinita potenza, Dio segue delle regole.

La seconda eccezione è costituita da un testo elaborato alla fine del Seicento, probabilmente da Jean Terrasson, il Traité de l'infini créé, diffuso clandestinamente come manoscritto e poi stampato, con la falsa attribuzione a Malebranche, nel 1769. L'autore di quest'opera estremizza le dottrine dell'oratoriano, finendo per dare ragione alle accuse di determinismo che avevano lanciato i suoi avversari: non è l'estensione intelligibile a essere infinita, ma la materia tout court, perché così vuole l'idea di estensione che noi abbiamo e perché una causa infinita deve avere un effetto infinito. Non solo: la materia è anche eterna e necessaria. Per quanto riguarda gli abitanti degli altri pianeti, il Traité polemizza apertamente con Fontenelle: non si deve fare appello alla ricchezza infinita delle opere della Natura e alla loro diversità, senza definire prima il ruolo della legge di uniformità e quello della legge di varietà. La prima legge agisce su tutto ciò che è essenziale e in questo ambito si situano i caratteri delle diverse specie animali; la seconda si limita a produrre variazioni di particolari, ma solo a partire dalle strutture che la legge di uniformità ha prodotto; è questo il caso, per esempio, dei diversi popoli disseminati su tutta la Terra. Secondo l'autore del Traité de l'infini créé, dunque, le differenze tra noi e gli abitanti degli altri pianeti potrebbero consistere nella forma e nei particolari del viso, o nel numero dei sensi di cui essi sono forniti, ma gli extraterrestri avranno senza dubbio un viso e dei sensi. Se questa è la soluzione scelta a proposito della natura degli extraterrestri, si apre immediatamente un problema spinoso: bisogna evitare di contraddire i dogmi dell'Incarnazione e della Redenzione. La soluzione adottata nel trattato in questione è alquanto temeraria: l'Incarnazione del Verbo si verifica in tutti i pianeti, anche in quelli in cui gli uomini non sono caduti nel peccato. Scatta subito il riferimento a un'auctoritas indiscutibile: nella Summa theologiae di Tommaso d'Aquino si legge infatti che il Verbo avrebbe potuto unirsi ipostaticamente a più uomini. Il nostro manoscritto trascura però l'esistenza di un paragrafo dedicato alla confutazione di coloro che sostengono che la seconda persona della Trinità si sarebbe incarnata anche se l'uomo non avesse peccato; per Tommaso bisogna attenersi alla lettera delle Scritture, dove si legge che il Verbo si è fatto carne per la nostra salvezza. Possiamo supporre che l'autore del Traité, per costruire la sua teoria, si sia ispirato alle pagine di Malebranche in cui questi afferma che il Verbo si sarebbe incarnato in ogni caso, poiché l'unione tra creatura e divinità era necessaria per spiegare la decisione di Dio di creare un mondo, anche se imperfetto. Va tuttavia sottolineato il fatto che nel nostro scritto non si trova alcuna traccia dell'ultima parte dell'argomentazione originaria, e pour cause: l'Universo, essendo infinito, è di per sé stesso un'opera degna di Dio.

Benché l'esistenza degli extraterrestri sia potenzialmente in contrasto con l'ortodossia religiosa e richieda, come abbiamo appena visto, qualche sforzo per essere conciliata con i dogmi dell'Incarnazione e della Redenzione, gli autori favorevoli alla teoria della pluralità dei mondi riescono in genere a evitare il conflitto aperto su quanto stabilito dalle loro Chiese, applicando a queste dottrine ciò che i copernicani sostengono in generale per conciliare l'eliocentrismo con le Sacre Scritture. Per tutti costoro, infatti, la Bibbia è stata scritta per indicarci la via della salvezza; per raggiungere questo scopo, gli autori dei testi sacri si sono espressi adattando quanto avevano da dire alle capacità di comprensione del popolo. È proprio per non turbare i fedeli con conoscenze astronomiche inutili al conseguimento della vita eterna che le Scritture sembrano condividere un'immagine del mondo geocentrica, e sempre per lo stesso motivo non fanno menzione degli abitanti degli altri pianeti. Se questo è il punto di partenza, dunque, è comprensibile che la teoria della pluralità dei mondi possa avere un esito apologetico una volta che i suoi iniziali legami con le dottrine atomiste e bruniane siano stati dimenticati, in paesi dove la condanna del sistema copernicano promulgata dall'Inquisizione romana non abbia vigore. È quanto accade, tra la fine del Seicento e l'inizio del Settecento, in Inghilterra, tra i seguaci delle teorie newtoniane. Diffusa è la convinzione che le altre stelle siano al centro di sistemi planetari simili al nostro. In realtà, Newton non si pronuncia su questo tema, dal momento che, secondo lui, per sapere se esistono altri sistemi solari dovremmo conoscere le azioni di Dio, e questo ci è impossibile. Un accenno alla possibilità di più mondi si trova soltanto nell'edizione latina dell'Opticks (1706), il lettore scopre però che si tratta di un ritorno alla teoria antica e medievale della pluralità dei mondi, perché ci si riferisce non tanto ad altri sistemi solari quanto alla possibilità per Dio di creare universi in cui valgano altre leggi di Natura. I seguaci di Newton, tuttavia, adottano con entusiasmo la teoria della pluralità dei mondi, primo tra tutti Richard Bentley che in The folly and unreasonableness of atheism (1693) deduce dapprima che le somiglianze tra le stelle e il Sole ci autorizzano a credere che anch'esse siano circondate da pianeti, poiché l'esistenza di tali sistemi può essere solo funzionale alla presenza di creature che li abitino. Bentley però si discosta da Newton anche per un'altra convinzione: egli crede infatti che l'esistenza di una materia infinita in uno spazio infinito sia contraddittoria e fisicamente impossibile, perché o le particelle di materia sarebbero state incapaci di aggregarsi, rimanendo sparse nello spazio senza dare luogo all'Universo che conosciamo, o sarebbero tutte convenute in un'unica massa. Nello scambio di lettere intercorso prima della pubblicazione dei sermoni di Bentley, Newton aveva chiaramente contraddetto queste conclusioni: se la materia fosse stata disposta in uno spazio infinito, essa si sarebbe aggregata in diverse masse, senza convergere necessariamente tutta in un luogo.

Anche John Ray, in The wisdom of God manifested in the works of the creation (1691), riesce a utilizzare l'immensità dell'Universo, l'esistenza di un enorme numero di sistemi solari e la presenza in essi di pianeti abitati come elementi per glorificare la saggezza e l'onnipotenza divina. Lo stesso tipo di argomenti ritornerà all'inizio del Settecento negli scritti di Nehemiah Grew, William Whiston e William Derham. L'affermarsi di quest'uso apologetico della teoria della pluralità dei mondi segna in Inghilterra una svolta decisiva della teologia naturale. Tutta la generazione precedente aveva dedotto dall'elogio della saggezza dispiegata da Dio nel Creato che l'Universo era finalizzato all'uomo, mentre i newtoniani condividono con Kepler e Gassendi l'opinione secondo la quale proprio il fatto che non possiamo credere che lontanissime stelle, magari appena scoperte grazie al cannocchiale, siano state create a nostro uso e consumo ci autorizzi a pensare che invece esistano in funzione di altri esseri, diversi da noi.

Con la sua utilizzazione in chiave apologetica si chiude la parabola seicentesca del tema della pluralità dei mondi; il Settecento saprà in alcuni casi riscoprire la portata eterodossa della teoria dell'infinità dell'Universo, ma altre saranno le vie che prenderanno le discussioni cosmologiche.

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