La domesticazione delle piante e l'agricoltura: Vicino Oriente ed Egitto

Il Mondo dell'Archeologia (2002)

La domesticazione delle piante e l'agricoltura: Vicino Oriente ed Egitto

Willem van Zeist
Lucio Milano
Daniele Morandi Bonacossi

Le origini e i primi sviluppi

di Willem van Zeist

I dati archeobotanici suggeriscono che l'agricoltura nel Vicino Oriente ebbe inizio intorno al 9000 a.C. Duemila anni più tardi, approssimativamente nel 7000 a.C., la domesticazione delle piante riguardava già un notevole numero di specie. Possediamo informazioni di discreta attendibilità cir ca la domesticazione delle piante nel Vicino Oriente nelle fasi iniziali del Neolitico. I primi centri agricoli hanno restituito un considerevole numero di resti di piante e l'insieme delle piante da raccolto configurabile attorno al 7000 a.C. consente quindi di avanzare una serie di considerazioni. Tra i tipi di grano (Triticum) è possibile distinguere quelli con seme ricoperto da gluma (vestito) e quelli con seme nudo. Nei primi, come nelle specie frumento monococco (Triticum monococcum, farro piccolo) e frumento dicocco (Triticum dicoccum, farro), il seme è fermamente racchiuso da una gluma rigida e quindi è necessario un trattamento particolare per liberare i chicchi, quale l'essiccazione o la battitura. Nelle specie con chicchi nudi al momento della maturazione i semi possono essere facilmente liberati dalle spighe mediante la sola trebbiatura. I resti carbonizzati del grano di questa specie presentano problemi di identificazione: non è possibile infatti distinguere tra i resti del grano duro (Triticum durum) e quelli del grano tenero o comune (Triticum aestivum). Peraltro, il grano duro trova un ambiente accogliente nel clima mediterraneo, caratterizzato da inverni relativamente miti e piovosi e da estati secche. Al contrario, il grano tenero viene coltivato diffusamente nelle zone più continentali dell'Asia occidentale e nell'Europa temperata centro-orientale. Anche l'orzo (Hordeum) presenta le due forme vestita e nuda, quest'ultima però è attestata nel Vicino Oriente solo in età preistorica. Enigmatico, per certi versi, è il ruolo della segale (Secale cereale): tale cereale è attestato in un solo sito del Neolitico, Can Hasan in Anatolia, mentre gli altri ritrovamenti sono relativi a contesti databili a diverse migliaia di anni più tardi. Per quanto riguarda le Leguminose, sono numer osi i rinvenimenti di semi di veccia amara (Vicia ervilia) misti a sementi di altre piante commestibili. Ciò suggerisce che tale specie venisse consumata nell'antichità: infatti, benché i semi della veccia siano tossici per l'uomo, le sostanze nocive possono essere Non è certo che la cicerchia (Lathyrus sativus) e il cece (Cicer arietinum) facessero parte delle piante coltivate durante le prime fasi neolitiche; i ritrovamenti di tali specie sono, infatti, a tutt'oggi ancora molto scarsi e riferibili con più probabilità a specie selvatiche. Inoltre, se non correttamente preparata, la cicerchia può provocare nell'uomo uno stato di intossicazione, detto "neurolatirismo", talvolta accompagnato anche da gravi disturbi di tipo neurologico. Infine, non va sottovalutato il contributo offerto dalle piante selvatiche: diversi siti neolitici hanno fornito dati comprovanti la raccolta sia dei frutti del pistacchio selvatico (Pistacia atlantica) sia di quelli del mandorlo selvatico (Prunus amygdalus), entrambi ricchi di grassi. Infatti, la maggior parte delle specie da raccolto ha un "antenato" selvatico dal quale derivano, mediante manipolazioni realizzate in momenti successivi, le forme domesticate. Ogni processo di domesticazione comporta tuttavia mutamenti fisiologici e morfologici nelle specie coltivate: ad esempio, nelle piante coltivate per i semi si riscontra spesso la perdita del sistema di dispersione dei semi stessi. Nel caso di cereali come l'orzo e il grano, la spiga è fornita di un asse centrale, o rachide, formato da elementi detti "internodi". Nel grano alla sommità di ciascun internodo si trova una spighetta contenente uno o più chicchi. Nei cereali selvatici la rachide è friabile; la spiga, giunta a maturità, si disfa a partire dalla sommità e tale proprietà garantisce una buona dispersione dei semi. Tra le specie selvatiche, le piante con rachide resistente sono rare e per lo più riconducibili a mutazioni genetiche spontanee. In queste piante la spiga matura non si scompone naturalmente nelle spighette che la compongono; la specie mutante con rachide non friabile risulta quindi essere poco adatta alla sopravvivenza, in quanto le spighette non vengono disperse con sufficiente efficacia. In un contesto naturale selvatico la specie mutante sarebbe certo destinata a una rapida estinzione; peraltro, alla sua comparsa nei campi dei primi agricoltori, questa specie riuscì a sopravvivere, in quanto fu l'uomo a provvedere alla diffusione dei semi. Il risultato di tale selezione, dapprima inconsapevole e in seguito mirata, fu che le forme di cereali senza dispersione spontanea di semi divennero specie coltivate, vere piante domesticate incapaci di sopravvivere senza l'ausilio dell'uomo. Nei legumi selvatici i baccelli si aprono quando giungono a maturazione e i semi vengono espulsi; nelle specie coltivate (piselli, lenticchie, veccia) i baccelli restano invece chiusi. Similmente, la coltivazione del lino comportò l'introduzione di piante con capsule non deiscenti, dalle quali i semi non possono essere rilasciati spontaneamente. Il lasso di tempo necessario alla trasformazione dallo stato selvatico alle forme domesticate delle piante da raccolto è stato oggetto di ampio dibattito. Ci si è chiesti, ad esempio, quante centinaia o migliaia di anni siano dovute trascorrere prima di ottenere un sensibile incremento nelle piante di cereali domesticati esenti da dispersione spontanea del seme. I dati sperimentali riguardanti le forme selvatiche di grano e di orzo indicano che adottando particolari tecniche, quali lo sradicamento o la falciatura a piena o parziale maturità e la turnazione della coltivazione in aree vergini (cioè senza usare lo stesso campo nel corso dell'anno successivo), la specie da raccolto poteva essere portata a completa domesticazione nell'arco di duecento anni, se non anche in minor tempo. Tuttavia, altre tecniche di coltivazione possono al contrario avere comportato un forte ritardo, se non addirittura impedito la domesticazione. I cereali selvatici potrebbero essere stati oggetto di coltivazione senza che questo risulti dalle evidenze archeologiche riguardanti le sementi; infatti, soltanto quando vi siano rinvenimenti di resti vegetali aventi le forme delle specie domestiche è possibile avere la certezza della loro coltivazione. Riguardo alle cause che hanno portato all'introduzione dell'agricoltura nel Vicino Oriente, per molto tempo è prevalsa l'opinione secondo la quale l'aumento dell'aridità successivo all'ultima era glaciale avesse avuto come conseguenza una drastica riduzione delle risorse alimentari e che tali condizioni avessero quindi favorito il passaggio alla domesticazione di piante e animali (la cd. "rivoluzione neolitica"). Tuttavia, gli studi palinologici hanno ragionevolmente dimostrato che tra 11.000 e 10.000 anni fa in gran parte del Vicino Oriente il clima non divenne più secco, ma che al contrario dopo l'ultima era glaciale esso divenne più umido. È stata anche avanzata l'ipotesi che la spinta alla produzione del cibo abbia avuto origine dallo stile di vita sedentario adottato nel Paleolitico tardo. Finché le comunità umane mantennero dimensioni ridotte, le risorse alimentari nelle immediate vicinanze dell'insediamento furono infatti sufficienti a sostenere la popolazione; con l'aumentare degli abitanti questo equilibrio si interruppe, dando luogo a forme di produzione volontaria di cibo a fianco dello sfruttamento delle risorse naturali. Ogni spiegazione delle cause e dei modi secondo cui ebbe origine la produzione del cibo deve fare comunque riferimento al principio secondo il quale l'uomo raggiunse determinati livelli di sviluppo tecnico e culturale nel momento in cui maturarono le condizioni perché ciò avvenisse. Un punto di vista ancora più avanzato è quello espresso da D.R. Harris (1989), il quale considera l'origine dell'agricoltura come lo sbocco naturale di un processo evolutivo basato sulla sempre maggiore interdipendenza tra l'uomo e le specie vegetali. Nelle prime fasi del Neolitico e nel periodo immediatamente successivo le specie da raccolto maggiormente diffuse nel Vicino Oriente furono: il grano monococco e dicocco, il grano duro e quello tenero da pane, l'orzo distico e quello nudo, il pisello, la lenticchia, la veccia, il cece, la cicerchia e il lino. Contrariamente a quanto osservabile per le regioni del Mediterraneo occidentale, la fava (Vicia faba) è invece scarsamente attestata, così come la segale domestica, documentata al momento, per il periodo compreso tra il 7000 e il 500 a.C., da un solo ritrovamento. Le specie non appartenenti all'insieme delle piante da raccolto tipiche del Vicino Oriente comparvero invece in un momento successivo. La prima attestazione certa della comparsa del miglio (Panicum miliaceum) è rappresentata dai ritrovamenti provenienti dai livelli databili al 1900-1550 a.C. del sito di Haftavan, nell'Iran nord-occidentale. La scarsità dei resti, tuttavia, induce a credere che il miglio non rivestisse un ruolo primario nell'agricoltura del Vicino Oriente. Le fonti scritte greche e romane riportano inoltre notizie circa la coltivazione del riso in quest'area, ma l'unico ritrovamento di tale pianta noto finora è quello di Susa, nell'Iran sud-occidentale, databile al I sec. d.C. Controverso è il ruolo del sesamo (Sesamum indicum), pianta di origine indiana coltivata per i suoi semi oleosi. I testi sumerici e accadici del III millennio a.C. fanno menzione di una pianta oleosa che, su basi etimologiche, può essere identificata col sesamo; tuttavia, le prime tracce della sua coltivazione risalgono, per il Vicino Oriente, alla prima metà del I millennio a.C. Scarse e riferibili al II-I millennio a.C. sono le indicazioni circa la coltivazione di erbe e piante aromatiche: sono attestati il cumino (Cuminum cyminum), il coriandolo (Coriandrum sativum), il crescione (Lepidium sativum), la trigonella (Trigonella foenum-graecum), il basilico (Ocimum basilicum), la nigella o cumino nero (Nigella sativa) e l'aglio (Allium sativum). Infine, il ritrovamento di corolle carbonizzate di cartamo (Cartamus tinctorius) in Siria settentrionale, in un contesto databile alla metà del III millennio a.C., indica che tale pianta venne coltivata per ottenerne coloranti: dai suoi fiori si estrae infatti una tintura di colore rosso. Nella maggior parte del territorio della Penisola Arabica l'estrema aridità del suolo ha impedito ogni forma di coltivazione. Non sorprende dunque che qui le testimonianze relative all'agricoltura siano confinate alle alture dello Yemen, caratterizzate da precipitazioni relativamente abbondanti e dalla presenza di oasi. A tutt'oggi, le tracce più antiche pertinenti alla coltivazione sono rappresentate per la maggior parte dalle impronte sulla ceramica e si datano a partire dal 2500 a.C. Le specie coltivate nell'età del Bronzo comprendevano l'orzo (Hordeum distichum, H. vulgare), il grano dicocco, il grano duro e quello comune, il miglio, la saggina (Sorghum bicolor). Le varie specie hanno origini diverse: l'orzo e il grano sono propri del Vicino Oriente, il miglio proviene dall'Asia Centrale, la saggina dall'Africa orientale. Accanto alle specie a ciclo annuale venivano coltivate anche la palma da datteri, l'anguria (Citrullus lanatus), introdotta nel I millennio a.C., e probabilmente la palma dum (Hyphaene thebaica). Il frutto della spinacristi (Zizyphus spina-christi) veniva raccolto allo stato selvatico. Per quanto riguarda l'Egitto il clima arido ha impedito qualsiasi forma di agricoltura nella maggior parte del suo territorio. La coltivazione delle piante era pertanto limitata a quelle regioni nelle quali era possibile irrigare il terreno, quali la valle e il Delta del Nilo e le oasi, tra cui quella del Fayyum è di gran lunga la più vasta e la più importante dal punto di vista economico. Benché le ricerche di paleoecologia suggeriscano l'esistenza di due periodi di minore aridità tra il 5830 e il 4300 a.C. circa, anche durante le prime fasi di sviluppo dell'agricoltura la coltivazione del terreno non dovette essere praticabile senza qualche forma di irrigazione. La maggior parte dei dati relativi alla coltivazione delle piante nell'antico Egitto proviene dai vegetali essiccati o mummificati, nonché dalle fonti letterarie e iconografiche; per quanto attiene in particolare ai siti predinastici (anteriori al 3200 a.C.), di rilevante importanza sono anche i resti carbonizzati. La teoria che sosteneva l'esistenza di forme di agricoltura nel Paleolitico tardo (17.000-16.000 a.C.) a Wadi Kubbaniya, nell'Alto Egitto, è oggi destituita di fondamento. Infatti, l'agricoltura e le prime forme di coltivazione ad essa associate furono introdotte dal Levante e risalgono al VI millennio a.C. Le principali piante da raccolto dell'Egitto predinastico comprendono il grano dicocco e l'orzo del tipo a due e a sei file. Altre fonti di carboidrati erano i tuberi del cipero (Cyperus esculentus), coltivati in Egitto a partire dal V millennio a.C. La lenticchia (Lens culinaris), il pisello (Pisum sativum), la cicerchia e il lino (Linum usitatissimum) sono attestati dai dati archeobotanici; vi sono anche prove della coltivazione della vite, del fico e del melone (Cucumis melo) in tarda età predinastica. Alcuni modelli in argilla rinvenuti nelle necropoli predinastiche sono stati interpretati come riproduzioni di bulbi d'aglio. Il grano dicocco e l'orzo a sei file sono gli unici cereali dell'Egitto dinastico. Il Cyperus esculentus continuò ad essere un'importante risorsa alimentare e la coltivazione della lenticchia dovette essere intensiva. Tra le Leguminose figuravano la cicerchia e il cece. Non vi sono prove certe della presenza dei piselli in età faraonica, mentre vi è ancora incertezza sull'importanza della fava (Vicia faba). La coltivazione del lino risulta evidente dai resti dei tessuti in tale fibra, dalle pitture raffiguranti la sua raccolta e dalla grande quantità di rinvenimenti di capsule di semi risalenti almeno al Medio Regno. La coltivazione del miglio, di origine africana, non venne introdotta in Egitto prima dell'età faraonica: infatti i depositi di Qasr Ibrim, nella zona più meridionale dell'Egitto (Nubia egiziana), risalenti al periodo Napata, hanno restituito solo saggina selvatica, mentre quella coltivata non è attestata se non in contesti successivi al 100 d.C. La gran parte delle piante da frutto dell'Egitto faraonico è di origine africana. Un frutto molto apprezzato già dall'epoca dinastica era il sicomoro (Ficus sycomorus); la coltivazione del fico è documentata particolarmente dalle fonti letterarie, dai rilievi e dalle pitture tombali, mentre scarsi sono i rinvenimenti archeologici. Accanto alla palma da datteri, notevole importanza quale pianta da frutto aveva la palma dum, tipica dell'Alto Egitto. Una terza specie di palma, la argun (Medemia argun), doveva avere importanza secondaria, almeno a giudicare dal numero dei ritrovamenti; buona parte dei suoi frutti potrebbe essere stata importata dalla Nubia. Ampiamente attestate già dalla prima epoca dinastica sono la Balanites aegyptiaca e la Mimusops schimperi: la prima è originaria dell'Egitto, mentre la seconda deve essere stata introdotta dall'Etiopia. La coltivazione della vite risulta limitata al Delta del Nilo, in quanto la pianta non sopporta le torride estati del Medio e dell'Alto Egitto; comunque, il ruolo del vino nella società egiziana è ampiamente documentato. Al gruppo di piante da frutto si aggiunsero più tardi, alla metà del II millennio a.C., il prugno egiziano (Cordia myxa), forse di origine indiana, il melograno e l'ulivo. Quest'ultimo, tuttavia, non ricoprì mai un ruolo fondamentale in Egitto, dove l'olio veniva per lo più importato; è da menzionare ancora, tra la frutta raccolta allo stato selvatico, la spinacristi. Gli ortaggi furono un elemento di notevole importanza nell'agricoltura egiziana: vi sono abbondanti testimonianze della coltivazione di un particolare tipo di lattuga (Lactuca sativa), che poteva raggiungere anche il metro di altezza, della cipolla (Allium cepa) e dell'aglio. Si coltivavano anche diverse specie di meloni dalla caratteristica forma allungata, tra cui la varietà chate, e l'anguria, presente almeno dal II millennio a.C. A partire dal 1400 a.C. sono attestate erbe aromatiche e da cucina, quali il coriandolo, l'aneto (Anethum graveolens), il cumino e il sedano (Apium graveolens); quest'ultimo era frequentemente usato nelle ghirlande che adornavano le mummie. Alla XII Dinastia (inizi del II millennio a.C.) si data l'introduzione dell'uso del cartamo quale pianta da tintura.

Bibliografia

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I tipi di colture e i sistemi di produzione

di Lucio Milano

Lo sviluppo dell'agricoltura ebbe nel Vicino Oriente e in Egitto caratteri e ritmi assai diversificati, in rapporto alle condizioni ambientali e alla realtà socio-economica tipiche di ciascuna regione. La disponibilità e il controllo delle risorse idriche, in particolare, costituirono per le prime comunità di agricoltori il principale problema con cui misurarsi. Sia in Mesopotamia che in Egitto i grandi fiumi (il Tigri e l'Eufrate nel primo caso, il Nilo nel secondo) rappresentavano un enorme potenziale per l'agricoltura, difficile però da utilizzare finché mancò un'organizzazione politica e sociale complessa, in grado di provvedere alle necessarie opere infrastrutturali di canalizzazione e di controllo del flusso delle acque. Proprio per questo motivo, le più antiche esperienze agricole da parte di comunità neolitiche non avvennero nelle valli di questi fiumi, bensì in regioni pedemontane con sufficiente tasso di piovosità, eventualmente attraversate da piccoli corsi d'acqua, tali da assicurare risorse idriche aggiuntive. La diffusione dell'agricoltura nelle grandi valli fluviali fu dunque una conquista relativamente recente, che si realizzò a molti millenni di distanza dall'avvio del processo di domesticazione delle principali specie cerealicole. Le testimonianze archeologiche, integrate più tardi da fonti scritte, pongono verso la metà del IV millennio a.C. il grande salto, soprattutto in termini tecnologici e quantitativi, compiuto dall'agricoltura vicino-orientale, in diretta interdipendenza con la formazione di società di tipo urbano, caratterizzate da centralizzazione amministrativa, stratificazione sociale e rigida organizzazione del lavoro. Nella Mesopotamia meridionale, il cosiddetto "paese di Sumer", queste condizioni si realizzarono durante il periodo Uruk, come risultato di un processo piuttosto accelerato, segnato da improvvisi mutamenti climatici e da trasformazioni nella tipologia e nella distribuzione degli insediamenti e nelle modalità di sfruttamento del suolo agricolo. Intorno al 3500 a.C., secondo studi recenti, si sarebbe infatti prodotta una riduzione delle precipitazioni, con conseguente impoverimento della portata del Tigri e dell'Eufrate e notevole abbassamento del livello del Golfo Persico (3 m ca.); l'emersione di terreni alluvionali fertili e ricchi d'acqua avrebbe portato a un'intensificazione degli insediamenti e della produzione, insieme alla necessità di aggregazione politica tra le piccole comunità urbane, funzionale a una loro coesistenza sul territorio. Il progredire dell'aridità avrebbe poi determinato, col tempo, un addensamento della popolazione nei maggiori centri urbani e creato le condizioni per incrementare la produzione agricola. Solo in questa fase (Tardo Uruk, 3200 a.C. ca.) sarebbe sorta per la prima volta l'esigenza di opere permanenti di canalizzazione, per l'inaridimento progressivo del basso alluvio mesopotamico e per la crescita demografica delle città meridionali, prima tra tutte per importanza la stessa Uruk. Questo tipo di interpretazione, integrata da dati paleoclimatici e archeologici, può spiegare perché alcuni grandi risultati, in termini di produttività agricola, furono conseguiti in uno stadio molto precoce dello sviluppo urbano dalle città del Sud mesopotamico e non in altre parti del Vicino Oriente. In altre aree (come nella Mesopotamia centrale), pur caratterizzate da agricoltura irrigua, la situazione ambientale non subì infatti cambiamenti tanto repentini, né ci fu la necessità di adattarsi a mutamenti demografici e sociali così macroscopici.

L'agricoltura "secca" e l'agricoltura irrigua

La distinzione tra agricoltura "secca" e agricoltura irrigua è di fondamentale importanza nel valutare le vicende dell'agricoltura vicino-orientale, poiché i due sistemi implicano livelli di produttività nettamente sbilanciati, fino a cinque, sei volte superiori nel secondo caso rispetto al primo. L'agricoltura "secca", basata unicamente sulla pioggia, poteva essere praticata solo in quelle zone in cui il tasso di precipitazioni era superiore a 250 mm annui (o, più realisticamente, a 300 mm annui, calibrando la media su un periodo di cinque anni), vale a dire in Siria-Palestina, in Anatolia, in Alta Mesopotamia e lungo le pendici dei monti Zagros. In queste regioni la semina dei cereali avveniva tra novembre e dicembre, il raccolto tra aprile e maggio, seguiti rispettivamente, a un mese di distanza, dalla semina e dal raccolto dei legumi. Nel caso dell'orzo, che era il cereale più comunemente coltivato perché più resistente, il rapporto tra semente e prodotto era in media di 1:5, ma poteva essere molto al di sotto di questa media in terreni poco fertili e distanti da corsi d'acqua, o in annate di scarsa piovosità. Questa situazione è ben documentata, ad esempio, dagli archivi di Ugarit (presso Laodicea, sulla costa siriana) e da quelli di Nuzi (presso Kirkuk, in Iraq), due insediamenti del Tardo Bronzo situati in zone ecologicamente molto diverse l'una dall'altra, ma con analoghi regimi di piovosità. La bassa produttività, ancora più ridotta nel caso di altre specie di cereali, come il farro (Triticum dicoccum) e il frumento monococco (Triticum monococcum), poteva essere bilanciata, dove possibile, da una maggiore estensione degli arativi, oppure dall'incremento di colture specializzate (vite, ulivo) economicamente e commercialmente remunerative, ma rendeva nel complesso precaria la sopravvivenza delle comunità agricole, specie nell'eventualità di proprietà fondiarie molto frazionate o periferiche. Soprattutto in alcune zone, ad esempio in Siria e in Palestina, la debolezza delle strutture agrarie sfociò spesso in profonde crisi sociali, provocando l'abbandono della terra da parte dei coltivatori e la distruzione della piccola proprietà contadina. Data la stretta interrelazione, in quelle stesse zone, tra la popolazione sedentaria e le tribù di pastori nomadi, lo spopolamento delle campagne favorì in molte occasioni l'espansione del nomadismo e il regresso delle comunità urbane, di cui l'agricoltura era il principale (anche se non necessariamente l'unico) supporto. A differenza delle regioni ad agricoltura "secca", quelle attraversate dai grandi fiumi si trovarono ad affrontare problemi di tutt'altro tipo, che le misero tuttavia in grado di sviluppare complesse strutture agrarie e di porre la produzione primaria al centro della propria economia e della propria organizzazione sociale. Il controllo delle risorse idriche divenne in Mesopotamia, con la fine del IV millennio a.C., il necessario presupposto per la sopravvivenza e per la crescita della civiltà urbana. Trovandosi tutto l'alluvio mesopotamico al di sotto dell'isoieta dei 250 mm annui, l'unico tipo di agricoltura praticabile era infatti quella irrigua. Poiché tuttavia le piene del Tigri e dell'Eufrate cadevano in primavera, poco prima del tempo del raccolto, questo rese necessaria l'elaborazione di tecniche di irrigazione artificiale, cioè la costruzione di una vasta rete di canali, sufficientemente lunghi e diramati per frenare l'impeto della piena e per distribuire in modo il più capillare possibile acqua sul territorio coltivabile. Le vicende della canalizzazione sono strettamente interrelate a quelle dell'urbanizzazione, nel senso che la rete dei canali si adattò all'evoluzione dei modelli insediativi, articolandosi o restringendosi a seconda della dispersione o concentrazione degli insediamenti, che conobbe fasi alterne nella storia della Mesopotamia. Grazie alla presenza diffusa delle opere di canalizzazione (canali, dighe, chiuse, ecc.), il ciclo agrario poteva svolgersi secondo ritmi naturali, al riparo dal pericolo delle inondazioni primaverili: la semina in ottobre (o più raramente in novembre, per sfruttare le precipitazioni autunnali) e il raccolto in aprile per l'orzo e in maggio-giugno per il farro, il frumento e il lino. Anche in Egitto (che condivideva, dal punto di vista climatico, le stesse caratteristiche semiaride della piana alluvionale mesopotamica) l'agricoltura era basata sull'irrigazione, non però di tipo artificiale, ma naturale. La cadenza delle piene del Nilo e la situazione geomorfologica del territorio si prestavano infatti a un'utilizzazione diretta delle acque di straripamento per fini agricoli. Grandi bacini alluvionali erano formati dal progressivo deposito di limo, inversamente proporzionale alla distanza dagli argini del fiume. Nell'ampia area del Delta lo straripamento dei diversi bracci del Nilo moltiplicava l'effetto di allagamento della piana. L'irrigazione naturale non escludeva ovviamente la necessità di interventi umani, che si limitavano però alla sistemazione degli argini della canalizzazione, per favorire il ruscellamento delle acque, che impediva, tra l'altro, il deposito di sali in superficie. Nell'Alto Egitto, dove la piena raggiungeva il suo culmine all'inizio di settembre e le acque si ritraevano in ottobre, i lavori di preparazione del terreno e poi la semina potevano protrarsi per circa un mese; ma i tempi erano notevolmente più accorciati nella parte settentrionale del paese, dove la piena arrivava con quasi un mese di ritardo. L'aratura doveva essere comunque eseguita tempestivamente, prima che il terreno, prosciugandosi, si indurisse troppo. Le operazioni del raccolto dovevano essere concluse con la fine di maggio, per evitare che i venti estivi danneggiassero le spighe. A differenza della Mesopotamia, dove gli effetti della salinizzazione del suolo rendevano l'orzo più produttivo di altri cereali, l'Egitto dava la preferenza alla coltivazione del farro, seguito per importanza dall'orzo e dal frumento. Grande rilevanza aveva poi la coltivazione del lino, per scopi sia alimentari sia tessili.

La tecnologia e le pratiche agricole

I testi sumerici danno ampiamente conto, fin dal Protodinastico, del modo in cui era organizzata la produzione agricola in Mesopotamia: la dimensione dei campi, la produttività dei raccolti, le spese di mantenimento della manodopera e degli animali da lavoro (in termini di razioni alimentari e foraggio), il rapporto tra terre coltivate e terre incolte (a maggese), l'attività di mantenimento dei canali, ecc. Questo patrimonio di esperienze e di conoscenze agronomiche, specie nel campo della cerealicoltura, fu persino sistematizzato in epoca più tarda (agli inizi del II millennio a.C.) in un testo scolastico, noto come Georgiche sumeriche: una sorta di "manuale del buon agricoltore", un piccolo trattato con intenti didascalici, formulato in seconda persona, nel quale sono descritte dettagliatamente e in sequenza le operazioni da compiersi nei campi. Si comincia dall'estate, quando avevano luogo i lavori preparatori per la semina sui terreni lasciati a maggese nell'anno precedente. La rotazione biennale delle colture era infatti un principio rigidamente applicato in Mesopotamia, non solo per consentire la rigenerazione organica dei suoli, ma anche per limitare gli effetti negativi derivanti dall'accumulo di sali in superficie, determinato dal sistema di irrigazione in uso: una volta dirottata nei solchi, l'acqua vi ristagnava a lungo e, date le alte temperature estive, provocava l'ascesa per capillarità degli abbondanti nitriti e nitrati contenuti nella falda sotterranea, riducendo la fertilità del terreno. Dopo un anno di riposo la terra andava quindi ammorbidita e "lavata" attraverso un buon sistema di drenaggio, in vista della semina. Per quest'ultima, appunto, veniva utilizzato un aratro seminatore, di cui si hanno numerosi esempi nella glittica protodinastica e il cui assemblaggio viene accuratamente descritto nelle Georgiche, in rapporto alla manutenzione delle sue parti. La ricerca di una standardizzazione dei fattori della produzione agricola, non sappiamo fino a che punto realizzata, fu in effetti un'esigenza particolarmente avvertita dalle grandi organizzazioni templari e palatine sumero-accadiche, che possedevano ampie estensioni fondiarie e controllavano, in forme di assoluta dipendenza economica, migliaia e migliaia di lavoratori. I testi di Lagash e di Ur in epoca protodinastica, a cui più tardi (in epoca accadica e di Ur III) si aggiungono quelli di Umma e di Nippur, documentano la previsione della semente, del foraggio e del raccolto sulla base del numero dei solchi per unità di superficie e la quantità di giornate/uomo necessarie a conseguire una certa produzione (sia di tipo primario che secondario). La norma riportata nel testo delle Georgiche stabiliva che la distanza tra i solchi fosse di 75 cm: distanza che, a seconda dei luoghi e delle epoche, troviamo incrementata o ridotta per ragioni evidentemente connesse alle condizioni della terra o alla disponibilità di acqua. La qualità del suolo e la sua "vocazione" agricola costituivano un problema avvertito non solo in termini pratici, ma anche (almeno a livello amministrativo) in termini di classificazione agronomica. Nel settore meridionale della Mesopotamia, verso la fine del III millennio a.C., le terre coltivabili venivano ad esempio censite come "buone", "medie", "povere", "collinose", "saline", ecc., specificando per ogni parcella la superficie destinata a colture (orti, arativi), ovvero a maggese. È significativo che questo genere di classificazione si sia molto semplificato nel tempo, una volta finito il rigido controllo burocratico tipico dell'età neosumerica. In Egitto si assiste a una tendenza inversa: fino al periodo del Medio Regno la distinzione era solamente tra due qualità di suoli, cioè tra terra "alta" (i depositi alluvionali più vicini alle sponde del Nilo), con migliore drenaggio, adatta più alle colture arboricole e orticole che alla cerealicoltura, e terra "bassa", a maggiore rischio di impaludamento, utilizzata per gli arativi; a partire dal Nuovo Regno si adottò invece un repertorio di qualificazioni più articolato. Una volta avvenuta la semina, in Mesopotamia i mesi invernali erano dedicati a successive irrigazioni, allo scopo di allontanare dalla zona radicale della pianta un eccesso di sali che ne avrebbero pregiudicato la crescita: queste irrigazioni dovevano essere praticate, stando ai suggerimenti delle Georgiche, con cadenza mensile tra gennaio e marzo. Le operazioni del raccolto iniziavano a fine aprile e proseguivano in maggio: si concentrava in questo periodo dell'anno una straordinaria mole di lavoro, che andava compiuto reclutando tutta la manodopera necessaria. Ciò costituiva ovviamente un serio problema da parte di quelle grandi istituzioni, templari o statali, che dovevano gestire vastissime proprietà fondiarie con una manodopera impegnata, durante i mesi di minore lavoro agricolo, in una serie di attività secondarie o di trasformazione. Per questo venivano reclutati temporaneamente lavoratori liberi o semiliberi, vincolati dall'obbligo di corvées, oppure dalla necessità di ripagare debiti contratti in precedenza. Il tempo del raccolto costituiva comunque una sorta di spartiacque per quanto riguardava il rapporto tra creditori e debitori, perché i debiti (spesso consistenti, o comunque computati, in quantità di cereali) venivano più facilmente contratti subito prima del raccolto e saldati (o richiesti dal creditore) subito dopo di esso. Sulle operazioni tecniche successive al raccolto, la trebbiatura, la spulatura e infine l'immagazzinamento dei cereali, le informazioni dei testi sono assai più sporadiche e imprecise, perché quelle operazioni non implicavano i calcoli previsionali di cui le amministrazioni avevano bisogno per distribuire la semente ai propri dipendenti e per valutare le rese. Ben più espliciti sono invece i documenti iconografici, che sono però disponibili solo per l'Egitto faraonico. In Egitto, dove la semina veniva eseguita non con l'aratro seminatore, ma per spargimento o per impianto manuale del seme nel terreno, si utilizzavano i buoi per la trebbiatura nell'aia e vari attrezzi, setacci e ventilabri, per separare il grano dalla paglia. In Mesopotamia, per trebbiare, si preferiva invece l'uso di slitte dentate, trainate da animali. L'immagazzinamento, infine, era operazione delicata, seguita, come sappiamo da raffigurazioni, resoconti o controversie (scritti e documentati negli archivi) dall'occhio vigile di amministratori e di scribi chiamati a sovrintendere al deposito dei cereali e al controllo dei quantitativi. L'identificazione, sul piano archeologico, delle strutture di immagazzinamento (quando non si tratti di silos ben conservati) è spesso complessa: ma appare sempre più chiaro, almeno per la Siria e per la Mesopotamia, che queste erano sia presenti all'interno delle città sia decentrate sul territorio, secondo un calcolo non solo di funzionalità economica, ma anche politico, per garantire facilità di approvvigionamento e controllo amministrativo.

La cerealicoltura e l'arboricoltura

Il rapporto tra cerealicoltura, orticoltura e colture arboree era ben diverso nelle regioni ad agricoltura "secca" rispetto a quelle irrigue della zona semiarida. In Siria-Palestina e in gran parte dell'Anatolia la vite e l'ulivo avevano notevole importanza economica e il loro ruolo di colture specializzate, dopo una lunga fase di domesticazione, risulta ben chiaro dalle più antiche fonti scritte. A Ebla nella piana di Aleppo, ad esempio, la viticoltura era praticata fin dalla metà del III millennio a.C. e così pure nei regni vicini. Pur senza avere la circolazione documentata in epoca posteriore (dal II millennio a.C. in poi), il vino aveva dunque largo impiego già in una fase così remota della storia del Vicino Oriente. Analoghe considerazioni valgono per l'olio, il cui valore alimentare e religioso è pienamente attestato dagli stessi testi di Ebla e costituirà poi una costante della cultura siro-palestinese. Sappiamo che uliveti e vigneti venivano coltivati in filari, in terreni adatti e separati dagli arativi, ed erano un elemento tipico del paesaggio siro-palestinese. Nei contratti di assegnazioni fondiarie di Alalakh e di Ugarit l'appezzamento tipo era infatti costituito da arativi, da orti e da vigne; in particolare a Ugarit (XIV-XIII sec. a.C.), le fattorie del palazzo avevano di solito al loro interno strutture fisse per la pigiatura dell'uva e la pressatura delle olive. Diversa era invece la situazione nelle valli fluviali, in Mesopotamia e in Egitto, dove gli arativi avevano un ruolo economico nettamente prevalente, mentre gli altri tipi di colture (orticole e arboree) avevano bisogno di suoli ben drenati, oltre che ricchi d'acqua. Per questo le zone meglio sfruttabili per tali colture accessorie erano quelle più elevate (in Egitto quelle al di sopra del livello di piena), in prossimità degli argini naturali dei fiumi o di quelli artificiali dei canali. Nella zona del Delta del Nilo, ad esempio, la viticoltura poté svilupparsi estensivamente durante il Nuovo Regno, proprio in connessione con lo sviluppo della canalizzazione e quindi con la maggiore disponibilità di terreni relativamente elevati e con buon drenaggio. Analogamente, in Mesopotamia, la coltivazione della palma da datteri (che conobbe enorme fortuna nella regione più meridionale, soprattutto nel I millennio a.C.) era praticata nella fascia di deposito alluvionale più vicina al corso del fiume e quindi rialzata e degradante, dove la falda d'acqua era povera di sali e facilmente raggiungibile con i pozzi. Orti e frutteti, che avevano bisogno di molta acqua e in misura costante, sfruttavano spesso l'ombra dei palmizi che riduceva l'evaporazione. Il paesaggio agricolo nelle valli alluvionali era dominato dagli arativi, che assumevano in Egitto l'aspetto di campi asimmetrici e di ridotte dimensioni, per sfruttare al meglio le linee di drenaggio, e in Mesopotamia la forma tipica di campi lunghi e stretti, con il lato corto adiacente al canale di irrigazione, a cui poteva accedere in questo modo un maggior numero di proprietari. La lunghezza permetteva tra l'altro di facilitare ed economizzare il lavoro di aratura, riducendo i giri dell'aratro e le connesse operazioni di riaggiogamento degli animali da tiro. La produttività dei cereali era differenziata a seconda delle colture: maggiore per l'orzo, che per essere il cereale più resistente alla salinità dei suoli era preferibilmente coltivato in Mesopotamia, e minore per il frumento. Gli effetti della salinizzazione rappresentarono durante tutta la storia del Vicino Oriente una seria minaccia per i rendimenti agricoli ed è stato ipotizzato che il calo della produzione di frumento (monococco e dicocco) verso la fine del III millennio a.C. in Mesopotamia sia stato causato proprio da questo fenomeno, amplificato da un uso eccessivo e non razionale dell'irrigazione. I dati sulla produttività sono comunque più abbondanti per le zone ad agricoltura irrigua che per quelle ad agricoltura "secca". In queste ultime il rapporto tra semente e raccolto sembra essere stato prevalentemente di 1:5, con possibilità di scendere bene al di sotto in annate sfavorevoli. In Egitto il rapporto prevalente per il farro era di 1:10, mentre in Mesopotamia l'orzo poteva rendere da 12 a 20 volte la semente, e talvolta anche di più, il che significava rendimenti altissimi, ineguagliati in Europa fino all'età moderna. Questi livelli di produttività potevano comunque essere messi facilmente in pericolo. Per le campagne egiziane il rischio maggiore era quello di piene insufficienti del Nilo, che, oltre a ridurre la produttività, diminuivano la superficie coltivabile, portando in breve tempo il paese alla carestia; per quelle mesopotamiche i problemi riguardavano piuttosto il degrado della rete dei canali, che poteva essere causato sia da crisi strutturali (mancanza di manodopera, debolezza delle strutture statali), sia da crisi politiche (guerre e razzie).

Il lavoro e i regimi fondiari

Tempi e regimi di lavoro non sono facili da valutare, ma possiamo averne un'idea sulla base dei calcoli di previsione fatti dagli scribi delle grandi istituzioni centralizzate. Durante il Nuovo Regno egiziano l'amministrazione faraonica considerava che la quota di lavoro per un contadino fosse di 20 arure (5,5 ha), che per la sola aratura e semina corrispondevano a circa 40 giornate di lavoro. Il testo delle Georgiche sumeriche prevedeva d'altra parte una quantità di lavoro molto simile, perché stabiliva che il lavoro di un contadino mesopotamico fosse equivalente all'aratura di 18 iku di superficie, cioè all'incirca 6,5 ha. La documentazione sul regime delle terre in Mesopotamia è abbondantissima, ma del tutto disomogenea, sia per periodi sia per aree geografiche, e si presta con difficoltà a una valutazione diacronica complessiva delle vicende agrarie. Si è a lungo ritenuto, ad esempio, che in età protodinastica la proprietà della terra fosse interamente nelle mani del settore templare (coincidente con l'autorità dello stato) e gestita in proprio o in regime di concessione. Si trattava tuttavia di una deduzione errata, ingenerata dal fatto che il principale archivio disponibile per quel periodo, proveniente dalla cittàstato di Lagash (2400 a.C. ca.), era l'archivio della principale divinità cittadina. Una serie di documenti dimostra peraltro che nella stessa Lagash una parte dei terreni era posseduta da privati. La difficoltà di valutare la consistenza del settore privato della proprietà fondiaria deriva comunque dal fatto che esso emerge solo in occasione di compravendite di campi, che sono relativamente rare, almeno negli archivi statali delle città della Mesopotamia meridionale. L'alienazione della terra, d'altra parte, era in linea di principio una scelta estrema e quindi normalmente infrequente, che il venditore poteva decidere soltanto se spinto da necessità, dal momento che il ricavo era comunque basso (da una a tre volte il prezzo del raccolto). In tutti gli stati a struttura palatina del Vicino Oriente il regime fondiario era influenzato dal tipo di organizzazione sociale. Così, la proprietà privata della terra era prevalente in Siria-Palestina, dove le comunità di villaggio rappresentavano il tessuto connettivo della società rurale e fornivano mezzi di sussistenza ai palazzi e ai nuclei cittadini piuttosto sotto forma di prelievo fiscale che non di manodopera. In Mesopotamia invece la situazione era più articolata: sebbene nel settore centro- settentrionale (il "paese di Accad") vi fosse una consistente quota di terre private, in quello meridionale prevaleva la proprietà palatina-templare. Templi e palazzi coltivavano i terreni con manodopera alle loro dipendenze, che mantenevano attraverso razioni alimentari, oppure attribuivano terre in concessione ai propri funzionari, in cambio di un servizio o di una rendita. Questi possedimenti, quando erano di grandi dimensioni, tendevano ad assumere la stessa struttura istituzionale delle organizzazioni statali: impiegavano grandi masse di lavoratori, con un'ampia gerarchia di funzionari e di controllori. Una parte delle terre poteva anche essere data in affitto, dietro pagamento di un canone in natura. Per quanto riguarda l'Egitto, un'ottima fonte sui regimi fondiari è costituita dal Papiro Wilbour, dove sono inventariati i possedimenti templari e faraonici all'interno di una regione, verso la metà del XII sec. a.C. È probabile che i funzionari del faraone esercitassero la loro autorità anche sulle terre dei templi, a meno che questi non godessero di particolari esenzioni. Le parcelle fondiarie potevano essere di grandi dimensioni e gestite direttamente dall'amministrazione, oppure date in affitto a funzionari e sacerdoti in cambio della metà del prodotto. Parcelle più piccole venivano da questi assegnate, per il loro sostentamento personale, a famiglie che erano, a vario titolo, al servizio dei templi o del sovrano (scribi, artigiani, contadini, pastori). Molte delle assegnazioni di terre templari erano anche per soldati, nonostante costoro fossero in realtà a carico dello stato. Questi piccoli poderi occupavano generalmente la superficie di 5 arure (1,25 ha), che era la quantità di terreno necessaria per il mantenimento di una famiglia, ma potevano essere anche di dimensioni minori. Se il contadino aveva la proprietà della terra, i costi di gestione (semente, attrezzi, animali, foraggio) erano naturalmente a suo carico, ma se ne era affittuario o assegnatario, questi costi potevano essere anche a carico del proprietario, che in questo caso riduceva la quota del raccolto spettante al contadino fino a 1/3 o 1/4 del totale. Pur essendo il valore della terra molto basso sia in Egitto che in Mesopotamia, cioè grosso modo pari a un raccolto annuale, la pratica dell'affitto si rivelava comunque remunerativa. Il problema cruciale era sempre costituito dalla carenza di manodopera, sia per i piccoli proprietari o affittuari che avevano interesse a intensificare la produzione sui loro poderi, sia per i grandi proprietari, e in primo luogo le istituzioni statali o templari, che tendevano a sfruttare la maggior parte delle terre in loro possesso. In epoca di conquista fu più volte tentato, da parte di sovrani mesopotamici ed egiziani, di estendere le aree di territorio da sottoporre a coltura, potenziando e razionalizzando la canalizzazione e incrementando il numero degli insediamenti, ma questa politica dette risultati soltanto per brevi periodi, fino a quando vi furono energie sufficienti per tenere sotto stretto controllo la gestione della forza-lavoro.

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I sistemi di irrigazione

di Daniele Morandi Bonacossi

Nel Vicino Oriente la pratica dell'agricoltura "secca" risulta possibile solamente in aree in cui le precipitazioni medie annuali raggiungono almeno 250 mm, con una variabilità interannuale non superiore al 40%. Dal momento che non esistono prove che nel periodo intercorso fra il 3500 a.C. circa e oggi il clima abbia subito mutamenti sostanziali, è possibile ritenere che, nelle regioni ubicate al di sotto dell'isoieta dei 250 mm di precipitazioni certe, in almeno tre annate su cinque fosse necessario, allora come oggi, basare l'agricoltura sull'irrigazione artificiale. Canali e sistemi regionali di canali vennero pertanto costruiti solo nelle pianure alluvionali e in quelle deltizie (dell'Iraq in particolare, ma anche dell'Iran e della Siria), poste al di fuori o ai margini della fascia in cui la quantità e la regolarità delle precipitazioni rendevano praticabile l'agricoltura "secca". Le prime attestazioni di canali irrigui e navigabili e di opere a essi legate nella Mesopotamia meridionale compaiono nelle iscrizioni dei sovrani della dinastia di Lagash. Entemena (2450 a.C. ca.), ad esempio, ricorda la costruzione di un canale Lummagimdu e di una traversa di sbarramento dello stesso canale in mattoni cotti, legata a un invaso artificiale della capacità di 2649 ettolitri. Se le fonti cuneiformi ci informano sulla rete di canali pressoché in ogni periodo della storia mesopotamica, poco apprendiamo, invece, dalle evidenze archeologiche. Resti di canali sono molto rari, perché erosi dal vento o coperti da sedimenti alluvionali; inoltre, i canali ancora visibili sul terreno o individuabili su foto aeree o da satellite in regioni, come quella mesopotamica, caratterizzate da uno sfruttamento agricolo ininterrotto, solitamente non possono venire datati. I resti di canali più antichi (VI millennio a.C.) appartengono a un sistema che approvvigionava d'acqua il sito dell'epoca di Samarra di Choga Mami e ne irrigava la circostante piana; questo canale rimase in uso, almeno parzialmente, anche nelle successive epoche di Ubaid e di Uruk. Nell'alluvio mesopotamico propriamente detto, i resti di canali evidenziati attraverso le prospezioni di superficie e l'esame di immagini telerilevate consentono di ricostruire la successione di tre diversi modelli di canalizzazione delle acque fluviali. Nel periodo compreso fra l'epoca di Uruk e quella di Gemdet Nasr, l'irrigazione dovette venire realizzata attraverso l'arginatura dei rami naturali dell'Eufrate e portando l'acqua ai campi coltivati per mezzo di canali relativamente piccoli. Solo limitate porzioni di questo sistema sono riconoscibili ancora oggi. In particolare, al periodo Uruk Antico risale un canale che collegava l'Eufrate e il Tigri a nord di Nippur. Fra il III millennio e la prima metà del I millennio a.C., i rami dell'Eufrate assunsero gradualmente un regime artificiale più marcato, mentre il loro numero venne fortemente ridotto. Da essi si staccava una rete di canali laterali di tipo dendritico, ancora poco sviluppata e non finalizzata alla creazione di un sistema interregionale di canali adduttori e distributori in grado di servire numerosi centri, che distribuiva l'acqua nel territorio. Ciascuno dei rami canalizzati dell'Eufrate era quindi fiancheggiato da una fascia coltivata più profonda che nel periodo precedente; in base all'ubicazione dei siti minori posti lungo le ramificazioni dei canali sembra infatti possibile stimare la profondità della striscia irrigata attorno ai 15 km. In Assiria le fonti e i resti archeologici ci informano sull'esistenza di un gran numero di sistemi di canali costruiti per garantire l'approvvigionamento idrico delle capitali e dei loro dintorni. Assur-uballit I (1363-1328 a.C.) costruì il patti ṭuḫdi, "canale della ricchezza" e Tukulti-Ninurta I (1243-1207 a.C.) il patti mēšari, "canale della giustizia". Assurnasirpal II (883-859 a.C.) scavò il patti ḫegalli, "canale dell'abbondanza", fra il Grande Zab (dove il canale iniziava con un tunnel dotato di chiuse presso Negub) e Nimrud. Per irrigare le piantagioni di Ninive, Sennacherib (704-681 a.C.) fece canalizzare le acque del fiume Khosr, nel quale venne fatta confluire per mezzo di 18 canali l'acqua del monte Musri e, attraverso l'acquedotto di Gerwan, parte dell'acqua del fiume Gomel. Più a nord, Sennacherib realizzò la canalizzazione del Wadi Bahandawaya. Quest'ultimo venne fatto confluire nel Wadi al-Milh e, da qui, in un canale artificiale che, costeggiando il Tigri, portava a Tarbisu e a Ninive. Tracce di probabili canali adduttori assiri sono state inoltre identificate lungo la sponda sinistra del Grande Zab (Nakhr Bahlul) e lungo la riva sinistra e quella destra del Piccolo Zab. Nel periodo compreso fra l'epoca tardobabilonese e l'età abbasside, infine, nell'alluvio mesopotamico si affermò, probabilmente anche grazie all'introduzione di sistemi meccanici di sollevamento delle acque, una rete di canali adduttori paralleli e di grandi dimensioni (ad es., canali sasanidi dello Shatt an-Nil a nord di Nippur e di Nahrawan nella regione del fiume Diyala) collegati da canali distributori ortogonali. Tale griglia irrigua consentiva il drenaggio delle acque di scolo e la costituzione di comprensori irrigui molto estesi che non lasciavano spazio a nicchie ecologiche diverse. Componenti di canali sono state portate alla luce dagli scavi: a Tello, ad esempio, è stato rinvenuto un regolatore di portata datato al III millennio a.C., costruito in mattoni cotti legati con bitume, la cui funzione era quella di trattenere il flusso dell'acqua e innalzarne il livello per facilitare la diversione dell'acqua nei canali. Un regolatore dell'epoca della III dinastia di Ur si cela probabilmente sotto il monticolo di Tell Khaita. Raffigurazioni di canali e di componenti di canali, infine, sono note attraverso i rilievi palatini dei sovrani neoassiri Sennacherib e Assurbanipal (VII sec. a.C. ca.) e sono incise su tavolette raffiguranti piante di città (Babilonia, Sippar, Nippur) e piante di campi. Sistemi di canali regionali sono stati individuati nelle valli del Khabur e del medio Eufrate. Nella valle del fiume Khabur è stato ricognito un sistema di due canali irrigui navigabili, paralleli al corso del fiume, lunghi ciascuno 250 km circa, larghi in media 8 m, profondi 1,5 m e con una portata media di 2,5- 3,5 m³/s. Il canale occidentale veniva alimentato dall'alto corso del Khabur, quello orientale dal fiume Giaghgiagh. Tracce di canali distributori secondari e terziari sono state identificate lungo il corso dei canali adduttori, assieme a bacini di raccolta delle acque. Il sistema di canali venne costruito in età neoassira (fine VIII-VII sec. a.C.) e rimase in uso sino alle invasioni mongole del XIII sec. d.C. Il canale orientale del Khabur, Nahr Daurin, confluiva in un canale navigabile che costeggiava l'Eufrate sino all'area di Mari-Abu Kemal. Lungo la sponda destra dell'Eufrate, nei pressi di Mari, venne derivato da un vecchio meandro del fiume un canale navigabile largo 30 m, che consentiva alle imbarcazioni di raggiungere il porto di Mari e che forniva acqua potabile alla città. Un secondo canale, largo 100 m circa, è conservato per 17 km a nord di Mari, ma le opere di presa non sono preservate. Non è quindi chiaro se il canale adduttore, dal quale si dipartono canali distributori per l'irrigazione, fosse alimentato dal fiume o dal Wadi as-Swab, dove sono stati identificati i resti di una diga che ne sbarrava il corso. Ai piedi della terrazza dell'Eufrate, infine, scorreva un terzo canale, largo 10 m, che drenava le acque con alto contenuto di sali che dalla steppa scorrevano verso la valle. La costruzione di questo sistema di canali navigabili, irrigui e di scolo, può essere datata al periodo protodinastico (III millennio a.C.) o all'età paleobabilonese (inizio del II millennio a.C.). Canali e canalizzazioni sono particolarmente noti in Urartu, dove le iscrizioni reali e i resti archeologici informano sull'attività di costruttori di canali dei sovrani urartei. Menua (810-786 a.C.) fece costruire il canale di Semiramide, lungo più di 70 km, largo 4,5 m e profondo 1,5 m, il quale portava l'acqua di numerose sorgenti alla capitale Tushpa. Il canale oltrepassava il fiume Khoşap su di un ponte e, nelle gole di montagna, scorreva su grandi muretti di rincalzo a fabbrica ciclopica. Lungo il suo corso vennero derivati numerosi canali d'irrigazione. A est del Lago di Van, Rusa II (680-640 a.C. ca.) scavò il lago artificiale dello Keşiş Gölü, che veniva alimentato da numerosi canali. L'acqua del lago era quindi condotta alla capitale Toprakkale per mezzo di un canale, lungo il quale si trovano resti di sbarramenti. Numerosi altri canali, in parte ancora in uso, sono conservati nel territorio del regno urarteo. Sargon II (721-705 a.C.), infine, nel resoconto della sua VIII campagna, descrive, presso la città urartea di Ulkhu, un probabile sistema di qanāt, tunnel sotterranei scavati nei fianchi di alture per raggiungere la falda acquifera, trasportare l'acqua anche su lunghe distanze, proteggendola così dalla forte evaporazione diurna, e convogliarla infine in canali irrigui. A intervalli regolari, nei qanāt si aprivano pozzetti che consentivano di pulire le gallerie. Qanāt vennero utilizzati probabilmente anche in Assiria, a partire dal regno di Sennacherib, come sembra indicare il tunnel con pozzetti fatto scavare dal sovrano per approvvigionare d'acqua Erbil. La presenza di acqua nell'Arabia meridionale è connessa al regime monsonico. Due volte l'anno (primavera e tarda estate) cadono piogge brevi ma violente, che devono pertanto essere raccolte e canalizzate attraverso efficienti sistemi di irrigazione in grado di catturare interamente le acque di piena dei torrenti. Il sistema irriguo più esteso era quello di Marib, capitale del regno sabeo, dove alla fine del VI sec. a.C. una diga in muratura, lunga 680 m e alta 18 m, venne costruita a sbarramento del corso del Wadi Dhana, nel punto in cui esso emergeva nella pianura scorrendo fra lo Giabal Balaq al-Ausat e lo Giabal Balaq al-Qibli. Due grandi chiuse costruite alle sue estremità convogliavano l'acqua di piena, la cui portata arrivava a punte di 1700 m³/s, in due canali adduttori, preceduti da bacini di decantazione; da qui i canali confluivano in bacini di distribuzione. Questi erano dotati di numerose prese d'acqua (fino a 15), attraverso le quali essa veniva fatta defluire in una rete di canali secondari e terziari, che a loro volta irrigavano i 9600 ha di superficie delle due oasi di Marib. Nel II sec. d.C., in epoca himyarita, nell'oasi settentrionale vennero costruiti la diga di Giufaina e nuovi canali che aumentarono l'efficienza del sistema irriguo. All'inizio del VII sec. d.C., durante la dominazione sasanide, la diga, già danneggiata in tre occasioni nel V e nel VI sec. d.C., venne definitivamente distrutta e l'oasi di Marib fu abbandonata. Sistemi di canali irrigui, almeno in parte connessi a dighe, sono attestati in tutta la regione; recenti calcoli delle superfici anticamente irrigate per mezzo di canali permettono di ipotizzare che nell'antico Yemen fossero coltivati circa 44.500 ha di terreno. In Egitto la costruzione di canali era legata alla piena del Nilo, che si verificava in agosto-settembre, come conseguenza delle piogge monsoniche estive in Etiopia e in Sudan. L'acqua di piena veniva imbrigliata in bacini di cattura arginati, dai quali, mediante un sistema di canali, di regolatori e di chiuse, veniva distribuita sui campi. L'innalzamento del fondo della valle del Nilo, determinato dalla deposizione dei sedimenti di piena del fiume, ha coperto pressoché interamente i resti di canali irrigui e navigabili antichi. Per questa ragione le testimonianze archeologiche sono di fatto assai limitate e sono per lo più costituite dalle rappresentazioni, in rilievi del Medio Regno e del Nuovo Regno, di sistemi meccanici di sollevamento delle acque e del Nilometro. Canali irrigui sono attestati nelle fonti a partire dal Primo Periodo Intermedio. Il grande testo di donazione di Edfu descrive, ad esempio, la struttura della rete di canali adduttori paralleli al Nilo e di canali distributori e di drenaggio ortogonali a esso. Canali di confine sono noti in particolare nella regione orientale del Delta, dove essi svolgevano un ruolo importante, benché risulti spesso difficile stabilire il loro carattere (artificiale o naturale) e la loro datazione. Un canale, largo 70 m, è stato localizzato fra el-Qantara e Pelusio: aveva probabilmente funzione difensiva e irrigua ed era con ogni probabilità collegato al ramo pelusico superiore a Kom Dafana. Canali di bonifica di territori anche estesi, infine, sono attestati dalle fonti: in connessione con la fondazione di Menfi venne costruita una diga che ne bonificò i terreni. Allo stesso modo, Amenemhet III (1844-1797 a.C.) bonificò l'oasi del Fayyum, rendendo coltivabili circa 7000 ha di terreno.

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Siria:

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Anatolia:

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