La domesticazione delle piante e l'agricoltura: periodo tardoantico e medievale

Il Mondo dell'Archeologia (2002)

La domesticazione delle piante e l'agricoltura: periodo tardoantico e medievale

Sauro Gelichi
Laura Saladino

I tipi di colture e i sistemi di produzione

di Sauro Gelichi

La società medievale poggiava su forti basi rurali e l'agricoltura ne costituiva una delle principali componenti. Volendo schematizzare, si potrebbe sostenere che in un periodo come quello successivo alla caduta dell'Impero romano, di forte flessione commerciale e di ridimensionamento del ruolo delle città quali strutture organizzate di consumo e smistamento di beni, i caratteri essenziali dello sfruttamento delle risorse agricole furono ricondotti ai principi dell'autoconsumo e della sussistenza. La produzione delle campagne era prima di tutto volta a soddisfare una domanda molto circoscritta e localizzata, che tendeva a esaurirsi all'interno di strutture gerarchizzate e chiuse, in una circolarità del sistema che poco spazio lasciava al surplus e alla nascita e alla formazione di un mercato. Quanto questo sia stato conseguenza di un nuovo modello sociale ed economico o quanto dovuto allo stato delle conoscenze tecniche è difficile stabilire, né è opportuno generalizzare sul piano cronologico condizioni che si svilupparono e si trasformarono nella lunga durata (ad es., tra Alto e Basso Medioevo). Né è infine corretto che si guardi alla storia dell'agricoltura medievale come frutto esclusivo, ma separato, di condizionamenti sociali, economici, ambientali o tecnologici. È infatti evidente come ciascuno di questi aspetti sia determinante e interagisca nel configurare le condizioni di un modello come quello, pur variegato per aspetti anche geografici, che accomuna le campagne europee medievali. Un primo aspetto da prendere in esame è quello della riorganizzazione del territorio. L'età antica aveva lasciato un'eredità basata prevalentemente su vaste proprietà latifondistiche, all'interno delle quali la componente dello sfruttamento schiavistico era determinante per la conduzione delle grandi aziende agricole. Gli storici hanno discusso a lungo se e come questo modello possa essere sopravvissuto durante l'Alto Medioevo, quando, almeno dall'età carolingia, troviamo già formato il cosiddetto "sistema curtense", nel quale nuovi rapporti sociali ed economici legavano proprietari e coloni e dove la manodopera era composta soprattutto da contadini liberi. L'organizzazione del territorio per curtes e i rapporti di dipendenza che venivano a crearsi tra proprietari e affittuari-livellari, che prima di essere economici erano sociali (non a caso una delle caratteristiche di tale modello erano le corvées, cioè le prestazioni d'opera che i coloni dipendenti erano tenuti a fornire per la pars dominica dell'azienda), dovettero accentuare quelle caratteristiche di autarchia produttiva di cui abbiamo detto e che non poco rilievo ebbero, almeno per tutto l'Alto Medioevo, sui modi di conduzione del terreno. Uno degli elementi ritenuti caratterizzanti dell'agricoltura medievale (ma dovremmo almeno diversificare tra Alto e Basso Medioevo) è il forte conservatorismo nei sistemi di lavoro dei campi, nell'equipaggiamento tecnico, nelle pratiche di agrimensura. Si trattava di un'agricoltura a carattere prevalentemente estensivo, dunque poco produttiva sul piano investimento- resa (legata ancora a sistemi arcaici di sfruttamento delle risorse) e poco incline alle innovazioni tecniche. Anche la grande stagione dei disboscamenti per la messa a coltura di nuove terre (fenomeno che si sviluppò soprattutto dopo il Mille a causa della crescente pressione demografica) viene vista più come investimento sulla quantità (necessità di rendere utilizzabili sempre maggiori appezzamenti di terreno incolto) che non sulla qualità (sfruttare al meglio quanto si aveva già a disposizione). Tuttavia, cadremmo in errore se volessimo estendere questi caratteri di conservatorismo a tutta l'età medievale e non volessimo considerare che questo fu anche il periodo in cui si acquisirono, secondo tempi che in parte ci sfuggono per la povertà della documentazione scritta, nuove competenze sulle pratiche agricole. Il mediocre equipaggiamento tecnico si fece ovviamente sentire sul rendimento delle colture. L'attrezzatura era infatti ancora rudimentale, estremamente ridotta (almeno secondo gli elenchi di beni altomedievali e le risultanze archeologiche) e prevalentemente in legno; la terra veniva lavorata male e le arature erano poco profonde. Se le innovazioni tecnologiche incisero solo marginalmente sul piano del perfezionamento degli attrezzi agricoli, maggiore dovette essere l'investimento nelle tecniche di sfruttamento dei suoli, sia nell'abitudine di arare due volte l'anno la terra lasciata a riposo sia, ancora meglio, nella sostituzione della rotazione biennale con quella triennale. Infatti, uno dei problemi maggiori era quello della scarsa produttività dei terreni, dovuto principalmente alla carenza di fertilizzanti: l'unico conosciuto, il letame, andava in gran parte perso, con la conseguenza che il terreno si esauriva presto ed era necessario lasciarlo riposare affinché si ricostituisse. La rotazione biennale, l'unico sistema conosciuto in età romana, prevedeva che circa la metà della terra venisse seminata con cereali d'autunno e l'altra metà lasciata a riposo (maggese). Il sistema triennale, invece, consisteva nel dividere la terra in tre parti, una delle quali seminata in autunno con frumento e segale, un'altra seminata in primavera con orzo, piselli, avena e l'ultima infine lasciata a maggese. L'anno seguente la rotazione prevedeva che la parte seminata con colture invernali venisse coltivata con quelle primaverili, la seconda lasciata a maggese e la terza seminata in inverno. Questo sistema portava ovviamente a una maggiore produttività, che si vide crescere soprattutto a partire dal Basso Medioevo, quando la terra lasciata a maggese cominciò a essere arata due volte e non una (per eliminare le sterpaglie e le erbe). L'introduzione, o meglio la diffusione, della rotazione triennale portò anche a uno sfruttamento maggiore del cavallo, poiché quest'ultimo si ciba d'avena (coltura primaverile) e non d'erba, come il bue. I tempi dell'introduzione della rotazione triennale non sono chiari, poiché essa comparve già nell'VIII secolo, ma è anche possibile che fosse in uso in età tardoantica (un momento che registrò notevoli innovazioni sul piano delle tecniche agricole); tuttavia non era capillarmente diffusa ancora nel XIV secolo. Sempre sul piano delle competenze in materia di pratiche agricole, e quindi sulle specifiche capacità di sfruttamento del terreno, un aspetto determinante rivestono anche i rendimenti delle sementi. A questo proposito le informazioni documentarie sono abbastanza scarse, poiché mancano totalmente dati riguardo al rapporto superfici-prodotto, mentre forse meglio informati siamo su quello prodotto-sementi. Durante l'Alto Medioevo tale rapporto rimase sempre abbastanza basso: è vero che esso veniva condizionato anche da altri fattori, quali la situazione climatica e lo stato pedologico del terreno, le competenze e i saperi nelle tecniche agrarie, la capacità specifica della manodopera, ma raramente si ottenevano valori superiori a 2:1 (a fronte di un rapporto, oggi, del tipo 20:1). Questa direzionalità di risorse della società medievale nei confronti dell'uso dei campi, in senso quasi sempre cerealicolo (si pensi, ad es., che nel Medioevo venivano messe a coltura a grano non solo le terre di pianura, quelle cioè più favorevoli, ma anche le aree di collina e di montagna, ovviamente con scarso rendimento), non deve far pensare che non esistessero altre forme di sfruttamento agricolo. Nel sistema di approvvigionamento delle risorse l'orto, forse più del campo, ebbe un ruolo centrale. Mentre la coltura dei campi risulta discontinua nel tempo e nello spazio, la produttività dell'orto è un dato costante in tutte le epoche fino al XVIII secolo, quando si assistette a un'inversione di tendenza che portò all'imprestito di tecniche e di prodotti dal secondo al primo. Non bisogna poi dimenticare che orti e vigne (anche alla coltivazione della vite l'Alto Medioevo dedicò particolare attenzione) entrarono di fatto all'interno delle città; senza enfatizzare il concetto di "ruralizzazione" degli spazi urbani, così caro a buona parte della storiografia contemporanea, è indubbio che molte delle aree disabitate e non costruite vennero utilizzate per colture ortive e per l'impianto di filari di viti. Le fonti altomedievali sono ricche di citazioni in questo senso e anche gli scavi archeologici hanno dimostrato l'esistenza di vere e proprie forme di sfruttamento agricolo in vasti spazi urbani: basti pensare alle frequenti citazioni di corti regie o ducali all'interno della città longobarda, la cui configurazione sembra del tutto simile a quella riscontrata in ambito rurale (si veda, ad es., il caso dell'area del futuro monastero di S. Salvatore a Brescia, nella quale sono state rintracciate le fasi della corte regia precedente, con edifici di servizio per i coloni o per i servi dipendenti). Quanto di questo quadro economico e sociale, che connota lo stato dell'agricoltura nel Medioevo, sia rilevabile sul piano archeologico è difficile e prematuro determinare, soprattutto in ragione dello scarso interesse che queste tematiche hanno avuto fino a oggi. La ricerca infatti si è mossa prevalentemente a indagare aspetti fondamentali per la storia delle campagne, come ad esempio la tipologia e la distribuzione degli insediamenti nella lunga durata e la configurazione delle dimore rurali, ma di rado ha sviluppato metodi di analisi strettamente connessi con lo studio delle pratiche agricole, del loro utilizzo e della loro evoluzione durante il Medioevo. Considerando la specificità delle fonti archeologiche, la ricerca potrebbe essere indirizzata verso l'analisi delle competenze tecnologiche, come è possibile rilevare nell'evoluzione degli strumenti agricoli. Tuttavia resta indubbio che l'apporto maggiore non potrà che venire dallo sviluppo degli studi palinologici e dei resti vegetali superstiti. Più frequenti nei Paesi dell'Europa centro-settentrionale, dove l'attività archeologica è da tempo in maggiore sintonia con le scienze naturali, di recente anche in Italia sono stati avviati progetti nei quali le componenti naturalistiche delle stratificazioni archeologiche costituiscono parte integrante del programma di ricerca. Lo scavo dell'insediamento altomedievale di Monte Barro (Lecco) ha messo in evidenza, oltre alle coperture arboree del sito, anche le specie coltivate nelle zone circonvicine. Altre ricerche, sempre in siti altomedievali dell'Italia settentrionale, stanno delineando un quadro delle coltivazioni sensibilmente diverso da quello ricostruibile, con maggior dovizia di dati, per le aree a nord delle Alpi. Tuttavia i risultati di cui disponiamo sono al momento estremamente parziali e discontinui (come dimostrano le importanti, seppur incidentali, indagini sui resti vegetali delle mura di S. Stefano ad Anguillara Sabazia o di piazzetta Castello a Ferrara); dati che, per quanto indici di una pratica sempre più diffusa nei cantieri archeologici, è prematuro ricondurre a sintesi di carattere generale.

Bibliografia

M. Bloch, Les caractères originaux de l'histoire rurale française, Paris 1952; G. Duby, L'économie rurale et la vie des campagnes dans l'Occident médiéval (France, Angleterre, Empire, IX-XIV siècle). Essai de synthèse et perspectives des recherches, Paris 1962; G. Luzzatto, Per una storia economica dell'Italia, Bari 1967; M. Bloch, Lavoro e tecnica nel medioevo, Bari 1969; G. Cherubini, Agricoltura e società nel medioevo, Firenze 1972; M. Montanari, L'alimentazione contadina nell'altomedioevo, Napoli 1979; Ph. Jones, Economia e società dell'Italia medievale, Torino 1980; B. Andreolli - M. Montanari, L'azienda curtense in Italia. Proprietà della terra e lavoro contadino nei secoli VIII-XI, Bologna 1983; L. Costantini et al., Cereali e legumi medievali dalle mura di S. Stefano, Anguillara Sabazia (Roma), in AMediev, 10 (1983), pp. 393-414; B. Andreolli - V. Fumagalli - M. Montanari (edd.), Le campagne italiane prima e dopo il Mille, Bologna 1985; Le prestazioni d'opera nelle campagne italiane del Medioevo. IX Convegno Storico (Bagni di Lucca, 1-2 giugno 1984), Bologna 1987; A.I. Pini, Vite e vino nel medioevo, Bologna 1989; G.P. Brogiolo, Trasformazioni urbanistiche nella Brescia longobarda: dalle capanne di legno al monastero regio di San Salvatore, in S. Giulia di Brescia. Archeologia, arte, storia di un monastero regio dai Longobardi al Barbarossa, Brescia 1990, pp. 179-210; L. Castelletti - E. Castiglioni, Resti vegetali, in G.P. Brogiolo - L. Castelletti (edd.), Archeologia a Monte Barro, I. Il grande edificio e le torri, Lecco 1991, pp. 179-210; M. Bandini Mazzanti et al., Semi e frutta dalla Ferrara bassomedievale, in S. Gelichi (ed.), Ferrara. Prima e dopo il Castello. Testimonianze archeologiche per la storia della città, Ferrara 1992, pp. 118-37.

I sistemi di irrigazione

di Laura Saladino

Per il periodo che comprende l'età tardoantica e l'Alto Medioevo nelle fonti scritte mancano notizie sulla canalizzazione agraria o, più in generale, su qualsiasi forma di irregimentazione delle acque, carenza che si aggrava ulteriormente per l'assenza di rinvenimenti archeologici, tanto da far supporre una decadenza della tecnica acquisita in età romana. Al contrario, dal IX secolo si assiste al fiorire di opere di sistemazione, di prosciugamento e di irrigazione, nonché, soprattutto in ambito urbano, al moltiplicarsi di canali artificiali, conseguenza dello sviluppo artigianale e manifatturiero della prima età comunale. La Sicilia fa eccezione per le precoci forme di bonifica agraria dovute agli Arabi, che dimostrarono una notevole perizia nella tecnica idraulica: essa trovò largo uso anche nella creazione di fontane, di giochi d'acqua e di bacini artificiali nei giardini e nelle residenze private, alimentati da acquedotti e da canalizzazioni sotterranee. La perizia degli artefici islamici venne trasmessa agli ingegneri normanni, che nell'Italia meridionale, tra l'XI e il XIII secolo, eseguirono nelle residenze reali e signorili impianti idrici di varia natura, i quali trovarono applicazione anche in altri contesti, con la realizzazione di opere di canalizzazione per irrigare campi e frutteti, come a Napoli e Amalfi, o al contrario per drenare le aree paludose, come nel Tavoliere, o addirittura per creare piscine per l'allevamento del pesce. L'applicazione di elaborate tecniche idrauliche a un evoluto sistema di produzione agricola fu appannaggio dei monaci cistercensi, che nel XII secolo operarono una riforma della regola benedettina associando il lavoro dei campi alla vita di preghiera. Alla base della riforma era un rigido sistema di programmazione che coinvolgeva anche il settore produttivo, il quale ebbe un notevole impulso grazie alla rotazione delle colture e alla canalizzazione irrigua. Nelle proprietà dell'Ordine nei dintorni di Milano, ad esempio, i conversi cistercensi accrebbero il livello produttivo della terra costruendo un sistema elaborato di condutture e di canali dei quali calcolarono la portata e la pendenza. I medesimi sistemi vennero realizzati a Veroli, nel Lazio, nei fondi dell'abbazia di Casamari. In alcuni complessi cistercensi d'Oltralpe la forza dell'acqua, convogliata mediante canali sia a cielo aperto che sotterranei, era utilizzata addirittura per azionare impianti artigianali, come il maglio di una forgia per metalli rinvenuto a Fontenay, in Francia.

Bibliografia

Ph. Jones, L'Italia agraria nell'Alto Medioevo: problemi di cronologia e di continuità, in Agricoltura e mondo rurale in Occidente nell'Alto Medioevo. Atti della XIII Settimana CISAM (Spoleto, 22-28 aprile 1965), Spoleto 1966, pp. 57-92; C.G. Mor, Sicilia e Sardegna: due momenti di economia agraria, ibid., pp. 93-110; M. Righetti Tosti-Croce, Architettura e economia: "strutture di produzione cistercensi", in ArtMediev, 1 (1983), pp. 109-28; J.-M. Martin, Le travail agricole: rythmes, corvées, outillage, in G. Musca (ed.), Terra e uomini nel Mezzogiorno normanno-svevo. Atti delle settime giornate normanno-sveve (Bari, 15-17 ottobre 1985), Bari 1987, pp. 113-57.

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