La fine del mondo antico

Dizionario di Storia (2011)

La fine del mondo antico

Andrea Giardina

Nel 476 d.C. l’imperatore romano d’Occidente Romolo, detto già dai contemporanei, per la sua giovane età, Augustolo, il «piccolo Augusto», fu deposto e relegato in una villa in Campania. Il primo Romolo, che circa 1200 anni prima aveva fondato Roma, era scomparso misteriosamente: secondo una versione della sua morte il re sarebbe stato fatto a pezzi dai senatori per bloccare la sua deriva autocratica. L’ultimo Romolo non fu abbattuto per un eccesso di potere, ma per il motivo opposto e la sua deposizione fu incruenta. La sua sorte finale fu tuttavia altrettanto oscura, visto che la sua esistenza ulteriore è ignota.

Da tempo l’impero romano affidava la difesa dei suoi territori, ridotti ormai a una piccola parte della precedente estensione, a truppe germaniche mercenarie. Erano milizie agguerrite ma fedeli in prima istanza ai loro comandanti e rappresentavano di conseguenza un cronico fattore di instabilità. Romolo fu deposto da uno di questi generali, Odoacre, che governò l’Italia con il titolo di re. Odoacre riconobbe la sovranità dell’imperatore di Costantinopoli ma il suo dominio era di fatto autonomo.

Il processo che portò alla caduta dell’Occidente non fu rettilineo. La crisi del 3° sec. d.C. – causata da ricorrenti epidemie di vaiolo, da assalti di nemici su più fronti, dalla difficoltà di garantire le accresciute esigenze finanziarie e belliche in coincidenza con una gravissima crisi demografica – fu in gran parte superata, sul finire del secolo, grazie all’azione dei cosiddetti imperatori «illirici» e a una poderosa mobilitazione di risorse umane, materiali e morali.

Nel 4° sec. il timore della morte di Roma sembrò dissolto o almeno allontanato. Ma alla lunga la ripresa delle aggressioni esterne, l’eccessiva pressione fiscale, le difficoltà dell’agricoltura e delle manifatture urbane, il popolamento insufficiente di alcune province determinanti, l’impossibilità di tenere in armi grandi eserciti reclutati tra cittadini romani, il venir meno dei sentimenti di appartenenza soprattutto tra le popolazioni rurali, la rinascita dei sostrati etnici sopraffatti, la corruzione degli amministratori rimisero in moto un processo di sfaldamento che non fu possibile arrestare. Questo viluppo di fattori negativi non si verificò (o si verificò in misura assai minore) nella parte orientale dell’impero, che riuscì a resistere.

La fine dell’impero romano d’Occidente era stata dunque a lungo preparata da un progressivo deterioramento, scandito da traumi maggiori quali la battaglia di Adrianopoli del 378, in cui i goti, insieme con truppe provenienti da altre popolazioni, avevano distrutto l’esercito romano e ucciso l’imperatore Valente, e il sacco del 410, opera dei goti di Alarico, in cui per la prima volta dai tempi dell’incendio gallico del 390 a.C. Roma era rimasta per alcuni giorni preda inerme dei nemici.

Nei Paesi di cultura germanica è stato possibile dare delle cosiddette invasioni barbariche anche un giudizio positivo, per ragioni di ordine culturale, morale e razziale, ma nel complesso la caduta di Roma nel 476 fu considerata per secoli una delle più gravi calamità della storia. Fino a quel momento la catastrofe per eccellenza, dopo il diluvio universale, era stata la rovina di Troia. Dalle fiamme della città distrutta dagli achei, tuttavia, erano nati racconti splendidi e immortali, mentre gli eroi troiani e greci si erano sparsi per il Mediterraneo fondando città, dando origine a nuovi popoli, facendo proliferare altri racconti. Da quella morte erano nate subito molte vite. Ed era nata soprattutto Roma.

La caduta dell’impero romano rappresentava invece – era questa l’opinione dominante – la fine della compagine più potente che il mondo avesse mai conosciuto e la scomparsa di una civiltà che varie nazioni occidentali, e le élite sparse nei Paesi coloniali, avrebbero considerato come la loro civiltà-madre. Si ritenne infatti che per molti secoli l’Occidente (espressione che per molti equivaleva tout court al mondo) fosse entrato in un periodo oscuro, caratterizzato dallo spopolamento, dalla miseria, dal declino della cultura letteraria, delle arti e delle scienze. Per questo la caduta dell’impero romano apparve coincidere con la fine del mondo antico. Il fatto che in Oriente l’impero romano fosse sopravvissuto per un altro millennio – fino al 1453, anno in cui i cannoni di Maometto II sbriciolarono le mura di Costantinopoli – era giudicato una circostanza poco rilevante: il mondo bizantino era infatti percepito come un’entità aliena, troppo carica di tinte «orientali», separata dalla lingua, dalla morale, dalle istituzioni. Lo scisma religioso ebbe inoltre un impatto decisivo e duraturo anche sulle prospettive storiografiche.

La caduta di Roma fu dunque vissuta, di generazione in generazione, come un esempio terribile, un monito, un avvertimento. Se Roma era crollata, questa sorte poteva toccare a qualunque altra città, regno o impero. Nel Novecento, le due guerre mondiali, il genocidio, la bomba atomica tolsero quasi tutto il suo pathos alla fine del mondo antico (A. Momigliano). Ora che l’umanità aveva acquisito la possibilità di suicidarsi, a essere incommensurabili non erano più quelle antiche sciagure ma gli orrori contemporanei.

Sul piano propriamente storiografico, la tendenza a ridimensionare il valore periodizzante della caduta dell’impero romano era in atto da qualche tempo. Nel 1937 aveva suscitato grande impressione la pubblicazione di Mahomet et Charlemagne (postumo),un libro in cui lo storico belga H. Pirenne elaborava e svolgeva in modo compiuto alcune sue ricerche precedenti sul passaggio dall’antichità al Medioevo. L’autore negava alla caduta dell’impero romano il valore di una cesura epocale e sosteneva che questa si era verificata soltanto con l’avvento dell’islam.

Malgrado le critiche decisive riguardanti l’uso disinvolto di documenti cronologicamente e geograficamente eterogenei e il frequente ricorso all’asseverazione a svantaggio dell’argomentazione, il libro di Pirenne è rimasto un classico della storiografia contemporanea per la sua capacità di scardinare vecchie abitudini di pensiero e di proporre nuovi grandi scenari. La visione di Pirenne manteneva tuttavia un carattere tradizionale per il fatto che l’intero periodo compreso tra la crisi dell’impero romano e l’avvento dell’islam veniva inteso come un’epoca di decadenza, segnata da un progressivo e grave degrado del quadro economico, sociale e culturale dell’Occidente. Carattere tradizionale aveva anche l’interpretazione delle cosiddette invasioni barbariche: per far coincidere la cesura epocale con l’avvento dell’islam, lo storico belga era infatti costretto a negare che i popoli germanici avessero recato apporti culturali nuovi e significativi all’Europa occidentale: convergendo nella cultura dei romani, quella dei germani si sarebbe immessa nell’onda di un lungo processo di declino.

La più significativa novità nel modo di valutare gli ultimi secoli dell’antichità e i primi del Medioevo era stata avanzata alcuni decenni prima dallo storico dell’arte austriaco A. Riegl, che nella sua opera più famosa, Die spätrömische Kunstindustrie nach den Funden in Österreich-Ungarn (1901), aveva proposto d’interpretare il periodo della storia dell’arte compreso grosso modo tra l’età di Costantino e quella di Carlomagno non già come una fase di degenerazione dell’arte classica, ma come un’epoca dotata di caratteri originali, che anticipavano per taluni aspetti l’arte astratta. Questo periodo veniva designato da Riegl come «tardoantico» o «tardoromano».

La teoria di Riegl – difficile da intendersi per la sua originalità e per i modi espressivi adoperati dallo studioso – rimase a lungo confinata in ambienti ristretti, senza ripercussioni storiografiche degne di rilievo. La più ampia valorizzazione del tardoantico cominciò negli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento grazie all’influsso di storici quali S. Mazzarino, A. Piganiol, H.-I. Marrou. Il rinnovamento degli studi storico-religiosi, ispirati ai metodi delle scienze sociali e della psicologia storica, è stato determinante nella formazione della fase più recente degli studi tardoantichi, aperta dal libro dello storico irlandese P.R.L. Brown, The world of late antiquity (1971). Quest’opera rilanciò e propose infatti alcune idee decisive che accomunano tuttora questa fase storiografica: l’interpretazione del tardoantico come epoca autonoma; la sua valutazione positiva, con un fermo rifiuto dell’idea di decadenza; l’egemonia degli interessi di storia della cultura a svantaggio di quelli storico-istituzionali; la periodizzazione molto ampia, che parte dai secc. compresi tra il 2°-3° d.C. e arriva a includere, secondo gli interpreti più entusiasti, il 10° e l’11° secolo.

Negli ultimi decenni il problema della «fine del mondo antico» si è dunque enormemente complicato. Le possibilità sono varie e dipendono dalle inclinazioni degli storici. Chi intende il tardoantico come un’epoca autonoma potrebbe, applicando una logica rigorosa, affermare che il mondo antico abbia esaurito la sua esistenza con l’inizio della tarda antichità. La fine potrebbe dunque essere datata, secondo le differenti opzioni, con l’epoca di Commodo e dei Severi (fine del 2° sec. d.C.-inizi del 3°) o meglio ancora con l’età di Diocleziano e di Costantino (fine del 3° sec.-inizi del 4°). Chi invece intende il tardoantico come un’epoca di transizione, può collocare la fine del mondo antico in simmetria con l’esaurimento della tarda antichità, ovunque esso si collochi.

Ma la problematica della fine del mondo antico si è ulteriormente arricchita e complicata, negli ultimi decenni, anche a causa della dilatazione degli spazi geografici e antropici presi in considerazione dagli storici e dagli archeologi. Ora gli studi tardoantichi coinvolgono aree che in precedenza erano studiate da pochi specialisti appartati, o non lo erano affatto – il Nord Europa, l’Europa orientale continentale ecc. – mentre si attribuisce un’importanza fondamentale alle vicende del Mediterraneo orientale, della Siria, dell’Iran, dell’Afghanistan, dell’Etiopia il cui studio non apparteneva tradizionalmente, tranne rare eccezioni, alla formazione accademica dell’antichista o del medievista.

In queste condizioni è evidente che un tema classico quale la «fine del mondo antico» trovi crescenti difficoltà a essere inquadrato dentro una prospettiva unificante e dentro una cronologia simmetrica: si prende atto che l’antichità si è esaurita in tempi diversi nelle differenti aree prese in considerazione. Il compito, tuttavia, è reso arduo dall’uso spesso disinvolto delle categorie forti della trasformazione storica, a cominciare da quella di «continuità», applicata impropriamente a fenomeni che rappresentano semplici persistenze. L’approccio morfologico, al contrario, sembra l’unico in grado di periodizzare le grandi cesure epocali. Esso può sempre avvalersi, per quanto riguarda la storia dell’economia e della società, di categorie come «modo di produzione» e «formazione economico-sociale», le quali, adoperate con duttilità ed evitando il teleologismo, appaiono ancora dotate di un sufficiente vigore.

La natura delle nostre fonti suggerisce tuttavia di attribuire un’attenzione particolare alla storia delle città. Se si attribuisce, com’è inevitabile, un’importanza fondamentale ai caratteri della città greco-romana, può dirsi che la fine del mondo antico coincida con la fine della città antica, verificatasi con modalità e tempi diversi nelle varie aree un tempo appartenute all’impero romano. Sembra evidente, per es., che le città delle zone costiere abbiano resistito più a lungo di quelle dell’entroterra e che l’urbanesimo orientale abbia goduto di una maggiore vitalità (W. Liebeschuetz). I fattori cui gli storici dovranno prestare attenzione sono numerosi, con l’avvertenza che le loro interrelazioni sono non meno importanti del loro singolo destino: i principali sono la rottura dell’unità tra città e campagna, con le inevitabili ripercussioni sul prelievo fiscale; il declino delle curie e la trasformazione dei decurioni in notabili le cui decisioni non erano più prese in pubblico ma in privato; l’indebolimento della cittadinanza; il declino delle istituzioni culturali civiche; la cristianizzazione della vita civica e l’imporsi di spazi di aggregazione alternativi a quelli tradizionali; la fine dell’evergetismo, soppiantato dalla carità cristiana; la centralità del ruolo politico dei vescovi. Aspetti quali l’estensione e la qualità degli abitati, il numero degli abitanti, le condizioni di vita delle masse sono attualmente oggetto di forti controversie e, paradossalmente, non sembrano in grado di offrire soluzioni sufficientemente condivise per l’inquadramento della fine del mondo antico.

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