La periodizzazione della Grecia antica. Il periodo arcaico

Il Mondo dell'Archeologia (2004)

La periodizzazione della Grecia antica. Il periodo arcaico

Antonio Giuliano

Il periodo arcaico

Il termine “arcaico” fu adottato nell’Ottocento per indicare una fase ancora imperfetta della cultura artistica greca, preparatoria dell’apogeo della successiva età classica. La data di inizio del periodo arcaico ha subìto oscillazioni dovute alle interpretazioni di vari studiosi, attestandosi in questi ultimi anni attorno al 600 a.C. La data finale del periodo arcaico è il 480 a.C., in concomitanza con eventi quali l’invasione persiana, la distruzione dei monumenti di Atene, la battaglia di Salamina. Oggi per arcaico si intende il periodo compreso tra il 600 e il 480 a.C.

Il mondo di età arcaica presenta un numero elevatissimo di problemi che non è facile circoscrivere. Dopo le esperienze di età geometrica, che avevano condizionato per sempre la cultura del mondo greco, e orientalizzante che, soprattutto nella prima metà del VII secolo, sembrarono mettere in forse il carattere autonomo della civiltà greca, nella seconda metà del VII sec. a.C. le città della Grecia ritrovano una propria identità culturale. Esse, all’inizio del VI sec. a.C., presentano un’autonomia definita che si articola attraverso una contrapposizione tra città del Peloponneso e città della Ionia. Questa contrapposizione non può tuttavia essere proposta troppo apoditticamente: si pensi, ad esempio, a Sparta che, nella prima metà del VI sec. a.C., continua i suoi vitali rapporti con la Ionia. Le città del Peloponneso avevano assimilato, soprattutto da un punto di vista formale, la più antica tradizione cretese, quelle della Ionia spunti anatolici ed egiziani. La mediazione tra le due culture è operata soprattutto ad Atene, che diviene tra il 575 e il 525 a.C. l’ago della bilancia dell’intera Grecia (e non perderà mai più questa sua prerogativa). Le trasformazioni sociali che caratterizzano la Grecia in età arcaica sono immense.

Le contrapposizioni sociali di età orientalizzante si vanno stemperando, si formano classi di artigiani che si dedicano a lavori sempre più specializzati. Il benessere si diffonde in strati sempre più ampi della popolazione, la cultura penetra in profondità nelle diverse classi sociali; pur arroccati nei modi di un orgoglio municipale, i Greci di età arcaica hanno scambi sempre più frequenti tra loro soprattutto nei santuari panellenici: in particolare a Delfi e a Olimpia. Questo può determinare a volte antagonismi culturali, mai però troppo ombrosi e testardi (come quelli che avevano caratterizzato alcune popolazioni della Grecia durante l’età orientalizzante). La maggiore diffusione del benessere, documentato anche dalle coniazioni delle monete, si basa su una maggiore produttività. Le città monopolizzano, con il proprio artigianato, precisi ambiti geografici. E quando Atene, intorno alla metà del VI sec. a.C., egemonizza la produzione ceramica, creando una vera e propria industria di esportazione, Corinto riuscirà a specializzarsi nella produzione di bronzi di lusso o di uso domestico, dividendo questo monopolio con Sparta, sin verso la fine del VI sec. a.C.

A titolo di esempio si ricordano alcune proposte relative alla consistenza delle fabbriche ceramiche di Corinto. Nel periodo cosiddetto Transizionale (640-620 a.C.) sono attivi una decina di pittori su circa 150 vasi. Nel Corinzio arcaico (620-590 a.C.) una ventina su un numero di vasi quasi doppio. Nel Corinzio medio (590-575 a.C.) una venticinquina su un numero di vasi triplo rispetto a quelli transizionali. Nel Corinzio tardo (575-550 a.C. ca.) ancora una ventina con un numero di vasi che si contrae a 200 circa. Ma il computo è solo generico. Non possiamo immaginare, evidentemente, che a ogni pittore corrispondesse una bottega: è lecito quindi pensare che le botteghe del Ceramico di Corinto fossero al massimo quattro o cinque, ognuna con un caposcuola, un paio di apprendisti, qualche garzone. Forse i ceramisti erano anche ceramografi, le botteghe si sviluppavano e si contraevano in base alle offerte di lavoro.

Per quanto riguarda le fabbriche ceramiche di Atene il computo è più preciso. È merito soprattutto di J.D. Beazley essere riuscito a definire i caratteri delle fabbriche attiche attribuendo circa 30.000 vasi a varie officine e maestri. Sulla base delle sue ricerche è possibile analizzare la condizione delle fabbriche tra il 600 e il 480 a.C. circa secondo la seguente suddivisione (dove “gruppo” vale evidentemente uno stile decorativo, “classe” vale un modulo tettonico): a) 600-575 a.C.: 8 pittori, 5 gruppi; b) 575-550 a.C.: 29 pittori, 14 gruppi; 4 ceramisti; c) 550-525 a.C.: 59 pittori, 65 gruppi; 43 ceramisti, 18 classi; d) 525-500 a.C.: 91 pittori, 47 gruppi; 23 ceramisti, 39 classi; e) 500-475 a.C.: 112 pittori, 67 gruppi; 8 ceramisti, 38 classi.

Tra la fine del VI e l’inizio del V sec. a.C., ad esempio, nel Ceramico di Atene dovevano essere attivi circa 200 pittori e 50 ceramisti: la fabbricazione dei vasi doveva essere una vera e propria industria per Atene.

Gli ordinamenti delle città si modificano, le innovazioni vengono proposte, nelle singole città, da famiglie di particolare censo. Tucidide (I, 13) afferma: “Man mano che l’Ellade diveniva più potente e ancor più di prima badava all’acquisto della ricchezza, per lo più, nelle città, con l’accrescersi delle entrate, sorgevano tiranni … e l’Ellade armava flotte e tendeva più di prima al dominio del mare”. L’affermazione delle tirannie, che prese molto tempo, non è chiara nei dettagli (ovviamente diversi nelle varie città). Iniziata sulle coste dell’Asia Minore, nelle ricche città commerciali, per sostituire nuove strutture politiche a quelle oligarchiche, investì in breve tutta la Grecia. Dalla metà circa del VII secolo (il momento del grande sviluppo di Mileto) al 561 a.C. circa (quando i Pisistratidi si impadronirono di Atene), la tirannia è un fenomeno che rappresenta la presa di potere da parte di una classe di imprenditori e che ha come risultato l’aumento del commercio, in particolare verso Occidente, una maggiore ricchezza e una più equa ridistribuzione di essa. Trasibulo di Mileto, alla fine del VII sec. a.C., Periandro di Corinto, a lui contemporaneo, Pisistrato di Atene e Policrate di Samo, sono le figure più note di un rivolgimento politico che per più di un secolo stimolò un grandissimo sviluppo civile della Grecia.

Le tirannie impongono leggi e regolamenti nuovi che permettono di definire i modi della vita civile delle città e del contado. Le città tendono ad articolare i propri territori, la propria sfera di influenza economica e culturale; quelle minori si trovano svantaggiate e in qualche caso si isolano nelle consuetudini più tradizionali. Intere regioni, ad esempio Creta, vengono emarginate per l’imposizione di rotte marittime diverse da quelle che caratterizzavano l’età orientalizzante. La definizione delle città-stato impone una suddivisione del territorio di tutta la Grecia, che non subirà sostanziali mutamenti in futuro.

È necessario cercare di definire l’importanza delle singole città e del loro territorio agricolo. Atene, che sempre era stata, sostanzialmente, l’unica città dell’Attica, si trova ad avere un immenso vantaggio rispetto ad altre concentrazioni demografiche. Se Atene non riesce a espandersi, almeno nella prima metà del VI sec. a.C., verso Occidente, nelle ricche terre di Sicilia e della Magna Grecia (frenata da Corinto e dalle città doriche di Siracusa e di Taranto), si estende invece verso il Mar di Tracia e l’Ellesponto. Corinto, da parte sua, mantiene durante tutto il VI secolo un’importanza notevolissima: soprattutto per il commercio verso la Grecia settentrionale (attraverso l’Epiro), la Magna Grecia e la Sicilia (soprattutto attraverso Siracusa). Ma la sua attività trova in quella di Atene una concorrenza formidabile, che diverrà sempre più pesante e che metterà in crisi la città alla fine del secolo. Alla politica imprenditoriale di Atene, Sparta sembra opporre modi più tradizionali che si accentuano nella seconda metà del VI secolo: il possesso sempre maggiore di terreno agricolo e una minore attività commerciale, soprattutto dopo il 550 a.C. Questo fenomeno dovette esasperarsi alla fine del VI secolo, fu caratterizzato dall’abbandono di un maggiore cosmopolitismo, dei vitali rapporti con l’Oriente. Ma il commercio laconico verso occidente, soprattutto attraverso Taranto, rimase molto intenso per tutta la prima metà del VI secolo; altrettanto importante fu quello con la Cirenaica.

Le città della Ionia, in particolare Focea, Efeso, Mileto, Samo, Coo, hanno la possibilità di mediare un nucleo notevole di prodotti per il mondo occidentale (dalla Grecia alla Spagna), di proporre fondamentali esperienze delle più antiche civiltà dell’Oriente. Esse hanno un ruolo di primo piano che viene però inesorabilmente infranto dalla conquista persiana alla fine del VI secolo. Samo riuscirà a essere indipendente più a lungo, ma anch’essa vedrà tramontare il proprio potere alla fine del VI secolo. Ma la Ionia, dal Mar Nero, all’Egitto, alla Magna Grecia, all’Etruria, riuscirà a diffondere, in particolare durante la prima metà del VI secolo, la propria cultura (anche attraverso il trasferimento di intere popolazioni nel lontano Occidente e tra queste non pochi artigiani, in seguito alla pressione persiana). La potenza cicladica, che si manifestava con il controllo del santuario di Delo da parte di Nasso e di Paro, cessa alla metà del VI secolo; Atene si sostituirà come tutrice del santuario di Apollo, divenendo essa stessa paladina degli interessi delle isole. Questo fenomeno può essere dimostrato tra l’altro dal trasferimento di artisti cicladici, tra i primi ad Atene, già nel secondo venticinquennio del VI secolo.

La storia di età arcaica è caratterizzata da avvenimenti grandiosi che trovano nelle fonti una risonanza solo a volte adeguata. Tra questi, prima per importanza, l’espansione persiana verso occidente. Di questa espansione Atene sembra giovarsi: cerca una politica verso le isole dell’Egeo, domina il santuario di Delo, accoglie innumerevoli profughi dalla Ionia, raccoglie l’eredità della cultura greco-orientale con una tale intensità che la città, per quanto concerne la cultura formale, attorno al 520 a.C., sembra essere sommersa da una troppo perentoria proposta ionica. Ma Atene ha lunga tradizione che le permette di reagire con autonomia a tante sollecitazioni. La storia di Atene con Pisistrato e i Pisistratidi è quella di una città che diviene così immensamente potente da volersi identificare in pratica con tutta la Grecia. Solo il mondo peloponnesiaco, soprattutto quello spartano (Corinto sembra aver perduto parte della propria vitalità), quello delle città doriche della Sicilia e della Magna Grecia (Siracusa e Taranto), sembra potersi opporre alla sua fortuna. Tradizione cicladica e ionica si fondono con quella ateniese per dare l’avvio a una cultura sostanzialmente nuova che, per l’orgoglio di una condizione raggiunta faticosamente, consapevole della propria forza, diviene sempre più esclusivistica.

Cercare di comprendere l’intima natura dei singoli Greci di età arcaica è evidentemente complesso: al più è possibile cercare di interpretare dalle fonti letterarie e dai documenti archeologici quella delle classi più rappresentative. Ma, seppure con un margine di approssimazione (e con l’aleatorietà di qualsiasi definizione), è possibile affermare che la cultura individuale dei Greci di età arcaica era cultura sostanzialmente uniforme: non tanto per il valore degli oggetti che essi adoperavano, quanto per la qualità artigiana che li caratterizzava. Tutta la popolazione è partecipe delle stesse esigenze, i beni di cui i cittadini dispongono si differenziano solo per la loro maggiore o minore preziosità, ma sono tutti lavorati con pari impegno artigiano e formale. Di questo orgoglio artigiano sono testimonianze le dediche sull’Acropoli di Atene.

Oggetti più preziosi, esposti nei santuari, formano ancora la meraviglia dei visitatori; ma essi o sono dedica di dinasti orientali, o appartengono a intere città (sono più il simbolo della potenza di un singolo o di una famiglia). La circolazione dell’oro si va rarefacendo, i gioielli sono infinitamente meno frequenti di quanto non lo fossero nel periodo precedente; l’accumulo di metallo prezioso non sembra caratteristico di una società di commercianti protesi verso il futuro che sembra privilegiare la circolazione, attraverso le monete, di un metallo più democratico, come l’argento. L’oro si accumula in mani di privati solo in aree periferiche, serve a pagare i barbari (soprattutto sulle coste del Mar Nero). Nelle città della Grecia esso viene consacrato alle divinità (e quindi sottratto in quanto metallo di scambio), nelle sempre più frequenti statue di oro e di avorio: operazione che vuole negli dei che presiedono alle singole città anche una riserva, nominale più che reale, di potenza.

Nell’età arcaica più di ogni altra cosa, sembra valere la forza lavoro: la capacità artigiana, la soluzione dei tanti problemi che i materiali più umili suggeriscono a chi li lavora. Le fonti antiche insistono, con particolare efficacia, nell’elogio di coloro i quali avevano trovato soluzione a problemi apparentemente semplici, ma che comportavano maggiore economia del materiale: la saldatura del ferro, la fusione a cera perduta (che sfruttava al limite delle possibilità un materiale costoso come il bronzo), l’invenzione delle tegole di marmo, il perfezionamento di strumenti ingegnosi (dal tornio alla livella). Le tecniche più varie si affinano attraverso lo sfruttamento dei materiali più comuni, che possono essere reperiti nelle singole città. L’orgoglio di essersi giovati di materiali modesti farà sì che le città che dedicano thesauròi nei santuari vorranno costruirli con i materiali e con le tecniche più consueti in patria.

I materiali usati per le opere più notevoli di età arcaica (dai templi, intesi come banco di prova delle capacità artigiane di intere squadre di specialisti che in essi risolvevano, spesso per la prima volta, problemi tecnici di enorme importanza, ai lavori minuti) sono generalmente poco costosi: legno, pietra, marmo, terracotta, osso, bronzo, ferro. Con questi prodotti i Greci di età arcaica producono i propri grandi capolavori, con una ingegnosità senza pari. Queste realizzazioni imponevano anche una pratica artigiana diversa da quella di età orientalizzante: quando il sopraggiungere di tante tecniche e di tanti materiali nuovi dall’Oriente aveva comportato gelosia di bottega, segretezza del proprio operare (soprattutto per quanto concerne la fusione dei metalli). Gli artigiani di età arcaica dovettero avere minore gelosia del proprio mestiere, sicuri della possibilità di smercio del proprio prodotto, anche il più umile: e questo può essere dimostrato dai tanti nomi di stranieri documentati, soprattutto ad Atene, nelle fabbriche di ceramica (alcuni tra questi stranieri immigrati saranno i migliori interpreti dello stile attico). Nell’articolazione di una vita comunitaria, con esigenze e costumi analoghi, differenziati solo nell’esperienza e nella sagacità dell’operare, i Greci di età arcaica rimasero però sempre sostanzialmente individualisti: l’emulazione e l’ironia caratterizzano le personalità migliori. La sicurezza in una condizione umana aperta a tutti i cittadini, carica di possibilità di benessere per tutti, basata sull’impegno e sulla capacità, fa sì che i Greci di età arcaica diano un significato tutto realistico, dinamico, al proprio vivere.

Le divinità incombenti, a volte minacciose, delle età precedenti assumono il carattere di divinità protettive e operose. Nella loro terribilità come in quella di Atena (implacabile, così come molte volte è rappresentata, per ferite sempre mortali contro gli avversari), è la consapevolezza della possibilità della propria difesa (e l’ingegnosità e l’impeto porteranno gli Ateniesi, in corsa, a vincere i Persiani a Maratona). Accanto a divinità sempre più umanizzate, solo raramente simbolo di una natura oscura e implacabile, i Greci di età arcaica esaltano gli eroi: Eracle soprattutto, per quel suo operoso vagare dall’estremo Oriente all’estremo Occidente, per quel suo sopportare e vincere, il suo meritare, infine, l’immortalità. A Eracle cercano di assimilarsi quanti partecipano ai giochi atletici. Ma già nella prima metà del secolo, accanto a Eracle, in Attica, risalta l’eroe cittadino, Teseo: le sue imprese hanno fortuna sempre maggiore.

Il mito, tanto arricchitosi nel periodo orientalizzante, non si contrappone al mondo di ogni giorno. Serve a identificare i momenti di ognuno, a dare un significato quasi allegorico allo scorrere della vita. Tutti si riconoscono in esso, quasi simbolo del proprio destino nel vivere quotidiano. Accanto a quella del mito nasce la rappresentazione di vita reale. All’inizio prendendo lo spunto dal mito stesso, poi in modo più autonomo. Gli avvenimenti sono rappresentati con un’immediatezza e una vitalità mai più conosciute. Con l’affettuosa rappresentazione di attimi felici (la palestra, l’amore, il lavoro, il commercio) il mondo arcaico esalta la propria dignità: soprattutto ad Atene. A Sparta, con un realismo spesso perentorio e sempre attento, sono rappresentati i tanti avvenimenti della vita della città, quasi su uno schermo (riproposti soprattutto nella loro grandezza e nella loro terribilità dai ceramografi).

Sorprende, nelle rappresentazioni di età arcaica, una naturalezza felice, un senso di dignità nell’affrontare il flusso della vita che sarà di pochissime altre epoche storiche. E le iscrizioni della kore Phrasikleia o del kouros Kroisos, con quel sottomettere al destino i protagonisti rappresentati splendidi di giovinezza (e così semplici negli atteggiamenti), sono il commento migliore a una condizione umana che nell’infelicità o nella felicità riconosce un destino preciso cui bisogna sottomettersi. In questa possibilità di adeguarsi alla vita da parte di tutti, consapevoli solo della propria condizione mortale, è la grandezza dell’etica classica. Prima nel marmo luminoso delle isole (più tardi anche nel marmo pentelico), poi nel bronzo, gli Ateniesi, soprattutto, amano farsi rappresentare in tutta la propria dignità umana; si offrono agli dei nei santuari e divengono eroi nelle necropoli.

Il desiderio, quasi la necessità, di una maggiore personalizzazione è caratteristico dei nomignoli: indicativi dei luoghi di provenienza, dell’aspetto fisico delle persone, del loro carattere (o legati a un avvenimento famoso accaduto in occasione della nascita di chi lo portava). La morte di Creso dové sembrare un monito così emblematico della caducità della condizione umana (e così lo interpreterà Erodoto) da far sì che il suo nome divenisse di moda in tutta la Grecia.

Per quanto concerne la produzione, intervengono novità profonde nel modo di produrre le opere da parte degli artigiani. Stupisce l’abbondanza delle loro firme, che divengono sempre più frequenti nella seconda metà del VI sec. a.C. Le prime opere firmate non sono, in Attica, quelle esposte nei santuari: il dono votivo non può essere personalizzato e sottratto alla divinità cui appartiene (e le iscrizioni più antiche nei doni votivi, ad es. a Samo e a Mileto, parlano in prima persona, quasi a nome del dio), ma nelle necropoli. Ben presto, nella seconda metà del VI sec. a.C., gli artigiani divengono veri protagonisti: personalità amate, in qualche caso ricche. Soprattutto gli scultori abbandonano una dimensione più strettamente artigianale, aprono botteghe (in particolare i bronzisti sono ricercatissimi attorno al 500 a.C.), hanno personalità più moderna. Le ordinazioni li costringono a una sempre maggiore mobilità: questo comporta, soprattutto nei santuari (si pensi ad Atene, o a Olimpia), la possibilità di collaudare e acquisire spunti nuovi (recependoli da altre personalità, spesso di scuola diversa). L’orgoglio per la propria origine fa sì che, di frequente, gli scultori (in particolare nelle opere eseguite fuori della propria città) firmino con l’etnico: a testimonianze della scuola di appartenenza e della eccellenza di quella. La vita associativa fa sì che la cura maggiore della cittadinanza sia per quelle aree dove si possa meglio misurare la propria personalità. L’Agorà (immediatamente vicina al grande quartiere degli artigiani, il Ceramico) è il luogo che gli Ateniesi prediligono; dove si incontrano, commerciano, discutono; in alto l’Acropoli, ormai prevalentemente santuario, presidiata da Atena: le attività che danno ricchezza alla città si svolgono ormai solo in pianura.

La potenza di una città come Atene è nei traffici, nello scorrere delle mercanzie verso il porto del Phaleron, nell’importazione di tanti beni per mare; essa è segnata dall’arrivo, al mattino, dei contadini dell’Attica che si recano al mercato e che vendono i prodotti della terra, dall’inizio del lavoro nei laboratori artigiani. I santuari sono ingranditi e completamente ristrutturati, si notano, nei culti, consuetudini nuove. Il tempio principale, banco di prova delle capacità dei cittadini, viene ricostruito a documentare, attraverso un’opera bella e perfetta, la potenza della città tutelata dagli dei che ne sono il palladio. Nelle rappresentazioni dei frontoni e dei fregi le saghe hanno, attraverso il mito, allusioni alla vita quotidiana: l’eroismo degli dei e degli eroi antenati è stimolo di emulazione per le virtù dei singoli che in quelle imprese si riconoscono.

Per quanto concerne l’urbanistica dei luoghi di culto, si può affermare che la fioritura della vita civile durante il VI sec. a.C. comporta una completa ristrutturazione dei santuari di quasi tutta la Grecia: l’edificazione o la riedificazione di nuovi templi, l’ampliamento del temenos, la costruzione di stoài. Attorno al 600 a.C. vengono ristrutturati, ad esempio, l’Aphaion di Egina, l’Apollonion e l’Athenaion di Delfi, il Laphrion di Calidone, l’Athenaion di Larisa, l’Artemision di Sparta. Attorno al 550 a.C. nuovamente l’Aphaion di Egina, l’Heraion di Argo, l’Athenaion di Atene, il Nikeion di Atene, l’Apollonion di Delo, l’Apollonion di Didyma, il Laphrion di Calidone, l’Altis di Olimpia, il Delion di Paro, l’Heraion di Samo, l’Aphrodision di Trezene. Attorno al 500 a.C. ancora l’Aphaion di Egina, l’Apollonion di Argo, l’Athenaion di Atene, l’Athenaion di Delfi, il Poseidonion di Kalauria, l’Athenaion di Larisa, il Nemesion di Ramnunte, l’Heraion di Argo, l’Herakleion di Taso.

La cura del santuario è dettata dal rispetto civico più che dal timore religioso. I doni votivi privati sono forse meno preziosi di quelli di età orientalizzante, di materiale più modesto, ma sempre indicativi della capacità e dell’ingegno dei singoli offerenti. Questo evidentemente nei santuari municipali e soprattutto in Attica. A Samo è esaltata la capacità delle maestranze cittadine attraverso la finitura delle modanature tornite e intagliate; a Sparta, nel santuario di Atena sul-l’acropoli e in quello di Amyklai risalta la capacità dei bronzisti; i Corinzi, con l’arca di Cipselo, danno la misura dell’abilità degli intagliatori. Le novità salienti intervengono a Delfi e a Olimpia, con la costruzione dei thesauròi e l’erezione dei donari collettivi: merito di intere città che manifestano in tal modo la propria unità e la propria forza. L’eroismo del singolo, a elogio di tutta la cittadinanza, è a Olimpia premiato con le statue degli atleti (o, forse, meglio con statue di eroi nei quali si identificano gli atleti). La canonizzazione delle liturgie, la frequenza sempre maggiore di visitatori, l’abbondanza dei doni impongono la presenza di classi sacerdotali. L’esistenza, nei santuari stessi, di botteghe artigiane nelle quali potevano essere realizzate quelle opere, soprattutto di materiale prezioso, che dovevano poi essere esposte, è documentata dalle fonti.

Per quanto concerne gli usi funerari è caratteristica la minore ricchezza dei corredi deposti nelle tombe. Questo vale a significare il disagio di immobilizzare, per sempre, beni preziosi. L’aspetto esterno delle necropoli viene invece curato con particolare impegno, si costruiscono veri e propri monumenti funerari. Iniziano le sepolture collettive: nel tumulo dei caduti di Maratona esse trovano l’esempio più notevole. In tutta la Grecia, soprattutto in Attica, le tombe più ricche sono sormontate da stele o da statue: immagini eroizzate dei defunti. A volte il defunto è ricordato da un’iscrizione metrica di tono epico che ne riassume la personalità e il destino (e queste epigrafi, di frequente, sono componimenti dei maggiori poeti conosciuti). I peregrini fanno incidere, in qualche caso, sulla propria tomba iscrizioni nel proprio dialetto o nella propria lingua.

Ogni città esalta, nell’epos, la propria grandezza. Purtroppo molte composizioni (di alcune è il ricordo su ceramiche con la rappresentazione di aedi) sono perdute. I poemi omerici, che per volere di Pisistrato divengono canti di importanza nazionale, prevalgono su tutti gli altri nella seconda metà del VI secolo. La perdita di tante composizioni rende in qualche caso estremamente problematica l’interpretazione di interi cicli iconografici, soprattutto peloponnesiaci. Riconoscere la propria individualità solo nella propria città (infatti la pena più implacabile sarà l’esilio), nella cura e nella esaltazione delle proprie tradizioni, pur in un cosmopolitismo più vasto, è la grandezza dell’età arcaica; il costume diviene legge e tutti si identificano in essa: empietà è trasgredire una regola di vita, un equilibrio a tutti comune. Nel superare la misura della vita stessa è l’inizio dell’isolamento, dell’angoscia, della solitudine.

La natura, vegetale e animale, spesso presentata per simboli, incombe come presenza assoluta nella vita umana attraverso i mostri, gli animali feroci, ma anche e soprattutto attraverso la rappresentazione più pacata di motivi domestici, consueti. Alberi e animali sono il simbolo della operosità e della fatica; in essi, spesso con affetto, si riconosce il destino umano. Il freddo, la pioggia, il gelo, la polvere, il caldo, l’acqua, l’ombra sono elementi di un’esistenza sempre condizionata dal tempo atmosferico. Nelle abitazioni modeste, nelle città fatte di tante botteghe, con strade tortuose, male illuminate, le notti di inverno passano come un incubo. E l’apparizione della primavera (malgrado sia la stagione nella quale scarso è il cibo, come afferma un poeta) è festa di tutti. L’irrazionale, la potenza del terrore, la paura di vivere sono però esorcizzati: non dobbiamo immaginare il mondo di età arcaica solo come un universo luminoso di rasserenata ed equilibrata vitalità. Questo spiega perché il culto di Apollo, soprattutto a Delfi, abbia tanta importanza; perché avvenimenti a volte modesti, come una pesca abbondante, siano spunto per una dedica al dio: per grazia ricevuta. Apollo è medico anche di anime, egli esorcizza il male; insieme a Dioniso, ancora così indefinito e irrazionale, passionale e a volte funesto, rappresenta le contraddizioni dell’anima umana, della condizione terrena. Ma nell’accettazione e nella ricerca di una misura nel vivere gli uomini dell’età arcaica seppero portare alle conseguenze ultime i canoni di meditata razionalità che erano stati definiti, per sempre, in età geometrica.

Bibliografia

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