La cultura: contenuti e forme

Storia di Venezia (1994)

La cultura: contenuti e forme

Gino Benzoni

Un'identità culturalmente rilanciata

Drasticamente ridimensionata sul piano dei rapporti di forza in un quadro generale che non recepisce più i suoi medievali primati, Venezia ne prende atto rinunciando ad ogni ulteriore velleità espansiva ed optando per una politica di vigile contenimento. Stato mediano in un mondo fattosi più vasto e dinamico, se può sentirsi ancora grande rispetto ai piccoli, di fatto è piccola nel confronto coi grandi. Epperò questa Venezia - che conta, comparativamente, meno, che, talora, conta addirittura poco - è pure capace, colla grittiana renovatio urbis, di costringere il mondo a riconoscere, se non altro, il suo splendor civitatis. Così risemantizzata dopo la crisi d'identità provocata dal trauma d'Agnadello, con uno scatto d'orgoglio a lunga gittata non solo offre la suggestione di piazza S. Marco, ma la propone come architettonica esternazione della sua interiore perfezione statuale. Anche se non è più protagonista principale, la città s'aderge maestosa grazie ad una "reputation" che, se da un lato è di gran lunga eccedente riguardo alla sua effettiva consistenza, dall'altro però - pure questo va sottolineato - è, ai fini di detta consistenza, e irrobustente e rassodante. Tant'è che Venezia si dice e vien detta regina. Così si rilancia, così risale la china, così riguadagna altrimenti e per altri versi una primazia che la fa celebrare ancora trionfante. Ciò perché è circondata da "extimation". Ma, per produrre questa, il punto d'avvio è una forte autostima, ossia una sorta d'autoespansione e culturale e ideologica. Indubbio la passata grandezza si debba non già ad "eloquenti oratori", ma agli innumeri "huomini da bene", che "svisceratissimi alla patria loro", hanno per questa profuse ricchezze e versato il sangue. Ma, nel '500, è l'argomentazione adorna "de elegantia et eloquentia" la leva per rifondare la "reputation" della Repubblica. E la "reputation" - la classe dirigente marciana ne è sempre più convinta - è "un de i principali fondamenti de cadaun stato" (1).

Valga, a tal fine, la manipolazione ideologico-culturale. Quella per cui la modestia delle proporzioni della Serenissima assurge ad aurea mediocritas. Sicché - nel mondo reso infelice da smodate brame di gigantesche potenze - Venezia spicca, per contrasto, come la città felice, quella che elargisce ciò che tutti desiderano e altrove non trovano: la pace, la giustizia, l'abbondanza. È così - come attesta la figurazione a palazzo Ducale sempre fissata dalla committenza pubblica - che Venezia si concepisce; ed è per tale che vuol essere riconosciuta. Un'automitizzazione superba - non già una labile increspatura dell'immaginazione - che è, pure, una mobilitante operazione culturale, affinché il mito regga, affinché sia - oltre che seducente - credibile, persuasivo. E lo è, nella misura in cui Venezia - di per sé non più, politicamente militarmente economicamente, centrale - risulta, nell'Europa cinquecentesca, centralissima a mo' di riferimento ideale, a mo' d'interlocutrice della speranza, a mo' di cardine intellettuale. Mentre Firenze, una volta consolidato, con Cosimo I, il principato "assoluto", idealmente si rattrappisce, ecco che quella si carica di significato, convoca valori altrimenti smarriti e perenti. È se stessa e, perciò, unica e nel contempo sempre ulteriore e, perciò, catturante il senso delle città più significanti; sicché s'atteggia a seconda Roma, a seconda Atene, a seconda Bisanzio, a quasi Gerusalemme, a nuova Gerusalemme. Un sommarsi incalzante di suggestioni, una costante lievitazione semantica la quale, proprio perché sospingente verso vertiginose altezze - Venezia città vergine e, quindi, della Vergine; Venezia come annuncio, come profezia; Venezia come paradiso, giusto l'alludere della tela tintorettiana a palazzo Ducale - è anche prossima al precipizio. Ma anche così, in questo suo rovesciarsi in negativo, quando diventa città della sconfitta e dello scacco, quando la si maledice come Sodoma e Gomorra, rimane pur sempre città dell'anima ché in essa questa più spera e dispera.

Non si esagera, allora, asserendo che Venezia è, nel '500, la città che più significa, che più produce immagini di sé e più le fa circolare, mentre, in detta circolazione, queste immagini vieppiù si complicano e si dilatano ché arricchite dall'apporto esterno. "Nobilissima" e "singolare" la proclama la guida di Francesco Sansovino. È per questo che a lei si arriva ansiosi di trovare di più, di trovare dell'altro. È per questo che in lei si concentra l'oltranza desiderante. In lei la sperimentazione della vita da un lato s'esaspera acuita dalla cornice, dall'altro si fa emblematica, paradigmatica, allegorica, metaforica. Intensissima l'avventura erotica vissuta col cuore in gola da Iulo, il protagonista della Veniexiana, strattonato dalle simultanee voglie della vedova e della maritata. Ma del pari intensa l'emozione di chi - alla visione del maggior consiglio riunito - pensa alle gerarchie angeliche. Ma un'impressione come questa, per cui un consesso umano si fa celeste, non nasce a caso. È un esito provocato dalla trasfigurazione della sede della decisione e del comando - palazzo Ducale - in dimora della giustizia, in tempio di Salomone, in reggia della sapienza di stato. Il mito non è affabulazione deresponsabilizzata. È costruzione motivata e motivante. Ed è costitutivo, ché caratterizza la città marciana in termini di unicità, eccezionalità e, insieme, d'esemplarità. Sciolta, in certo qual modo, dalla soggezione all'accaduto, Venezia, in certo qual modo, guarda alla storia dall'alto d'una dimensione metastorica, quasi estranea alle beghe delle terrene competizioni. Proiettata culturalmente ideologicamente verso l'alto, si sente in alto. Quivi - non senza presumersi preannuncio dell'agostiniana città di Dio - s'attesta, sottratta alle contingenze della politica e dell'economia, all'interno delle quali non è più trapiantabile l'antecedente centralità di nodo focale nello scambio tra Oriente e Occidente. Se Venezia, ciò malgrado, continua a dirsi e ad esser detta "centro del mondo", è perché a ciò la legittima il suo supporsi - e con parole e con immagini specie a palazzo Ducale e da palazzo Ducale: è questo il centro dell'elaborazione e dell'irradiazione - "de Dio", da Dio prediletta, da Dio dotata d'un destino superiore, da Dio immessa nella storia con una vocazione altissima: quella di segnalare nella storia il di più in lei compendiato, da lei espresso. Perciò è "grande", "inclita", "eviterna", "illustre", "regina", "famosissima", "alma", "d'oro", "sempre felice".

Memoria dell'anima, dunque, nei crescendo dell'autodicitura, Venezia, città dell'anima, città dello spirito. Ma anche città - sempre stando alle formulazioni dei governanti e alle amplificazioni e divagazioni e ulteriorizzazioni degli ammiratori indigeni ed esterni - storicamente realizzante quanto nella storia alla storia l'umanità domanda. Donde il suo campeggiare in termini di mondana pienezza, quasi lo scacco del Rinascimento - quello culminato nel sacco di Roma nel 1527; quello per cui, come recita un'orazione del 1529 di Claudio Tolomei, un "orribil vento" ha calpestato i "fiori" e distrutto i "frutti" (2) della, appunto, civiltà rinascimentale italiana - non la riguardi. In un'Italia ingrigita tutta d'un tratto, in una penisola che ha smarrito la gioia di vivere, Venezia splende colla sua abbagliante bellezza urbanistica e architettonica, tangibile riscontro del suo meraviglioso congegno costituzionale produttivo dell'armonia d'un'operosa pace sociale. Sicché in lei il Rinascimento sopravvive rigoglioso nella continuata luminosità d'un protratto autunno, con momenti di intensa fosforescenza, con occasioni di dardeggiante accensione. Si pensi, tanto per dire, alla Venezia che, nel 1574, accoglie Enrico III di Valois. E, beninteso, se ciò si verifica, è perché Venezia - pur meno robusta delle grandi monarchie, pur non abbastanza attrezzata per fronteggiarle - conta su d'una base di ragguardevole ricchezza materiale, su d'una cospicua disponibilità di mezzi e su d'una notevole capacità d'utilizzarli. È ricca, infatti, oltre che bella. Ma soprattutto si sente intellettualmente ed eticamente superiore. Ed è sin narcisista nel sentirsi un po' Davide - ed è la cultura che con la bellezza funge da fionda - di fronte a tanti Golia agitanti minacciosi la clava degli eserciti. Venezia con Golia - sia questo la Spagna o il Turco - tende, comunque, a trattare. Ma non per questo dimentica la sua superiorità. Sin sprezzanti, ad esempio, i cenni degli ambasciatori lagunari alla Spagna: è sì potentissima, ma il "paese" è "assai disabitato", né vi "si intende" certo, come a Venezia, "il vero modo di fabbricare". Né, di fronte a Parigi, Venezia accenna a riverenze; riconosce, al più, che è più popolata; "ma il nostro", così un ambasciatore, "è più onorevol popolo". Venezia è la città più bella del mondo, quella più degnamente abitata. Non solo: è la ben ordinata Repubblica. Di più: è la "vera immagine di perfetto governo". Né si tratta solo di presunzione. È anche convinzione. Sicché un Leonardo Donà, rappresentante veneto a Madrid, esclama, nel 1572, che "il veder le corti et il stato delli altri mi fa ogni giorno di più stimar il nostro" (3).

Venezia, dunque, come massimo e assolutamente e comparativamente. Massimo di bellezza, di intima armonia costituzionale, di civiltà. Così, mitizzando, s'esprime, sempre al massimo, l'autovalorizzazione della classe dirigente e anche - dato che il mito, oltre che fatto di per sé, è foriero di fatti - la sua autodeterminazione. Manipolante, sofisticante, mistificante e persino irritante la classe dirigente lagunare nel suo caparbio orchestrare l'orgoglioso leitmotiv del mito ad enfatizzare Venezia e - essendo questa da lei ben governata - se stessa. Ma le va riconosciuto il merito d'aver, in tal modo, risalito l'andamento, altrimenti in discesa, dei fatti, d'aver così eluso lo spiazzamento altrimenti emarginante insito nell'irruzione storica di mastodontici apparati statali e nello slargarsi, al di là degli oceani, del mondo. Decisamente più piccola Venezia in un mondo più grande e, per lei, troppo grande. Però, perché depositaria di valori etici ed intellettuali, s'ostina a qualificarsi "occhio del mondo", come colei che più vede, come colei che più intende. Avvilite altrove le litterae dal divorzio in atto tra res e verba e ridotte a mosche cocchiere degli avvenimenti. Non così a Venezia, visto che la sua "reputation" è costruita dalle litterae, cui si devono anche le prescrizioni dei trionfalistici dispiegamenti figurativi. Le parole contano ancora, allora, a Venezia: non s'accodano ai fatti, ma li motivano. Si dà, allora, in laguna, intreccio tra litterae e res gestae. La cultura, in tal caso, non è ancella, ma consapevolizzazione dell'agire. Ne sortisce la parutiana Perfezione della vita politica, ove - di contro alla tentazione, serpeggiante nel ceto di governo veneziano, all'abbandono, all'isolamento individuale, alla diserzione alla volta della carriera ecclesiastica - si ribadiscono i valori della civitas, si riafferma il diritto-dovere patrizio al servizio della Serenissima. È il nobile veneziano politicamente impegnato il più alto e compiuto esemplare di realizzazione umana, non il cortigiano vagheggiato da Baldassarre Castiglione. Superiore alla contemplativa la vita attiva se tradotta in generoso impegno produttivo di pubblica "felicità". E la somma degli impegni individuali ha per risultante la collettiva sapienza di stato latrice dell'utopia realizzata. A suo modo Venezia - in un contesto caratterizzato da prove di forza, da esibizioni di muscolature - svolge un discorso culturale che, quanto meno, serba alle litterae una funzione civile, una potenzialità motivante, una virtualità rilanciante. Quanto al mito, come per osmosi, lo nutrono e se ne nutrono.

Certo: man mano s'infittiscono i colpi della storia, man mano s'inaspriscono le dure repliche dei fatti, il mito si riduce a coperta sbrindellata, s'appalesa come belletto estrinseco, come impiastro posticcio ad occultare effettivi arretramenti. Donde il severo richiamo di Sarpi: non è più il caso d'esaltare la presunta perfezione della Serenissima, se poi questa cede sul terreno concreto dell'esercizio della sovranità. È la pienezza di questa che timbra, o meno, la dignità effettiva della Repubblica, non tanto le amplificazioni d'un'autoidentità sovrabbondante in eccesso rispetto all'identità effettivamente sagomata dalla tensione tra capacità propria e condizionamento altrui. Attivante il mito sinché sospinge Venezia ad assomigliare al proprio autorappresentarsi, ma presto stantio e rancido se s'accompagna all'umiliazione d'una sovranità dimidiata. Urge - lo vogliono i "giovani", lo vuole Sarpi - un deciso stacco dal giulebbe dell'autocompiacimento sempre più impantanato nella prassi della rinuncia e del compromesso. Ed ecco che il settore più pugnace del patriziato s'attesta nella difesa delle prerogative statuali. Ma anche così le parole serbano la loro importanza, anche così vige il nesso tra litterae e res gestae. La cultura si fa strumento di serrata polemica. Non per niente la contesa dell'interdetto diventa la "guerra delle scritture".

Percorsi e ruolo dell'apprendimento

Marco Foscarini, il riesumatore settecentesco della grandezza culturale di Venezia riscontrabile soprattutto nel '500, non esita a fissare quale connotato precipuo della classe politica marciana la "congiunzione" delle "lettere coll'amministrazione dello stato", il coincidere, già in auge nella Roma repubblicana, "nel sommo" della Repubblica, di "sapere" e "potenza". Di fatto, conclude Foscarini, a Venezia, come nell'antica Roma, i più autorevoli sono, pure, i più dotti, i primi "nel governo" sono anche i più "versati in ogni liberal disciplina" (4), quasi si dia coincidenza tra capacità di comando e conoscenza in senso lato, quasi sussista interconnessione tra impegno pubblico e applicazione allo studio. In realtà a Venezia la politica è attività assorbente con poco spazio per ritiri meditabondi. Arduo anche a Venezia conciliare otium e negotium. Tant'è che ci si stupisce perché Andrea Morosini, pur assediato dagli obblighi pubblici, riesce a coltivare le muse. Tant'è che Pietro Bembo, optando per le seconde, schiva i primi. Tant'è che un Sebastiano Erizzo, che come studioso si qualifica, è politicamente evanescente. E lo stesso dicasi del genealogista Marco Barbaro e del poeta Domenico Venier. Non c'è, insomma, in laguna il politico letterato e/o il letterato politico. Ciò non toglie - e in questo senso si può, allora, convenire con Foscarini - che a Venezia i nobili dalla più incisa fisionomia politica sono anche quelli dalla più marcata propensione alla riflessione. Un autentico uomo di stato come Leonardo Donà, un battagliero uomo politico come Niccolò Contarini sono, indubbiamente, culturalmente attrezzati. Ben saldo, comunque, il primato della politica, cui è, peraltro, opportuno - questo il criterio, grosso modo, adottato dal ceto di governo - accedere con un discreto bagaglio di conoscenze. Il "parlar senatorio", proposto dai panegiristi come culmine di sapienza ed eloquenza, non ammette gli indotti.

Un tempo - una volta sgrezzato, una volta alfabetizzato, una volta appresi i primi rudimenti del leggere, dello scrivere, del far di conto - il nobile veniva avviato, talvolta ancora fanciullo e, comunque, entro l'adolescenza, alla mercatura e, quindi, ai viaggi, e, quindi, a prolungati soggiorni fuori Venezia. Precoce, talora precocissimo, dunque, l'impatto col mondo, colla pratica commerciale cui seguiva - talvolta tardivo: Andrea Gritti è ormai quarantenne quando ricopre la sua prima carica - l'ingresso nella politica. Quanto alla figura del patrizio mercante ed umanista, essa non è tanto il prodotto di studi regolari, quanto d'un bisogno, assecondato, d'arricchire la vita pratica colla sollecitazione di stimolanti esperienze intellettuali, sicché agli affari si mescola la simultanea caccia di manoscritti, sicché alla contrattazione subentra l'intimo risvolto d'appassionate letture. E ciò senza sistematicità, ciò empiricamente, ciò con serena coniugazione d'utilità e dilettazione. Ma, man mano l'umanesimo si fa esclusivo privilegiamento delle litterae, man mano si fa schizzinoso colle attività pratiche, quella figura viene scalzata. Non è un caso - si ricorderà - che negli Asolani bembiani, siano degli intellettuali raffinati i tre giovani dissertanti d'amore; e li ascoltano - si badi - tre gentildonne veneziane, ma non i loro mariti richiamati a Venezia da urgenti inderogabili "bisogne". Comunque sia, in sintonia col ritrarsi del patriziato da "viazi" e "trafegi" e col suo volgersi compensatorio alla penetrazione economica in Terraferma, ecco che, già nel secondo '500, l'impatto col mondo viene ritardato, ecco che s'accentua e si diffonde la tendenza a perfezionare l'istruzione in tempi più lunghi. Ritardata l'ammissione alla vita pratica, attendono il fanciullo la grammatica e la retorica; la prima adolescenza significa studia humanitatis, significa greco e latino. E alla mercatura non s'assegnano più compiti formativi; tant'è che un Ottaviano Bon rimpiangerà come sciupati - perché non destinati agli studi - gli anni impiegati nel commerciare. Certo che non mancano, nel secondo '500 e nel primo '600, da parte di giovani patrizi dal prolungato itinerario scolastico, atteggiamenti di distaccata e sin sussiegosa sufficienza nei confronti dell'affannata ricerca di guadagno. Sicché vien da dedurre che il patriziato più protrae la fase dell'apprendimento, meno è motivato a trafficare.

Diffuso - negli ambienti patrizi e anche in quelli dei non nobili più facoltosi - il ricorso a maestri, precettori e pedagoghi e non solo per l'istruzione primaria, ma anche per l'avviamento alla lettura dei classici antichi. Né mancano, pel proseguimento degli studi, le scuole private aperte da docenti anche qualificati, taluni dei quali sono pure intellettuali di prestigio. Certo non va annoverato tra questi quell'Ambrogio Morelli, prete a Venezia, gestore d'una scuola d'umanità, che qui menzioniamo perché frequentata da Sarpi - nipote del Morelli, fratello di sua madre - nonché da giovanetti del miglior patriziato. Il che ci dice che l'utenza di siffatto tipo di scuole non era esclusivamente nobiliare e che potevano diventare occasione d'incontri, in certo qual modo, interclassisti. Ed in effetti è nella scuola dello zio che Sarpi fanciullo ha modo di conoscere, tra i condiscepoli, figure destinate a distinguersi e a contare politicamente. Ingredienti del paesaggio cittadino, fattori di formazione ed istruzione le scuole private, ma troppo spesso dalla corta vita, troppo spesso condizionate dalle vicissitudini biografiche del titolare. Sicché non segnano più che tanto la cultura urbana. Né attecchisce il tentativo dei gesuiti d'impiantare a Venezia un loro insegnamento. Non occorre attendere l'espulsione dell'ordine all'epoca dell'interdetto, ché già antecedentemente ci si preoccupa d'ostacolarne l'inserimento nel settore dell'istruzione. Per quanto favorito dai più devoti tra i patrizi, c'è in tal caso, come un rigetto. Donde il mancato recepimento nella città lagunare del sistema scolastico gesuitico, nei confronti del quale si manifesta, per così dire, una sorta d'allergia da parte della cultura urbana. Decisamente, invece, connotanti rispetto a questa e, al limite, sue costanti e, al limite, un po', sue coordinate le due scuole pubbliche, quella di Rialto o Gymnasium Rivoaltinum e quella di S. Marco. Attive, e non senza rivalità e non senza spunti di contrapposizione, sin dal '400, entrambe esprimono, con l'autorità derivante dalla loro impronta statale, più direttamente e nettamente dell'ateneo patavino (questo, da un lato, è segnato dalla strutturazione antecedente al controllo della Serenissima, dall'altro, per essere competitivo, deve uniformarsi agli altri atenei, deve conformarsi all'idea d'università vigente in Italia e in Europa) quelli che sono le propensioni e gli orientamenti del ceto di governo. E, laddove - nella Scuola di Rialto - i corsi sono affidati a nobili veneti, quello, il ceto di governo, sale in cattedra, si fa docente. Frequentate da nobili, da cittadini, da forestieri, le due scuole rappresentano - nella capitale, che volutamente, per ragioni d'ordine pubblico, non ha trapiantato nel suo seno l'università - una sorta d'istruzione superiore, non senza pretese - anche se non rilasciano certificati di laurea - di livello universitario.

Piuttosto divaricate, nel '400, laddove in quella di Rialto domina sovrano Aristotele, mentre nella Scuola di S. Marco s'avvertono platoniche propensioni, lungo il '500 detta divaricazione si stempera. E ciò in sintonia col lagunare sincretismo coniugante Aristotele e Platone. Sicché vanno valutate come articolazione d'una cultura differenziante, più che contrapponente, le discipline praticate a Rialto (logica, metafisica, filosofia naturale, scienza) da quelle (letteratura, filosofia morale, retorica, grammatica, filologia) caratterizzanti la Scuola di S. Marco. Sicché il dato di fatto che il Gymnasium realtino è più filosofico e che la Scuola di S. Marco è più letteraria diventa pacifico, non sottintende reciproche polemiche. L'impressione è più di complementarità; tanto più che, virtualmente, è possibile una frequentazione d'entrambe. Più varia, ad ogni modo, e vivace la Scuola di S. Marco, che - lo diciamo con titubanza, ché ne siamo sino ad un certo punto sicuri -, destinata a tutta prima alla formazione del personale cancelleresco, ad un certo punto allarga l'utenza per poi ritornare, restringendosi, alla finalità originaria: quella della formazione degli aspiranti alla carriera cancelleresca selezionati sulla base d'una buona capacità espositiva ed argomentativa (ma l'italiano non vanta un insegnamento ad hoc: si conta sull'uso, si conta sull'esperienza futura), della piena padronanza del latino (il greco, invece, non viene richiesto), e, naturalmente, d'una bella grafia (non per niente c'è il "maestro di scrittura"). Tra gli insegnanti non mancano figure di rilievo: il poeta Celio Magno, Ramusio, Antonio Milledonne, tutti veneziani. E si distinguono via via per impegno didattico il bresciano Giovita Rapicio, il friulano Bernardino Partenio, Giuseppe Bonfadio - nato questo a Venezia, in una famiglia originaria di Salò - cui si deve un'Oratio (Venetiis 1616) sugli studi più indicati ai funzionari di cancelleria, già oggetto d'un Sermo (Venetiis 1544) antecedente. Comunque sia, si tratta di docenti non nobili e, anche, talvolta, non veneziani di nascita. Pignorato, invece, da nobili veneziani e, inoltre, laureati a Padova, l'insegnamento filosofico nella Scuola di Rialto, ripercorrere il quale significa, per più versi, rievocare l'andamento dell'esegesi aristotelica a Venezia. Si va da Sebastiano Foscarini - è in odor d'averroismo e perciò sospetto agli occhi del nunzio Aleandro; è troppo rocciosamente filosofo e perciò antipaticissimo al letterato Bembo; suo merito, ad ogni modo, l'attivazione, all'Università di Padova, quand'è riformatore dello Studio, dell'insegnamento della botanica sì da valorizzare l'appena costituito Orto, appunto, botanico - a Niccolò da Ponte, il futuro doge e, via via, ad Agostino Valier che rilegge Aristotele alla luce di s. Tommaso e non senza contaminarlo con Platone filtrato da s. Agostino.

Così, col futuro cardinale Valier, l'Aristotele in laguna smette i panni averroistici e indossa indumenti disinfettati d'ogni tentazione eterodossa. Un saldo recupero all'ortodossia dello Stagirita questo di Valier, epperò arricchito di spunti moderni, epperò originalmente adattato alle urgenze della Controriforma. Opachi, invece, i successivi titolari della pubblica lettura di filosofia ed ostinatamente sordi rispetto alla ventata innovante della rivoluzione scientifica. "Principem omnium sapientem" definisce Aristotele Paolo Loredan; dovere, perciò, precipuo del docente farsi fedele e devoto "expositor" del suo pensiero. Un criterio esemplato dai Commentaria concernenti i tres libros Aristotelis de anima [...> (Venetiis 1594). Né si sogna di movimentare il suo insegnamento, che va dal 1602 al 1613, Niccolò Contarini - da non confondere col futuro doge; questi è figlio di Zan Gabriel; quello è figlio di Giovanbattista -, trascurabilissimo come filosofo e menzionabile, invece, come promotore d'un collegio per l'educazione di giovinetti nobili poveri che si costituirà quale, appunto, accademia dei nobili alla Giudecca e che sarà caratterizzata da insegnamenti stabili. Ciò non toglie che i contemporanei, senza tema d'esagerare, lo dicano "egregius in philosophia imperator", "philosophorum omnium praestantissimus". Esagerazioni ridicole, ma non per questo inspiegabili. La classe dirigente lagunare, che si suppone "prudenza" incarnata, che si presume sapienza di stato, identifica la lettura pubblica di filosofia, riserbata ad un proprio membro, con la filosofia per eccellenza. Va da sé che il titolare - consistente o no che sia il suo profilo intellettuale (e quello di Niccolò Contarini è decisamente inconsistente) - s'aderge ad incarnazione della filosofia. Subentra, e in tal caso Andrea Morosini adopera tutta la sua influenza, a Niccolò Contarini il nipote Giovanbattista Contarini, pubblico "lettor in filosofia" dal 13 dicembre 1613 alla fine del 1671, quando muore ad 84 anni. Per lui il mondo è quello disegnato da Aristotele; l'apprendimento coincide con una rilettura corretta dello stesso. Sicché - con le 850 fittissime pagine complessive delle sue Quaestiones peripateticae [...>, che escono, tripartite, a Venezia tra il 1617 ed il 1633 - egli si propone il sistema aristotelico a mo' di corpus compiuto, autosufficiente, esaustivo. Conoscere significa interpretare correttamente l'immane universo concatenato e congruo del pensiero aristotelico che Contarini rivisita meticolosamente ripercorrendo con scrupolo le "controversiae" degli "expositores", caparbiamente, nel contempo, ignaro di quanto potrebbe, dall'esterno, scalzarlo e superarlo. Solo Aristotele, nient'altro che Aristotele. Il resto non conta. Il resto non merita cenno. Galilei per Contarini non esiste. Nel suo indefesso citare - da Alessandro d'Afrodisia a s. Tommaso, da Simplicio a Zabarella - non v'è cenno agli scritti di quello. E, pur citando Raguseo, l'oppositore di Cremonini, Contarini riesce ad evitare la benché minima allusione a quest'ultimo, quasi a sventare l'insidia latente della trasgressione eterodossa.

D'altronde la cattedra filosofica della Scuola di Rialto esprime ciò che la classe politica vuole dalla filosofia, riflette ciò che da lei si attende: non gli azzardi del pensiero, ma il regolato pensare; non il nuovo, ma il ripetitivo utilizzo didattico. Donde l'accamparsi esclusivo dell'esegesi aristotelica definitivamente sottratta, già nel secondo '500, agli spunti inquietanti insiti, a suo tempo, nel magistero di Sebastiano Foscarini. Non è casuale Giovanbattista Contarini rimuova totalmente Cremonini. Perché Aristotele funzioni come disciplinata ginnastica mentale occorre non solo l'attrezzeria non sia messa a soqquadro da irruzioni dall'esterno, ma che non sia adoperata per esercizi pericolosi. Perciò Contarini, come non polemizza con Galilei (e così non fa i conti coll'esterno), così ignora Cremonini, mantenendo, in tal modo, tranquilla l'aristotelica palestra, nel senso di indenne, nel senso di imperturbabile. È come un mondo chiuso da preservare dalle correnti d'aria. Di qui l'assenza di finestre donde si guardi ai percorsi della sperimentazione diretta. È una costruzione mentale suscettibile solo di essere visitata da dentro, otturando anche le crepe all'interno delle quali possa insinuarsi il tarlo corrosivo del libertinismo. Pacifico insegnante per pacifici allievi Giovanbattista Contarini, che ignora Galilei e, nel contempo, ignora Cremonini. Chi, invece, montato su spalti aristotelici, cannoneggia - con le Esercitazioni filosofiche [...> (Venezia 1633) - alla volta di Galilei appena colpito dalla condanna romana è il benedettino Antonio Rocco pubblico lettore di filosofia morale. Si mette così in buona luce con esibizione di ribadito aristotelismo. Essendo dedicatario della sua sortita il pontefice Urbano VIII, così s'atteggia anche a campione della Chiesa. Ma in realtà Rocco è un libertino, è un seguace dell'intus ut lubet cremoniniano. È sì aristotelico, ma averroista e per di più autore dell'Alcibiade fanciullo a scuola (5), uno dei testi più scollacciati della letteratura seicentesca italiana. Non solo: è anche il testo che propone la pedagogia come iniziazione sodomitica, che ravvisa nella scuola, nel rapporto maestro-allievo, la cornice ideale per la liberante pratica della pederastia. Un caso estremo, questo di Rocco, epperò non meramente individuale. Diffuso il "vitio nefando" e, anche, teorizzato, magari sotto la coperta d'Aristotele. C'è anche l'Aristotele dei libertini, che pare autorizzare spericolate scorribande mentali e sfrenate dissolutezze comportamentali. Mentre Giovanbattista Contarini sminuzza a lezione le sue tranquille e tranquillizzanti certezze, si costituisce, nel 1630, l'accademia degli Incogniti. Per lo più aristotelici gli accoliti e, pure, per lo più libertini. Lo è Loredan, il loro fondatore, lo è Rocco membro del sodalizio.

Mentre la Scuola di Rialto s'adopera - tramite Aristotele - ad ordinare le menti, ecco che - sempre partendo da Aristotele, quello, però, di Cremonini - si perviene alla più sconcertante disinvoltura di pensiero e di comportamento.

Certo: grazie alla continuata esposizione dello Stagirita impartita nella Scuola di Rialto è possibile - se non altro profilando gli insegnanti nel loro succedersi - schizzare una sorta d'embrionale storia della filosofia a Venezia, anche se un po' appiattita sull'evoluzione dell'interpretazione d'Aristotele sino alla sua, piuttosto monotona, ruminazione asettica, peraltro chiaroscurabile col ricorso al controcanto del carsico pensiero libertino. Si dà, comunque, il caso d'una disciplina - la filosofia, sia pure nell'accezione d'esegesi aristotelica - raccontabile fissandola nella sua sede istituzionale: quella della pubblica lettura realtina. Non altrettanto, invece, è fattibile, su altri versanti, con altre discipline, magari insegnate, epperò non con prolungata continuità oppure con una continuità i cui termini ci sfuggono. Ciò valga per la cultura e la sensibilità religiose, rispetto alle quali suona marginale annotare che, nel 1531, viene acceso il pubblico insegnamento di Sacra Scrittura. Un'accensione che tallona dappresso l'attivazione, del 1530, dell'insegnamento, del pari pubblico - e ben più rilevante: primo titolare è il Giovanni Battista Memmo, primo traduttore delle Coniche di Apollonio di Perge; gli succede, nel 1536, Tartaglia -, delle matematiche. Per quanto ci concerne, ci limitiamo, in questa sede, a sottolineare come - da parte del governo - la pressoché contemporanea promozione delle due letture manifesti una volontà di decisa risemantizzazione, sul piano culturale, della città umiliata ad Agnadello. Nell'impossibilità di riprendere la politica espansiva ancora vigente nel primissimo '500, si dà - mentre l'ideologia s'affanna a qualificare quest'opzione come nobilitante, come moralmente più valida il via all'autoespansione culturale. Ed in ciò rientra l'assunzione d'un autodidatta di genio come Tartaglia.

Dove si insegna, chi insegna, cosa si insegna, come si insegna, a chi si insegna, perché un insegnamento nasce, perché un insegnamento tace, quale il controllo governativo sull'effettivo svolgimento d'un insegnamento, quali i rapporti di colleganza tra i docenti, quali i legami di condiscepolato tra gli allievi, quale l'influenza su questi di un determinato magistero... Di ciò vorremmo sapere e poter dire. E, invece, e per ragioni oggettive di spazio e per nostra lacuna d'informazione, ci limitiamo a qualche cenno, a qualche allusione. D'altra parte - e ciò un po' assolve il nostro sorvolare, il nostro trascurare, il nostro omettere - non è che il ritmo, più o meno intenso, d'un secolo circa di cultura lagunare vada circoscritto all'ambito delle scuole superiori, più o meno istituzionalizzate. Lo si percepisce anche e, vien da dire, meglio scorrendo i titoli sfornati dalle tipografie, ascoltando i conversari dei circoli e delle accademie e pure - dato che la classe politica si presume titolare della sapienza di stato, dato che la sede di questa è palazzo Ducale - nelle discussioni senatorie e nel dettato delle delibere, delle "parti". Decisamente extrascolastico, altresì, il lagunare trionfo del volgare e nelle formulazioni di governo (residua sacca di resistenza, ancora attorno al 1590, le raspe degli avogadori) e nell'esprimersi letterario e nel testare affidato ai notai. Ma ciò non comporta la necessità di cattedre di lingua e letteratura volgari, nemmeno ai fini dalla formazione del personale di cancelleria. Milledonne, a tal proposito, invita gli aspiranti a questa carriera, a prendere esempio dai più anziani; l'italiano lo si impara parlando e scrivendo, prestando orecchie ricettive a chi da tempo lo adopera con disinvoltura. D'altronde, se il latino che si insegna è quello aureo, quello di Cicerone, come imbrigliare - ai fini dell'insegnamento - la fermentante vitalità del volgare? C'è ben - e piuttosto rigida - l'impostazione di Bembo. Ma a che pro favorire, accettandola integralmente, il prestigio di Firenze , dopo che questa - marchiata dal "giogo di servitù" impostole da Cosimo - è antitetica rispetto a Venezia? perché, poi, il fiorentino, quando il veneziano - e più d'uno, a cominciare da Maffio Venier, ne è convinto - è di quello più sapido, più ricco d'umori? perché comprimere la ricchezza espressiva nel chiuso delle aule? Tripudia, a Venezia, il plurilinguismo, deflagra centrifuga la potenzialità delle lingue e dei dialetti. Improponibile il coperchio normativo d'un regolare insegnamento ad inalveare il tumultuoso irrompere del parlato. È troppo vivo, troppo vivace, per sezionarlo, come si fa col latino. Non resta che accettare la molteplicità degli accenti, la varietà degli esiti. Quanto alla classe politica - nella misura in cui, tanto per dire, assume nella cancelleria, nel 1572, Celio Magno proprio per la sua fama letteraria (e lo stesso capita, nel 1576, ad Aldo Manuzio il giovane) -, appare incline ad onorare le lettere, anche se in volgare, anche se praticate fuori dal perimetro degli insegnamenti.

D'altronde, il sapere - quando è più insofferente della ripetizione, quando mal si ritrova nei collaudati ingranaggi della trasmissione e diffusione, se vuol essere scarto creativo, innovazione, scatto - respira meglio lungi dalle aule, libero da zavorre didattiche. Benedetti, il grande geometra cinquecentesco, si fa un vanto di non aver frequentato alcuna scuola, d'aver appreso pressoché tutto da solo, d'essere proceduto - nella via della conoscenza - senza l'ausilio di precettore, senza i consigli di un qualche mentore. Nulla è inaccessibile per chi è determinato a conoscere. Così esagerando e generalizzando Benedetti, il quale un minimo si corregge riconoscendo a Tartaglia il merito d'averlo avviato allo studio dei primi quattro libri d'Euclide. Netta, comunque, da parte sua, la contrapposizione del proprio autonomo profilo intellettuale alle sedi istituzionali del sapere. Ciò non toglie non ci sia, anche da parte sua, un'esigenza d'un qualche riconoscimento di suo valore. In altre parole il fatto non abbia avuto un maestro, non esclude che voglia diventare maestro, che ambisca, insomma, alla docenza universitaria. E poiché la Repubblica non gli offre una collocazione patavina, eccolo, alfine, "lettore di filosofia matematica" a Torino. Non laureato Benedetti e fiero di non esserlo, così rimarcando l'asperità solitaria e conflittuale del suo proporsi come scienziato; ma, nel contempo, identificante nella cattedra universitaria e il dovuto riconoscimento e lo status confacente al proprio valore. È come dire che per diventare autentico scienziato l'università non serve; può, invece, servire a far vivere decentemente l'autentico scienziato. Ad ogni modo la Serenissima - che pur convoca per il mantenimento del prestigio dell'Università di Padova tanti docenti da fuori - non sa trattenere il veneziano Benedetti, né pare gran che preoccuparsi del suo andarsene altrove. Quanto a Galilei, se sa ruolizzarlo col gratificante affidamento d'un insegnamento, non può però accontentarlo ulteriormente esentandolo dalle lezioni e retribuendolo con un di più rispetto ai normali scatti di stipendio. Un favore siffatto egli l'ottiene solo da un "principe grande", non vincolato - come la Repubblica - dal rispetto dei regolamenti. E perciò anch'egli se ne va. Comunque sia, con Benedetti, noi abbiamo un governo che rimane indifferente alla statura intellettuale d'un proprio suddito, mentre, con Galilei, la cui statura intellettuale è pur riconosciuta in sede governativa, noi abbiamo un governo che non può e non vuole fare per lui eccezioni. Col primo possiamo parlare di distrazione e disattenzione della classe politica; col secondo, da un lato, c'è l'impaccio costituito dalla normativa, dall'altro, la scelta di non disdirla, nemmeno per Galilei. Si può dedurre dall'esemplificazione dei due casi rapidamente riassunti che lo stato non ritiene proprio compito scovare e valorizzare talenti, mentre reputa, invece, proprio dovere assicurare il regolare funzionamento dello Studio patavino, sicché tutti i docenti facciano lezione nelle ore stabilite, sicché sia garantito il turnover delle letture (si chiama ben un altro al posto di Galilei), sicché i programmi siano rispettati, sicché costante e uniforme sia la vita d'un ateneo che è uno dei più cospicui nell'Europa del tempo.

Esso fabbrica soprattutto medici ed avvocati. Vi si laureano - si può precisare - in diritto quanti, sudditi veneti, affiancano come giudici i rettorati nelle città di Terraferma. Vi si laureano in teologia e, più ancora, in utroque quanti - e tra questi non mancano i nobili veneziani - intendono affermarsi nella carriera ecclesiastica. Vi si laureano, pure, i giovani patrizi desiderosi di sigillare con l'alloro dottorale - in genere in artibus - il proprio itinerario formativo, quasi ad evidenziarne la compiutezza. Ad ogni modo solo al nobile preposto alla lettura nella Scuola di Rialto è richiesta la laurea. Rispetto all'affermazione politica questa pare, tutto sommato, ininfluente. Altra cosa il "parlar senatorio" rispetto alle dispute scolastiche. E, poiché tanti giovani patrizi, pur frequentando l'ateneo patavino, trascurano il momento conclusivo della laurea si ha l'impressione che essa - la laurea - sia un po' snobbata. Se poi si scorre la biografia della ventina di dogi che va dal successore di Gritti Pietro Lando a Niccolò Contarini che muore nel 1631, risulta laureato soltanto Niccolò da Ponte, non a caso pubblico lettore di filosofia. Se si pensa che non si laureano Leonardo Donà e Niccolò Contarini - che pure a Padova ascoltano lezioni, che pure, per tutta la vita, studiano con assiduità -, se ne può arguire che, per la classe dirigente, la vera dimensione è quella della politica e che la laurea vale per il mondo sottostante delle professioni e mediche e legali. Si può aggirare in maggior consiglio o in senato il patrizio "dottor" (e, a suo tempo, il non laureato Sanudo ne ha preso nota; ed è "dottor" quel Giovanni Basadonna che "in renga" risulta noioso) (6), ma non per questo il suo credito è garantito. Sostanziata dal comando la classe dirigente può sì laurearsi, ma per usare il titolo come distintivo, come decorazione. È sul terreno politico che avviene il pieno dispiegamento delle virtù patrizie; è bene che l'ingresso nella politica sia preceduto da un'accurata istruzione, dall'acquisita capacità d'esporre "recte" e "subtiliter", dall'ascolto, nella vicina Padova, dei maestri più prestigiosi specie nell'ambito delle discipline filosofiche. Ma è politicamente che si realizza. La formazione culturale mira a questo. La cultura per la politica, dunque. E, anche, la cultura prima - biograficamente - della politica. Ma indiscusso il primato della politica. Questa l'ottica della classe dirigente. A lei non serve - come ai medici, come agli uomini di legge - un attestato di laurea. Pel patrizio lagunare, invece, il tratto identificante è la carriera politica. Nella cornice della ben ordinata repubblica, nella introiettata convinzione della "perfezzione della vita politica", sia perfetto oratore, perfetto ambasciatore, perfetto rettore. E va da sé che - per essere tale - i suoi "mores" e la sua preparazione, e in fatto di "belle lettere" e in fatto di "artes", vanno mobilitati. Ma ciò in un quadro di salda gerarchia dei valori: le lettere, le scienze per la politica e non viceversa. Sicché il percorso evincibile da innumeri biografie di patrizi va dalla cultura come antecedente formativo all'esercizio della politica anche culturalmente motivato.

Ma che significa, nel '500, buona preparazione culturale? chi può esser detto colto? chi può esser detto dotto? quali le nozioni, quali le discipline? C'è una lettera (7) - scritta nel 1597 da Francesco Barozzi, patrizio sì, ma estraneo alla politica (il percorso per lui valido va dalla preparazione all'approfondimento della preparazione; dall'apprendimento allo studio sistematico) - quanto mai illuminante in proposito. Matematico Barozzi e di matematica, per un po', docente a Padova, traccia, in questa sua lettera indirizzata al nipote da lui adottato come figlio, una sorta di itinerario di studio svolgibile in 7 anni e mezzo d'intensa applicazione. E - prescindendo dal fatto che, per Barozzi, il giovane, divenuto "perfetto virtuoso" con la laurea a Padova, sia talmente "innamorato" delle "belle lettere et scienze" da praticarle "tutto 'l tempo della vita" e limitandoci solo a sottolineare che siffatta prospettiva parte dallo studio per proporre lo studio come inverante dimensione dell'esistenza - la scansione e i contenuti da lui proposti al nipote danno un'idea di cosa, allora, s'intendeva e si pretendeva nei riguardi d'una compiuta formazione. Si schizza una sorta d'ascesa sapienziale rispetto alla quale Padova col suo Gymnasium è il vertice culminante; l'ultima tappa - vien da aggiungere - per chi si trasferirà nella politica; l'avvio allo studio a pieno tempo, invece, per chi deciderà altrimenti.

Ecco, dunque, il ritmo progressivo dell'ottima, o per lo meno, ottimale preparazione. Requisito addirittura preliminare la piena padronanza del latino, tramite Donato, Prisciano e Guarini, sì da poter proseggiare coll'eleganza di Cicerone e Bembo e da poter verseggiare adoperando disinvoltamente la relativa metrica. Letture obbligatorie Virgilio, Ovidio, Orazio, Lucrezio, Lucano, Terenzio, Plauto, Sallustio, Livio, Valerio Massimo, Cesare. Assente, si noterà, Tacito. S'aggiunge il greco - per impadronirsi del quale grammatiche tuttora valide sono quelle di Manuele Crisolora, Costantino Lascaris, Manuele Mascopulo, Teodoro Gaza, Nicolaus Clenardus -, sì da leggere agevolmente Isocrate, Esopo, Luciano, Teocride, Esiodo, Aristofane, Omero e sì, pure, da essere in grado di comporre qualcosa e in prosa e in versi. Scopo precipuo dell'acquisizione del greco, comunque, la lettura nell'originale di Platone e Aristotele. Pure la "lingua volgare italiana" è prevista nel programma di Barozzi. Ma, mentre il latino suppone un "precettore", mentre il greco esige la frequenza delle "lettioni pubbliche" d'un "buon humanista" nonché l'esercitarsi "privatamente" sotto la guida dello stesso, l'italiano lo si conquista per conto proprio. "Potrete attender" a questo "da vostra posta", incoraggia Barozzi il nipote. Ma come? Leggendo Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso, Bembo, Baldassar Castiglione, Boccaccio e "il rimario" di Girolamo Ruscelli e "imparando a compor ben in prosa et verso". Colonne portanti il greco e il latino rispetto alle quali l'italiano si pone come un supplemento di grazia e d'eleganza. "È grand'ornamento d'un gentilhuomo literato", precisa Barozzi. È come un tocco di grazia cortigiana. Ma la buona preparazione non può attestarsi solo sul versante letterario, specie per un uomo di scienza come Barozzi. Ed ecco l'altro versante: "attenderete [ingiunge al nipote> ad imparar bene" l'aritmetica pratica, vale a dire a numerare, sommare, moltiplicare, dividere sia i "numeri interi" che i "rotti", a "far la regola del tre", ad elevare al quadrato e al cubo, a ricavare la radice quadrata. Per apprendere tutto ciò, a detta di Barozzi, necessitano 6 mesi sotto la guida di un "buon precettore" ed "adoperando per autori" Cuthbert Tunstall, Luca Pacioli, Iohannes Buteo, Cristoforo Clavio, "Orontio" e "Genofrigio" (vale a dire, rispettivamente, Oronce Fine e Gemma Reinerus Frisius). Dopo di che il giovane si volga alla geometria e all'aritmetica teorica valendosi degli Elementi di Euclide sia in greco sia nella versione latina di Commandino, dei commentari di Proclo nella versione latina dello stesso Barozzi, nonché di Boezio, "Gerardo Ruffo" (cioè Gérard Roussel, editore, appunto, dell'Arithmetica [...> di Boezio) e Nicomaco di Gerasa, spingendosi "anchor" a "studiar la mia", di Barozzi ben s'intende, "sphera overo cosmographia" e così, col ricorso allo strumento della "sphera materiale", introducendosi all'astrologia.

Contemporaneamente - suggerisce Barozzi - all'applicazione nello studio di queste tre "scienze" (la geometria, l'aritmetica teorica, l'astrologia), il nipote, per "diporto", per "sollazzo", per "ricreatione", attenda a "cantar sicuramente et gratiosamente", apprendendo, inoltre, "il contrapunto", le modalità del comporre "in musica", a suonare il liuto, l'arpicordo, il violino, il violone da gamba, la lira e imparando, all'uopo, "arie moderne". Irrobustito dalle tre "scienze" piacevolmente spruzzate dal coevo bazzicare colla musica pratica, il nipote - stando al ritmo ascensionale per lui previsto dallo zio - è ormai pronto ad affrontare la poetica, la retorica, la logica aristoteliche nonché la geografia, la prospettiva, la "specularia", la meccanica, l'architettura, la musica teorica (prima, si noterà, viene quella pratica), la scienza militare sino ad arrivare al vertiginoso terminale dello studio della filosofia morale e naturale, della metafisica aristotelica e platonica e della relativa tradizione interpretativa greca e latina (omessi, si osserverà, gli interpreti arabi d'Aristotele). Ecco, dunque, quanto Barozzi vorrebbe dal nipote adottato come figlio. Con questo bagaglio culturale egli è "perfetto virtuoso", ché dotato d'una compiuta preparazione. Così "in anni 7" e mezzo, a 25 anni circa, il nipote, "compiti li [...> studii di Padova", avrà "buonissima cognitione di tutte l' arti liberali et scienze". Una perfezione relativa, però, la sua, ché, per diventare "huomo virtuoso perfetto", dovrà "aver piena et perfetta cognition della vita et costumi". Una perfezione come meta ché - auspica Barozzi - "non abbandonerete mai li studii, ma ogni hora studiando diventerete più perfetto". La perfezione, allora, come dover essere assiduamente inseguito con una vita tutta dedita allo studio. Così, per Barozzi, a veder del quale lo studio, non la politica, motiva la vita. Ciò non toglie che il percorso da lui additato al nipote non possa valere anche pel patrizio destinato alla politica, con vocazione alla politica. Da notare che Barozzi - nel suo programma pel nipote che, però, è anche un programma tipo - non accenna nemmeno di sfuggita, nemmeno per inciso, al diritto. Né ciò è dovuto solo al suo personale disinteresse. La preparazione giuridica - questa la nostra impressione suggerita dal profilo biografico di tanti patrizi - non è richiesta, non è prevista. Se cultura significa un assieme di nozioni più un'area di argomenti su cui ragionare, se per cultura s'intende anche maturità psico-intellettuale, si può asserire che - nella Venezia che pur accoglie, per lo meno dal 1575 all'inizio del '600, una cattedra d'istituta criminale e notaria, dove pur si ventila, attorno al 1580, una lettura delle "pandette" - il diritto, nel senso di conoscenza giuridica, non rientra nell'idea di cultura. Pressoché assenti i titoli giuridici negli inventari delle biblioteche patrizie; perché questi abbondino raggruppati in un nutrito apposito settore specializzato, occorre recarsi nella biblioteca di quel Luigi Balbi uomo di legge ed oratore nonché - si badi - cittadino e non nobile, non a caso utilizzata per allestire quella sorta di summa, appunto, giuridica costituita dai 18 tomi in folio del Tractatus universi iuris (Venetiis 1584), che è sì un prodotto dei torchi veneziani, ma che è anche realizzato, come recita il frontespizio, "duce et auspice Gregorio XIII" e perciò situabile in un orizzonte extralagunare.

Dal personale di cancelleria - lo si è già notato - il governo pretende una chiara e buona grafia. E in tal senso lo fa istruire. Ma, evidentemente, non esige dagli stessi una spruzzatura di conoscenze giuridiche, se è assente un insegnamento a tal fine. Eppure il ceto dei segretari è determinante nel funzionamento quotidiano dei vari organi, ne conosce le procedure, ne trascrive le delibere, le tiene in ordine. Sembra quasi il ceto di governo, oltre a non studiare diritto in prima persona, non incoraggi a studiarlo nemmeno il personale a lui più vicino nella quotidiana prassi legiferante. VuoL dire che conta sull'"equità", vuoL dire che si sente titolare, quanto meno, d'un fiuto empirico in fatto di giusto ed ingiusto, d'opportuno ed inopportuno. Va da sé che, con tal criterio, la legislazione cresce a dismisura, sin caotica, sin contraddittoria e che non vanno in porto i tentativi di riordinarla. Mentre - come esplicita la decorazione pittorica di palazzo Ducale la classe dirigente fa coincidere l'immagine di Venezia con l'idea di giustizia, questa, di fatto, sembra più alimentata da reminiscenze classiche mescidate con riecheggiamenti biblici che supportata dallo studio sistematico del diritto autorevolmente praticato nella padovana facoltà dei "legisti". Si utilizza, talvolta e in determinati casi, la competenza dei giuristi padovani, ma non se ne incorpora la dottrina, appunto, giuridica nella - per così dire - dottrina dello stato della classe di governo, non ne trae alimento la - sempre per così dire - filosofia della politica. La stessa figura del consultore in iure - cui delegare l'esame delle questioni via via insorgenti sotto il profilo storico e giuridico - sembra, laddove il consultore è Sarpi, laddove il consultore è Micanzio, entrambi, si noti, non laureati in diritto, entrambi senza patente di giurisperiti, privilegiare la sensibilità storica e politica sulla professionalità del giurisperito. E, quand'anche il consultore sia giurista di formazione, quand'anche docente a Padova, non potrà certo dissertare a mo' di giurista puro; dovrà essere duttilmente assecondante con l'intenzionalità politica della classe dirigente. Se il diritto dev'essere blocco compatto, internamente coerente, suscettibile solo d'un argomentare interno, ebbene questo diritto è estraneo al decidere d'una classe dirigente restia ad imbrigliare la sua quotidiana prassi deliberante - configurabile, se si vuole, dato che Venezia è la giustizia, a mo' di quotidiana manutenzione dell'equo - in una coerenza desunta da una sistematica che le è estranea.

Sintomatico che i nobili veneziani se, nell'adolescenza, studenti a Padova, ascoltino le lezioni filosofiche nella facoltà degli "artisti", preferiscano, se si laureano, ottenere l'alloro dei filosofi, manifestando così - indirettamente - un disinteresse per la forma diritto, quasi col diritto sistema ci si debba annoiare. Ne consegue che lo studio sistematico del diritto non è previsto nell'itinerario formativo del patrizio, a meno che non opti (ma ciò, rispetto a Venezia, è un disertare) per la carriera ecclesiastica. E, lo si è già detto, nemmeno i cancellieri, nemmeno i segretari risultano dotati di studi giuridici. Assente, allora, nella trattatistica giuridica cinque-seicentesca il perentorio segno del patriziato marciano. È un "assessore", come il rodigino Giovanni Bonifacio, a stendere il Liber de furtis (Vicenza 1599 e 1619), ad appiccicare alla legge senatoria in materia feudale del 15 dicembre 1586 il relativo Commentario (Rovigo 1624). Il senato, insomma, delibera; al provinciale laureato in diritto a Padova il subalterno compito di recepire giuridicamente la portata della "parte" senatoria. Questa - commentata o meno che sia dallo zelo di un giurisperito - vige in ogni caso, indifferente e imperturbabile rispetto al sapere tecnico, al sapere professionale dei dottori in utroque. Vasta la gamma delle letture di uno statista come Leonardo Donà, dai libri di storia ai testi mistici, ma non figura alcuno dei trattati obbligatori per i "leggisti" patavini. Forse anche per questo la legislazione è sovrabbondante, torrenziale, ipertrofica. Né i giurisperiti convocati a sistemarla riescono ad inquadrarla, a raggrupparla, a trasformarla in sistema. Nessun esito ha l'incarico in tal senso, all'inizio del '600, a Giovanni Finetti. Né si presta attenzione alla suddivisione in 14 "materie" proposta da Giovanni Bonifacio pubblicando, a Rovigo nel 1625, il suo Metodo delle leggi [...> di Venezia. Riottosa ad ogni criterio riordinante ed accorpante la selva legislativa espressione d'un patriziato convinto che lo studio del diritto sia dimensione sottostante a quella della titolarità dell'equità che ritiene propria prerogativa. È un grande giurista a Padova, tanto per dire, un Marco Mantova Benavides e per tale stimato dai colleghi. Ma, se è introdotto nel mondo patrizio, non è perché giurisperito, ma perché - come il patriziato - ama le lettere, è colto e - come il grande patriziato - colleziona cose belle, s'appassiona d'antichità.

Patrizi con la penna

Classe dirigente nel senso pieno della parola, egemone culturalmente, oltre che governante, quella veneziana. E, se non scrive di diritto, scrive, in compenso, le leggi. E, oltre a ciò, scrive per attestare la propria preparazione, per partecipare e pilotare gli andamenti della vita culturale; scrive, altresì, perché medita e riflette; scrive per automotivarsi; scrive per automemorizzarsi. E giovani patrizi - in concomitanza al venir meno della pratica della precoce iniziazione al "trafego" -, finiti gli studi, si compiacciono di far coincidere l'ingresso nella politica col tratto qualificante d'uno scritto a stampa. Per lo più filosofici i temi e, per di più, combinanti Aristotele e Platone e, per lo più, animati da una concezione fiduciosa nell'ordine del cosmo e nella funzione positiva della conoscenza. Mentre lo Stagirita campeggia esclusivo nei Tre libri della sostanza et forma del mondo (Venetia 1545) di Giovan Maria Memmo ove la sua astronomia è esposta in forma dialogica, ecco che, nella trattatistica successiva, compare - e non in termini di contrapposizione - anche Platone. Ed un platonismo moderato ispira i dieci libri Academicarum contemplationum (Venetiis 1576) di Stefano Tiepolo ed un aristotelismo conciliante impronta i sette libri Peripateticarum de anima disputationum (Venetiis 1587) (8) di Pietro Duodo. Entrambi allievi a Padova di Francesco Piccolomini, con la contemporanea stesura dei due trattati, che sono complementari, che si prestano ad una lettura sinottica, rendono omaggio al sincretismo del comune maestro. Meno scolastico, meno dipendente dalla suggestione d'un unico magistero il De perfectione rerum (Venetiis 1576) di Niccolò Contarini, ove - al di là dell'ambizione di sistemazione generale - trova accenti sinceri la genuina ansia di conoscenza globale che spinge il giovane a guardare a Dio avvertendo nel contempo l'inadeguatezza d'ogni formulazione in proposito. Riscontrabile, ad ogni modo, negli scritti filosofici di giovani patrizi reduci da Padova più che forza speculativa una certa capacità d'esporre quanto assimilato nelle aule universitarie. Né, in genere, a detti scritti segue dell'altro, quasi con questi si dimostrino, una volta per tutte, i frutti d'uno studio protratto, ma non al punto da debordare sì da proseguire dopo l'avvio della carriera politica. Per certi versi siffatti trattati e trattatelli suonano e come testimonianza d'un'adolescenza seriamente impegnata nello studio e come fuoruscita dall'adolescenza. Dato il primato della politica indulgere a produrne in età matura sarebbe un attestato di scarso impegno politico. Perciò detti scritti vanno pur sempre situati come espressione d'una fase preparatoria rispetto alla politica. Ed il giovane Niccolò Contarini non manca, nel suo trattato, d'osservare come la filosofia sia impoverente se non si proietta attivamente alla volta della repubblica, se non si slarga sino ad esitare nell'operare a pro della civitas. È così, non filosofando, che l'esistenza patrizia assume senso e significato. Volendo scrivere - se ne può dedurre -, sarà bene l'uomo fatto, se di rango patrizio, scriva di politica, scriva di storia. E, in effetti, né Duodo, né Tiepolo, né - ovviamente - lo stesso Contarini disserteranno più di cose filosofiche.

Quanto ai nobili veneti che - come Memmo il quale scrive del più e del meno - preferiscono una vita appartata di studio, non è che l'estraneità alla politica o l'intermittente e un po' distratta partecipazione a questa funga da incubazione ad un apporto originale, produca un autentico avanzamento in campo filosofico. Quanti, tra i patrizi, trascurano la politica per meglio dedicarsi agli studi danno l'impressione di dilettanti qua e là piluccanti piuttosto che di cervelli intensamente concentrati. E, quand'anche lascino un qualche segno, questo è di tipo erudito o letterario, non già speculativo. È questo il caso, ad esempio, di Sebastiano Erizzo, che, assente per un ventennio dalla scena pubblica, non va tanto ricordato pel suo Trattato dell'istrumento et via inventrice degli antichi (Venetia 1554) e nemmeno per la lettura platonicizzante di tre canzoni petrarchesche dedotta, appunto, dalla sua venerazione per Platone (di cui traduce il Timeo, l'Eutifrone, l'Apologia di Socrate, il Critone, il Fedone) che s'ingegna di cristianizzare con ritocchi suggeriti dal neoplatonismo, dalla patristica greca, da s. Agostino. Va, piuttosto, ricordato in quanto autore - in un'età di collezionismo e di passione per l'antico - d'uno dei primi trattati sistematici di numismatica che esce nel 1559 (e viene ristampato nel 1568, 1571 e, circa, nel 1573) col titolo di Discorso sopra le medaglie antiche con particolare dichiarazione di molti riversi. In polemica con Enea Vico - il numismatico parmense col quale collabora a Venezia il dotto patrizio Niccolò Zantani, marito della donna di cui s'innamora Lorenzino de' Medici - Erizzo esclude le "medaglie" antiche, di cui è appassionato e attento collezionista, abbiano avuto una funzione venale, siano state, insomma, monete. Meramente celebrativa, rievocativa, commemorativa la loro finalità, a suo dire. Stabilita così la loro destinazione, Erizzo le interpreta e le spiega alla luce della letteratura antica, riscontrandole colla scorta degli autori classici. Non suppone - e ciò vale pure pel rivale Enea Vico e per gli albori della numismatica in genere - dette "medaglie" possano comunicare autonomamente. Una soggezione ai testi scritti foriera di fraintendimenti, quale quello per cui una contromarca d'accesso ad un bordello diventa - nella lettura di Erizzo - una medaglia oscena voluta a bella posta da Tiberio a propaganda delle inclinazioni attribuitegli dalla storiografia. Ciò non toglie il Discorso di Erizzo segni, per le smanie collezionistiche, un salto di qualità, quanto meno un'esigenza valutativa, quanto meno l'avvio ad un intendimento avvertito.

Quanto a Le sei giornate (Venetia 1567) (9), vale a dire i 36 racconti che Erizzo finge narrati da una "brigata" di 6 studenti a Padova in 6 giorni, non vanno esclusivamente ridotte ad esempio d'esaurita vivacità narrativa, a tipico caso di plumbea opacità inventiva da addebitarsi al clima controriformistico e ai relativi scrupoli inibenti. Ad un esame ravvicinato siffatto incasellamento - grigio prodotto d'un'età d'ingrigimento - non appare pertinente. La casistica dell'opera - e, a detta dell'autore, non si tratta tanto d'una raccolta di "novelle", quanto d'una serie di avvenimenti singolari donde trarre esempio - esita, infatti, in un'etica civica più che devota. Non a caso tra le fonti - fermo restando che la principale è Valerio Massimo compare il Machiavelli dei Discorsi, un cui brano è pure ricalcato da Erizzo nel suo breve Discorso, del 1571, dei governi civili, del quale è dedicatario quel Girolamo Venier cui, ancora nel 1549, lo stesso Erizzo ha indirizzato una sua Lettera sulla poesia (10), intesa a mo' di favola bella ove la "filosofia theologica naturale e morale si vede riposta". Compilazione riassuntiva la sortita politologica di Erizzo riprende l'"opinione" d'Aristotele e piú ancora il VI libro della storia polibiana, a proposito della quale è soprattutto da rilevare come - laddove vuol essere più nettamente definitorio - l'autore si rifaccia a Machiavelli, guardandosi bene dal nominarlo. In effetti il Segretario fiorentino è un po' il grande innominato - e ciò a causa della messa all'indice - nel pensiero politico lagunare. Lo si legge, lo si utilizza, lo si tiene presente e, nel contempo, se ne tace. Ufficialmente assente, Machiavelli ha, di fatto, una carsica circolazione, una vita clandestina. Di lui si discute, pare, in adunanze semisegrete e - stando alla denuncia d'un transfuga a Roma all'epoca dell'interdetto - la "maggior parte dei nobili" veneziani ne possederebbe l'opera (11). Annoverabile indubbiamente tra i suoi lettori - per tale lo denunciano una lista di puntuali riscontri - Piermaria Contarini che, scialbo al pari d'Erizzo per impegno pubblico, è, come quello, patrizio scrittore. È autore, infatti, d'un frigido libretto sull'arte di guerreggiare che esce a Venezia nel 1601; in questo, accostando esempi tratti da testi antichi e recenti e senza alcuna preoccupazione di fissare differenze di tecnica ed armamento tra l'ieri e l'oggi, pretende d'insegnare come, con forze minori, si possano battere forze maggiori. Poca cosa questo scrittarello militare, epperò non dimentico di Machiavelli, le cui suggestioni sono ancor più avvertibili nel di poco successivo trattato di Piermaria Contarini sulle "diverse maniere" colle quali configurare lo stato, donde si evince che la forma statuale lagunare sarebbe la più valida ché riassumente in sé ben 5 tipi di governo, quello regio, quello aristocratico, quello oligarchico (da notare che quest'aspetto viene attribuito al consiglio dei X), quello cittadino, quello popolare. Piuttosto farraginoso il dissertare contariniano, epperò ogni tanto movimentato da una sorta di scoppio d'accensione quando - nel riecheggiare Machiavelli - la prosa s'inarca in una formulazione dalla sin brutale franchezza. Ancora direttamente stimolante l'ombra del Segretario fiorentino se Contarini - ad evitare lo smottamento dello stato - ne caldeggia, comunque questo sia strutturato, qualsiasi sia la sua forma, il vivificante riandare "verso il suo principio", l'energica "reduzione" alla forza rigenerante delle origini. Appartato patrizio con la penna in mano Contarini, la cui erudizione catalogatoria, altrimenti piuttosto opaca ed inerte, deve a Machiavelli i suoi attimi di nervoso soprassalto. Supponibile altresì un minimo di suggestione di Machiavelli anche in un autore di ben più alta statura di Contarini, quale Cristoforo da Canal, che nel suo trattato Della milizia marittima trasfonde la sua sofferta e concreta esperienza biografica. Stesa nel 1553-54 - quando cioè la grandezza marinara di Venezia e l'energia militare in mare della sua classe dirigente sono molto diminuite rispetto a quelle ammirate dal Segretario fiorentino in forma dialogica e convocante interlocutori profilati a discutere della galera, dell'equipaggio, delle qualità del comandante, l'opera, nell'impianto, non va escluso riecheggi la machiavelliana e, appunto, dialogata e, appunto, connotata dal forte profilo dei dialoganti Arte della guerra. E l'ardire e l'astuzia auspicate nel comandante in mare hanno un certo qual sentore del principe che dev'essere e "golpe" e "lione".

Certo, comunque, che, se si pensa al rilievo storico di da Canal - è lui, tanto per dire, che, preso atto della crisi del reclutamento di volontari (un risvolto significativo dell'afflosciarsi del già volitivo slancio marittimo della Repubblica), più insiste pel ricorso ai rematori forzati - e al suo mettere a frutto, nel trattato, la sua effettiva pratica, vien da dire che la trattatistica patrizia di più alto livello nasce dall'impegno pubblico al più alto livello. Non dunque dalle compilazioni attestanti frequentazione di aule patavine e nemmeno dal chiuso di studi appartati. E Paruta è il maggiore ideologo dell'aristocrazia lagunare ed il suo più grande trattatista perché - superando le obiezioni e le perplessità suscitate dalla Controriforma, disinnescandone la carica disgregante - si fa carico d'orchestrare, dilatando al massimo gli accenti più persuasivi, ricorrendo alla sonorità dei timbri più gratificanti, il significato dell'esistenza patrizia tutta risolta nella dimensione pubblica. Questa, nelle pagine parutiane, risplende nuovamente, non più offuscata e insidiata dalla Controriforma. L'automotivazione della classe di governo si fa autovalorizzazione ed autodeterminazione. Se Venezia è "perfetto governo", la politica significa ribadimento, manutenzione, conservazione della perfezione costituzionale, la quale - salvata dalle aggressioni dei fatti - s'eleva a mo' d'esempio nel mareggiare tumultuoso e torbido della storia. Elargitrice di pace sociale all'interno ecco che - sul piano internazionale - Venezia è legittimata a proporre l'esempio della propria intima armonia, ad additare la via della contemperanza e dell'equilibrio. Non forza leonina e volpina astuzia la politica, non lacerante tensione sociale, non brama d'espansione, ma "somma prudenza" mirante alla "quiete" operosa realizzabile nella dimensione ottimale dello stato "mediocre" attivante la "civile felicità" incorniciata dalla sapiente "mistione" di "ordini ben disposti". Donde il privilegiamento della città marciana, quasi tangibile coincidenza tra essere e dover essere. È lei lo stato "eccellente" che può vantare la "tranquillità della vita civile", ignara del travaglio della "discussione", non turbata dalle contrapposte spinte della rivoltosa anarchia e dell'atroce "tirannide".

Autentico peana delle medie proporzioni i parutiani Discorsi politici, che escono postumi nel 1599. Costante in questi la polemica con Machiavelli, senza che per questo Paruta diventi l'Antimachiavelli della Controriforma, ché pur sempre fautore di civici valori, pur sempre riconducibile all'umanesimo civile. Assolutamente positivo, per Paruta, Venezia sia "stato assai minore" dell'antica Roma. La straripante "potenza" di questa, la sua gigantesca "grandezza", sempre inquietate da smodati appetiti, hanno finito per produrre il "corpo mostruoso" dell'impero che crolla per l'eccesso stesso del suo peso. Sinonimo, inoltre, di "ingiustizia" lo "stato grande". Aureamente mediocre, di contro, Venezia, e perciò città "virtuosa", giusta, dalle "buone leggi" radicate nell'"onesto", impaginante, colla sua "dritta forma di governo", non turbata dalla conflittualità come quella della Roma repubblicana, non precipite nella tirannide come quella della Roma imperiale, la fusione governanti-governati, la sintonia tra comando e obbedienza, l'armonia tra beneficio dall'alto e gratitudine dal basso. Di giovamento a "tutta Italia" e all'Europa nel suo complesso il "prudente e sicuro consiglio" del governo marciano. "Grande e veramente meraviglioso" l'"effetto" irradiante dalla lagunare utopia realizzata: la città giusta, ammonendo il mondo ingiusto, indica, pur sempre, a questo la via della salvezza. Laddove la Milano dell'arcivescovo Carlo Borromeo è vicino esempio d'un fervore episcopale irriguardoso con la politica e i politici, laddove la "villa" a mo' di "paradiso terrestre" distrae dalla città, laddove le delusioni del dopo Lepanto hanno prodotto scoramento, laddove la falcidie della peste ha segnato per sempre le anime, laddove la carriera ecclesiastica è alleata con promesse di prestigio e di lucro, ecco che Paruta, rilanciando il mito di Venezia, ripropone con forza la dignità e la nobiltà della politica. A lei si volga l'uomo "adorno di perfetta prudenza". C'è ben a valorizzarlo la "perfezzione della vita politica", giusto il titolo del trattato parutiano. Non la fuga egoistica dalla città, ma la "vita civile" poggiante sul "beneficio che l'uno può prestare all'altro". La "filosofia" non come "arte statuaria" di imbalsamante concentrazione meditabonda, ma come preludio preparatorio alla consapevole direzione della famiglia, all'oculata amministrazione domestica e, soprattutto alle "operazioni civili", alle pubbliche incombenze. Sono queste ultime le "opere veramente egregie e divine", realizzando le quali la grandezza dell'uomo è ben più meritoria che nella separatezza contemplativa ed assorta dell'uomo "solitario". Deprecabile, per Paruta, l'autoisolamento, anche se meditante e riflettente e speculante; è quanto meno ingeneroso, ché si tratta pur sempre d'atteggiamento proprio di chi vive "come se a sé solo nato fusse". Un'inclinazione combattuta da Paruta enfatizzando il primato della politica che - anziché semplificarsi, come in Machiavelli, in violentazione dell'esistente e con la forza e con l'astuzia - si correda, in lui, di tutte le virtù, si riveste di preoccupazioni e scrupoli, si complica di riguardi e cautele. Salvataggio di valori rinascimentali attraverso la Controriforma quello parutiano, epperò non contro la Controriforma, ma soltanto da questa salvati perché con questa un po' pattuiti, un po' contrattati. Netta, comunque, al di là degli accorgimenti sfumanti ed ammorbidenti, della smussatura degli spigoli e della diluizione delle asprezze, la risposta parutiana al dilemma - realmente drammatico per tanti patrizi dopo la perdita di Cipro, dopo la furia dell'epidemia, dopo il richiamo della villa, dopo l'infittirsi degli allettamenti della vita ecclesiastica, dopo il moltiplicarsi delle teorizzaziorni dell'otium studioso - "se l'uomo debba porsi al governo della repubblica, ovvero ritirarsi nell'ozio della vita privata". C'è in ballo il da fare d'una classe dirigente turbata, perplessa, dubitosa. Che scegliere? Di questo Paruta fa discutere gli interlocutori del suo dialogo. Energico, man mano questo si svolge, il richiamo ai doveri pubblici, all'"operazione virtuosa" d'attuare la "civile felicità". Ad una classe dirigente delusa dalla vita attiva, tentata dalla vita contemplativa viene riproposta come più positiva la prima. Più valida questa se diventa politica che s'impone come autonoma autosufficienza. A "niun altro fine", infatti, "riguarda fuor che a se stessa", a ciò legittimata dal suo costituirsi come la più alta forma di moralità dal momento che si slarga a "civile felicità". Ecco la ragion d'essere innervante il governo patrizio. Essendo Venezia "degna patria" per gli spiriti nobili, "sede" per eccellenza dell'"uomo civile", la politica, se in lei e per lei, assurge a "perfezzione". Immorale, a questo punto, la diserzione, colpevole la disaffezione. La classe di governo deve ritrovare l'entusiasmo direttivo, rinsaldarsi nella dedizione alla Serenissima. Non ceda al miraggio di romane porpore cardinalizie, alla suggestione del salmodiare nei chiostri conventuali; non si frammenti nella diaspora degli egoismi individuali; non si scheggi in grumi di silenzio; non rinunci al compito storico di vegliare sull'eccezionalità di Venezia, di presidiare la sua unicità. Vertice dell'umano sapere la marciana sapienza di stato, la lagunare prudenza legiferante. Vertice dell'umana bellezza la veneziana compenetrazione di splendore urbano ed armonia costituzionale. Vertice d'umana virtù il politico veneziano dedicante tutto se stesso al servizio della città che realizza al meglio le aspirazioni umane al giusto e al bello.

Col che Venezia si staglia, in Paruta, come utopia realizzata. Un'utopia - va precisato - intollerante, nella sua presunzione di compiutezza esaustiva, d'ulteriori pressioni utopiche. Un'utopia, dunque, all'insegna della "prudenza" e della moderazione, in base alle quali può dichiararsi attuata come ordine perfetto, che, proprio per questo, esige l'intangibilità del proprio assetto imperniato sul dominio e predominio aristocratici. Lecite, allora, le domande per detto dominio compatibili, riprovevoli le esorbitanti, le contestanti, le eccedenti, le travalicanti. Rispetto a queste la lagunare "perfezzione" è chiusura, sbarramento, repressione. Città perfetta Venezia, con politici i quali, proprio perché addetti alla manutenzione e al presidio di detta perfezione, sono essi stessi perfetti ché titolari del massimo traguardo di cui "può essere capace la nostra umanità fin tanto che uomini siamo". Una perfezione che distingue governanti e governati, impermeabile ad ogni auspicio d'eguaglianza, anzi sostanziata di gerarchia e sperequazione. Proprio perché caricato dell'onere del governo, al patriziato competono "onori" e "ricchezze", latrici queste della sua "forza" e "dignità", alimento nella "fortuna prospera", difesa contro i "colpi dell'avversa". È la consistenza patrimoniale che permette al patriziato il disinteressato servizio dello stato. Ed è, d'altronde, il suo avveduto esercizio del governo a fare di Venezia la città opulenta e operosa dove rigogliose sono le attività, copiose le "ricchezze", abbondanti i "comodi", sicché la vita vi fluisce lieta, dilettevole, con punte di sontuoso splendore. Quale maledizione deve indurre alla rinuncia ai piaceri della vita? perché l'ascesi arcigna della contemplazione quando a Venezia la vita può essere mossa e gioiosa? Insensato negarsela. Ed è merito del governo aristocratico se ai sudditi è dato di vivere lietamente. Essi sanno che beneficiano del miglior governo del mondo. Va da sé che l'"ubbidienza" pronta e riconoscente dei "popoli" è il corrispettivo della "pace", dell'"ordine", della "concordia", dell'abbondanza, della giustizia distribuiti dall'ottimo governo. Va da sé che questo è grato a Dio, è premiato dal favore divino. Sui governanti lagunari operanti "con sapienza e con fine di vera carità" scende luminoso il "raggio della divina giustizia". Da questa ispirati e incoraggiati, ecco che non basta rispettarli quali "eccellenti uomini", ma vien "quasi" da adorarli "come semidei". Siamo in pieno tripudio del mito di Venezia che, in Paruta, si articola come mito della classe dirigente veneziana. Non che Paruta ignori che politica significa "tenere i popoli bassi" (12). Proprio perché lo sa, il mito del buon governo è, in tal senso, funzionale. Come vale a riaccendere l'entusiasmo dei governanti, così induce all'ottemperanza più riverente e grata i sudditi.

Sapienza dispiegante la "civile felicità" la politica nel dettato parutiano, quando più l'ideologia s'impenna, nello slancio della motivazione ritrovata, per la ricarica della molla dell'entusiasmo, così superando la congiuntura della stanchezza, così risalendo la china della rinuncia, così tamponando l'emorragia dell'evasione patrizia dal proprio compito storico. Ma un conto sono le motivazioni forti alla vita attiva orchestrate coi toni alti dell'orgoglio di sé della classe dirigente, un conto l'impatto quotidiano col pesante condizionamento del soffocante accerchiamento asburgico, con la logorante opposizione pontificia al giurisdizionalismo veneto lesivo, a detta della S. Sede, della cosiddetta "libertà ecclesiastica". Non si tratta, in questo caso, d'anteporre la nobiltà dell'impegno politico alle varie tentazioni al disimpegno. Occorre scegliere tra la fermezza con rischio e il compromesso, a tutta prima meno rischioso, ma alla lunga foriero di crescente indebolimento. Compatto il corpo aristocratico nell'assunzione dei propri compiti direttivi, epperò diviso nello svolgimento effettivo di questi in due schieramenti, uno, quello dei "vecchi", più conciliante con le pretese romane e più riguardoso con la Spagna, l'altro, quello dei "giovani", intransigente con la S. Sede e animosamente antispagnolo. "Buoni", a detta dei nunzi pontifici, i primi, "cattivi" i secondi. Fatto sta che il patriziato si divide proprio nell'ambito della politica che - stando alla celebrazione parutiana - dovrebbe essere dimensione carica d'entusiasmo unificante. E, invece, se verificata come prassi quotidiana, è fatica, sensazione d'impotenza, bega, fastidio, litigio, noia. Non già incisiva presenza nella storia, allora, la politica; semmai la posizione più esposta al peso insopportabile della stessa. Ma vale la pena sacrificare la vita alla politica? Le contromotivazioni all'impegno pubblico sconfitte nella Perfezzione della vita politica, lungi dal ritirarsi, sono sempre presenti, sempre incalzanti ed assalgono lo stesso Paruta proprio quando, rappresentante della Serenissima a Roma, il suo rilievo politico s'inarca al massimo. Un assalto vincente, stando al Soliloquio, scritto per sé da Paruta, epperò pubblicato dai figli "nel fine" dell'edizione postuma dei suoi Discorsi, da essi dedicata al patriarca d'Aquileia Francesco Barbaro, vale a dire al prelato (veneziano di nascita, ma che si schiererà con Roma durante l'interdetto e che sarà caratterizzato dall'odio, ricambiatissimo, per Sarpi) più suggestionato da Carlo Borromeo, ad esorcizzare il quale è stata, a suo tempo, anche scritta la Perfezzione della vita politica. Sin sconcertante, rispetto al testo, rispetto al suo autore, in quest'edizione, il peritesto! Epperò non del tutto arbitrario se si considera che i Discorsi e, a maggior ragione, la Perfezzione vengono disdetti dalla palinodia della politica condensata nel Soliloquio. In questo si dice che nessuna civitas, nessuna polis è sede dell'anima, nemmeno Venezia. Essa, l'anima, ritrova se stessa nella balsamica "soavissima quiete" dei "chiostri, lontani [...> dal mondo", respira appieno soltanto nell'"ozio santo" dei "buoni padri", nutrito d' "orazioni", alimentato da "meditazioni". Ecco la miglior vita, quella contemplativa, quella dell'"ozio" salvifico e, perciò, "vero negozio". Paruta non maledice del tutto la politica; però, per ciò che lo concerne, sconfessa il tempo sciupato pel mondo e nel mondo. Comunque le fatiche destinate alla famiglia e alla patria terrena spera abbiano - viste dall'alto - un minimo di giustificazione. Dio può essere un po' indulgente verso la "particolare obbedienza di servire a' bisogni della patria". Ma così Paruta quasi domanda perdono; così non esalta certo la politica. Cala ormai l'epigrafe sui valori del Rinascimento. Arriva, col Soliloquio, l'inverno coi suoi brividi raggelanti a porre fine al troppo protratto autunno, appunto, del Rinascimento in laguna. Grande politico dell'ultimo '500 Paruta, argomentato politologo, orchestratore in un'unica sinfonia dei temi e dei motivi del mito di Venezia, ideologo principe della superbia ottimatizia marciana, ma anche - col Soliloquio - grande pentito che cancella il Rinascimento e va indietro - o avanti? - sino a s. Agostino. "Vana" - scandisce Paruta - la "gloria del mondo", i suoi fini non sono il "vero fine".

Sia il Soliloquio il frutto d'un momento circoscritto di particolare scoramento oppure una consapevole dichiarazione di decesso per le idealità rinascimentali proprio da parte di colui che più s'è adoperato per riattivarle, fatto sta che, nel '600, non troviamo penne patrizie in qualche modo rifacentisi a Gasparo Contarini, a Donato Giannotti e, più ancora, a Paruta per esaltare la forma stato veneziana e per ribadire l'impegno in questa come la vita più significante. Persistono sì la celebrazione della Venezia repubblicana e il panegirico dei suoi governanti, ma sempre più piatti e ripetitivi e - per di più - delegati alla piaggeria d'elementi estranei al corpo ottimatizio. Vezzeggiato, consigliato, lusingato il patrizio marciano dal Ritratto di gentilhuomo veneziano [...> (Venetia 1610) di Giovanni Olcinio e da Il nobile veneto (Venetia 1623; segue, nel 1633, la ristampa notevolmente ampliata, col titolo di L'idea di gentilhuomo di Republica [...>) d'Antonino Colluraffi, ma anche genericizzato, banalizzato, stinto, assimilato alla nobiltà del resto della penisola. Anteposta "la forma della republica veneta" a tutte le altre nel Parallelo politico delle Republiche antiche e moderne (Padova 1627) di Pompeo Caimo, ma più con verbosità omaggiante che con intima convinzione. Impressionante, nel contempo, il mutismo patrizio su di sé e ancor più impressionante il gradimento patrizio per le adulazioni a lui rivolte, il suo raccattare elogi a destra e a manca anche dalle penne più screditate, anche dai personaggi più inattendibili, più inaffidabili. Sembra quasi la classe dirigente non abbia più voglia - dopo il massimo d'autodicitura tramite Paruta - di pensarsi e di dirsi, paga dello squittire loquace dei pennivendoli. Afasia, dunque, e, insieme, indulgenza pei complimenti e, persino, ricerca di complimenti, persino benevola attenzione alle ingannevoli lusinghe d'adulatori interessati. Una debolezza, siffatto ascolto dell'altrui dire, direttamente proporzionale al proprio silenzio. Questo, abbiamo detto, è impressionante. Ciò non toglie sia comprensibile e, persino, giustificabile. Paruta ha già detto e scritto il dicibile e lo scrivibile nel senso dell'automotivazione e, anche, dell'autocompiacimento d'una classe dirigente. Insistere ulteriormente, da parte della classe dirigente, a ribattere il tasto della "perfezzione" sarebbe stato esiziale autoinganno. E non tanto perché - come ha constatato lo stesso Paruta nel Soliloquio - la "perfezzione" non è di questo mondo, quanto perché necessita un altro tipo di discorso. S'impone, per forza argomentativa, coerenza, lucidità quello di Sarpi, il quale, anche se non è nobile, è guida intellettuale e morale per il settore intellettualmente più vivace e moralmente più esigente del patriziato e, anche se non è senatore, quasi sembra dettare, durante l'interdetto, talune delibere senatorie. Ebbene: Sarpi parla sì di politica, ma senza annaffiare la pianta, in via di rinsecchimento, del mito dell'ottimo governo espresso da una classe dirigente mirabile. Sarpi non si preoccupa di dimostrare che Venezia è la città "felice", che è sinonimo di "civile felicità". Vuole, invece, pungolare un governo, che avverte troppo cedevole, alla più energica delle intransigenze sul terreno giurisdizionale. La politica, allora, come recupero della pienezza sovrana. Il "prencipe" - ossia il vertice rappresentativo dogale e, insieme, il patriziato come, appunto, principe collettivo - è tale solo se incondizionata, non intercettabile, onnipervasiva è la sua "potestà" o "sopranità", vale a dire la sua effettiva capacità di comando su ogni "cosa e persona" nel territorio a lui soggetto. Possa insomma disporre di quanto è utile e necessario al "bene pubblico" ovunque e comunque, senza che sussistano spazi e, nemmeno, interstizi sottratti alla forza prescrittiva dei suoi ordini. Ed accenti sarpiani risuonano nell'Aviso delle ragioni [...> di Venezia intorno alle difficoltà che le sono promosse dalla santità di papa Paolo V [...> (Venetia 1606) d'Antonio Querini (13), un nobile che si definisce "uno de' più rigidi defensori delle leggi e giurisdittioni secolari". Il "prencipe", sostiene Querini, comanda a tutti "indefferentemente", non può tollerare sacche di privilegiata esenzione dall'obbedienza. Lo ispirano lo zelo di "buon governo d'i sudditi", la "quiete e sicurtà dello stato". Non la Repubblica ha "commesso errore", ma il pontefice interferendo nell'ambito sovrano di quella. Quanto all'oggetto del contendere - delle leggi della Serenissima nonché l'arresto di due ecclesiastici rei di reati comuni -, Venezia "avrebbe peccato se avesse fatto altrimente". Ne consegue che sarebbe "peccato" anche piegarsi alle intimidazioni romane e, al limite, che da Roma si induce al "peccato". Formalmente riguardoso colla S. Sede Querini, ma sostanzialmente durissimo, pur nel tono apparentemente pacato del suo argomentare.

Presente, in Querini e, dietro di lui, nella sua classe d'appartenenza, una moderna concezione della sovranità e, insieme, nella misura in cui questa viene intralciata da Roma, l'esigenza di una sua legittimazione nel quadro dell'ortodossia religiosa. Non per niente la Repubblica ricorre alla competenza dei suoi "teologi"; e tra questi il più autorevole è Sarpi. Città fedele, devota, fitta di conventi, piena di chiese e luoghi pii, con tante reliquie, Venezia; essa - insiste Querini - è ardente di carità, "nata cristiana, cattolica", mai "contaminata d'alcuna eresia". Il che - precisa - non è affermabile per "alcun'altra parte della cristianità", nemmeno per Roma, "neanco dell'ordine dei pontefici". Nessuna città - e qui rispunta direttamente utilizzabile in funzione polemica un ingrediente del mito di Venezia, quello della sua accentuata tonalità religiosa - è, come Venezia, "ossequente alla Sede Romana", nessuno stato può, come la Serenissima, vantare una così "continuata uniformità" di rispettosa riverenza alla volta di Roma. Ma, come si può constatare, è il patrizio veneto Querini a conferire a Venezia la patente di città cattolicissima; e ciò in un testo ove si dice, implicitamente, che il vero peccatore è il papa laddove pretenderebbe d'imporre a Venezia, colla richiesta revoca delle leggi, colla richiesta consegna al foro ecclesiastico dei due preti delinquenti, un comportamento peccaminoso. E ciò quasi destituendo il papa della titolarità nel conferire patenti di cattolicità. Cattolico, in effetti, Querini, ma non senza pretese di teologia di stato. D'altronde, se c'è la sapienza di stato, è sin scontato che questa s'atteggi un po' anche a sapienza teologica, quanto meno riserbi a se stessa la perimetrazione della propria sfera di diretto controllo e così restringendo quella di pertinenza pontificia. Fatto sta che, nelle pagine queriniane, non è che, in concreto, resti gran traccia della proclamata riverenza alla Sede Apostolica: il pontefice Paolo V, nella misura in cui è interdicente e scomunicante, assume le scomposte fattezze dell'iracondo incapace d'autocontrollo, furibondo, schiumante rabbia. È uomo - osserva apparentemente pacato Querini - "d'appassionato animo", non già di "maturo consiglio".

Nobile dalla risentita moralità e dalla scavata religiosità Querini, che muore, all'inizio del 1608, confessandosi, comunicandosi, raccomandandosi "al crocefisso che teneva appresso", senza però rinnegare - come avrebbe preteso il nunzio papale - il suo passato politico. Lo si può situare, come altri patrizi coevi, nel solco d'un cattolicesimo in certo qual modo atridentino, non succube di Roma sul terreno giurisdizionale e senz'altro ostile al temporalismo romano. Volendo, invece, individuare, sempre tra le file patrizie, almeno un caso rappresentativo di religioso sentire che sia, anche, consentire colla Controriforma, forse il nome più adatto è quello d'Agostino Valier, il quale - già docente nella Scuola di Rialto - è vescovo di Verona dal 1565, cardinale dal 1583 e muore a Roma nel 1606, angosciato per la contesa veneto-pontificia in corso che invano s'è adoperato ad evitare. Intinti nell'inchiostro della più devota compunzione i suoi scritti, ma anche trepidi d'affetto per Venezia e, insieme, sostanziati di consapevolezza del presente, tradotta in proposte praticabili per ruolizzare Venezia in un contesto segnato, una volta per tutte, dal Tridentino. Rivisitando la storia veneta, ne addita la positività nell'appurata coniugabilità della "politica prudentia" con lo zelo della cristiana pietà. È rifacendosi a questa tradizione che Venezia può essere ancora significativa; ed è procedendo in accordo con Roma che la politica assurge a disciplinata milizia, che operosa asseconda il fluire positivo degli eventi. Di formazione umanistica Valier, epperò netta la sua presa di distanza dai classici antichi, critica la sua valutazione della moralità e della sapienza pagane, a suo avviso svianti. La grande poesia è verità. Donde la sua preferenza per i salmi davidici, per Dante; diffida invece di Petrarca, e, ancor più, del titillamento verseggiante che a quello si rifà. Donde il suo anteporre a tutto e su tutto la Bibbia. Valier è sgomento di fronte alla caducità delle cose, alla loro vanità, alla loro precarietà, avverte la miseria degli onori e delle ambizioni, la loro pochezza, la loro meschinità, ma non al punto da fuggire il mondo, bensì da asserire la necessità d'un riferimento costante all'eterno. La storia, per lui, non gira a vuoto, non è vittima dei capricci della fortuna. Ha una direzione. E pure la vicenda veneziana va verso l'eterno ed è dall'alto vegliata. Nel loro mescolare religione e politica, eticità e rimeditazione della storia, gli scritti di Valier ne testimoniano la fede e, pure, la sensibilità storico-politica di patrizio che, immessosi fiducioso e fervoroso nella temperie della Controriforma, indica a Venezia come la più proficua la via - già antecedentemente praticata - della sintonia con la S. Sede. Se questa pei "giovani" è cedimento, in Valier è, invece, lievitazione, crescita di significato, arricchimento.

Vescovo attivo nella riorganizzazione della diocesi alla luce del Tridentino, cardinale preoccupato di smussare la sempre più inasprita conflittualità tra Venezia e Roma, Valier non è un mistico. I suoi scritti hanno pur sempre un sentore delle cose di questo mondo e si preoccupano delle cose di questo mondo, sia pure in prospettiva. Tutto sommato Valier offre una dimensione slargante e nobilitante alla prassi, altrimenti solo compromissoria, dei "vecchi". Ascesi, invece, e mistiche accensioni abbondano e, talora, crepitano negli scritti di Giovanni Tiepolo, un nobile che, dopo i primi passi nella carriera politica, diventa, ormai più che trentenne, primicerio di S. Marco e, quindi, nel 1619, patriarca di Venezia morendo, nel 1631, di peste. Caritatevole coi poveri, pastore sollecito, epperò non gradito a Roma, per suoi rapporti - pare - di reciproca stima e confidenza con elementi di spicco del settore dei "giovani", specie con Niccolò Contarini. Prolifico autore devoto - ma non inneggiante al primato pontificio, ma non plaudente al nuovo santo Carlo Borromeo -, colla scorta della Bibbia e d'una letteratura spirituale multiforme che va da Lorenzo Giustinian ai mistici spagnoli, da Bartolomeo di Saluzzo a Francesco di Sales, dai padri della Chiesa a s. Bernardo, da s. Bonaventura a s. Brigida, nell'assimilazione d'una pluralità d'esperienze e di metodi e nella simultanea apertura alla pietà popolare, riflette sulla passione di Cristo, sui procedimenti della meditazione, sul culto dei santi, sull'itinerario alla volta dell'amor di Dio, sul Santissimo, sulla vita delle monache, sulla rapportabilità dei "flagelli" e delle "calamità" all'"ira divina". E ancora: disserta d'iconografia mariana; fissa le regole del seminario patriarcale; compila un nutrito catalogo di santi veneziani; illustra reliquie; tratta della "tribulatione". È, insomma, scrittore sacro, agiografo, meditante in proprio e, insieme, semplificante a fini divulgativi. Fortissimo il suo radicamento lagunare; in cima ai suoi pensieri e confitta nel suo cuore Venezia. Essa è "non solo paradiso terrestre per la saggezza dei" suoi "governatori, ma anche paradiso celeste per le tante reliquie" da lei possedute. È la "dolce patria" del corpo e dell'anima, la città "sicura" dello spirito, la città "invitta" della fede. "Ripiena", insiste Tiepolo, "in ogni parte ornata" e "coperta dell'ossa et reliquie dei santi" Venezia, quasi città "chiesa", quasi tutta "sacra casa" (14). Senza freni il commosso amore di Tiepolo per la città reliquiario, per la città orante. Sembra quasi che a Venezia si preghi di più e meglio che altrove. Quasi quasi Venezia si sovrappone a Roma.

Città che prega la Venezia di Tiepolo, che invoca, ma anche che piange; e piange perché si pente. Ci si pente perché si pecca. Per cui Venezia è pure la città peccante. E, tra i peccati, il primato spetta a quello dei sensi, della carne. Né mancano, nel patriziato, peccatori incalliti più preoccupati di esprimere le furie di questa che il cocente rimorso del pentimento. Non la Venezia devota, in tal caso, ma quella famelica di sesso, vogliosa, smaniosa, trasgressiva, deviante, ossessa, delirante. E di questa Venezia v'è pur traccia negli scritti patrizi. C'è un patrizio, Giovanni Querini, che con convinzione antepone le gioie dell'amplesso al diventare doge, al possedere una grande proprietà. Non c'è solo l'austera facciata dell'impegno pubblico, ci sono pure i risvolti privati, le personali inquietudini, gli intimi turbamenti, gli interni squilibri e, anche, ovviamente, i domestici affetti, le domestiche cure, le domestiche tenerezze. Più vistoso il palcoscenico della politica, ma non invisibile il vissuto dietro le quinte ché anche di questo il patriziato scrive. Com'è padrone della scrittura per governare, così sa anche adoperarla per attestare la sua sfera privata, il suo paesaggio affettivo, i suoi interni domestici. È insomma letterariamente presente. E se, nel caso dell'egemonia di Pietro Bembo, la provenienza patrizia di questi conta sino ad un certo punto - in fin dei conti si sgancia psicologicamente e ideologicamente da Venezia; in fin dei conti diventa cardinale -, non altrettanto può dirsi a proposito dell'imporsi, un secolo dopo, d'un Giovan Francesco Loredan.

Al ruolo orientante da lui svolto in fatto di scelte espressive, di sensibilità, di gusto, non è estraneo il prestigio derivantegli dalla sua appartenenza al ceto di governo. Certo: le due personalità poetiche più rilevanti del secondo '500 - Celio Magno e Gabriele Fiamma - sono di rango cittadino, non nobiliare. Ciò non toglie siano soprattutto patrizi i lirici frequentanti, a mezzo '500, il nunzio della Casa; e tra questi c'è il nobile Domenico Venier a sua volta frequentato dai letterati del tempo. Sicché si può asserire che la letteratura - sia essa persistenza o si volga all'innovazione - a Venezia viene anzitutto o prodotta o rilanciata in ambienti ad alto tasso di frequentazione nobiliare. Né Aretino - che non è nobile, che non è veneziano - potrebbe ardire tanto senza autorevoli protezioni patrizie. Senza l'usbergo di queste non potrebbe tanto atteggiarsi a flagello dei principi. E se, tutto sommato, il petrarcheggiare teorizzato e praticato dal veneziano Bembo finisce col privilegiare Firenze, l'antibembismo aretiniano diventa l'asse portante lagunare d'umori contenutistici ed espressivi decisamente irridenti rispetto alle ammanierate compostezze dei petrarchisti.

Comunque sia, sono individuabili all'interno dei due filoni - quello della compostezza esemplata su Petrarca e quello dell'uso disinvolto e disinibito della penna - voci e volti di nobili veneziani. E lo stesso dicasi per l'affermarsi, nel primo '600, del barocco letterario, quando Marino conta sull'appoggio di esponenti del patriziato, quando il suo rivale Stigliani si rivolge - per non soccombere di fronte al trionfo di quello - all'influente patrizio Domenico Molin. Se non altro in termini di protezione e di sponsorizzazione il patriziato (o, quanto meno, singoli patrizi) ha, lungo il '500 e nel primo '600, un ruolo di un certo rilievo nelle principali vicende letterarie della penisola; tant'è che lo si incontra anche nei momenti di svolta. Ma la partecipazione patrizia alla letteratura non si limita, come s'è detto, al supporto e all'intendimento. È anche esposizione in prima persona, è anche trasposizione della penna dai dispositivi del comando sul versante dei privati esercizi di scrittura. Ci sono ben patrizi che verseggiano, c'è ben una poesia di fattura patrizia. Ricorrente in questa il fantasma dell'eros, quello sublimato dei petrarchisti, quello cesellato dei manieristi.

E c'è pure quello circoscritto alla brutalità del coito di Maffio Venier e contrapposto polemicamente all'"amor", come situazione autonoma abbisognante d'un proprio linguaggio. Per "parlar d'amor", constata Venier, s'adopera il "toscan". Ma a Venier - che scrive sotto l'impulso nervoso dell'"umor", che non compone per "onor", che non vagheggia gentildonne e che ha, invece, presenti corpi e gesti di baldracche - non serve l'agghindamento affettato del fiorentino. Occorre un linguaggio diretto, franco, sapido, calzante, anche osceno, anche turpe. Alle smanie rabbiose del sesso necessita "una lengua che ha ogni saor", che sia anche ricettiva del berciare, nei canali, dei gondolieri, del contrattare tra avvinazzati e donnacce nelle calli. Il veneziano, dunque, gli si addice, anche il più lutulento e melmoso, come si conviene a chi non tanto vuole innalzarsi nelle nobilitanti plaghe dell'"amor", quanto immergersi nell'acre afrore del sesso. Insopprimibile, ad ogni modo, l'orgoglio del patriziato marciano: non gli basta la palma dell'ottimo governo, esige pure quella della espressività linguistica, della capacità di formulare il dicibile e l'indicibile. E, pur d'ottenerla, non arretra di fronte al turpiloquio delle taverne e dei lupanari.

Scritture di governo

Il patriziato - nel suo bazzicare colla filosofia, coll'erudizione, colla religione, colla poesia, nel suo indulgere alla privata memorizzazione diaristica - non si sottrae, ovviamente, lo conforti o meno l'esito a stampa (va da sé che i versi osceni circolano manoscritti; va da sé che tanti diari rimangono nei cassetti), al vizio e al vezzo o, in taluni casi, al bisogno di scrivere né si nega al diletto della scrittura. Donde una produzione sin sovrabbondante di scritti, taluni decisamente brutti, parecchi francamente superflui e inutili. Individuabile comunque una sorta di polarità, capace di punte qualitativamente alte, tra l'esasperazione del privato nell'umorale accanimento dei versi di Maffio Venier e la celebrazione della dimensione pubblica nel consapevole andamento della prosa parutiana. In entrambi i casi vige la singolarità dell'autore, anche se il secondo, nel suo riproporre quale miglior vita quella dell'impegno civico, non scrive solo per sé; si fa, anzi, carico di tradurre l'esigenza d'autogiustificazione propria del ceto ottimatizio marciano nella più gratificante delle autostime, ché tradotta in titolarità del buon governo. Donde il virtuale riconoscersi di tutto il patriziato nelle sue formulazioni, peraltro prodotto d'individuale elaborazione. Collettiva, invece, stando all'idea di sé che Venezia ha e vuol far circolare, la gestione dello stato ché di pertinenza dell'intera aristocrazia. È ben per questo che la Repubblica di S. Marco è aristocratica e non oligarchica. Principe collettivo, allora, il ceto patrizio e, anche, laddove delibera e detto suo deliberare viene diligentemente riportato per iscritto, autore collettivo, scrittore collettivo di "parti", specie se riunito in senato. È questo - pur nell'interferire del più rapido e snello consiglio dei X, non a caso paventato quale potenziale insidia oligarchica - l'organo propulsivo, il centro decisionale. E, dunque, il senato quello che più comanda, quello che più produce prose di comando e perché legifera e perché istruisce, all'interno, i rettori, all'esterno gli ambasciatori. E questo, dunque, l'organo che più scrive e, pure, visto che a lui riferiscono e ambasciatori e rettori, quello cui viene recapitato il maggior numero di scritti. Cuore e mente dello stato il pregadi e, per questo, vorticoso andirivieni di scritti in partenza e in arrivo. Un disporre, insomma, per iscritto che si alimenta d'informazione scritta. E - poiché la "prudenza" senatoria è una sorta di bussola per attraversare decorosamente indenni una storia da altri agitata e turbata - detto disporre si configura sempre più come ulteriore richiesta d'informazione e ai rettori che già informano sulla situazione interna e ai diplomatici che già informano su quella esterna. Donde il quotidiano flusso informativo delle lettere di quelli e dei dispacci di questi, rilanciato sempre dal senato, nella misura in cui, proprio perché aggiornato, è in grado di meglio sollecitare e orientare il progredire dell'aggiornamento. L'aggiornamento, infatti, in quanto costitutivo d'una politica che è, per forza di cose, più accorto percorso nella storia che sua violentazione, esige sempre altro aggiornamento. Sicché tutto il patriziato scrive o, in veste di rettore o ambasciatore, per aggiornare o, in veste senatoria, per precisare di quali successivi aggiornamenti abbisogna. La risultante è quella d'un'immane scrittura collettiva che incessantemente s'autoalimenta, che indefessamente cresce su se stessa, ben attenta a non disperdersi ché il tutto viene conservato, archiviato in appositi depositi. Più scrive, viene da commentare, più il governo s'automemorizza, più la classe dirigente si correda d'archivistici spessori, necessitanti - per rimanere ordinatamente consultabili d'archivistiche competenze, d'archivistiche soprintendenze, d'archivistici riordini. Un corollario questo rispetto a tanto scrivere: più il patriziato governante è il patriziato scrittore, più il deposito delle scritture esige specializzata manutenzione. Sicché il patriziato è anche, per tal verso, archivista.

Mentre il monarca può anche risolversi in maestosa muta eloquenza di imperiosa gestualità (e naufraga tra le carte Filippo II maniacalmente postillante rapporti scritti), la coazione a scrivere è insita nel meccanismo stesso dello stato marciano, è da questo necessitata. E, laddove, pei sovrani, l'ordinata e continuata conservazione delle scritture è scelta e non obbligo (non per niente - a prescindere dal fatto che di tanti bisbigli e sussurri cortigiani non v'è riporto scritto, a prescindere dal fatto che tante riunioni segrete, tanti conciliaboli ristretti non lasciano traccia sì da autorizzare qualsiasi supposizione della storiografia più o meno improntata dal tacitismo - può essere disposta anche la distruzione delle scritture), lo stato marciano si presenta anche come costante automemorizzazione e, quindi, anche come scrupolosa autoarchiviazione. Donde una sterminata esibizione di scritture di governo e per il governo. E, in queste, il settore dove la valentia di, appunto, scrittura patrizia s'esprime al meglio e pretende da sé il massimo è senz'altro quello delle relazioni presentate dagli ambasciatori e dai rettori a missione ultimata condensando in calibrato rapporto scritto quanto in questa constatato e sperimentato. Diseguale, a dir il vero, il corpus delle relazioni dei rettori (15), ché talune si riducono a pochi scheletrici appunti, ché non tutte sono ampie e rifinite. Ciò non toglie che esso - l'assieme, il corpus - non rappresenti efficacemente le città e i territori soggetti a Venezia nella loro configurazione urbana, nella loro peculiarità paesistica, nella loro specificità produttiva, nella loro composizione sociale, nella loro consistenza demografica. E ciò non senza valutazione degli aspetti militari; e ciò anche con ottica fiscale la quale - nel conteggiare entrate ed uscite, nel quantificare spese e recuperi -, nella misura con la quale cerca di spiegare, oltrepassa le angustie della contabilità, sicché la valutazione della potenzialità tributaria è anche comprensione delle potenzialità produttive. Nel loro regolare succedersi le relazioni disegnano così un aggiornato panorama del variopinto ed eterogeneo dominio veneto. I governanti così ritraggono i governati, preoccupandosi, naturalmente, di riscontrarne i livelli d'obbedienza, di misurarne l'intensità o meno dell'affezione al vessillo di S. Marco.

Una panoramica che, se letta orizzontalmente, squaderna simultaneamente i luoghi del dominio veneto dall'Adda all'Isonzo, dal Piave al Po e, in più, con il bordo costiero istriano-dalmata e con le isole, a mo' di spaccato anatomico. Così nell'esame sincronico. Se, invece, la lettura si fa verticale, diventa diacronica, ecco che la risultante è quella della ripercorribilità di vicende localizzate, sicché luogo per luogo l'anatomia si movimenta: non ci sono solo strutturali permanenze, ma anche fisiologici movimenti. Si ha così - grazie a detto corpus di dette relazioni - una visione delle terre e delle città suddite virtualmente suscettibile di trasformarsi in storia amministrativa, demografica, urbana, militare, economica, finanziaria, sociale, giudiziaria, paesistica con una ricchezza di spunti e di dati irriscontrabili nella pur zelante erudizione locale coeva. Tramite i rettori è la stessa classe dirigente marciana che - dando conto di quanto ravvisa nell'oggetto del proprio governo e degli effetti in questo del proprio operato - si fa storia dei governati e non senza accennare alle disfunzioni, alle carenze, alle impotenze del proprio, appunto, sistema di governo. Ciò laddove non risultano, da parte dell'erudizione indigena banalmente panegiristica nei confronti del provvido governo veneto, formulazioni critiche forti e precise e sono, al più, intuibili, tra le pieghe degli encomi, borbottii e brontolii. Se ne evince che la storia delle città suddite è più fatta da Venezia (da questa vengono i rettori e a questa tornano) che in loco. E, per tal verso, il patriziato marciano è culturalmente egemone anche nei confronti delle intellettualità locali. E se - in detta storia scritta mosaicamente a suon di relazioni - non manca, da parte del rettore, il presupposto di rappresentare il buon governo, d'essere egli stesso, in certo qual modo, incarnazione di buon governo, siffatto presupporre e siffatto presumere non reggono poi all'impatto con una realtà riottosa a descrizioni idilliache. Non l'orgoglio del comando, allora, ma la sua fatica, la sua difficoltà, le sue contraddizioni, i suoi fallimenti. Giunto per applicare le direttive del centro, il rettore, riferendone al rientro, calcola, di fatto, il loro tasso d'applicazione, anche per giustificare eventuali sue personali omissioni e per suggerire - alla luce dell'appurata parziale inapplicabilità - ritocchi, modifiche, accorgimenti. Uomo venuto dalla capitale il rettore diventa, al ritorno, un po' portavoce della periferia, quanto meno un po' mediatore tra questa e quella. Sicché si evidenzia di frequente - proprio nelle relazioni - una sorta di triangolazione tra i dettami di palazzo Ducale, la specificità, sino ad un certo punto ricettiva, delle città suddite e l'ingegnarsi del rettore rappresentante sì del primo, ma anche non insensibile alle esigenze e ai bisogni di queste. Sicché, inoltre, se l'assieme delle relazioni costruisce una storia, questa storia è sì governativa, sì dall'alto, ma anche, un po', inclusiva delle formulazioni dal basso, ma anche, un po', rispecchiante la gamma delle attese dei sudditi, dalle pretese delle nobiltà locali ai bisogni popolari. E poiché i rettori sono dislocati in un contesto non uniformato e, anzi, fortemente differenziato, ecco che il loro riferire è, anche, leggibile quale precisazione delle differenze, quale rilevamento delle difformità.

Certo: in questa specie di rapporto al governo che è la relazione finale, il rettore, proprio perché dà conto del proprio operato, tende, per giustificarlo, a calcare le tinte, ad insistere chiaroscurando. C'è un che d'avvocatesco nell'accentuare la negatività d'una situazione: chi ci opera è assolto, se non riesce a migliorarla; se poi un po' la corregge, ecco che diventa benemerito. Ne sortisce l'esito - paradossale per una classe dirigente che si presume titolare del buon governo - d'una sequela di soperchierie nobiliari, di sopraffazioni padronali, di delinquenza impunita, di contrabbandi, di banditismi, di fami, d'epidemie, di penurie, di terreni incolti e sterili, di calo d'occupazione, di stanchezza del mercato, d'inondazioni, d'acque non regolate. Ed i rettori - per quanto s'adoperino - non riescono ad invertire una discesa che sembra irreparabile. Se poi parlano delle fortezze e dei relativi presidi, ecco che quelle sembrano prossime a ridursi a ruderi, ecco che questi talvolta paiono più simili ad un'accozzaglia raccogliticcia e male in arnese che ad una forza disciplinata ed equipaggiata. E, poiché i singoli rettori di ciò non hanno colpa e contro ciò fanno, come possono, quello che possono, con la somma di tanti dettagli negativi - cui va aggiunto quello, macroscopico, delle disfunzioni e dei ritardi della giustizia, del suo essere, di fatto, prepotente coi deboli e debole coi prepotenti, ossia coi nobili di Terraferma, ossia coi socialmente privilegiati - il quadro fornito dalle relazioni, lungi dal risolversi in omaggio al buongoverno, suona - visto che i singoli rettori sono singolarmente innocenti, visto che, allora, le responsabilità vanno girate al centro - attestato d'impotenza, al limite denuncia di malgoverno. Se ci si attiene, per via di deduzione, alla sequenza proponente il patriziato come principe collettivo e, quindi, come scrittore collettivo e, quindi, come storico, col corpus delle relazioni dei rettori, della propria amministrazione e/o della propria politica interna, in quest'ultima veste si sospinge a punte di severa autocritica, ad estremi di vera e propria autodenuncia. La politica è onere, soma, sconfitta, ripiegamento, rassegnazione, sconforto. Siamo agli antipodi della "perfezzione" gratificante di conio parutiano. C'è la pena, c'è il cruccio del governare. Ma il fatto - malgrado tutto - lo si senta pur sempre come un dovere attesta la caparbia vitalità d'una grande classe dirigente.

Storico militante della vita interna dello stato il patriziato colla somma delle relazioni dei rettori, lo è del pari - nei confronti del Mediterraneo e dell'Europa - col corpus delle relazioni degli ambasciatori (16). Meno ingombrate rispetto alle prime da preoccupazioni personali - il rettore, più pressato da responsabilità dirette, nella relazione riepiloga il proprio operato; l'ambasciatore può anche prescinderne, specie se si è attenuto alle istruzioni senatorie meticolose nel prescrivergli i contenuti delle domande e delle risposte -, queste seconde sono più pacate, più distese, più rifinite, più elaborate, più impegnate stilisticamente; tant'è che la loro stesura impegna l'autore anche per mesi; tant'è che, per meglio confezionarle, taluno tra gli autori ricorre all'ausilio di amici letterati. Concepite come occasione per dimostrare forza d'intendimento e qualità di scrittura, le relazioni dei diplomatici lagunari mirano al distillato d'una sintesi interpretativa risolta in calibrato dosaggio espositivo. Un'ardua prova compositiva, dunque, per il patrizio in carriera e - man mano sono ammirate, imitate, diffuse da un'intensa circolazione manoscritta, persino stampate -, pure, una sorta di genere letterario. "Storici componimenti" le dirà Marco Foscarini (17). Rapporti che spesso sono degli autentici saggi monografici ognuno concernente in un dato momento una determinata entità statale, essi costituiscono, una volta assemblati, il sapere complessivo di cui dispone la Serenissima nel suo avveduto cabotaggio tra le insidie e le pressioni d'una situazione internazionale che va tanto più conosciuta quanto meno sono favorevoli i rapporti di forza. In certo qual modo Venezia - colle relazioni degli ambasciatori - prende le misure del contesto in cui si situa la sua autonoma dignità di stato. E, a tal fine, necessita la piena e aggiornata percezione del peso e, in prospettiva, della potenzialità d'ogni stato col quale sia in rapporto. Perciò, una volta reduce dalla rappresentanza presso questo o quello stato, ogni ambasciatore veneto è tenuto, con la relazione, ad illustrarne il "sito" colle sue "qualità", l'indole degli "abitatori", la forma e il funzionamento del governo, la forza militare, la situazione finanziaria, l'amministrazione della giustizia, la religione e il correlato rapportarsi delle autorità religiose colle politiche, profilando altresì e nel sembiante e nell'intimo chi comanda, valutando le linee della politica estera, ipotizzando possibili sviluppi di questa, individuando i fattori di forza e di debolezza, così focalizzando detto stato e nella sua realtà e nelle sue virtuali possibilità ed impossibilità. Simultaneamente convergenti le relazioni formano, se sincroniche, il quadro dell'Europa e del Mediterraneo, suscettibile di trasformarsi in storia se alla sincronia s'aggiunge la diacronia del loro ritmato depositarsi nel tempo. Risultano, in tal modo, e il permanere condizionante delle strutture geoantropiche e la cangiante mutevolezza delle congiunture e sinanco le variabili increspature del momento. Persistenze e mutamenti, insomma, immobilità e fluidità, evoluzioni e rotture.

Costanti geografiche, psicologie di popoli, modi di vestire produrre cucinare pregare, pinacoteche di potenti, lussi, miserie..., di ciò e di altro riferiscono gli ambasciatori, mentre ondeggiano le fortune e le sfortune, mentre s'incrociano spinte e controspinte, mentre s'impongono nuove egemonie, mentre c'è la messa in crisi d'antecedenti preponderanze. C'è lo scricchiolio del mastodonte ispanico, c'è l'energia inglese, c'è l'imporsi di Amsterdam la cui febbrile vitalità mercantile e marinara impressiona a tal punto Alvise Contarini da indurlo, nella relazione del 1626, ad invitare Venezia a dimenticare, in certo qual modo, se stessa, il suo passato, a deporre il pesante e inceppante fardello delle abitudini e delle consuetudini già fattori della sua medievale talassocrazia. La vecchia Venezia, insomma, dovrebbe fare come Amsterdam, riorganizzarsi, riattrezzarsi, ringiovanirsi, slanciarsi nel mare senza bardature corporative, gettando via la zavorra d'un'attrezzatura ormai attardante. È questo dell'incontro con Amsterdam - che essendo "intersecata", così, nel 1610, Tommaso Contarini, un altro ambasciatore, "da molti canali", è "come Venetia", è ben definibile e, in effetti, viene definita, nuova Venezia - il momento più turbante per la classe dirigente veneziana, quello che più la costringe ad ammettere che il trend le è sfuggito di mano, che la dinamicissima città olandese sparpagliante pei mari "numero infinito di navi" è la "nuova meraviglia del mondo". A questo punto, capire il mondo significa fare i conti col ridimensionamento di Venezia, ammettere "il traffico esangue di questa città". I mercanti accorrono numerosi "là dove sono meglio trattati", insiste, reduce da Amsterdam, Alvise Contarini. Ma ciò significa non solo allargamento di spazi operativi, ma anche della cornice politica e sociale. Per fare come Amsterdam Venezia dovrebbe stingere i propri tratti patrizi, dovrebbe aprirsi ad altre energie, convocarle, attirarle. È un rischio che la classe dirigente non si sente di correre. Attenta a ciò che succede nel mondo, è disposta anche ad apprendere dal mondo, ma non al punto da mettersi in discussione, non sino a rinunciare al monopolio della politica, non sino ad allentare le maglie del regime ottimatizio. Suggestivo il modello Amsterdam, ma non trapiantabile in laguna.

Impegnata a descrivere il mondo colla sommatoria delle relazioni dei suoi diplomatici, l'aristocrazia lagunare guarda fuori di sé con metro di misura elaborato in laguna. Quello per cui la "galleria o loggia" fatta costruire da Enrico IV dal Louvre alle Tuileries è lunga quanto il tratto da piazza S. Marco alla Giudecca; quello per cui, eccezion fatta pel "salmone" assente in laguna, in Inghilterra abbondano gli stessi "pesci" che a Venezia; quello per cui la folla d'imbarcazioni tra la sponda europea e quella asiatica di Costantinopoli ricorda la laguna verso Marghera e Fusina; quello per cui il canale tra Pera e Costantinopoli è largo quanto il bacino tra S. Marco e la Giudecca. Così, ogni tanto, nelle relazioni degli ambasciatori veneti. Viaggiatori indefessi, partono con Venezia scolpita nella mente e confitta nel cuore. Perciò, per quanto s'allontanino, restano. Perciò il loro guardare per riferire è pur sempre filtrato da un'angolatura veneziana. Donde l'effetto uniformante d'un unico punto di vista, d'un unico osservatorio per uno sguardo a tutto campo costruito coi complementari e simultanei segmenti visivi offerti dai reduci dalle singole sedi diplomatiche, capace di tradursi in sinossi interpretativa riordinante sintatticamente una realtà già colta nel suo paratattico affastellamento e nella sua congestionata contraddittorietà dal quotidiano afflusso informativo dei dispacci.

Donde la leggibilità del corpus delle relazioni quale capolavoro scritto da tutta una classe dirigente capace di fondere - grazie al genere relazione - orizzontalità sincronica e verticalità diacronica. È in detto corpus che la scrittura di governo attinge il massimo della sua espressività ed incisività. Ed è detto corpus a costituire non solo la fonte più compiuta ed organica per l'odierna storiografia dell'Europa e del Mediterraneo soprattutto nel '500 e nel '600, ma a presentarsi già come compiuta storiografia militante d'un ceto di governo la cui presenza storica s'esprime, anche, come esposizione storica del presente. E si può anche dire che, man mano Venezia è meno determinante, sempre più abbisogna d'un recupero sul piano culturale nel quale il patriziato s'impegna, non tanto come potrebbe fare un principe o un sovrano a mo' di mecenate promuovente e incoraggiante, ma direttamente in prima persona. Se non condiziona più che tanto l'Europa e il Mediterraneo, sa almeno, più di tutti e meglio di tutti, rappresentarli e geograficamente e storicamente. Donde il fungere della singola relazione da tassello musivo nell'imponente mosaico in progress d'una storia capace di raccontare da Venezia "li fatti" di tutti gli "altri". Uno sterminato racconto allora di "confini", "frontiere", "provincie", "piazze", "costumi", "industria", agricoltura, commercio, "traffici", "divertimenti", "discordie", "gelosie", "rispetti", "circostanze", "congiunture", "forze", "imposizioni", gravezze, dazi, modi "di cavar danari", fiumi, canali, strade, arsenali, fortificazioni, arruolamenti, tecniche, "interessi", "passioni", "raggiri", "inconvenienti", "intentioni", "deliberationi", "genio" di governi e di sudditi, "abbazie", "priorati", "beni" ecclesiastici, grandi patrimoni, dotazioni di re, attrezzature d'eserciti, manifatture, porti, andirivieni di navi, circolar di monete.

Affiora, ogni tanto, dura a morire, l'idea che Venezia possa risplendere, nel burrascoso agitarsi della storia, come faro illuminante, come polo orientante. Più cauto Simone Contarini reduce, nel 1608, dal bailaggio di Costantinopoli preferisce non enfatizzare il presunto protagonismo della Repubblica. Le assegna invece - e così registra il defilarsi di Venezia dalla mischia - un ruolo di spettatrice, in un "teatro", dove, colla messa in scena delle relazioni, assiste allo spettacolo del "mondo tutto", ove agiscono "e la natura e le leggi e gli stili di varie genti". Fuori, in certo qual modo, dalle frenetiche convulsioni della storia, Venezia diventa, sempre in certo qual modo, storica della contemporaneità. L'estraneità significa possibilità di superiore intendimento, il distanziamento comporta la comprensione. Maestra di vita la storia, insegna a Venezia senza costringerla a partecipare. Diventa essa storica, proprio perché osservatorio neutrale, proprio perché spettatrice intelligente, non coinvolta e non travolta. "Come in un theatro", chiarisce Simone Contarini (si tratta d'un patrizio colto, amico di Sarpi, di cui rimane una sorta di canzoniere montato alla maniera di Petrarca come itinerario dagli amori - e tra le maliose parvenze femminili non a caso s'affaccia una Laura - al ripudio dei "mal saggi pensieri" al trepido affidarsi alla "santa mercé di Dio" (18)), "standosene come dire all'ombra", non nella luce del palcoscenico, dunque, ma lungi, pertanto, da ogni pretesa di vistoso protagonismo, Venezia può tranquillamente "vedere gli incendi altrui [...> conoscere, a spese d'altri, quello che per ben reggere se stessa convenga, mentre ode trattare della guerra senza pericolo, delle regole e delle riforme dei governi senza travaglio, degli accrescimenti e delle rovine degli stati senza molestia", ravvisando con "quali accidenti, con quali principi, mezzi e fini" si pervenga al culmine del trionfo o al precipizio del collasso, intendendo "quali cause indeboliscono le amicizie, quali stabiliscono le paci, quali prescrivano lo spendere e quali consiglino il risparmio". Fuori dalle turbolenze della storia, ecco che Venezia si riserba la parte - e in questo, più che la prima donna, è l'unica attrice, l'unica protagonista - dell'intendimento della storia. Un ruolo culturale, dunque. E le relazioni degli ambasciatori, che di detta determinazione ad intendere sono e strumento e risultato, risolvono, tra secondo '500 e primo '600, in eleganza di scrittura il dramma d'una classe dirigente che, non potendo pilotare l'andamento dei fatti, si riserba il compito di esporli, dalla specola lagunare, appunto, con quelle relazioni che Marco Foscarini, come abbiamo già sottolineato, definirà "storici componimenti".

La pubblica storiografia

La sintonia tra flusso informativo e decisione consapevole, cui mira il reggimento ottimatizio dello stato marciano, obbliga - lo s'è visto - la classe di governo alla scrittura. Quindi le lettere dei rettori, quindi i dispacci degli ambasciatori; e - su ciò ci si è appena soffermati -, dopo quelle e dopo questi, la sintesi finale della relazione che assurge, specie nel caso degli ambasciatori, a saggio storico proteso alla comprensione del presente, peraltro inteso nei suoi antecedenti e inquadrato nelle sue coordinate geoantropiche. Col che il patriziato governante, e, quindi, responsabile e della politica interna e della politica estera, si fa storico e dei suoi domini e del mondo col quale intrattiene relazioni diplomatiche. Un'attenzione ai contenuti del perimetro della propria sovranità e una valutazione delle entità statali europee che edifica, col ritmo continuato delle relazioni e sul dentro e sul fuori, un imponente edificio, cui si conviene la qualifica di storiografia militante e perché l'oggetto è, di volta in volta, il presente e perché non privo di finalità, oltre che cognitive, operative, dal momento che ne trae orientamento e la politica interna e la politica estera. Storico militante, in tal senso e per tal verso, il patriziato marciano stesso, per quale, come s'è dimostrato, la preparazione culturale sbocca nell'impegno politico che, a sua volta, ridiventa, con le relazioni, anche culturale. Beninteso, nella misura in cui le relazioni, che sono, prese nella loro singolarità, intervento politico, diventano, considerate complessivamente, storiografia. Ma, al di là di quest'esito di quella particolare scrittura di governo che è la relazione, il patriziato vuol anche essere storico tout court, quando il consiglio dei X prepone un nobile particolarmente qualificato e culturalmente e politicamente alla stesura d'un periodo di storia veneziana. Donde l'istituzione della cosiddetta pubblica storiografia - ché il patrizio scelto è pubblico storiografo, è storico di stato estratto dal seno stesso della classe dirigente - destinata ad esprimere, coll'esposizione dei fatti, la coscienza che il governo ne ha, l'idea di sé che la classe dirigente coltiva e per uso interno e per diffusione esterna.

Ufficializzata da tempo la grossa storia veneziana di Sabellico, è incaricato di scrivere la storia veneta dal 1486 al 1513 Pietro Bembo, scelto, nel 1530, dal consiglio dei X. Nella convinzione derivi alla Repubblica "grandissima riputazione" dalla "memoria delle cose passate", se ne affida la rievocazione ad un patrizio - come, appunto, Bembo - dalla "singolar letteratura" e dalle particolari "eloquenza e prudenza". Pienamente adempiente l'illustre cardinale, sicché, lui morto, gli eredi sono in grado di consegnare la storia richiesta in duplice veste: quella latina, voluta dai X, e quella italiana, cui ha provveduto lo stesso Bembo preoccupato altri provvedano malamente. Storia compiuta quella di Bembo, epperò non grande opera, ché non basta qualche pagina efficace a ravvivarla, come non la movimentano a sufficienza la spruzzatura di tornite orazioni e la comparsa di non repressi spunti polemici, più frutto di personale risentimento, più riecheggiamento di ruggine ed acrimonia sue e della sua famiglia che di esigenze valutative. Ponderosa confezione, dunque, nella quale la preoccupazione d'elegante addobbo formale non solleva la sostanziale piattezza dell'andamento annalistico. L'estrinseco ornato decorante non può, infatti, sopperire all'angustia d'un annuo affastellamento dei fatti senza un minimo di loro riassunzione interpretativa. Dal finale di Bembo prende le mosse la successiva storia di Paruta, che, scelto nel 1580 dal consiglio dei X, porta avanti la sua narrazione sino al 1552. Da notare come s'ottenga, se non altro, l'incollatura cronologica, per cui Bembo inizia dove finisce Sabellico e Paruta prosegue da dove termina Bembo. Pur diversi i tre autori sono suturabili. Col che la pubblica storiografia può proporsi come continuum, anche se, nel frattempo, è subentrata una svolta concettuale. Il patriziato - che, a suo tempo, ha preferito al diarista Sanudo il grande letterato Bembo - non pensa più alla storia solo quale operazione letteraria mirata ad abbellire, con le parole, i fatti sicché ne ridondi su Venezia quella "reputation" di cui dopo Agnadello tanto abbisogna e sulla quale tanto punta. S'è, nel frattempo, specie tra Venezia e Padova, infittita la trattatistica sull'ars historica. Sono ben intervenuti in proposito Sperone Speroni, Dionigi Atanagi, Francesco Robortello, Francesco Patrizi sforzandosi di dire cosa la storiografia è e cosa non è, ingegnandosi di fornire la ricetta per coniugare "verità" e decoro espositivo, per correlare materia dell'esporre e sua finalità. Né i patrizi più colti ignorano quanto ha detto Patrizi, la cui "città felice" è ben memore dell'utopia realizzata e gerarchizzata veneziana. "Cognition del vero" la storia, e, per di più, "molto giovevole a tutte le sorti degli uomini", soprattutto "a coloro [ed è proprio il caso del patriziato veneziano> che sono nati per governare altrui" (19). Va da sé che la classe dirigente possa vantare come propria creatura la pubblica storiografia, con la quale dimostra che non solo è nutrita di letture storiche, ma che è capace di fare da sé - e non per delega, come i monarchi e i principi - la propria storia. Nell'intreccio di persistenze umanistico-rinascimentali e di nuove urgenze controriformiste, si fa, comunque, strada un'esigenza di professionalità e di specializzazione per cui non si privilegia più il grande letterato che trasferisca al racconto dei fatti lo splendore della sua prosa, ma si pretende l'accertamento.

Ed ecco che - è ben qui la svolta -, laddove a Bembo s'era negato l'accesso ai documenti, a Paruta vien data "licenza" di "poter andar nella cancelleria segreta" consultandovi "tutte le scritture pubbliche". Un'indicazione rilevante. Ciò non toglie che - ai fini d'una storiografia realmente intendente ed interconnettente - non è detto che la consultabilità della documentazione produca, di per sé, una capacità di superiore comprensione. Questa - come già è mancata a Bembo - non pare presente in Paruta, anch'egli lontano da una spiccata capacità di stringente interconnessione delle vicende e pur'egli zavorrato dalla scansione annalistica di queste, all'interno delle quali il leitmotiv è quello dell'evidenziazione della linea prudente e accorta della politica di Venezia la cui caratteristica è, appunto, nello svolgimento parutiano, quella di muoversi con ponderazione. Ma la valorizzazione di quest'ultima avviene a scapito di tutta una serie di fattori concomitanti, sicché il quadro è come impoverito e rattrappito. Scritta - con vistosa deroga dal latino di per sé prescritto dal consiglio dei X - direttamente in italiano, l'Historia parutiana (che, non oltrepassando il 1551, lascia a sé stante la compatta monografia di Paruta sulla guerra di Cipro del 1570-73) è opera dignitosa, ma non grande. Troppo riduttiva la sua ottica che, pur improntata dal realismo politico, non ne ha però la conseguenziale drasticità insita, invece, nella feroce unilateralità di Machiavelli e nel marmoreo disincanto di Guicciardini. Il dipanarsi sottile della saviezza lagunare non è criterio a tal punto mordente da far ruotare attorno a questo il respiro di grandi vicende interdipendenti. Non v'ha dubbio che Venezia sia prudente; ma per sottolinearlo Paruta sbiadisce il contesto, rimpicciolisce la possente compresenza dei grandi protagonisti.

Successore di Paruta nella carica di pubblico storiografo viene eletto, sempre dal consiglio dei X, nel 1598, Andrea Morosini. Ci si continua ad attendere dalla storia - così i X nel 1599 - "molto ornamento alla Repubblica", così suggerendo al pubblico storiografo che, comunque, il suo racconto sarà complessivamente gratificante, ma nel contempo si vuole il pubblico storiografo sempre più specializzato sul versante delle fonti dirette, sempre meno accostabile alla figura del letterato e del dotto. L'"ornamento", insomma, dovrà risultare dall'esposizione dei fatti, non già dall'abilità manipolante della loro letteraria confezione. E, per essere sicuri di questo, ecco che, dal 1601, al pubblico storiografo non compete più la direzione della Marciana presupponente una formazione e un'inclinazione libresche, bensì la soprintendenza alla cancelleria segreta. A questo punto l'archivio non è più soltanto una possibilità; diventa un obbligo. La pubblica storiografia è come vincolata alla riesumazione dei depositi della memoria pubblica. Un ancoraggio, dunque, ai depositi delle scritture di governo come sola possibilità d'autentico esercizio storiografico. Ecco l'esito d'un percorso pur partito con l'incarico a Bembo, pur avviato con l'affidamento al più letterato tra i letterati. Ma così non senza logica, anzi consequenzialmente. Se la storia è storia di Venezia, se questa coincide con la storia dell'operato della classe di governo affidata, appunto, ad una delle sue migliori personalità, ne consegue che il pubblico storiografo è come un addetto all'autobiografia - o, meglio, ad un pezzo di questa, da un anno dato ad un anno dato del patriziato marciano nel suo complesso in quanto complessivamente governante. Suo dovere, allora, attenersi alle carte del governo, rovistare, quindi, in archivio, ossia nella memoria di stato, o, se si vuole, nell'automemorizzazione patrizia. L'autobiografia, insomma, va fatta ricorrendo alla propria memoria, cercando nei depositi di questa le proprie pezze d'appoggio. Donde, appunto, il coincidere del pubblico storiografo col soprintendente archivistico.

Il criterio interpretativo, però, non lo si trova tra le carte segrete della cancelleria. Lo si concepisce mentalmente e anche in base al proprio temperamento e anche grazie ai propri orientamenti. Fatto sta che Morosini, pur coevo a Paruta, esprime una sensibilità diversa e non si ritrova nel leitmotiv parutiano del "prudentissimo consiglio" ispirante la condotta della Serenissima. Questo è per Morosini un criterio inadeguato. Tant'è che - disdicendo la continuità sino allora funzionante nella pubblica storiografia -, anziché iniziare a partire dal 1552, le sue Historiae venetae si rifanno al 1521, così esponendo nuovamente e altrimenti il grosso del periodo già affrontato da Paruta, per poi procedere oltre sino al 1615. Filo rosso - lo si è detto - per Paruta la sagace prudenza del governo veneto. Troppo poco per Morosini, l'autore d'una monografia rievocante le benemerenze veneziane pel recupero del Santo Sepolcro, il biografo di Leonardo Donà di cui immerge la figura in una religiosità amputata dei suoi spigoli antiromani. E troppo poco - possiamo aggiungere -, ad un certo momento, anche per lo stesso Paruta laddove, nel Soliloquio, avverte con angoscia la vanità dell'impegno mondano. Lungi dal nutrire quella passione per la politica che rende unidimensionale la storia parutiana, Morosini, che pur di politica deve parlare, l'accetta solo se tramata dalla bontà delle intenzioni, solo se contraddistinta dalla moralità dei fini. Perciò s'ingegna d'allestire - coll'ausilio d'un rifinito e calibrato latino, con abbondanza di dettaglio, con puntigliosa precisione cronologica - un racconto nel quale Venezia campeggi non tanto e non solo, come in Paruta, perché fornita di superiore intelligenza politica, ma perché ispirata da una intensa religiosità, perché animata da cattolico zelo, perché obbediente al magistero pontificio, perché assecondata dal favore divino. Se per Paruta l'"amicizia" e la "buona intelligenza con la Sede Apostolica" valgono perché politicamente opportune, perché strumento d'equilibrio e di pace internazionali, con Morosini diventano costitutive dell'eccellenza di Venezia, la città che accoglie i decreti del concilio tridentino, che reprime vigile l'eresia, che è baluardo antiturco, che s'intitola all'evangelista Marco, che fonde patriottismo e fede.

Indisgiungibile, allora, nella visione di Morosini - la quale ispira non solo lo storico ma anche il suo comportamento politico di, a detta d'un nunzio, "buon gentilhuomo" e "senatore di gran pietà et bontà"; tant'è che, nel 1613, Micanzio ne paventa "l'assioma" sia preferibile la rovina della Repubblica ad un'alleanza, sia pure in mera funzione antiasburgica, "con protestanti" (20) - il binomio Venezia-Roma. Un'atroce sofferenza, di fatto, pel Morosini senatore la rottura dell'interdetto e un autentico imbarazzo il raccontarla come storico. Donde il suo rappresentarla a mo' d'infelice malinteso ed il suo correre a dirotto - nell'esposizione - alla volta della soluzione con la ripresa delle relazioni diplomatiche salutata da Morosini, e nella sua concreta vicenda biografica e nella sua veste di storico, con autentico sollievo dell'animo, come la fine d'un incubo. E il riallacciarsi dei rapporti si trasfigura, nel suo latino, in entusiasmante ripristino di corrispondenza d'amorosi sensi: Paolo V abbraccia commosso l'ambasciatore veneto. Una versione edulcorante questa morosiniana, sorvolante sull'asprezza del contrasto ed enfatizzante la rinnovata concordia. Essa scontenta il settore più combattivo del patriziato, ma spiace pure a Roma, ché lo storico veneziano - coll'espediente del reciproco fraintendimento - ha eluso il punto, per la S. Sede fondamentale, della disobbedienza veneta al pontefice. Donde la messa all'indice dell'opera, quando, per sua fortuna, Morosini è già morto. Un'indubbia ironia della sorte nel negato imprimatur ecclesiastico ad una storia tanto religiosamente preoccupata d'un autore personalmente tanto devoto. E suona quasi sarcastico sia proprio Micanzio a convincere il senato a stampare le Historiae, vendute poi dai librai per volontà, come rimarca, nel 1625, il nunzio papale, dei "cattivi di cotesta repubblica". Già avversario della linea intransigente nei confronti di Roma Morosini; ma la pubblicazione postuma e la diffusione della sua storia diventa proprio un'espressione di detta linea. A prescindere dalle buone intenzioni circolanti nelle Historiae tutte imperniate sull'auspicio d'una pace internazionale ispirata dalla sintonia veneto-pontificia, il modo in cui vengono pubblicate finisce col sovrapporsi al loro vero significato. Da un lato ci sono la "dignità et autorità della Republica" cui compete il diritto d'"ordinare quello li piace si stampi nel stato di lei"; dall'altro l'ostilità romana ad un'opera condannata per il, sia pure timidissimo, riporto delle ragioni venete nella contesa dell'interdetto. Sicché proprio la storia più giocata sull'armonia tra stato e chiesa finisce col costituire un ulteriore motivo d'attrito tra i due poli. Roma ne proibisce la lettura, mentre a Venezia la si sventola strumentalmente come segnale di dignità statale. Così - malgrado e di contro il suo effettivo contenuto - diventa la bandiera proprio di quei "cattivi", contro i quali in vita Morosini s'è battuto e rispetto ai cui orientamenti la Venezia devota da lui vagheggiata e storicamente disegnata suona decisamente antitetica.

Tant'è che i "cattivi" - così nel lessico dei nunzi vengono designati i "male affetti" nei confronti della S. Sede - nella versione di Morosini storiografo non si riconoscono. E quello tra loro che succede a Morosini come pubblico storiografo - Niccolò Contarini (21), cattivissimo, agli occhi di Roma, tra i "cattivi", mentre è l'ottimo tra i "buoni cittadini" se questi sono, col rovesciato metro di giudizio sarpiano, quelli che si distinguono per anticurialismo nei confronti della S. Sede - proprio per questo inizia il suo racconto non dal 1616 - l'anno successivo al concludersi delle storie morosiniane -, ma dal 1597. Ciò con diffusa narrazione la quale - lungi dal fornire, come già ha fatto Morosini nei confronti di Paruta, un'esposizione che, comunque, prosegua effettivamente quella del predecessore s'arresta al 1605. Se si considera che la pubblica storiografia dovrebbe procedere per via di saldatura cronologica, le Istorie veneziane di Contarini costituiscono una rottura. Già l'esigenza di Morosini di riscrivere buona parte del periodo affrontato da Paruta era stata un segnale d'inceppamento, peraltro attenuato dal rilevante avanzamento cronologico portato innanzi dalle sue Historiae. Ma con Contarini c'è - nei confronti di Morosini - la totale riscrittura d'un solo pezzo e, per di più, cronologicamente ristretto. A questo punto la pubblica storiografia, intesa come continuità di riflessione storica e su Venezia e sul contesto italiano ed europeo da parte del ceto di governo, s'arresta. Ciò non per capriccio personale di Contarini, ma perché la spaccatura approfonditasi alla fine del '500 ed esasperatasi nel primo '600, rende ormai impossibile - da parte d'una classe dirigente profondamente divisa - un denominatore comune anche sul versante della pubblica storiografia. Se ci si divide sui fatti - il predominio asburgico, la Roma postridentina -, ci si divide anche a proposito del loro racconto. Stando alle formulazioni del consiglio dei X, dalla pubblica storiografia ci si attende veridicità e lustro. Alla prima dovrebbe provvedere il consultato materiale archivistico, mentre il secondo dovrebbe, in certo qual modo, risaltare nella misura in cui lo storico fa lievitare il vero appurato nei depositi della cancelleria (da un pezzo è venuta meno l'identificazione dello storico col letterato, da un pezzo ci si è spostati dalla Marciana negli archivi; ciò nella presunzione la verità storica si celi tra i documenti; e ciò anche, visto che i documenti sono veneziani, nella presunzione la verità stia di casa a Venezia) grazie alla valentia della scrittura. In sostanza alla pubblica storiografia s'affida il compito d'allestire una verità gratificante, coniugando, appunto, l'esposizione del vero - quello che sta negli archivi veneziani - coll'"ornamento" della Serenissima. In fin dei conti il profilo soffuso di moralità e di devozione di Venezia fornito da Morosini va in questo senso; e a tal fine si citano la fermezza antiereticale di Venezia, si ricordano i momenti alti della sua convergenza con Roma, si esalta la vittoria di Lepanto.

Ma la dimensione dell'"ornamento", di per sé, è fino ad un certo punto rispettosa della verità, o meglio imbocca la via della distorsione di questa, insita nel suo dirla a metà. Per cui Morosini si sofferma sì sull'accettazione veneziana del concilio tridentino, ma tace sulla successiva riottosità veneziana alla sua effettiva applicazione. Comunque sia la prima, nell'ottica morosiniana, orna Venezia. Ma così s'avverte come l'idea d'ornamento non sia più la stessa per tutto il patriziato. Quello che per Morosini è un titolo di vanto, non lo è pei "giovani", non lo è di certo per Contarini. Anche per questo la pubblica storiografia non riesce più ad esprimere la compattezza patrizia, ma bensì le sue incrinature, le sue fenditure; ed, anzi, con Contarini, abbiamo un pubblico storiografo che, lungi dal celare il divaricarsi della classe di governo in due autentici partiti con opposto programma, da un lato ne registra l'acceso dibattito soprattutto nelle sedute senatorie, dall'altro fa capire, di volta in volta, cosa pensa, da che parte sta. Grande storico in assoluto Niccolò Contarini e tra i pubblici storiografi di certo il più spiccato e il più originale - e ciò non solo rispetto a quanti lo precedono, ma anche a quanti lo seguono, Nani incluso -, opera un deciso strappo nei confronti dell'ingombrante finalità propria della pubblica storiografia laddove la si vuole e veritiera e illustrante, decorante, glorificante. Egli sceglie la "verità" attenendosi a questa "fedelmente", "senza riguardo di chi si voglia", a cominciare dalle ignavie patrizie, dalle mistificazioni mitizzanti occultanti le debolezze della Repubblica in un racconto che procede duro e implacabile, senza nessuna riverenza pei pontefici, pei cardinali, senza nessun particolare rispetto per principi e sovrani. Una verità austera la sua, aspra, inamena, polemica, conflittuale, cruda, disadorna, indigesta, aggressiva, sarcastica, non un tampone per l'emorragia di senso quale, in fin dei conti, s'è prestata ed essere l'opera del predecessore. Un'esigenza etica e, insieme, un bisogno della mente. Donde l'empito giudicante della sua allargata ricostruzione. Donde, ancora, la compresenza dei fatti e della discussione dei fatti vivacemente ripercorsi e con intelligenza desta e con reattività morale; la quale moralità, proprio perché intrinsecamente connessa col comprendere, non decade a moralismo posticcio, ma diventa a sua volta scavo intendente che fruga negli animi dei protagonisti e ne svela appetiti e ambizioni.

Supportate da una conoscenza di prima mano delle fonti archivistiche veneziane le Istorie veneziane, ché Contarini s'è fatto scrupolo di leggere attentamente il più possibile della sterminata documentazione offerta sugli anni da lui rievocati e anche - per talune questioni - di ripercorrere quella antecedente, riandando ai "registri autentici", agli "autentici [...> trattati", alle "lettere autentiche", ai "registri indubitabili", alle "scritture autentiche". Sistematica la consultazione delle fonti, dunque. Ma ciò non significa appiattimento sulla fonte, ché questa lievita una volta assunta in un'esposizione che resta personalissima, anche quando, a tutta prima, pare su quella ricalcata. Sicché si dà un montaggio degli elementi forniti dalla documentazione produttivo d'assoluta originalità di giudizio. Ed ecco, allora, che le lettere del rappresentante della Serenissima a Roma sugli ultimi giorni di Clemente VIII assurgono al grottesco del papa agonizzante assediato dalla scatenata canea degli appetiti e delle ingordigie di chi gli è più vicino, specie del cardinal Pietro Aldobrandini. Ed ecco, ancora, che le relazioni dei diplomatici veneziani reduci da Costantinopoli, tutte convergenti nella condanna del mondo ottomano, vengono sì puntualmente utilizzate per dedurne le notizie, ma non riprese nella negativa valutazione ispirata dal rifiuto per un'atroce tirannide, per una barbarie mostruosa e perversa, per una religione "perfida" e mendace. L'impero turco si configura così quale regno del male. In Contarini, invece, con deciso stacco dalle sue fonti, la valutazione si fa comprensione d'un assetto statale non privo d'una sua intima coerenza nel suo fondarsi e sulle "armi" e sulle "leggi", inclusive le seconde della religione. Con un atteggiamento d'apertura verso il diverso assente nei baili e anticipante, per certi versi, taluni spunti reperibili solo, ben più tardi, nella cultura illuministica, Contarini non inveisce, come le sue fonti, contro lo "scellerato" Maometto diabolico "inventore" di "falsa religione" blasfema mistura "di senso e ragion di stato", non s'accanisce contro un impero negatore d'ogni virtù, sentina dei "vizi" più "enormi". Ravvisa invece nella tenuta e nel funzionamento di quell'immenso stato l'efficace ruolo coesivo svolto dalla religione assecondante le esigenze politiche. Non tanto, dunque, in Contarini il Turco come orrore ma come entità statale, malgrado tutto, funzionante e, perciò, degna di distaccata considerazione storica. Non il vituperio, allora, da parte sua dell'Infedele, ma lo sforzo d'intendimento d'un sistema non circoscrivibile ai misteri di sangue e lussuria del Serraglio, bensì capace di fungere da contenitore per le più diverse genti e costumanze. Tant'è che i greci di "rito greco" - essendo questo disturbato dall'intransigenza cattolica - preferiscono alla soggezione "a' prencipi cattolici" quella alla Porta, nei cui domini "è permessa ogni libertà".

Quasi una monografia a sé stante il capitolo turco nella storia contariniana, che, nel dilatarsi dell'orizzonte d'un'esposizione protesa a rendere il concatenato intreccio degli eventi, trascorre dalle ultime convulsioni delle guerre di religione in Francia all'indomabile ribellione olandese, dalla Persia minacciante alle spalle il Turco al nepotismo di Clemente VIII, dalle ambizioni del transilvano Michele il Bravo alla maschia energia della regina Elisabetta. Uno spaziare nel quale il protagonismo della Repubblica, ben saldo in Sabellico, Bembo, Paruta e Morosini, vien meno. Come strattonato dal fascino d'un ritmo grandioso che ora lo porta alla volta dei flutti atlantici ora tra le steppe dell'Anatolia, Contarini, proprio perché amante della "Verità", non può imperniare la sua ansia di racconto onnivoro sulla presenza non più determinante di Venezia. Impossibile imbastire una storia europea col filo rosso di quella veneziana. Non in laguna il crocevia dell'interagire, il crocicchio dell'interdipendenza, che, invece, Contarini insegue - colla scorta, peraltro, delle relazioni e dei dispacci dei diplomatici veneziani, sicché anche con Contarini abbiamo il mondo visto da Venezia - spostandosi da Londra a Istanbul, da Amsterdam a Parigi. Donde il suo dimenticare Venezia per raccontare altre storie e il suo brusco distaccarsi da queste per riprendere le fila di quella lagunare. Un andirivieni tra "cose" europee e vicende veneziane - e tra queste c'è pure il taglio del Po, c'è pure la laguna minacciata dalle torbide fluviali; e in proposito Contarini scrive nitide pagine che autorizzano a considerarlo anche un po' scrittore d'idraulica -, tra "negozi" lontani e "affari" della Repubblica di per sé disarmonico e squilibrante, ma anche costitutivo dell'originalità della sua incompiuta storia, ma anche rappresentativo d'una tensione intellettuale che vuol capire ciò che succede nel mondo, a costo di ridimensionare la fittizia centralità di Venezia, che, peraltro, resta al centro degli affetti e dei pensieri di Contarini. Solo che il suo amore è ruvido, esigente, non indulgente, non conciliante. Non, perciò, il vagheggiamento caratterizzante le Historiae di Morosini, dell'accordo veneto-romano, ma la valorizzazione dell'identità di Venezia quale antagonismo nei confronti della S. Sede. Non le illusioni compiacenti del mito, allora, in Contarini, ma l'asprezza d'un'identità per via di contrapposizione nei confronti di Roma, nei confronti dell'accerchiamento asburgico. Una Venezia non solo prudente, ma anche grintosa, ma anche capace di dignità e di fierezza quella rievocata da Contarini negli anni immediatamente precedenti alla rottura dell'interdetto. Una Venezia che ancora conta e decisa a contare di più. Solo che Contarini scrive la sua storia negli anni '20 del '600, quando quel piglio baldanzoso, a fine '500 e nel primissimo '600 ancora possibile ancora riscontrabile, non sussiste più. E Contarini, uomo politico ormai anziano e segnato da cocenti delusioni, riandando a quella Venezia potenzialmente battagliera per la quale egli, allora, s'è, con altri "giovani", battuto, ne fa rivivere anche l'atmosfera pugnace. E con tale immedesimazione che si può parlare, oltre che di nostalgia della speranza, di fedeltà alla speranza. Quanto alla prudente decisione di non stampare (22) le sue Istorie veneziane - peraltro lette grazie ad un'intensa circolazione manoscritta sei-settecentesca -, essa compete alla decisione d'una classe politica che, nel suo arretramento, accampa ragioni d'opportunità: sono troppo polemiche, sono scritte con "stile" troppo "libero". Ma al di là di questo, forse, gioca anche il fatto che la Repubblica le sente come un rimprovero. "L'anima dell'istoria è la verità", aveva scritto Contarini nella premessa alla sua opera. Ma la "verità" delle sue Istorie risulta intollerabile; perciò non vengono pubblicate. E il fatto che Nani, nel '600 inoltrato, riprendendo a tessere le fila della storia veneziana in qualità di pubblico storiografo dal 1613 al 1661, si riallacci a Morosini, non a lui, quasi il suo racconto sia estraneo al corpus della pubblica storiografia, ci dice anche come Contarini, nella sua ansia di "verità", sia rimasto solo.

Altri storici e altre storie

Nell'arco di tempo che va dalla stesura della storia bembiana a quella delle Istorie contariniane, durante il tratto più rilevante, cioè, della pubblica storiografia che proseguirà sino al primo '700, non mancano singoli patrizi che si cimentano, a titolo individuale, colla storia di Venezia, come fa Pietro Giustinian nel '500 e, dopo di lui, nel '600 inoltrato Paolo Morosini, fratello d'Andrea. Non addebitabile, invece, a penne patrizie la strabocchevole folla di titoli a carattere storico sfornati dai torchi lagunari costantemente incalzati dalla smania di pubblicare d'un poligrafismo incontinente che - nel suo scrivere corrivamente di tutto, nel suo improvvisarsi esperto di tutto - propone biografie di sovrani, storie antiche, storie moderne, storie generali, storie universali, storie parziali, ossia di questo o quel paese, di questo o quell'evento. E prevale lo strepito delle battaglie, dato che - come spiega Tommaso Porcacchi, direttore della collana storica dei Giolito nella produzione dei quali, pur questo è indicativo, la storia è seconda soltanto rispetto alla letteratura contemporanea, nel senso che la segue dappresso, nel senso che quantitativamente la tallona - "la guerra è la più importante attion che si legge nell'historie" (23). Isolabili - volendo alcuni titoli ed alcuni autori, come, tanto per dire, il Sansovino che s'improvvisa turcologo. Ma non giova gran che andar piluccando in un'incontrollata profluvie di testi più o meno connotati da ambizioni e contenuti storici. Basti dire che sono tantissimi, che sono troppi, che di gran lunga prevalgono le compilazioni affrettate, goffe, rozze, affastellate, aggrovigliate, sciorinanti maldestramente paratattiche ammucchiate di fatti. E basti, altresì, constatare che la storia è genere praticatissimo, con folte falangi di cultori e che, se i tipografi lagunari sono tanto ricettivi, vuol bene dire che possono contare sull'interesse o, per lo meno, sulla curiosità d'un allargato pubblico di lettori. C'è, insomma, una diffusa richiesta di storie a stimolare l'offerta tipografica; e l'abbondanza di questa ha, a sua volta, effetti di rilancio.

Appetiti soprattutto - in questo adeguarsi dell'editoria alle attese d'un'utenza di facile contentatura - quei volumacci rigonfi, tipograficamente ineleganti, dalle pagine gremitissime riepiloganti alla buona - come promettono i titoli - le vicende principali dell'umanità tutta di ogni tempo e di ogni luogo. Vertiginosi viaggi nella cronologia, dunque, e nello spazio. Così le storie generali, le storie universali.

Queste, comunque, nella loro goffaggine che rasenta il grottesco, a loro modo, nel loro che, esprimono un'esigenza di globalità ed interezza allergica (anche se non volutamente, anche se inconsapevolmente) al prevaricante protagonismo del patriziato marciano. Questo, con la pubblica storiografia, propone Venezia come centro del mondo, fa ruotare attorno a lei la storia tutta. Nelle storie universali, nelle storie generali - buone, si può osservare, per la credulità di lettori dalla modesta levatura, inclini a stupirsi: un pubblico, vien da dire, popolare sia pure coll'avvertenza ovvia che è in grado di leggere -, invece, Venezia si rimpicciolisce, quasi naufraga, non è più al centro. È ben questo che Contarini - pubblico storiografo anomalo e, perciò, non pubblicato - ha intuito. Se poi dalle raffazzonature - tanto voluminose quanto traballanti - con pretesa di narrare di tutti i tempi e di tutti i popoli si passa alle circoscritte monografie erudite che, in parallelo coll'affinarsi del collezionismo d'anticaglie, approfondiscono questo o quello aspetto della storia antica specie romana, è in quest'ambito (sottratto alle sollecitazioni del presente ed esente da quel che d'affannato che fa ansimare la storiografia protesa a tener dietro, arrancando, ai ritmi rapidi della contemporaneità) che s'intravvede la fecondità dello studio pacato e riflessivo. Ne risulta, infatti, che la storia non è la mera accozzaglia di prodigi e disgrazie, non è la spuria congerie di terremoti e battaglie rovesciate addosso ai lettori dagli storici universali. Ne risulta pure che - data l'ampiezza del suo ventaglio tematico via via evidenziata dallo scavo erudito dentro l'antico - essa, la storia, è suscettibile d'una pluralità d'approcci altrimenti mirati rispetto a quello di Paruta o a quello d'un Morosini. Non è, insomma, solo politica, né la politica come prudenza di stato di Paruta, né quella spruzzata di pia unzione di Morosini. La storia è anche altro: economia, amministrazione, diritto. Non è di per sé un gran che quel Vincenzo Contarini, cittadino veneziano lettore d'umanità a Padova, ma i temi da lui sfiorati - magari solo per rettificare qualche asserzione di Lipsio - sono, rispetto all'idea di storia della classe dirigente veneziana, effettivamente ulteriori. Esili e anche un po' stente le sue dissertazioncelle; però, a proposito dell'antica Roma, trattano di distribuzioni di grano, del ruolo degli edili, della posizione giuridica delle popolazioni italiche, degli stipendi militari. Talpe spesso intellettualmente modeste gli eruditi; tuttavia, scavando cunicoli, spesso sbucano in territori inediti ed affascinanti.

Però, mentre la storiografia non patrizia sciama, effusa e diffusa, in ordine sparso, quella patrizia, che privilegia Venezia, di fatto è più consistente e solida. Donde, anche in questo campo, la superiorità della classe di governo che resta tale anche perché capace d'egemonia culturale, anche perché la sua elaborazione d'un sistema di valori non viene contrastata e contestata da analoga capacità elaborativa dal basso. Donde, da parte nostra, la presa d'atto che la storia della cultura lagunare è fattibile in termini di continuità solo come storia della cultura patrizia, laddove, invece, lo stesso non è possibile per gli ambienti estranei al patriziato, storicizzabili solo se riconducibili a quello; e, in caso contrario, soltanto registrabili nello scheggiarsi frammentante dei titoli, solamente annotabili nella fissazione sparsa di destini sparsi. Grandezza e limite del patriziato il suo orizzonte veneziano, il suo continuo dirsi, il suo costante memorizzarsi. Il suo diritto-dovere al governo di Venezia fa sì che concepisca come diritto-dovere puro la storia di Venezia. In questo la sua grandezza, in questo il suo limite. E, sul versante della storiografia, il punto più alto toccato dal patriziato è rappresentato dalle Istorie veneziane di Niccolò Contarini poiché la sua storia diventa autocritica della classe dirigente e poiché, nel contempo, evidenzia l'impossibilità di coniugare storia europea e storia veneziana assegnando alla seconda un ruolo trainante. È come dire che il massimo di tensione intellettuale il patriziato lo raggiunge quando si mette in discussione; non quando, allora, si enfatizza, ma quando si ridimensiona, accettando l'amaro della "verità" senza edulcorarlo. A ciò giunge Contarini, ma sino a questo punto non lo segue la sua classe. Questa fa marcia indietro: le Istorie veneziane non vengono pubblicate, inassimilabili come sono all'autogratificazione governativa.

Ma proprio esse ci fanno capire come l'operazione storiografica raggiunga, a Venezia, il massimo del respiro, se valorizzando quanto da Venezia si può vedere (veneziane, infatti, le fonti di Contarini) mira ad una comprensione non gratificante, se sa, insomma, uscire realmente da Venezia, se non paventa di dimenticare Venezia. Nel vedere fuori il patriziato è - coi dispacci e le relazioni diplomatiche - un grandissimo osservatore. Si confronti una qualsiasi relazione o sulla Francia o sulla Spagna o sull'Inghilterra con le banalità degli storici universali. Ma lo stesso, pure vedendo tanto e per esteso e in profondità, con la pubblica storiografia s'ostina - salvo che con Contarini - a supporre un primato veneziano. Perciò l'autentico capolavoro della storiografia patrizia è costituito dalla somma delle relazioni degli ambasciatori piuttosto che dalla pubblica storiografia. E fuori dal patriziato - dove, per quanto s'accostino titoli e autori, non salta fuori una cultura con timbro unitario o quanto meno, con un denominatore comune, quale quella patrizia - la matrice della grande storiografia si dà in chi somma la capacità valutativa della grande diplomazia veneziana senza, però, essere condizionato - in sede di resa storiografica - dalle preoccupazioni inibenti e limitanti della pubblica storiografia. Inutile, allora, cercare i grandi storici nel variopinto ed eterogeneo ambiente dell'intellettualità irrequieta e disponibile che a Venezia arriva e da Venezia parte attirata dal miraggio di qualche nicchia cortigiana. Un Doni, un Lando, tanto per ricordare i più originali, sono troppo fragili per produrre rilevanti esiti storiografici. I loro scritti migliori si situano nell'ambito dell'umoralità, del disagio esistenziale. Le officine tipografiche sfornano storie, ma non sono storici i Ruscelli, i Domenichi, i Porcacchi promotori e vittime di un'editoria frenetica e corriva. L'ondivago mondo degli avventurieri della penna che ha in Venezia un suo luogo di raduno, ma anche il suo punto di partenza per successive dispersioni, può, al più, produrre encomi, panegirici, versi d'occasione. Non dall'effervescenza improvvisata dell'editoria, non dai letterati linguacciuti e verseggianti, allora, sbucano i due grandi storici non patrizi oggetto delle pagine che seguono, ma da un isolamento nutrito di intense frequentazioni intellettuali proprio col mondo e la mentalità patrizia. Sicché entrambi - ognuno, naturalmente, con la propria specificità - si pongono allo stesso livello della maggior capacità di esposizione e comprensione conseguita, con le relazioni diplomatiche, dal patriziato per da qui, da detto livello, partire per penetrare di più, per capire di più perché, nel contempo, non impacciati dalle remore e dalle inibizioni suggerite al patriziato se non altro dalla sua esigenza d'autoperpetuazione. Si tratta di Sarpi (24), nato a Venezia e morto a Venezia; si tratta di Davila (25), suddito veneto e militare al soldo della Repubblica, nato in una famiglia nobile cipriota sfuggita al Turco, nella veneta Piove di Sacco e morto in una rissa d'osteria presso Verona mentre si reca al governatorato della veneta Crema. Uno storico grandissimo, dunque, forse il più grande in Italia dopo Guicciardini come Sarpi; ed uno storico minore, ovviamente rispetto a Sarpi, ma pur sempre tra i più rilevanti della storiografia del tempo e gratificato da una impressionante fortuna di circolazione europea testimoniata dalle stampe e ristampe e versioni in più lingue nonché da una continuata lettura ripercorribili in Italia e in Europa dagli anni 30 del '600 sino alla prima metà dell' '800. Veneziano sin nella pelle, sin nelle ossa il primo; veneziano d'elezione il secondo. In rapporto organico con la cultura e la politica patrizie e con funzione decisiva d'autentico magistero svolto, come consultore in iure, nel cuore stesso dello stato il primo.

In costante relazione l'altro - pur dalla periferia cui lo costringe il servizio come uomo d'armi - con ambienti patrizi, attento a quanto si pensa tra Venezia e Padova, il quale, dedicando ad un patrizio, Domenico Molin, la sua opera, la colloca non solo sotto la sua autorevole protezione, ma la offre anche al patriziato di cui il dedicatario è membro. Non patrizi Sarpi e Davila. Epperò quello, oltre a dettare al senato le sue più lucide delibere durante l'interdetto, rievocandone in una serrata Istoria la tesa vicenda, diventa autentico storico della dignità patrizia, così facendo quanto - coll'elusività sorvolante e sdrammatizzante di Morosini - il patriziato ha evitato di fare. Quanto a Davila, nell'orchestrare con pienezza una storia delle lacerazioni di Francia nel secondo '500, svolge con coerenza spunti interpretativi già impliciti nell'ottica dei diplomatici lagunari direttamente sperimentanti la tragedia della monarchia francese e ne annoda gli sparsi fili delle loro sparse intuizioni in un ordito robusto. Ma, allora si può anche dire che Sarpi scrive quanto il patriziato non ha il coraggio di scrivere; e che Davila dà respiro storiografico coerente a quanto la diplomazia marciana ha, nei suoi dispacci e nelle sue relazioni, già, per più versi, percepito. Sia l'uno che l'altro sono, pertanto, riconducibili al mondo politico e culturale patrizio. Ciò non toglie che Sarpi - nell'atto stesso in cui ravvisa nella rottura dell'interdetto non già l'episodio chiuso dalla ricucitura diplomatica, ma la fase d'avvio d'una stagione di lotta antiasburgica e antiromana - vada oltre, nella sua smania di aggredire il totatus papale, di diroccare la Roma eretta a Trento, le prospettive più audaci dello stesso settore più combattivo della classe dirigente. Ciò non toglie che Davila - nella misura in cui fa nascere dal sangue della divisione un potere assoluto, nella misura in cui, insensibile al fascino dell'architettura costituzionale di Venezia, ritiene "le qualità della monarchia più convenevoli e proporzionate a coloro che aspirano a dilatazione di dominio e a grandezza d' acquisti" - s'immetta in una prospettiva affatto diversa da quella della conservazione propria della classe dirigente marciana. Tant'è che Richelieu, desideroso di legittimare col timbro d'un illustre antecedente le linee maestre della sua condotta politica, sì che questa non appaia scelta personale, ma svolgimento di premesse già insite nella forma stato costituita da Enrico IV, vorrà che la Storia di Davila esca coi tipi della stamperia reale e sia pure volta in francese da un traduttore qualificato all'uopo stipendiato. Col che l'opera di Davila assurge a strumento d'autocomprensione della monarchia di Francia, mentre la sarpiana storia dell'assise tridentina diventa un testo fondamentale per l'Europa intera, punto di forza per la controversistica protestante, attivatore di turbanti ripensamenti tra i cattolici più pensosi, velenosa insidia per la S. Sede non certo riscattata da quella sorta di ponderosa replica d'ufficio che sarà la storia di Pallavicino.

Veneziani, dunque, Sarpi e Davila, epperò, con la loro opera principale, senza veneziane angustie, sì da coinvolgere la coscienza europea, proprio mentre s'accentua la marginalità di Venezia e si depaupera la sua capacità di sprigionare significati. Con la Istoria del concilio tridentino, che esce per la prima volta a Londra nel 1619, il servita ripercorre, con triturante ricostruzione, permessa da una sterminata informazione sulla quale poggia la puntigliosa precisione dei dettagli, di fatti e intenzioni, gli intricati andamenti - già succintamente ricordati dal segretario Antonio Milledonne testimone, quanto meno, che al concilio s'è guardato dalla laguna senza quell'entusiasmo che, invece, vanterà Morosini - d'una vicenda promossa dalle genuine aspirazioni degli "uomini pii" conclusa con una "forma e compimento" che è come un diabolico ghigno di smentita per le generose illusioni iniziali. Tradite le istanze degli spiriti "sensibili" dalla metodica falsificazione d'una manipolazione furbesca sostituente l'auspicato rinnovamento religioso col mondano edificio della piramidale protervia romana. Avviluppata da una vischiosa ragnatela prescrittiva la religione si fa strumento della "tirannide" spietata e avida, che, occhiuta e accentrata, da Roma sovrasta sinistra la "congregatione" già fidente dei credenti "in Christo". Non più l'unità d'un popolo di "fratelli" dinnanzi a Dio eguali, ma la sua spaccatura tra il clero esigente l'obbedienza a Roma e i semplici fedeli ridotti ad anime servili, cui la parola divina giunge inquinata dallo stravolgimento d'un mastodontico apparato non di ministri di Dio, ma di "cortigiani" curiali. Riepilogo blasfemo di tutti i tralignamenti medievali l'assise tridentina si traduce in "catastrofe" per gli uomini dallo schietto sentire. Anziché ripristinare il "buon uso" della Chiesa santa delle origini, istituzionalizza l'"abuso". Lungi dall'espellere le deviazioni antecedenti, le ripropone come assieme organico e compatto, sbarrato alla riassunzione delle "antiche istituzioni incorrotte" e costituito, invece, dalle successive "corruttele" definitivamente incorporate. Trento, che doveva restituire la "generai concordia" alla cristianità lacerata, ne rende irreversibile e ne esaspera la "discordia", divenendo, così, responsabile della "maggior deformazione" mai verificatasi nella cristianità. Col concilio, teatro d'astuzie terrene, orditura di politici calcoli, tessitura astuta di scatenati appetiti, il papa esce come signore assoluto mentre avvilita risulta la dignità dei vescovi "interessati", data la mondana convenienza della supina obbedienza a Roma, ad assecondare essi stessi la spirale della "loro servitù". Degna, pertanto, d'"odio universale" Trento, città esecranda, città maledetta. Irreparabile il guasto del concilio ivi tenuto, infame il tradimento da questo perpetrato. Non ardore di fede per Sarpi la Controriforma, ma unzione ipocrita; non slancio d'amore, non apertura di carità, ma loro soffocamento, tra le sbarre del diritto canonico, nella cavillosa casistica d'una tortuosa e torbida precettistica. Cala sulla speranza la pietra tombale del vittorioso "sofisma" che vede "stabilita" "confermata" "radicata" la primazia pontificia. E, poiché tutto ciò non è condensato in una sorta di rabbiosa condanna, ma meticolosamente dimostrato in un'opera la cui polemica tendenziosità è come sottintesa nella serrata ricostruzione, apparentemente distaccata e oggettivante, dipanante pazientemente l'enorme matassa dei "maneggi", esitante in siffatto "compimento", ecco che la storia sarpiana dell'"Iliade" del suo tempo fa sì che s'imponga e si frapponga a tal punto rispetto al tridentino da impedirne ogni trionfalistica esaltazione. Dopo l'uscita dell'opera, infatti, ecco che quella particolare "Iliade" deve fare i conti col suo contestante Omero. S'istituisce un legame inscindibile tra il concilio e il suo rampognante storico, che certo lo zelo agiografico di Pallavicino non riuscirà a spezzare. Mosche cocchiere, in genere, gli storici di fronte alle vicende grandiose. Queste ultime, dopo un po', se ne sbarazzano infastidite esigendo il tributo d'altre storie. Caso più unico che raro non altrettanto avviene con un fatto epocale come il tridentino: non riesce a scrollarsi di dosso il fantasma ingombrante di Sarpi. E siffatta sin imbarazzante compenetrazione tra evento e rievocazione dell'evento non risulta certo scalfita dall'ufficiosa storia pallavicina; è come il ronzio d'una zanzara che invano le s'avventa contro.

Netto il disegno dell'Istoria sarpiana: dalla fiduciosa incubazione del concilio ad. un esito vanificante ogni ulteriore fiducia. E non senza tecnica chiaroscurante: dal trepidante affiorare della speranza alla sua distruzione. Netto, del pari, quello della Storia delle guerre civili di Francia - che, ultimata nel 1627, vede la luce a Venezia nel 1630, ben presto assecondata dall'incalzante rilancio delle ristampe e delle traduzioni - di Enrico Caterino Davila; e pur egli chiaroscurante, con percorso, però, di segno opposto rispetto a Sarpi, ché, in certo qual modo, si va dal negativo al positivo. La sua Storia, infatti, che soppianta la di poco precedente narrazione delle Turbulenze [...> di Francia (Venezia 1617) del vicentino Alessandro Campiglia esercitante, pare, l'avvocatura a Venezia, prende le mosse da un "regno" sconvolto e "distrutto" dalle "fazioni" e si conclude collo stesso "riunito nell'intera ubbidienza" ad Enrico IV. Con vasto respiro, con sistematica applicazione del criterio interpretativo dichiarato sin dal titolo per cui, appunto, si tratta di guerre civili e non religiose, con sicurezza - peraltro non esente da squilibrio distributivo - di scansione, con esposizione chiara e con lessico accurato e sovente, pei fatti d' armi, tecnico e specialistico, Davila racconta un dramma che s'accende coll'esplodere della rivalità tra i Guisa e i Borbone e si placa colla "pace" franco-ispana del 7 giugno 1598. Una feroce lotta per il potere i cui protagonisti adoperano la religione - animante, peraltro, il fanatismo cattolico e l'ostinazione ereticale calvinista - come "velame" "pretesto" "colore" ad occultare brame, a "coprire interessi", a legittimare odi, a camuffare disegni, a nobilitare eccidi, ad assolvere atrocità. Sostanziata di menzogna e nutrita di tradimento la politica è - Davila l'apprende da Machiavelli - astuzia volpina e leonina aggressività. Prima quella, poi questa; e quella comporta, da parte dei "grandi" e degli "eminenti", la simulazione e la dissimulazione, nelle quali primeggiano Caterina, suo figlio Enrico III (una figura che Davila prende sul serio, conferendole uno spessore già intravvisto dalla diplomazia veneziana; ed è Enrico III soprattutto che uccidendo il duca di Guisa esemplifica la trasformazione della "volpe" nel "lione") nonché Enrico di Navarra, mentre non possono concedersi comportamento leale e fedele. Questo vale soltanto pei gregari. Ma al di là delle schermaglie menzognere a corte tra ambizioni "ottimamente dissimulate", al di là del fragore delle armi e dello scorrere del sangue nei campi di battaglia, si dà, nella Storia di Davila, il contorto itinerario salvifico del degradato e vilipeso istituto monarchico. La terribile lotta per il potere è vista dall'angolatura - che è stata già quella, finché il conflitto era in corso, della Repubblica - della tenuta del regno, è valutata nella direzione della ricucitura e del ricompattamento statuali che preludono al riaffacciarsi della Francia, rianimata dalla soluzione borbonica della crisi salutata con favore e, anzi, promossa da Venezia, sulla scena internazionale sì da riequilibrarla - con vantaggio della Serenissima - riducendo la, altrimenti incontrastata, preponderanza asburgica. Ripristinato con Enrico IV il comando regio, nel cui successo Davila non vede soltanto il frutto della sua abilità simulatoria e della sua valentia militare, ma avverte il segno del destino, l'"occulta forza del fato" che però, ad un certo punto, Davila - impressionato da tanti eventi a quello favorevoli, da tanti pericoli da quello scampati - non esita, tanto gli pare mirata nella sua preferenza, a definire, "provvidenza" divina. Principe machiavellico Enrico di Navarra, mistura d'astuzia e di forza, epperò vegliato e negli accorti maneggi e nei sanguinosi scontri dalla "grazia di Dio". Se questa l'assiste, vuoi dire che la sua sorte s'identifica colla salvezza della monarchia, vuol dire che la sua vittoria comporta la salvezza del già slabbrato, lacerato, vilipeso "regno" francese. E detta salvezza corrisponde - Davila non dimentica di dirlo - all'"interesse" della Serenissima, a sua volta, tramite il favore manifestato ad Enrico IV, non trascurata dalla provvidenza.

Venezia e la scienza, la scienza a Venezia

Venezia è la città dove il bresciano Tartaglia, algebrista principe nonché editore d'Archimede, è pubblico lettore di matematiche. Ed è a Venezia che questi stampa tutti i suoi scritti. E tra questi vi sono i Quesiti et inventioni diverse (Venetia 1546), donde emerge come gli studi a lui cari - l'algebra, l'aritmetica, la meccanica, specie la balistica, specie la statica - suscitino interesse, provochino domande, sollecitino interrogativi stimolanti lo stesso interpellato indotto ad occuparsi di talune "cose" proprio perché in merito "addimandato". Se Padova è sede deputata per la trasmissione dei saperi acquisiti e regolamentati, è crepitante d'"interrogationi", invece, Venezia, spregiudicatamente indagante, variamente curiosa e - in ciò - sin petulante; più ricco, inoltre, che a Padova e più variegato il ventaglio delle arti e dei mestieri, sicché le tecniche e gli accorgimenti professionali costituiscono un fattore di pressione e, insieme, un orizzonte d'attesa per l'empirica assimilazione di quanto il nuovo può suggerire. S'aggiunga il concorso d'un'editoria fertile di titoli tecnici e di titoli scientifici nell'accezione più lata, dalla geometria alla botanica, dalla medicina all'astronomia. Sintomatico altresì che l'accademia della Fama, sorta nel 1557 per breve ma intensa vita, ché ambiziosa di giovare al mondo intero quale fucina d'articolato sapere onnicomprensivo, nel ripartire gli spazi della propria sontuosa sede, ne preveda uno per la "matematica" suddivisa nei cinque "rami" della "geometria", dell'"aritmetica", dell'"astrologia", della "musica" (e ciò non a caso: giusta la lezione del patrizio francescano Francesco Giorgio alias Zorzi Veneto, è leggibile in termini matematico-musicali l'armonia cosmica), della "cosmografia". E dei 300 titoli che l'accademia si propone di stampare, un centinaio circa attiene alle "discipline mathematiche". Satura di scienza la cultura di Daniele Barbaro, il patrizio commentatore di Vitruvio e appassionato di architettura (26), della quale ha una concezione demiurgica, ché trattasi di "sapienza" mobilitante tutte le scienze per tutte riassumerle nel suo tradursi in "arte" imperiosamente riconfigurante a mo' di "virtù heroica" sottomettente la natura ai bisogni umani. Una razionalità superiore, per Barbaro, allora, l'architettura proiettantesi come dominio, consapevolizzato dalla padronanza dei saperi e delle tecniche, sugli ostacoli naturali. E ciò, laddove per Palladio - di cui Barbaro è committente e protettore oltre che fautore d'un suo decisivo segno su Venezia nel quale però poteva sì riconoscersi il grande patriziato, ma non tutto il patriziato sicché si hanno episodi palladiani sparsi per Venezia, ma non al centro e manca il finale d'una Venezia palladiana - l'idea dell'operare architettonico quale sapienza armoniosa e armonizzante non giunge, come in Barbaro, alla conflittualità colla natura, ma si propone come sua imitazione.

Comunque sia, l'architettura - si tratti del superamento della natura auspicato in talune asserzioni di Barbaro, s'accordi con questa come preferisce Palladio, o s'apra dal manierismo al barocco come la concepisce Scamozzi - racchiude e svolge la dignità della scienza e l'eccellenza dell'arte. Ne è convinto un amico di Barbaro (e con questi figura tra gli interlocutori della parutiana Perfezione della vita politica), il nobile Giacomo Contarini, grandioso architetto dell'effimero - sua la regia degli allestimenti per la sbalorditiva accoglienza, del 1574, d'Enrico III di Valois -, nonché "intrinsichissimo" di Palladio, che ospita nel suo palazzo a S. Samuele, ove ragguardevole è la biblioteca, mirabile la collezione di quadri disegni e statue e ove, nel raccogliere strumenti matematici, Contarini sembra quasi voler gareggiare colla famosa raccolta pinelliana nella vicina Padova. E, come Pinelli, egli accumula avidamente stampe e manoscritti scientifici, tra i quali spicca il codice di Pappo, che, "emendato" da Francesco Barozzi (in rapporto con lui e con Barbaro), diventa "il più corretto esemplare greco" disponibile "al mondo", sul quale lo stesso Barozzi - editore di Proclo, Euclide, Erone in traduzione commentata - si ripromette di basare la sua versione in latino accompagnata da un commento diverso e più abbondante di quello di Comandino. Piccolo nobile Barozzi, epperò carteggiante con nobili del grande patriziato quali, appunto, Daniele Barbaro e Giacomo Contarini, i quali ne incoraggiano l'attività di studioso. In lui essi ravvisano il filosofo della matematica che tanto li appassiona. Barbaro, d'altronde, è il dedicatario dell'orazione con la quale Barozzi confuta Alessandro Piccolomini e contro di lui ribadisce la necessità della matematica. E sempre a Barbaro Barozzi dedica la sua traduzione copiosamente annotata del Commento di Proclo al I libro degli Elementi euclidei. Sostanziato di matematica il concepire architettonico di Barbaro e accesa di matematico entusiasmo la mente di Francesco Barozzi. L'amore per la scienza avvince così il nobile ricco e potente e il nobile ininfluente e marginale e poco provvisto di mezzi. Contagiante per Barbaro l'entusiasta Barozzi, a sua volta entusiasmato da Proclo, specie laddove "chiama matematica l'anima" per quella intendendo "aritmetica, armonia, geometria, sferica". A questo punto la matematica assurge a "virtù ", come lo è l'architettura per Barbaro. E, a questo punto, serve Platone, più che Aristotele. E ben "il sapientissimo Platone" a proclamare "dotata di essenza matematica" la "nostra anima". Conoscenza possente la matematica e, pure, autoconoscenza. Senza "le scienze matematiche" - così perentorio Barozzi - non v'è possibilità di "conoscere se stesso perfettamente". Tanto fa dire che la matematica è il culmine del sapere, tanto fa identificarla colla perfezione.

Strepitosa la "dottrina" di Barozzi e penetrante il suo ingegno "negli studii delle mathematiche", sicché Daniele Barbaro gli dona "l'amicitia sua", sicché può contare sulla "gratia" di Giacomo Contarini. Così, dunque, due grandi patrizi. Ma che fa per lui il governo ottimatizio? Si inchina la "perfezzione" della politica alla perfezione della matematica? Pare proprio di no. Non pochi i patrizi colti, e più d'uno tra questi è sensibile alla scienza, magari perché più amico di Platone che di Aristotele e via via, perché più amico della verità che di entrambi. Tuttavia, una volta messi insieme, in maggior consiglio e in senato, non è che i patrizi formulino se non una politica della scienza, un'attenzione unitaria della classe politica nei confronti di questa. Né tanto meno dalla classe politica sortisce il benché minimo privilegiamento per lo scienziato, per l'intellettuale scientifico. Al "magnifico messer" Francesco Barozzi, nel 1559, i riformatori dello Studio di Padova - non senza un pizzico di condiscendenza e quasi per venir incontro ad uno che, in fin dei conti, è un "gentilhomo" come loro e quindi merita un po' d'indulgenza per quella che è una sua debolezza - concedono di tenere un corso libero, "senza stipendio". Possa, insomma, "leggere la mattina a qualche hora", purché eviti di "sturbar le altre lettioni" e fermo restando che la lezione del "doppo disnar" compete al cattedratico Pietro Catena. Come si vede, in cima ai pensieri del ceto politico sta la scelta politica di garantire anzitutto il regolare scorrimento della vita universitaria. Donde la prevalenza dei ritmi ripetitivi di questa, come d'altronde si conviene ad una istituzione che produce laureati. Donde più la manutenzione del suo collaudato prestigio che l'apertura a sommoventi novità. Lo stesso decreto senatorio del 1545 autorizzante l'erezione dell'orto botanico mira ad agevolare l'ostentazione dei semplici, si inquadra nell'ambito d'un insegnamento tradizionale. Se poi la botanica s'imporrà come scienza autonoma, ciò non sarà certo per un illuminato intervento del senato. Sarà il progredire - più fuori che dentro l'università - degli studi a determinarne lo sganciamento dalla farmacopea. Quanto all'impronta cosmologica dell'impianto il cerchio e, dentro, un quadrato del celebre Orto, lo si deve al ruolo giocato da Daniele Barbaro, allora giovane studente a Padova, per fare dell'Orto un Giardino rinascimentale, per infondere in uno spazio destinato a scopi didattici un supplemento d'armoniosa bellezza.

La stessa mancata fortuna - cui s'è già accennato - di Giovan Battista Benedetti (27) in patria è ben citabile come episodio di sin clamorosa distrazione della Repubblica. La "perfezzione" della politica sembra, in questo caso, cecità della politica. Tant'è che, senza che nessuno, tra i politici, mostri di preoccuparsene, quest'uomo - che, esordito vigorosamente con un martellante proclama antiaristotelico, innalza la matematica a strumento principe di tutte le scienze, ponendosi al centro d'una problematica d'innovata rifondazione ove la rivendicata autonomia della scienza prelude alla rivoluzione scientifica abbandona, nemmeno trentenne, Venezia per Parma e, poi, per Torino, chiamato in quella da Ottavio Farnese, in questa da Emanuele Filiberto. E Venezia se lo lascia sfuggire di mano o, meglio, si disinteressa del fatto resti o vada. Né, nel 1570, l'ambasciatore Francesco Morosini, informando che è nelle grazie del duca sabaudo "un messer Giovanni Battista Benedetti" eccellente nella "scienza delle mathematiche", la quale, precisa, serve a chi fa "professione de l'arme", mostra di rammaricarsi che questi insegni a Torino e non a Padova. E, quando, nel 1590, Benedetti morrà, il rappresentante veneto Alvise Foscarini non ne farà cenno o perché non se n'è accorto o perché ritiene inutile trasmettere la notizia in quanto di poco conto. Non si può certo dire che il governo veneto senta come problema quello d'un'eventuale fuga dei cervelli attirati da questo o quel principe, se si tratta di uomini di scienza. Si preoccupa, invece, se chi se ne va è un maestro vetraio; non per niente è ben attento ad impedire la fuoruscita di maestranze specializzate, ad evitare la divulgazione, fuori Venezia, di segreti di fabbricazione. Docente d'anatomia a Padova, nel 1537-42, Andrea Vesalio, dalla cui dissezione si può, volendo, far partire una linea che - tramite Realdo Colombo, Gabriele Falloppia, Acquapendente - esita nella scoperta della circolazione del sangue di Harvey, già studente a Padova. Figura decisiva quella di Vesalio, però non trattenuta a Padova, visto che passa al servizio di Carlo V e Filippo II. Mecenate per lui - riconosce Vesalio - il podestà Marcantonio Contarini che mette a sua disposizione i cadaveri dei giustiziati. Ma il patrizio - Contarini - che asseconda l'anatomista nella sua ansia di comprendere com'è fatta la "fabrica" del corpo umano non è che esprima una presa di posizione in tal senso d'una consapevolezza governativa. Occorre attendere un bel pezzo perché ci sia il riscatto della chirurgia quando, nel 1609, i riformatori l'autorizzano quale insegnamento separato affidato a Giulio Cesare Casseri. Non sintonizzata - ecco quanto vogliamo dire - la classe politica nel suo complesso con gli avanzamenti della scienza, ma, al più registrante, quando questi sono ormai pacifici. E anche, talvolta, tollerante vistosi ritardi. Quando, nel '600 ormai avviato, l'anatomia impone una didattica dimostrativa, se ne astiene, a Padova, il cattedratico Pompeo Caimo, senza che - malgrado le proteste degli studenti e il loro trasferirsi altrove - ci sia la rimozione dello scadente docente o, quanto meno, un richiamo perché aggiorni il suo insegnamento ai metodi ovunque in uso.

Vanto della Repubblica, ad ogni modo, il conferimento, nel 1590, della "prima lettione delle matematiche" a Padova a Galilei (28), proprio nell'anno in cui muore a Torino Benedetti, i cui studi di meccanica - lo s'annota per inciso - potrebbero, volendo, intitolarsi, in certo qual modo, "verso Galilei", ché funzionali - per il salto di qualità della loro potenziale emancipazione da Aristotele - all'esito della matematizzazione della fisica alla quale Galilei, già nei suoi anni pisani, s'avvia anche tramite l'Archimede di Tartaglia e di Benedetti. Illustratore nelle lezioni dalla cattedra del consueto modello aristotelico-tolemaico del cosmo, il copernicano Galilei dispiega il suo ingegno non tanto all'interno del patavino palazzo del Bo, quanto fuori e lo valorizza rapportandosi agli ambienti socialmente più prestigiosi ed intellettualmente più vivaci della società veneta. Questi - nel costituirsi, grazie a lui, d'una sorta di asse Venezia-Padova, che ha effetti trainanti sull'avanzamento della scienza - sono per lui gratificanti con la loro intendente ammirazione e, pure, stimolanti per la capacità di sollecitazione interrogante. V'è, infatti, da parte loro, un'assecondante disponibilità a slargare la mente per recepire la portata sommovente insita nella legge della caduta dei gravi che si fa incalzante partecipe entusiasmo. E nel patriziato lagunare Galilei ha sia autorevolissimi protettori che amici fidati. Tra i primi spiccano Giacomo Foscarini e Pietro Duodo, esponenti della grande nobiltà, tra i più eminenti nel partito dei "vecchi". Tra i secondi v'è Giovan Francesco Sagredo, destinato ad incarnare - nel Dialogo sopra i due massimi sistemi - il galileismo più baldanzosamente irruente e più irriverente nel ridicolizzare l'aristotelismo di Simplicio rappresentativamente compendiante la chiusura mentale del mondo universitario. Fatto sta che lo scienziato gode d'un favore che, scavalcando le divisioni politiche del patriziato, proviene a lui tanto dai più filocuriali tra i "vecchi" quanto dai più anticuriali e, vien da dire, anticlericali tra i "giovani". E, dietro questi ultimi, si staglia netto il profilo di Sarpi, l'interlocutore più criticamente avvertito - ed è ben sintomatico sia estraneo al l'ambiente universitario - di Galilei in terra veneta. Indicativo questo interesse consenziente per Galilei degli uni e degli altri: vuol dire che la sua statura scientifica s'impone con perentoria trascinante autorevolezza. Ma vuol anche dire che - in un periodo particolarmente arroventato dalla tensione con la S. Sede - Galilei, il quale è in rapporto con uomini diversamente schierati proprio sull'atteggiamento da assumere con Roma, non prende posizione. Anche per questo riesce ad esser caro agli uni ad agli altri. E rimane fuori dalla mischia anche quando Venezia sembra parlare con la voce di Sarpi, anche quando caccia dalle sue terre quei gesuiti tanto invisi all'amico di Sagredo.

Silente Galilei nel deflagrare del contrasto veneto-pontificio. Se non si pronuncia - pur continuando ad insegnare a Padova, i cui giuristi, invece, danno ragione pubblicamente alla Serenissima -, è anche perché altrove si colloca l'orizzonte delle sue aspirazioni. Per quanto "splendida", per quanto "generosa" la Repubblica è congenitamente e, viene da aggiungere, strutturalmente impossibilitata ad appagarle. Non può, infatti, sgravarlo dal "carico" dell'insegnamento, non può donargli quell'"otio" e quella "quiete" che ritiene indispensabili alla stesura delle "opere grandi" cui sta pensando. Impossibile una deroga dalla normativa a favore dello scienziato sì che, lautamente retribuito, attenda soltanto ai suoi studi. Lo stipendio esige in contraccambio una regolare prestazione. Un fastidio, però, per Galilei la lezione: disturba la concentrazione necessaria; è un "impedimento" all'andar oltre della mente, anche se - lo riconosce l'interessato - non si tratta poi d'una gran fatica. In fin dei conti l'onere didattico non oltrepassa una sessantina di mezze ore all'anno. E lo stipendio? Galilei, che ama la vita, che ha tante spese, lo vorrebbe più consistente. Sagredo che preme, nel 1599, per un aumento è trattato bruscamente dal riformatore allo Studio Zaccaria Contarini, il quale se la prende pure coi "nipoti", che, estimatori di Galilei, a loro volta insistono collo zio "in proposito". Eccessive, indebite per Contarini le "alte pretensioni" di Galilei. Accontentarlo, concorda con lui il collega Leonardo Donà, il futuro doge, anch'egli in quanto riformatore, oggetto di raccomandazioni, significherebbe mettere "in confusione tutto lo Studio". D'opposto sentire Donà e Contarini: questi milita dalla parte dei "vecchi", quello è a capo dei "giovani". Ciò non toglie siano entrambi fermissimi nel rifiutare un'eccezione - quella d'un aumento di stipendio rilevante e perciò turbante l'ordinato scorrimento della vita universitaria (come non prevedere il brusio dei colleghi di Galilei? come non supporre analoghe "pretensioni" da parte del corpo docente?) - allo scienziato di cui pur riconoscono l'eccezionalità. Nessun favore ad personam, dunque, nessun privilegiamento. Irrecepibile nella ben ordinata Repubblica quanto Galilei pretende. Dovere primario della classe politica ottimatizia rispettare e far rispettare le proprie regole. Nel frattempo quanto Galilei desidera si divarica sempre più da quanto, rispettando le regole, Venezia può offrirgli. Non gli basta essere pagato meglio; vuole l'esenzione dall'insegnamento. Una siffatta condizione non può sperarla "da altri che da principe grande". Viva, a Venezia, l'attenzione per la scienza; ma la veneziana sapienza di stato non può - per favorire il grande scienziato - derogare. Ed ecco che Galilei lascia Padova per diventare "matematico e filosofo" di quei Medici ai quali ha intitolati i quattro pianeti di Giove da lui scoperti, ai quali ha indirizzato il Sidereus nuncius. Addolorato dalla sua partenza un Pietro Duodo, sin disperato Sagredo. Galilei sappia - gli scrive il primo - che la sua mente e il suo cuore sono con lui. Senza "rimedio" lo sconforto del secondo, senza il sollievo d'un minimo di "consolatione". Quale lettera potrà mai sostituire il volto dell'amico, il timbro della sua voce?

Sconsolato e inconsolabile Sagredo. Ciò non toglie sappia essere lucido nel prospettare il pro e il contro della scelta di Galilei, sappia rappresentarne allo scienziato i vantaggi e gli svantaggi. Certo, gli scrive Sagredo, a Firenze il suo "merito" sarà "agradito e premiato" da un "principe" virtuoso e magnanimo. Ma con quale garanzia d'intensità e di durata? "tempestoso", procelloso "mare la corte", torbido ricetto d'insidie, gelosie, calunnie. Il "principe", poi, può cambiare opinione. E tra gli "accidenti del mondo", anche se Sagredo non lo dice, va ben preventivata la sua scomparsa. La Repubblica, invece, è Galilei stesso a farlo notare al ministro mediceo Belisario Vinta, è "principe immortale et immutabile". Effimero, momentaneo, revocabile, precario il presunto vantaggio di Galilei. Pur di conseguirlo - e qui Sagredo s'irrigidisce - ha rinunciato non solo ad una posizione dignitosa, solida, garantita, ma s'è anche preclusa la possibilità (latente proprio nella sua posizione patavina enfatizzata dal prestigio di cui gode tra Venezia e Padova) d'un'autorevolezza propulsiva e, insieme, d'un'autonomia incondizionata. Galilei lascia, insomma, Padova, proprio quando l'autovalorizzazione dell'autoconsapevolezza è prossima a farsi autodeterminazione. Col prevalere, infatti, dei suoi "amici", vale a dire coll'affermarsi direttivo del partito dei "giovani" (è evidente qui che per Sagredo i veri "amici" di Galilei si trovano tra i filosarpiani), il suo ruolo si sarebbe fatto vieppiù incisivo. Pessima scelta, insiste Sagredo, quella di Galilei che, attirato dal piatto di lenticchie della benevolenza principesca, lascia un "bene" sicuro e, per di più, carico di futuro, destinato a crescere. Una svendita la partenza; attratto dall'offa d'una manciata di privilegi, Galilei commette un errore gravissimo di prospettiva. È vero che solo il principe assoluto che decide a proprio piacimento può accontentare nell'immediato Galilei. Però - obietta Sanudo - solo la forma repubblicana è idonea a favorire duraturamente l'avanzamento della scienza. Galilei, insomma, se avesse avuto la pazienza di attendere, avrebbe visto la scienza diventare programma politico. "Qui", in terra veneta, gli ricorda Sagredo, "ella", Galilei, "haveva il commando sopra quei che commandano et governano gli altri, et non haveva a servir se non a se stesso, quasi monarca dell'universo". A Firenze - è sottinteso - sarà sì un cortigiano favorito, ma senza garanzia di stabilità. Nella cornice repubblicana, invece, gli si stava schiudendo la pienezza dell'autogestione, per di più con esiti ulteriori: quello dell'influenza sul governo, quello dell'orientamento del settore più pugnace della classe dirigente. Sarebbe stato - si può svolgere - un po' quello che è stato Sarpi durante l'interdetto. Avrebbe, come scienziato, comandato ai detentori del comando. Era per lui quasi a portata di mano il massimo dell'influenza; se avesse aspettato un po' avrebbe assistito al maturarsi delle condizioni d'una sorta di potestas indiretta; avrebbe disposto tramite quelli che dispongono. Un bruciante rimprovero per Galilei: quello d'avere, per un po' d'agio ovattato, mirato basso. E così ha sciupato una grande occasione: quella di trasformare la sua autorevolezza personale in rilevanza anche politica dell'innovazione scientifica, quella di tramutare la simpatia per la nuova scienza in avvio ad una reimpostazione, nell'accezione più lata, del rapporto scienza-politica. Nella sua mancanza di fiducia in questa grandiosa virtualità, ha peccato di debolezza, sin di viltà. Quasi quasi ha tradito una sorta di ipotizzabile progetto di travasare il disvelamento di verità insito nella dimensione della scienza in attivazione non solo della politica nella direzione della promozione della scienza, ma della stessa assunzione da parte della politica d'un animus scientifico, d'una forma mentis scientifica. Poteva nascere, se Galilei non fosse partito, una nuova storia: la politica per la scienza, la scienza per la politica. Forse Sagredo sta vagheggiando una nuova Venezia per un mondo nuovo. Se si considera che è uno dei più battaglieri tra i "giovani", tra i più irriverenti con Roma, tra i più ostili ai gesuiti, se ne può arguire che la galileiana "libertà del giudicio" dovrebbe far lievitare la stessa politica. Completamente sgombra da riverenze e inibizioni la sperimentazione; completamente laicizzata la politica. Forse proprio questo balugina nella mente di Sagredo. L'osmosi metodologica tra nuova scienza e nuova politica, la simbiosi tra lo scienziato "monarca" e la Repubblica autodeterminata, ché sostanziata d'autonoma intelligenza.

Galilei - vittima, come si sa, della cedevolezza del microassolutismo mediceo, troppo subalterno per proteggerlo come Venezia ha fatto con Cremonini - avrà sin troppo tempo per ripensare agli anni veneti come ai "migliori" di "tutta" la sua vita. E, dando, nel Dialogo sopra i due massimi sistemi, il volto dell'ormai scomparso Sagredo alla carica polemica della nuova scienza forse non s'è limitato a far rivivere, così, un uomo che gli è stato carissimo. Forse ha anche giocato - nell'effigiarlo così - il vagheggiamento d'una classe dirigente galileiana. Certo: se lo scienziato comanda a quelli che comandano, la scoperta scientifica della verità si tramuta in potere della scienza, il potere della verità nella misura in cui la scienza è capace di verità. Ma proprio la condanna romana del Dialogo dimostra che non basta dire la verità, che occorre farla accettare, farla circolare. Il che comporta una strategia. Punto nodale quello dei rapporti scienza-potere che Galilei s'è illuso, superficialmente, di schivare colla sistemazione, a tutta prima appagante, nella nicchia fiorentina. Fragile usbergo per la scienza il mecenatismo mediceo, troppo pavido il granduca.

Non schiva, invece, il rapporto scienza-potere Sarpi, forse, tra gli amici di Galilei in terra veneta quello più trascorrente dalla fisica alla filosofia, dalla chimica alla matematica, il più scavante nel suo andirivieni tra medicina ed etica, il più determinato a dedurre da un atomismo meccanicistico, per via di schegge aforistiche, una sorta di disincantata antropologia di cui risente l'accanita psicografia della sua Storia del concilio di Trento improntata da un'analiticità meticolosa leggibile anche in termini di microfisica del potere. Proprio perché ne - del rapporto scienza-potere, ben s'intende - ha presente la centralità, avverte la necessità d'una strategia in proposito. Donde le sue insistenze con Galilei perché prosegua gli studi sul moto, donde i suoi richiami al primato (vien da dire strategico) della meccanica. Donde, ancora, la diffidenza sarpiana per l'imbocco astronomico, pur così carico di vistosi successi e di conseguente clamorosa nomea, dello scienziato. La quale diffidenza nasce sia dalla convinzione l'autentica grandezza di Galilei si radichi nella tematica del moto sia dalla percezione dei pericoli d'una battaglia - quella copernicana - non politicamente supportata, non garantita da solide alleanze; e perciò, Sarpi l'intuisce, troppo azzardosa, proprio perché condizionata dalle reazioni del contesto (questo, quanto più s'allarga, tanto meno è controllabile) che, come applaude, così può bloccarla, revocarla. Proprio, invece, perché più ardue, più impervie, più ostiche "le cose del moto" risultano meno vistosamente disdicenti e meno clamorosamente scalzanti (ciò non toglie siano, nella sostanza, le più demolitorie e, insieme, le più rifondanti) e, perciò, le più sottraibili all'attenzione d'un controllo repressivo, le più idonee ad una lotta di lunga durata in un mondo nel quale la "verità" non può esser detta "tutta".

Certo: se si pensa al comandare a quelli che comandano, all'orientare quelli che governano, al suggestionare quelli che decidono non viene in mente tanto Galilei nella potenzialità d'influenza per lui ipotizzata, forse esagerando, da Sagredo, quanto il ruolo decisivo svolto da Sarpi nella vicenda dell'interdetto e anche, sia pure con minor rilevanza, posteriormente. Ma ciò non tanto sul terreno della scienza; o, meglio, partendo da questo per travalicare oltre, sino al sofferto, ma non per questo meno netto, strappo dal "pensiero delle cose naturali et mathematiche" per attendere, intensivamente e indefessamente, solo ed esclusivamente, alle "canzoni politiche". Non è, insomma, il Sarpi cultore di scienza che politicamente conta, ma il Sarpi teologo e consultore della Serenissima. Difendendo, in tale veste, la sovranità di questa, il servita s'arrovella e trama - utilizzando le diramate sue aderenze nel mondo patrizio, attivando il prestigio di cui gode nella sfera governativa - perché la Repubblica, recuperata la sua pienezza sovrana all'interno, divenga perno d'una violenta emancipazione politica e religiosa dal giogo sui corpi e sulle anime esercitato, a suo avviso, dalla connivenza ispano-pontificia. Un compito troppo pesante, questo auspicato da Sarpi, per Venezia. Non ha, oggettivamente, la forza per assumerselo; ed è, soggettivamente, troppo poco determinata per volerlo. Un conto è il contenzioso giurisdizionale, un conto è il di più verso il quale Sarpi vorrebbe sospingerla. Sarpi, nell'intimo, ha consumato la sua rottura con la Chiesa; la Repubblica di S. Marco no. Già durante l'interdetto il doge Donà s'è preoccupato di bloccare un'ulteriorizzazione della lacerazione. Già Querini, l'autore dell'Aviso, nell'Historia dell'escomunica, manifesta i sintomi d'un angosciato ripiegamento: lo scontro con Roma, anche se Venezia ha dalla sua la giustificazione delle sue "ragioni", è sempre e comunque una "iattura"; da evitare, perciò, per l'avvenire, anche a scapito delle "ragioni", di "cozzar con li pontefici". Donde l'accentuato divaricarsi tra l'estremismo antipapale e antispagnolo di Sarpi e una Venezia ripiegante e perplessa. Venezia non è "da guerra", constata desolato Micanzio (29), l'uomo a Sarpi più vicino, nel 1617. Non riesce a battere gli Arciducali a Gradisca e nemmeno vuole batterli. In ogni caso Sarpi non comanda più a quelli che comandano. Irreversibile peraltro il suo passaggio dalla scienza alla politica; solo che questa si contrae al serrato argomentare dei suoi consulti puntigliosamente salvaguardanti, nel dettaglio, la sovranità repubblicana. Sarpi, insomma, non è più - come durante l'interdetto - il mentore della Repubblica, quello che ne detta le repliche al papa.

Non sfugge al servita, naturalmente, la sin speculare simmetria tra il ridursi della gittata della sua personale influenza e l'afflosciarsi dell'ambizione, da lui suscitata, in una Venezia attivamente protagonista. Donde la delusione, lo sconforto, l'amarezza avvertibili nell'ultimo Sarpi. Ma ciò non a scapito dello scrupoloso suo impegno nell'indefettibile consulenza storico-giuridica per la tenuta della sovranità, per la sua tutela e rilancio. Sarpi sa d'essere, così, almeno arginante in tempi di riflusso; sa di poter ricacciare, col rigore del suo ragionare, i pasticciamenti frutto dell'empiria buonsensaia. Donde, col suo intervenire sui più disparati argomenti, la risultante d'una sorta di girovagante - epperò sempre fermo, quanto all'ispirazione - corso di dottrina dello stato con un'allargata casistica esemplificativa ed applicativa. Un magistero dietro le quinte - un po' tallonante la prassi di governo e un po', pure, tamponante - che prosegue, morto Sarpi, con Micanzio, che a lui subentra nell'incarico. Ma è ben Micanzio a testimoniare come l'ultimo Sarpi, quello disilluso, quello registrante la fine delle speranze, quello non più capace d'entusiasmi politici, si rifugi pensoso nelle "meditazioni divine" ritrovando - in parallelo a questo suo meditabondo accostarsi all'eterno - il "gusto" per la scienza, indugi, di nuovo, come prima della stagione politica, a "rivolgere per la mente figure matematiche et astronomiche". Sembra quasi Sarpi - consunto da una militanza segnata da tante amarezze e conclusasi con una cocente sensazione di sconfitta - prenda le distanze dalle beghe terrene, ripari in un'assorta solitudine rispetto a queste barricate. In questa volge lo sguardo al cielo, s'aggira tra spazi celesti. E così non senza intimo conforto e così non senza rinnovata possibilità di sorriso. Non solo cupezza rimuginante, allora, nell'ultimo - e, peraltro, pur sempre ripiegato su se stesso e pure sempre dolente - Sarpi, ma capacità, attestata dal biografo Micanzio, d'accennare "ridendo" al suo indefesso lavorio mentale: "quanti mondi e quante reti ho fabbricato nel cervello". Rasserenante, sin tonificante e corroborante - di contro alle insidie d'una depressione contigua alla disperazione, su questa precipite - il rinnovato interesse per la scienza di Sarpi, che a questa ritorna con appunti ed annotazioni, ove, tanto per dire, non mancano riferimenti all'edizione del 1621 del kepleriano Mysterium cosmographicum. Aprendosi all'immensità del cosmo, il servita può ben sorridere indulgente, può ben distanziarsi dai litigi anche meschini di cui la sua attività di consulenza lo costringe ad occuparsi. Pure Micanzio, obbligato dalla sua prolungata posizione di consultore ad immergersi, suo malgrado, nel merito di miserabili "frattarie", di micragnosi "negotii capitolari", a logorarsi tra "processi ", "cause", "pretensioni", quando non ne può più, quando gli manca l'aria, quando sta soffocando nell'angustia d'una microstoria cui la grande storia non pare fornire spiragli di riscatto, s'afferra - come già Sarpi - ad altre meditazioni, si consola con analoghi pensieri. S'allontana dal berciare dei frati e dei capitoli e vaga con la mente in cieli sterminati. Lo trasporta in alto la lettura dei dialoghi galileiani la cui forza di verità - ne è sicuro - s'imporrà come quella, ed è un accostamento significativo, della Storia sarpiana del concilio di Trento. Proprio perché di scienza dilettante, proprio perché non scienziato, Micanzio può abbandonarsi all'empito emotivo della notturna contemplazione del cielo stellato. Di notte - scrive nel 1637 il vecchio Micanzio al vecchio Galilei -, riandando alle "cose de' suoi Dialoghi", ecco che lo "rapisse" dolcemente "alla consideratione della grandezza" divina. Sa bene che - rispetto all'infinità di questa - la limitata percezione umana di immensità pur smisurate è "nulla"; ma è ben colla scorta di questo modesto e inadeguato percepire, suscitato dalla visione del cielo sopra di lui, che il "chimerizzare" di Micanzio si fa, almeno, trepida commozione, brivido, nel finito, dell'infinito. Solo così all'uomo è dato di sfiorarlo. L'orecchiante d'astronomia, coi dialoghi galileiani, avverte il sentore dell'eterno e dell'illimite. Gli scritti di Galilei, dunque, non quelli dei "theologi" lo sospingono verso l'alto, lo sollevano lontano dalla terra. Né l'operare in questa è stato vano. Si dà un gruzzolo di certezze remuneranti. Quelle di sapere che Sarpi gioisce "nel cielo", donde può ben vedere che la sua Storia, proibita da Roma, circola "in italiano, latino, inglese, francese". Lo "stesso" avverrà ai Dialoghi galileiani. Nessun "articolo di fede" di conio pontificio restituirà "l'immobilità" tolemaico-aristotelica alla "terra". Nessuna "malignità", nessuna "potenza" potrà privare Galilei della "gloria" della dimostrata centralità del sole. Né l'"orribile onnipotenza" papale - invisa a Micanzio quanto a Sarpi - potrà estirpare nell'uomo l'ansia di verità che si manifesta, se non altro, guardando, come fa di notte Micanzio, al cielo. Un vero inno alla scienza questo di Micanzio: è teologia, è eticità, è verità destinata ad affermarsi in futuro; ed è, perciò, speranza. Per quanto negativa, per quanto tramata di malvagità, la vicenda umana - ossia la storia - si riscatta nella misura in cui la verità, quella galileiana, riuscirà ad imporsi.

Tecniche, metodi, accorgimenti, ammaestramenti

Contagiante, nel trasmettere la passione per la scienza, la presenza veneta, tra fine '500 e primo '600, di Galilei, ma non al punto - come vorrebbe Sagredo - da sovvertire le abitudini mentali del patriziato. Pietro Duodo è ben lieto i suoi due nipoti apprendano Euclide dalla viva voce dello scienziato; ciò non toglie che la destinazione per loro prevista sia politica. La gerarchia di valori del corpo ottimatizio continua a mettere il servizio pubblico al primo posto. Primato della politica, dunque, anche se un uomo come Galilei infonde la passione della scienza. E ciò grazie, anche, alla sua cordiale umanità, alla simpatia che sa suscitare. Gli piace scherzare, ridere, è una buona forchetta, non gli dispiace il vino, gli piacciono le donne. La scienza impersonata da Galilei non ha certo un volto austero, arcigno, severo. Forse per questo scatta l'intesa con Sagredo, che sa essere buontempone, che guarda esplicito alle femmine, che ha un'indubbia competenza di vini. In entrambi la voglia di vivere s'accompagna al desiderio di capire; e le due dimensioni si compenetrano, si fondono in tensione intellettuale capace d'allentarsi in frizzoso motteggiare. Ma che idea ha di sé Sagredo? Ce lo dice nell'autoritratto schizzato, nel 1614, in una lettera a Marco Welser. È un gentiluomo veneziano, protettore sì di "litterati", ossia di intellettuali in senso lato, ma non "litterato" a tempo pieno ché, per quanto dedito agli studi, la sua "riputatione" deriva dall'adempimento dei suoi doveri politici, in ciò ottemperante alla tradizione che ha reso benemerita la sua famiglia. Non che sottovaluti gli "studii" suoi, solo che li circoscrive alla sfera privata, nella quale il suo "animo" si rinfranca liberamente speculando ed indagando. Precipui suoi "gusti": conversare con gli "amici" dei comuni coinvolgenti interessi; cercare "la verità" e fissarla, per quel ch'è possibile, in "alcuna propositione che sia di" suo "gusto". Ansia di capire, dunque, e, insieme, piacere di capire. Amore di "verità" e "gusto" di "verità"; un risvolto edonistico questo riscontrabile anche in Galilei. Solo che la "verità" di Galilei e di Sagredo come, d'altronde, la "verità" di Niccolò Contarini storico, è fino ad un certo punto compatibile colla mentalità e i comportamenti patrizi. Ha un che di singolarmente anomalo, è ulteriore, è spiazzante, può essere sin scalzante. Non per niente Zaccaria Sagredo, fratello di Giovanfrancesco, annunciandone la morte a Galilei, non si trattiene dal precisare che farà il possibile per scoraggiare i suoi figli dall'imitare lo zio, preoccupato "s'ingombrino il cervello in cose di niun profitto". Ma, per fortuna, Niccolò Sagredo risentirà da giovane più dello zio che del padre Zaccaria. Sicché, nel 1636, Galilei apprenderà con "diletto", come scrive a Micanzio, che il giovane continua "nelle curiosità", appunto, "dello zio", per quanto il padre possa considerarle svianti e travianti. E si tocca qui con mano cosa significhi la presenza di Galilei a Padova: accende d'entusiasmo Giovanfrancesco Sagredo e questo si trasmette, dopo la sua morte, nel nipote.

Quanto al "gusto" per la "verità", esso è espansivo: è amore per la scienza, è anche "curiosità" per la tecnica. E - nei confronti dell'ateneo patavino il cui astruso discettare aveva, a suo tempo, suscitato uno scoppio di rifiuto allergico in un Ortensio Lando - Venezia spicca e risalta come città dai mille mestieri, dalle mille professioni, carica d'inventiva, duttile, varia, satura di saperi professionali, d'accorgimenti empirici ogni tanto movimentati, nel loro plurisecolare sedimentarsi, da scatti innovanti, da salti di qualità. Tra gli amici di Galilei c'è ben - tanto per esemplificare - quel Girolamo Magagnati fabbricante di vetro a Murano in "maniera" tale da renderlo di "miglior qualità" e titolare, dal 1595, d'un privilegio d'esclusiva rilasciato a lui e al socio Pietro Ballarin. La scienza sperimentale è anche strumentazione; se non altro per questo si dà osmosi con la tecnica. Galilei ha ben a che fare con gli strumenti: il compasso militare, il cannocchiale. Indisgiungibili scienza e tecnica, alimentantisi a vicenda, stimolantisi reciprocamente. La meccanica - per dirla con Galilei - studia "le ragioni" e illustra "le cause degli effetti miracolosi" ottenuti "da diversi istrumenti [...> con pochissima forza". Il "remo" diventa "quasi una leva", spiega Galilei al provveditore all'Arsenale Giacomo Contarini che lo consulta in merito alla forza propulsiva ottimale per le galee. La tecnica impara dalla scienza e questa impara dalla tecnica, sicché - per Galilei e Sagredo - l'Arsenale è immane laboratorio, grandioso gabinetto, strumento d'apprendimento e riflessione. "Largo campo di filosofare [fa dire a Salviati Galilei> a gl'intelletti speculativi" squaderna, infatti, l'Arsenale, specie in fatto di "meccanica"; è qui che "ogni sorta di strumento e di machina vien continuamente posta in opera da numero grande d'artefici". Tra questi, e per l'eredità d'una multisecolare "osservazione" e per personale riflessione sul proprio lavoro, alcuni sono "peritissimi" e in fattualità e in capacità di "finissimo discorso". Col che la pratica si fa affinamento di metodo, criterio consapevole così accostandosi alla scienza, con effetti di ricaduta su questa a sua volta suggestionante la consapevolizzazione della pratica. Ovviamente d'accordo con Salviati Sagredo fissato da Galilei mentre "curioso" interroga i capi delle maestranze, i "proti", le risposte dei quali l'hanno "più volte aiutato nell'investigatione della ragione di effetti non solo maravigliosi, ma reconditi ancora e quasi inopinabili". Tutt'altro che idilliaco, comunque, l'impatto, nel rumore dei lavori in atto, tra scienza e tecnica all'Arsenale: quanto il "senso" attesta "vero" può essere lontanissimo dalla verità concettuale.

Gigantesco cantiere l'Arsenale, complesso imponente, concentrazione di manodopera specializzata, con aspetti di razionalizzata divisione del lavoro, di progressiva integrazione, di verticale montaggio costruttivo; vi si coagula un sapere affinato da secoli, riluttante alla trascrizione anche perché non interessato alla divulgazione dei suoi procedimenti oltre il proprio perimetro. Scrivere sarebbe teorizzare. "Non intendo theorica", vanta, alla fine del '500, Baldissera Drachio, così riepilogando l'atteggiamento dei prati che, formatisi in cantiere e nel cantiere rimasti, diffidano d'una sistemazione trattatistica d'una pratica lavorativa che s'è, ancora negli anni trenta e quaranta del '500, manifestata riottosa agli involucri vitruviano-albertiani cui l'umanista Vettor Fausto aveva tentato d'assoggettarla. Non si dà, insomma, un trattato d'architettura navale che rispecchi l'attività dei mastodontici spazi dell'Arsenale. Per imparare da quello bisogna recarvisi di persona, come Galilei, come Sagredo, mescolarsi alle maestranze, interrogare i proti, visitarlo, insomma, curiosando. Occorrono, insomma, occhi per vedere ed orecchie ricettive d'un sapere che è, anzitutto, orale. Rara avis, perciò, rispetto alla micragna in fatto di scrittura del mondo racchiuso nel fervore cantieristico dell'Arsenale, quel Giovan Ventura Rossetti che all'Arsenale è "provisionato", grosso modo addetto alle forniture, grosso modo responsabile degli acquisti e degli approvvigionamenti. Anche se non parla di tipologia navale, anche se non disserta di tecniche costruttive, risulta, nel 1547, aver ultimato due trattati che, stampati rispettivamente nel 1548 e nel 1555, concernono uno l'arte tintoria nella gamma delle sue applicazioni (dalla seta al cuoio) l'altro quella profumatoria, già oggetto d'un trattatello d'Eustachio Celebrino, uno xilografo attivo a Venezia. Un ricettario cosmetico, questo di Rossetti, ma, nel suo che, anche con pretese di etica visto che è dedicato alle "donne virtuose" e situabile tra la castità identificata come precipuo tratto femminile nel Dialogo dell'institution delle donne (Vinegia 1545) di Ludovico Dolce - ove per i "belletti" e gli "odori" si raccomanda la misura - e Gli ornamenti delle donne (Venetia 1574) del medico Giovanni Marinello, lo stesso che ha già dissertato di Le medicine partenenti alle infermità delle donne (Venetia 1563), disserterà della peste nel 1577, di cui dev'essere, in qualche modo, parente Curzio Marinello, pur egli medico, autore d'una ponderosa Pharmacopea [...>, che vede la luce a Venezia nel 1617. Cosmesi illustrate, odori suggeriti. Anche per questo occorre professionalità, come, d'altronde, ne esige il ricamo, a proposito del quale un trattato del 1540 si preoccupa d'assecondare il "virtuoso desiderio" femminile d'"imparare i punti tagliati a fiorami".

Trine e merletti, dunque. Innumeri le cose fattibili purché s'acquisisca la relativa tecnica di confezione. E meglio, ovviamente, se c'è in proposito un ammaestrante "trattato". Ed essendo Venezia città banchettante, amando il grande patriziato e i ricchi cittadini mense imbandite di carni e cacciagione, di pesci di mare e di fiume, è giusto vi si stampi nel 1570 (e vi si ristampi nel 1610) la compendiosa Summa di Bartolomeo Scappi con dedica a Matteo Barbini "cuoco e scalco celeberrimo della città di Venetia". Si dà in tal caso - visto che l'autore è "cuoco secreto" di Pio V - una sorta di intesa gastronomica veneto-pontificia impensabile sul terreno della politica. E, mentre la scienza culinaria assume tratti di iperspecializzazione che produce persino, con tal Salvatore Massonio, un "trattato nuovo" d'oltre 400 pagine sull'"insalata" (Venetia 1627), c'è un versante, quello dell'alimentazione degli ammalati e dei convalescenti, che è opportuno sottrarre alle improvvisazioni dei cuochi, che magari ne trattano nei loro gastronomici trattati, e affidare ai medici. Ed ecco che i trattati e trattatelli di questi esaminano cibi e vivande non tanto coll'ottica della gola da appagare e della vista da sbalordire quanto della "sanità" da conservare e da recuperare. Non più il tripudio della gastronomia allora, ma un'embrionale scienza dell'alimentazione, suscettibile di trasformarsi in stile di vita con, appunto, la Vita sobria d'Alvise Cornaro, la quale ruota attorno ad una tecnica, quella d'una precisa "dieta", ossia d'un "regolato ordine del mangiare e del bere". Un criterio, dunque, per passare dalla "mala complessione" e dal "cattivo stomaco" provocati dai disordini alimentari e dagli eccessi d'un'indiscriminata ingordigia alla duratura conquista della "sanità". Donde, da parte di Cornaro, la stesura d'un "trattato" sul metodo da lui con profitto praticato sicché possa "giovare a molti" e a questi indichi la via per conseguire "lunga vita" in buona salute.

Banditore e divulgatore di sobrietà Cornaro, banditrice e divulgatrice di "secreti" d'ogni sorta - medici, alchemici, farmaceutici, chirurgici o validi per la distillazione oppure per la fabbricazione di oli puzzolenti per uso bellico o altro ancora -, tutti, a detta degli autori, "notandissimi", una trattatistica fitta e petulante. Contrasta con tanta smania di propalare metodi preparatori, ricette, combinazioni il silenzio dell'arte vetraria, che preferisce al segreto illustrato a stampa l'occultamento sicché, appunto, resti, il più possibile, nascosto. Eppure la valentia dei maestri vetrai è tale - assicura Garzoni -, è talmente "in colmo", dal poter produrre di tutto "col vetro et col cristallo". Ne rivela - è da supporre con poca soddisfazione della Repubblica sempre attenta tutrice dei segreti di fabbricazione e sempre scontenta se, clandestinamente, degli esperti vetrai se ne vanno altrove - metodi e risultati il prete fiorentino Antonio Neri, uomo irrequieto e bazzicante coll'alchimia, in, appunto, l'Arte vetraria, che esce nel 1612 non già a Venezia, la capitale del vetro, ma a Firenze, mentre rimane inedito il precedente ricettario del vetraio muranese Giovanni Darduin. Altra cosa rispetto all'esclusiva in fatto di fabbricazione del vetro cui ambirebbe Venezia, la movimentazione continua e lo scambio continuo e il più possibile allargato insiti nel ritmo dinamico e coinvolgente della "mercantia". Se ci sono delle tecniche queste vanno il più possibile diffuse ed adottate ché virtualmente il commercio - stando alla celebrazione fattane, nel 1584, dal patrizio Tommaso Contarini -, investendo il mondo intero, lo unifica colla fitta trama dell'interscambio e lo trasforma in "una sola città". Urge, quanto meno, un criterio per rapportare, col massimo della precisione in fatto di corrispondenza, la varietà delle tariffe, dei pesi, delle misure, delle monete. E si propongono come veri e propri manuali di tecnica commerciale lo Specchio lucidissimo (Venetia 1558) del cittadino veneziano Alvise Casanova sciorinante "tutti i modi et ordini de scrittura" cui attenersi nelle negoziazioni e nei "cambi" e "recambi" e il successivo Il mercante arricchito dal perfetto quaderniere [...> (Venetia 1609) di Simeone Grisogono. Questi, un nobile zaratino, autore, pure, d'un panegirico in lode del patriarca Francesco Vendramin, promette un chiarimento definitivo "d'ogni questione" relativa ai fini d'una perfetta tenuta del "libro doppio", aggiungendo, in appendice, "tre trattati" di, per così dire, contabilità dello stato e, come tali, indirizzati agli aspiranti all'impiego di "ragionato" della Serenissima.

Quanto all'"arte militare", la sua indubbia "eccellenza" e la sua palese "necessità" incentivano una precettistica mescolante massime desunte dalla storiografia antica con concrete esperienze. Certo non può essere improvvisata. Occorre - osserva più d'un uomo d'arme saviamente - conoscere il "modo di stabilire una buona militia" già "in tempo di pace", perché la guerra non ci colga impreparati. Un punto fondamentale questo per la Serenissima: la sua neutralità è credibile nella misura in cui incute - militarmente - un certo rispetto. Né può essere del tutto digiuno di nozioni militari il patriziato, se non altro perché si riserba compiti ispettivi nei confronti dell'esercito, se non altro perché, se "castellano", se rettore, specie "capitano", deve ben occuparsi di fortezze, presidi, cernide, artiglierie, magazzini di polveri, depositi d'armi. Nutrito l'elenco di titoli alla guerra attinenti prodotti dai torchi lagunari e circolanti in tutta Italia. Si profila via via la figura de "Il soldato", del "capitano generale", del "maestro di campo", del "bombardiere" o "bombista". In maggior o minor misura a seconda della carica necessitano nozioni matematiche e di geometria applicata. E queste devono essere approfondite in chi è preposto all'artiglieria, in chi sovrintende alle fortificazioni. Si insiste sulla preparazione scientifica che supporta lo specializzarsi delle tecniche competenze, mentre altri trattati insegnano i modi e i contenuti della "militar disciplina", le "regole et ordeni" a questa relativi. Quanto a Pier Maria Contarini, cui s'è già fatto cenno, il suo Corso di guerra (Venetia 1601) deduce dalle storie antiche e moderne una casistica d'agguati, imboscate, finte, incursioni a sostegno della possibilità di battere, sia pure con forze minori, un avversario più dotato d'uomini e mezzi. Rovistatore libresco per spulciare esempi Contarini, estraneo alla percezione della guerra moderna, sicché il suo esemplificare resta astratto. Non è questo il caso dell'antecedente - e già menzionato - dialogo Della milizia marittima di Cristoforo da Canal, ove il microcosmo della galea, risultato d'un concreto montaggio che va dalla scelta del legno alla progettazione eseguita per accogliere armamento ed equipaggio, si propone come autosufficiente macchina bellica. Accostabili ad un presidio di fortezza i fanti imbarcati; si trasferisce così in mare la tecnica della guerra terrestre. Donde l'accostabilità delle battaglie di terra e di mare nell'Arte militare terrestre e marittima (Venetia 1599 e, di nuovo, 1614) di Mario Savorgnan.

Anche se ben poco viene stampato, il governo delle acque sollecita una ricca produzione di "instrutioni", "opinioni", "ragionamenti", "aricordi", "depositioni", "scritture", progetti, promemoria, denuncie, relazioni, confutazioni, chiarimenti, disamine, suggerimenti che accompagna orientante caldeggiante denunciante riepilogante commentante auspicante prospettante rettificante pungolante rimbrottante il necessario operare. Ed è in siffatti scritti idraulici (30) che la competenza tecnica assume accento veneziano. Venezia ha nelle acque la sua identità. Acquee la sua essenza, la sua consistenza, la sua sopravvivenza. Materia principale la manutenzione - in una visione d'assieme coordinante il complesso degli interventi - della laguna e il correlato controllo delle acque colla vigile loro gestione. Politica delle acque, pertanto, tramite l'empirica intuitiva osservazione d'una multisecolare attenzione via via integrata e consapevolizzata dal compenetrante e lievitante apporto d'una scienza idraulica mobilitata per salvare l'integrità del bacino lagunare e, in questo, il prodigio Venezia di contro alla triplice minaccia delle torbide fluviali, dell'aggressività del mare, dell'insipienza umana. Questi i tre nemici - e la stolidità dell'uomo è il più pericoloso - di Venezia e della sua laguna stando all'"inzegner" Cristoforo Sabbadino, proto, dal 1542, del magistrato alle acque. "Li fiumi, il mare, et gl'huomeni", ripete, nel 1578, una "scrittura" di Ventura Franchinelli, avvocato dell'"offizio delle acque". Necessita un costante simultaneo globale intervento pubblico, fatto di gigantesca regolazione dei terminali fluviali, di severa repressione d'ogni iniziativa privata non autorizzata, di sbarramento di contro alle mareggiate, d'assecondamento del ricambio ossigenante delle maree. In primis il "benefitio" della laguna, "fortezza e mura" di Venezia, la cui "salute" fa tutt'uno con la "perpetuità" dell'"alma" città. Vibranti di passione le pagine sabbadiniane, sottese di nostalgia per la ben più grande laguna un tempo supposta e, insieme, sin veemente la perorazione del libero "ascender" e dell'altrettanto libero "descender" dell'"acqua salsa", senza che l'ostacoli la perversa inclinazione del "redur a cultura" i luoghi "bassi e paludosi" e "silvestri". Non la valorizzazione agricola, allora, di "canedi, cuorine, molare". Questi vanno lasciati "star come stanno". Che importa se non rendono? Viene prima il "mantenimento de' porti", ha l'assoluta precedenza la "conservation del bon aere", che è "saluberrimo", come spiega, in concomitanza, il medico Andrea Marini, purché e finché "il flusso e reflusso" delle maree sia garantito sicché il movimento dell'acqua marina mantenga "in perpetuo moto" l'aria. Purificante l'andirivieni dell'"acqua fresca del mare". E Filippo Zorzi disserta Dell'aria et sue qualità (Venetia 1596), uno scritto, ove "si scuopre quale egli si sia in Venetia", dedicato a Giacomo Foscarini.

Una sorta di crociato del primato lagunare Sabbadino. A lui si contrappone - e perché, nel vivo della polemica, le posizioni irrigidendosi forniscono l'una dell'altra un'immagine deformata e perché, di fatto, quello è campione della Venezia porto mentre il suo avversario, banditore della "santa agricoltura", fa ruotare attorno alla produzione agricola l'economia della Repubblica -, con analoga veemenza perorante Alvise Cornaro. Costui auspica la redenzione, tramite grandiose operazioni di bonifica, dei terreni paludosi, l'estensione della coltivazione al bordo lagunare. Pure Cornaro, il maestro del vivere sobriamente, è scrittore d'idraulica. Solo che - mentre per Sabbadino va anzitutto allargato il respiro marino d'una laguna fattasi troppo angusta sicché "possa vegnir più acque di quel che viene al presente" - il possente programma cornariano di risemantizzazione agricola di tutta la Terraferma veneta prevede un restringimento del bacino lagunare, peraltro argomentato a mo' di mirata e razionale ed efficace salvaguardia. Sottese al dibattito dei due grandi idraulici cinquecenteschi due diverse idee di Venezia. Quella di Sabbadino è marittimo-mercantile quale la celebra, ancora nel 1500, Jacopo de' Barbari con la sua celeberrima pianta; quella di Cornaro, vista l'insicurezza dei trasporti marittimi, vista la revocabilità delle forniture estere e il conseguente "mancamento di biade", attiva, coll'estensione della superficie coltivabile, la prospettiva dell'autosufficienza alimentare. Donde, contro il parere di Sabbadino, l'urgenza del prosciugamento de "li paluti". Sufficientemente attrezzato il magistero sabbadiniano per confinare nel limbo delle rimosse fantasticherie la Venezia murata - indubbiamente sconcertante e indubbiamente disdettante l'idea stessa che la città ha di sé quale, appunto, di senza mura - ipotizzata da Cornaro. Ciò non toglie vinca, a tempi lunghi, la prospettiva, dal secondo additata, della valorizzazione agricola della Terraferma quale baricentro dell'economia veneta.

Sintonizzata col vigoroso protagonismo della proprietà terriera e col ruolo crescente dell'agricoltura l'editoria lagunare. Stampa e ristampa i classici de re rustica, i testi celebranti i piaceri della villa, il distanziamento dalla città. Nutrita la presenza di moderni testi agronomici non senza specifica attenzione al giardinaggio, alla frutti-coltura. Sposa del mare, nell'autodicitura e nell'altrui ammirare, Venezia, epperò tipograficamente sempre più satura d'agresti sentori. Ché, tanto per dire, vi escono i trattati del francese Estienne, dello spagnolo Herrera, del veneziano Sansovino, del ravennate Bussato, del padovano Clemente, del polesano Bonardo, del bellunese Barpo e, soprattutto, Le vinti giornate [...>, d'Agostino Gallo (31) e il Ricordo d'agricoltura di Camillo Tarello (32); entrambi scaturiti dal vivo del territorio bresciano, quello della grande proprietà il primo, quello della piccola il secondo. Ma è solamente al dialogato trattato del primo che arride la fortuna editoriale, la quale, limitando il cenno alla sola Venezia, s'avvia coll'edizione pirata delle Dieci giornate, che diventano Tredici nella riedizione, appunto ampliata, del 1566 seguita dall'edizione di Sette nuove giornate, del 1569, cui s'aggiunge, nello stesso anno, quella, completa, delle Vinti, ristampata, quest'ultima sempre a Venezia, nel 1573, 1575, 1593, 1628, 1662. Nella cornice d'una natura assaporabile nel pacato succedersi delle stagioni si offre la ragionata prospettiva d'un sistematico incremento delle rese. L'utile si coniuga col dilettevole. Scelta di vita pel redditiero consumante e sperperante in città le proprie decrescenti rendite (e ciò a causa dell'incuria e delle ruberie di fattori e manodopera) la rigenerante trasformazione in proprietario conduttore che, con razionale comando sul lavoro, gestisce direttamente le sue estese proprietà trasformandole in grande azienda agricola. Un'indicazione che sarà ripresa appieno soprattutto nel '700 e che, pel momento, non è priva di suggestioni mentre la penetrazione economica del patriziato marciano nella Terraferma veneta si visualizza nell'infittirsi delle ville che, incastonate nel paesaggio, a loro volta lo ridisegnano e lo contrassegnano, ingentilenti ed imperiose ad un tempo. Non è un caso nelle biblioteche dei nobili lagunari non manchino Catone e Columella, Crescenzi e Sansovino e, soprattutto, Gallo. Vuol dire che il ceto ottimatizio è sempre meno navigante; vuol dire che è sempre più redditiero. Sino ad un certo punto indottrinato da Gallo in fatto di "vera agricoltura", è invece totalmente d'accordo con lui nel concepire la "villa" quale sede deputata ad un intensificato piacere di vivere.

Incontri, circoli, accademie regolarizzate

Grande città Venezia, dai tanti mestieri e dalle innumeri occasioni, essa brulica d'intellettuali e letterati ché, tra i suoi molti mestieri, v'è, più che altrove, quello dello scrivere, incentivato da un'attività tipografica che, nel suo attivo produrre più titoli che in tutto il resto d'Italia, ha una dimensione, per impiego di capitali e di manodopera, industriale ed è, nel suo sparpagliarsi per la città, una sorta d'industria diffusa. Suoi strumenti i torchi, suoi operai i tipografi. Ma, oltre a ciò, v'è il dilatato indotto, che su di lei gravita, di quelli che, sbrigativamente, potremmo dire operatori culturali. E ciò a vario titolo e per vari versi. Quindi i poligrafi, i libellisti, i traduttori, i commentatori, i raffazzonatori, gli antologizzatori, i compilatori, i correttori di bozze, i prefatori, i rimanipolatori e, naturalmente, gli autori, tenendo, altresì, presente che si tratta di figure cangianti, dalla polivalente fisionomia. Sicché, in concreto, più che la specializzazione, si dà, nella stessa persona, l'improvvisarsi, di volta in volta - sulla base delle esigenze della produzione tipografica -, ora scrittore a pieno rilievo, ora modesto correttore di bozze, ora filologo scrupoloso, ora allestitore di plagi e d'edizioni piratesche. Il tutto all'insegna delle avventure dello scrivere e, possibilmente, del pubblicare e il tutto grazie agli avventurieri della penna, la cui colonia è quanto mai nutrita e vivace a Venezia. Donde, anche, il cercare di campare - ed Aretino ci riesce benissimo - a colpi di penna. Beninteso: non è il caso di parlare di diritti d'autore, di autori che si mantengono colle percentuali sulle vendite. Nel 1559, ad esempio, Bernardo Tasso s'affanna per la stampa dell'Amadigi che necessita, per uscire, di "molta spesa". Conta sui "privilegi" del re di Spagna, conta sui donativi di chi ha "parte", come Giovanni Battista Cataldo, il celebre uomo d'armi, nel "poema", ove, purché tangibilmente ricompensato, è disposto ad "honorar qualche donna milanese" (33). E si sa che Girolamo Ruscelli, nel 1560, invia le sue Imprese a "tutti i nominati" nel "libro"; e c'è chi lo ricompensa con "50 scudi d'oro" e con una "bellissima corteiliera tutta dorata" nonché con "molti salumi" e chi, assai micragnoso, se la cava con "una coppetta d'argento indorata vecchia" che vale al massimo 11 ducati (34). Un campare, perciò, non garantito, con entrate aleatorie. Perciò tanti, come a Venezia giungono fiduciosi, così da questa se ne vanno in cerca d'una sistemazione cortigiana. A parte l'Aretino - che vive sontuosamente perché la sua penna, che scriva lodi o che non scriva malignità, è, in entrambi i casi, lautamente ricompensata e, appunto, coi doni per gli elogi o con i doni per il prezzolato silenzio -, il quale, invidiato e ammirato, resta un caso di successo, i più stentano e s'affannano. E nutrono inoltre ambizioni modeste: non sognano il lusso, s'accontentano d'un mediocre tenor di vita garantito. Di qui la ricerca di piccole rendite, piccole prebende, piccole pensioni; di qui il contare su "qualche sussidio" di qualche "padrone". E ciò nella speranza, riscontrabile - tanto per dire - in una lettera, del 1559, di Dionigi Atanagi, un letterato marchigiano attivo a Venezia, di "viver quietamente et [...> attender [...> a' studia" (35).

Basti, comunque, rilevare una nutrita presenza intellettuale a Venezia gravitante, più o meno dappresso, sul ritmo intenso della sua editoria, senza per questo dedurne una condizione particolarmente gratificante - quand'anche più libera che altrove, quand'anche più stimolante - per gli intellettuali. Non per niente, nel 1554, Ortensio Lando lamenta di non avere un soldo in tasca. Non per niente - e siamo ormai nel '600 - un Biondi se ne andrà in Inghilterra e un Colluraffi tornerà nella natia Sicilia. Se poi si considerano le biografie di Torquato Tasso e di Giovanbattista Marino - entrambi autori di successo ed entrambi tutt'altro che privi di contatti con Venezia e di conoscenze, anche, autorevoli, veneziane -, ne risulta non li sfiori mai il pensiero di stabilirsi nella città. Perciò Venezia è più crocevia nell'andirivieni d'un'intellettualità irrequieta (più che inquieta; i più s'accontentano di poco) ed ondivaga che meta finale. Ciò non toglie che la frequenza delle partenze sia compensata dal subentro degli arrivi; sicché la risultante è, pur sempre, quella d'un gran numero di letterati non indigeni più o meno indaffarati e più o meno attivi a Venezia. Se poi a questi si sommano quelli locali, ecco che la presenza intellettuale diventa marcata e connotante. Nell'assenza d'una corte accentrante e propulsiva, s'impone, ogni tanto, a mo' di virtuale punto di riferimento questo o quel palazzo patrizio e pure - è il caso, ad esempio, del nunzio pontificio della Casa - questa o quella sede diplomatica. Di fatto il centro manca, di fatto c'è una sorta di policentrismo continuamente movimentato dalla compresenza d'una pluralità di direzioni, di interessi, di esigenze, d'espressioni. Musica, teatro, linguaggi alti e bassi, atteggiamenti contegnosi e spudorati (magari nella stessa famiglia: petrarcheggia gentile Domenico Venier; acre l'oscenità di suo nipote Maffio), deflagrante plurilinguismo. S'incontrano e si scontrano nelle commedie lingue e dialetti, tipi buffi e personaggi sussiegosi. Ebbene, a Venezia, città ibridante e mescidante nel suo calamitante attrarre presenze umane dalle più diverse provenienze e caratterizzazioni, come in un palcoscenico la cultura comunica discute s'interroga con varietà d'accenni e contenuti.

La città - proprio perché confluenza e convivenza d'una pluralità di soggetti, proprio perché intreccio d'esperienze e saperi, proprio perché luogo di scambio fisico e metaforico - è comunicazione, conversazione, dialogo. La stessa trattatistica, per non risolversi in monotona asserzione, per rappresentare dal vivo temi e problemi, per esprimerli con voci e volti, preferisce l'andamento discorsivo, si fa dialogo più o meno incorniciato, più o meno dettagliatamente ambientato. Fitta d'altronde di dialoghi la vita culturale urbana, se non altro nelle librerie, dove curiosano tra i libri i potenziali clienti. E in una libreria che Marino è subito riconosciuto da Guido Casoni ivi "in discorso con altri virtuosi". E Sarpi, lo denuncia preoccupato il nunzio papale Berlinghiero Gessi, "quasi ogni giorno" conversa alla "Nave d'oro", una bottega in Merceria, "con molti oltramontani" eterodossi e con "nobili male affetti verso la Sede Apostolica" (36). Città del dialogo Venezia e per il dialogo, cui Galilei - ambientando le "quattro giornate" del Dialogo dei massimi sistemi in palazzo - Sagredo rende omaggio. E il piacere dei dotti conversari si coagula nel salotto letterario di Gaspara Stampa e in quello di Veronica Franco, la quale, se potesse, passerebbe "tutta la vita" conversando con "color che sanno", spenderebbe "tutto" il suo "tempo" intrattenendosi con "uomini virtuosi". E numerosi, nel '600 ormai avviato, "i litterati" confluiscono in casa di Sara Copio Sullam, moglie bella e dotta d'un ricco mercante ebreo, per sentirla "discorrere" (37). E c'è chi viene appositamente da fuori, come attesta Angelico Aprosio. Lauti, a suo tempo, ma anche dotti i banchetti nella dimora d'Aretino. Piacevole anfitrione a Murano, nel primo '600, Girolamo Magagnati, il fabbricante di vetro amico di Galilei, presso il quale si reca anche Traiano Boccalini. Sempre in quel di Murano è "continuo faro di letterati", nonché loro "hospitio" se "forestieri", il palazzo di Benedetto Zorzi, il patrizio preposto, nel 1588, alla direzione della Marciana. Se poi il convenire assume una certa periodicità, ecco che i convenienti si percepiscono e vengono percepiti come un gruppo di affini, come un circolo. Ciò avviene, ad esempio, con quanti si ritrovano in casa di Domenico Venier: Federico Badoer, Celio Magno, Bernardo Tasso, Girolamo Muzio, Dionigi Atanagi e tanti altri. Tra questi v'è pure, a detta d'un contemporaneo, Giovanni Battista Benedetti; il che autorizza ad ispessirne il profilo supponendolo non sordo alle lettere. Riconducibile alla cerchia costituitasi in casa Venier la silloge poetica, del 1561, compiangente, a più voci, la scomparsa della giovinetta Irene di Spilimbergo. E, stando al Diamerone [...> (Vinegia 1564), un dialogo del giurista Valerio Marcellino, da Domenico Venier la conversazione talvolta si fa impegnativa, arriva a discutere della morte, di come vada preventivata, di come vada accettata.

Reduce dagli studi patavini, Paruta apre nel 1561 la sua dimora a giovani patrizi interessati soprattutto al rapporto tra etica e politica. Virtualmente è già in questa sede che il rapporto "virtù" e "felicità civile" della Perfezzione della vita politica ha le sue premesse. Non per niente tra i convenuti figura quel Giovan Battista Valier cui Paruta dedicherà il suo trattato. E v'è tra questi pure Andrea Morosini, il cui mezzà nel suo palazzo di S. Luca è destinato a diventare uno dei luoghi d'incontro più significativi dell'intera Europa: vi si parlerà di religione, di politica, di scienza, di storia, di geografia, di filosofia, di morale. Si tratta del cosiddetto ridotto Morosini frequentato, tra gli altri, da Sarpi e da Galilei; e vi capita anche Giordano Bruno, peraltro accolto dal padrone di casa perché da lui ritenuto "catolico". Avesse supposto - si scuserà Morosini - delle sue "opinioni" eretiche, non gli avrebbe "permesso" l'accesso. Tra la fine del '500 e il primissimo '600 dei giovani nobili si ritrovano per discutere di politica, d'alleanze possibili, di guerre ipotizzabili; e non escludono si debba combattere contro la S. Sede. Stando, poi, allo scritto antiveneziano d'Antonio Possevino durante la "guerra delle scritture", Sarpi e pochi altri sarebbero soliti incontrarsi perché accomunati dall'"opinione" l'anima sia mortale e dall'intento di renderla obbligatoria nell'esposizione d'Aristotele a Padova. E, sempre nel primo '600, Sarpi figura in riunioni incentrate su argomenti politici, nelle quali - si paventa a Roma - non s'esiterebbe a rifarsi alla lezione di Machiavelli. E, nel lessico sarpiano, la "riunione" è già sinonimo d'accademia. In effetti l'incontro è così definibile se tende a ripetersi in una sede fissa, se delimita un'area preferenziale d'argomenti, se è sempre meno occasionale e sempre più organizzato. Sinché, però, la spontanea confluenza di spiriti affini o, quanto meno, desiderosi di mutuo ascolto s'appaga del dialogo a più voci senza che il pur ordinato andamento di questo abbisogni di particolare formalizzazione, si resta al di qua dell'accademia propriamente detta, dell'accademia nella sua più circoscritta e specifica accezione. Questa nasce quando l'istanza dialogante che presiede ai "ragionamenti" tra interlocutori o concordi o interessati al riscontro delle discordanze, quasi timorosa di troppo libere movenze, quasi paventando esiti sconcertanti, s'autodisciplina. Il "congresso" diventa così il "bene ordinato congresso". Col che, però, il dialogo viene sterilizzato: sull'urgenza dei contenuti prevale l'artificiosa fatica dell'erezione dell'accademia regolare. Appellandosi ad una qualche celeste protezione e fiduciosa in qualche concreta protezione terrena, essa sorge, dotata d'una sede a ciò deputata, autoqualificandosi con un nome valorizzato dall'impresa, l'associazione, cioè, di figura e motto che visualizza icasticamente l'intento, appunto, dell'intraprendere o imprendere animante il sodalizio. All'autodenominazione, poi, di questo debbono fare riferimento per analogia o per contrasto quelle dei singoli componenti, anche queste corredate da relativa impresa individuale. Affianca l'onomaturgia impresisticamente illustrata il dispositivo statutario che regola la vita interna; enuncia i diritti e i doveri dei soci; definisce gerarchie e cariche; fissa la periodicità delle riunioni ordinarie, e, se aperte al pubblico, straordinarie; stabilisce le modalità di eventuali pubblicazioni con avallo accademico; delimita gli argomenti, in genere escludendo quelli politici e religiosi, quasi a garantire - con siffatta esclusione - il conformarsi e politico e religioso del sodalizio.

Fenomeno diffuso, questo del trasformarsi delle cerchie in accademie regolari, specie a partire dalla metà del '500, in tutta la penisola e a Venezia più che altrove vistoso e per il numero di letterati e aspiranti tali compresenti in città e per l'assenza d'una corte incline, come a Firenze, a promuovere una propria accademia sì da favorire la concentrazione in questa e da scoraggiare concomitanti concorrenze. Donde la proliferazione d'accademie in laguna attestante la tendenza al riunirsi - e poco importa le accademie durino, per lo più, poco; il fatto alle defunte ne subentrino altre conferma questa determinazione ad un regolamentato riunirsi - e, insieme, proprio perché sono troppe e simili (sicché sono anche superflue, o, comunque, interscambiabili e, spesso, confondibili), la dispersione della vita intellettuale. Ecco, rapidamente e alfabeticamente, le accademie regolari (anche se taluna non è corredata da tutti i requisiti o perché manca lo statuto o perché all'autointitolazione e all'impresa collettive non seguono quelle individuali) riscontrabili a Venezia grosso modo dalla metà del '500 al 1630 (38): gli Accesi, gli Acuti, gli Adorni, gli Allettati, gli Assicurati, i Cacciatori, i Desiosi, i Dubbiosi, i Fileleuteri, i Filoponi, i Fioriti, i Gelosi, i Generosi, gli Immaturi, gli Immobili, gli Incogniti (destinati a diventare il più famoso sodalizio dell'Italia barocca, questi si costituiscono nel 1630 per volontà del patrizio Giovanfrancesco Loredan), gli Incruscabili (affiorati nel 1568, non vanno perciò considerati come oppositori della più tarda Crusca fiorentina), gli Informi, gli Instancabili, gli Instaurabili, gli Intricati, i Laboriosi, i Marittimi, l'accademia Minervale, l'accademia della Notte, gli Ordinati, i Pellegrini, i Peripatetici, l'accademia Platonica, i Riuniti, i Sabei, l'accademia dei SS. Giovanni e Paolo (nel convento omonimo), i Serafini, gli Sviluppati, gli Uranici, l'accademia Veneziana o della Fama, l'accademia Veneziana seconda, i Venturati. Così un semplice elenco che non distingue tra le accademie che abbiano lasciato consistente traccia e quelle, invece, della cui fantasmatica esistenza non sopravvive che il nome o poco più. Basti, ad ogni modo, sottolineare come l'accademia sia il luogo deputato alla "conversatione" che funge da mastice tra gli aderenti, lieti di ritrovarsi in uno spazio separato per gli "esercizi virtuosi" nei quali oralmente si esprime (e segue, in taluni casi, l'esito a stampa) la loro applicazione negli "honesti studi". Estinta da un pezzo l'umanistica supponenza le lettere salvino il mondo, avvilita da tempo la condizione dei letterati un po' gentiluomini e dei gentiluomini un po' letterati, ecco che questi categorialmente sopravvivono, per via d'autoriconoscimento e d'autocomplimentazione, nell'autofrequentazione, appunto, permessa e promossa e mantenuta dall'accademia.

Così l'accademia assurge ad ospizio salvifico ove gli uomini di cultura (la quale cultura a Venezia conta purché trasferita a palazzo Ducale dove, appunto, anche in termini culturali si ribadisce la presenza storica d'uno stato il cui peso relativo sta scemando) si consolano dell'irrilevanza coll'unguento dell'autogratificazione. Donde l'enfasi d'un lessico per cui l'accademico è "virtuoso", per cui la fondazione dell'accademia è atto di somma virtù, per cui la sua frequentazione è di conseguenza svolgimento di virtù. Così i "dottissimi accademici" e/o "virtuosi" tali sono perché nell'accademia, virtuosissimamente fondata, virtuosamente coltivano la, appunto, virtuosa frequentazione accademica. Perciò la nascita d'ogni accademico "congresso" è celebrata dai congregati come evento epocale; perciò il grosso degli accademici discorsi - lo si desume facilmente da quelli stampati - concerne le modalità della nascita, specie l'autointitolazione, specie la correlata impresa. Dopo di che, come sfinite, spesso le singole accademie ammutoliscono, anche se, nelle orazioni inaugurali, si dà per imperitura l'eletta "ragunanza". Né il decesso di questa è una tragedia, ché caparbio, sin indomito è il proposito di costituirne un'altra. Raduno separato di spiriti "nobilissimi" l'accademia non è, infatti, snodo in qualche modo rapportante, perché mediante e integrante, intellettuali e società, quanto, piuttosto, enfatizzata oasi perimetrata come separatezza ovattata, come spazio sagomato, anche architettonicamente, per evadere dalle aggressioni dell'esterno, si tratti dell'ottusa volgarità del volgo ignorante o d'un potere misconoscente i veri meriti. Convocazione di "virtuosi", l'accademia funge da surrogato per l'assenza d'un ruolo. Ciò soprattutto in generale. Quanto a Venezia, se singoli patrizi proteggono accademie, se magari sono soci di talune e in queste anch'essi dissertano o, più semplicemente, chiacchierano, ciò non significa vi sia da palazzo Ducale un'attenzione, per così dire, istituzionale. Questa, semmai, va alle accademie nelle città di Terraferma, specie alle cavalleresche (che sono un minimo finanziate) in quanto valutate come luogo di decantazione della rissosità delle nobiltà locali, il cui "otio" è meno pericoloso se, nelle accademie, un po' s'affina, un po' si distrae. Indifferente, invece, il governo alla vita e alla morte delle accademie lagunari, e per distrazione e per disinteresse.

Orfani della politica, allora, gli accademici lagunari e perché da questa trascurati e perché politicamente irrilevanti, ininfluenti. Ciò non toglie - se non altro per ridondanza delle pretese direttive di conio umanistico, se non altro perché con qualche umanistica frattaglia residua nella bisaccia - che essi, proprio perché l'accademia è la microsocietà perfetta che riconosce i loro meriti, la configurino un po' come stato, così sfogando, pure, una sorta di nostalgia della politica umanisticamente intesa. Donde l'accademia come simulacro di stato, come sua scimmiottatura nello strutturarsi, nel gerarchizzarsi, nel disporre di proprie certificazioni, di proprie patenti, di propri sigilli. A capo ha il principe o presidente, seguono i segretari, censori, cerimonieri, tesorieri, soprastanti, personale d'ordine quali i messi, i bidelli. Un sentore di stato emana, ad esempio, dai Pellegrini laddove sussistono quattro protettori addetti alla corrispondenza con quattro aree - una, ovviamente, per ciascuno -, Italia Germania Spagna Francia e, perciò, a loro modo costituenti una sorta di ministero degli esteri. Ognuno, per lo meno, ha un segretario a sua disposizione. Quanto al "presidente", a lui compete sottoscrivere e sigillare "le lettere". E, poiché nella forma accademia si suppone coincidenza piena tra merito e carica, ecco che, nelle celebrazioni inneggianti alla nascita del sodalizio, lo si propone come vertice d'eccellenza umana, sicché l'accademia diventa virtù realizzata e, insieme, virtù riconosciuta. Certo che, quando una singola accademia, lungi dallo sguazzare nell'autocelebrazione più smodata, nasce determinata a contare, palazzo Ducale se ne accorge e, lungi dall'attendere che muoia di morte naturale, interviene con durezza.

In tal caso non c'è distrazione, non c'è disattenzione. Fondata dal "magnifico", a detta di Doni, Federico Badoer, l'accademia della Fama sembra fare sul serio: si propone come centro elaborativo d'onniscienza irradiante il mondo intero, come sua restituzione all'età dell'oro, come, quanto meno, titolare d'iniziative di largo respiro con funzione pubblica e, insieme, concepite e gestite autonomamente. Ma la sapienza di stato annidata a palazzo Ducale si irrita di fronte a tanta pretesa, reagisce, stronca il grandioso progetto. Poco importa Badoer sia un patrizio, se, col suo mecenatismo principesco, agisce in proprio e non come espressione del patriziato tutto.

Attestato del bisogno di riunirsi, di stare insieme degli intellettuali le accademie; e come tali - ma ciò vale di più per quelle delle città di Terraferma - utili alla sopravvivenza categoriale che li predisporrà, nel '700, al recupero del ruolo, alla reintegrazione nella dimensione del socialmente utile, non per questo in esse si situano i punti alti e i momenti più incisivi della cultura veneziana del '5-'600. Se si pensa a Sarpi - la personalità indubbiamente più rilevante nella cultura veneziana di questo periodo e non solo di questo -, la cultura più significativa è quella che sa farsi militante, essendo incisiva nella misura in cui si situa sulla stessa lunghezza d'onda di palazzo Ducale. È come dire che la storia della cultura veneziana è, tutto sommato, pur sempre un capitolo della storia della classe dirigente marciana. Naturalmente lo stato, anche quando è la Repubblica di S. Marco, non è tutto. Ci sono ben le singole angosce, o le individuali aspirazioni per questo irrecepibili. E, allora, c'è il Soliloquio di Paruta oppure il Sarpi che sa come l'autentica pienezza umana non stia nella soggezione alla storia e, quindi, nell'obbedienza allo stato. Sta nell'autonomia "dove ciascun si regge", al limite nell'estinzione dello stato, al limite nell' "anarchia", ove, di per sé, si vive "meglio". Sarpi sa che Venezia non è la "città felice", sa che la "repubblica" può essere - comunque si configuri - "natural medicina", amara, sgradevole, non "cibo", non gioia (39). Quanto alle accademie, la loro conversevole liturgia è assolutamente estranea a siffatti soprassalti della solitudine, a siffatti sussulti nella solitudine. Sono troppo garrule per dire qualcosa di significativo.

1. Così, il 31 gennaio 1516, il consiglio dei X nominando Andrea Navagero pubblico storiografo; cf. Gaetano Cozzi, Cultura politica e religione nella "pubblica storiografia" veneziana del '500, "Bollettino dell'Istituto di Storia della Società e dello Stato veneziano", 5-6, 1963-64, pp. 225-226 (pp. 215-294). Sulla decisiva fase del dogado grittiano v. AA.VV., "Renovatio urbis". Venezia nell'età di Andrea Gritti (1523-1538), a cura di Manfredo Tafuri, Roma 1984.

2. Cit. in Giancarlo Mazzacurati, Il rinascimento dei moderni. La crisi culturale del XVI secolo e la negazione delle origini, Bologna 1985, p. 15.

3. Cf. Gino Benzoni, Flash sull'Europa: le relazioni dei diplomatici veneziani, in AA.VV., Europa. Storie di viaggiatori italiani, Milano 1988, pp. 123, 125, 127. È soprattutto la rappresentanza diplomatica in Spagna (e le lettere da questa inviate sono state edite in La corrispondenza da Madrid dell'ambasciatore Leonardo Donà (1570-1573), a cura di Mario Brunetti-Eligio Vitale, I-II, Venezia-Roma 1963) ad accentuare il patriottismo di Donà (sul quale v. Federico Seneca, Il doge Leonardo Donà. La sua vita e la sua preparazione politica prima del dogado, Padova 1959).

4. Della letteratura veneziana ed altri scritti intorno ad essa, Venezia 1854, pp. 558-559.

5. Ora disponibile grazie all'edizione critica curata da Laura Coci, Roma 1988; e cf. anche Tito Spinelli, Un libertino del '600: Antonio Rocco fra ordine e trasgressione, "Critica Letteraria", 18, 1990, pp. 461-469.

6. V. la voce a questi dedicata da Gino Benzoni, in Dizionario Biografico degli Italiani, VII, Roma 1965, pp. 51-53.

7. Edita in Paul L. Rose, A Venetian Patron and Mathematician of the Sixteenth Century: Francesco Barozzi (1537-1604), "Studi Veneziani", n. ser., 1, 1977, pp. 172-178 (pp. 119-178).

8. Trattasi della seconda edizione, che qui indichiamo perché accessibile, al contrario della prima, Venetiis 1575. Su Duodo, Tiepolo e il loro maestro Piccolomini v., di Eugenio Garin, L'umanesimo italiano. Filosofia e vita civile nel Rinascimento, Bari 1964, specie p. 149 e Scienza e vita civile nel Rinascimento italiano, Bari 1964, specie p. 141. Quanto al trattato contariniano cui si fa cenno, un po' oltre, nel testo v. Alberto Tenenti, Il "De perfectione rerum" di Nicolò Contarini, "Bollettino dell'Istituto di Storia della Società e dello Stato veneziano", 1, 1959, pp. 155-166.

9. Leggibili nell'edizione critica curata da Renzo Bragantini, Roma 1977.

10. Cf. l'edizione critica a cura di Silvia Zoppi, Firenze 1989.

11. Lo denuncia, fuggito a Roma, il francescano Fulgenzio Manfredi, già "teologo" della Repubblica, all'epoca dell'interdetto, nel 1608; v. Gino Benzoni, I "teologi" minori dell'interdetto, "Archivio Veneto", ser. V, 101, 1970, pp. 43, 67-78 (pp. 31-108).

12. Questo il "precetto" ispirante l'insegnamento a lui attribuito in Traiano Boccalini, Ragguagli di Parnaso e scritti minori, a cura di Luigi Firpo, I, Bari 1948, p. 232.

13. Leggibile in Storici e politici veneti del Cinquecento e del Seicento, a cura di Gino Benzoni - Tiziano Zanato, Milano-Napoli 1982, pp. 657-729.

14. Cf. Giovanni Tiepolo, Trattato sulle santissime reliquie, Venezia 1617, specie pp. 3, 68.

15. Offerto soprattutto dalle Relazioni dei rettori veneti in terraferma, edite, sotto la direzione di Amelio Tagliaferri, in 14 voll., Milano 1973-1979 e da Relazioni dei rettori veneti nel Dogado. Podestaria di Chioggia, Milano 1982. E si veda pure, per un utilizzo ed una valutazione delle relazioni, AA.VV., Venezia e la Terraferma attraverso le relazioni dei rettori, a cura di Amelio Tagliaferri, Milano 1981.

16. Queste possono considerarsi pressoché tutte stampate. E, in aggiunta a quanto indicato in Francesca Antonibon, Le relazioni a stampa di ambasciatori veneti, Padova 1939, valgano soprattutto i 12 volumi finora usciti (Torino 1969-1984) delle, appunto, Relazioni di ambasciatori veneti, a cura di Luigi Firpo, nonché i due volumi del reprint, a cura di Angelo Ventura, delle Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, Roma-Bari 1976.

17. Della letteratura veneziana, p. 488.

18. V. la relativa voce di Gino Benzoni, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXVIII, Roma 1983, pp. 282-290.

19. Cit. in Girolamo Cotroneo, I trattatisti dell'"Ars historica", Napoli 1971, p. 211.

20. Cf. Gino Benzoni, Introduzione a Storici e politici, pp. XXXV-XXXIX.

21. Cf. la relativa voce di Gaetano Cozzi, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXVIII, Roma 1983, pp. 247-255, e soprattutto Id., Il doge Nicolò Contarini. Ricerche sul patriziato veneziano agli inizi del Seicento, Venezia-Roma 1958. Sulla versione contariniana dell'accaparramento pontificio di Ferrara v. June Salmons, An Unpublished Account of the End of Este Rule in Ferrara: Nicolò Contarini's Istorie Veneziane and Events in Ferrara 1597-1598, in Il Rinascimento a Ferrara e i suoi orizzonti europei, a cura di Walter Moretti - June Salmons, Cardiff-Ravenna 1984, pp. 123-144.

22. Sopperisce all'assenza della - peraltro auspicabile - edizione integrale dell'opera l'ampia scelta antologica fornita da Storici e politici, pp. 151-442.

23. Cit. in Claudia di Filippo Bareggi, Il mestiere di scrivere. Lavoro intellettuale e mercato librario a Venezia nel Cinquecento, Roma 1988, p. 115.

24. Si limita il rinvio a Gaetano e Luisa Cozzi, Paolo Sarpi, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 4/II, Il Seicento, Vicenza 1984, pp. 1-36.

25. Basti il rinvio alla voce di Gino Benzoni, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXXIII, Roma 1987, pp. 163-171, colla doverosa aggiunta che ora la Storia delle guerre civili di Francia è leggibile nell'edizione, in 3 volumi, a cura di Mario D'Addio - Luigi Gambino, Roma 1990.

26. Per Barbaro e, più in generale, pei rapporti architettura-scienza, s'è soprattutto tenuto presente Manfredo Tafuri, Venezia e il Rinascimento, Torino 1985, specie alle pp. 155-212.

27. La cui figura e i cui tempi sono stati oggetto d'un convegno nel 1985, i cui Atti sono poi usciti come AA.VV., Culture, scienze e tecniche nella Venezia del Cinquecento, Venezia 1987.

28. A proposito del quale limitiamo il rinvio a quanto da noi soprattutto tenuto presente, vale a dire il capitolo dedicato a Galilei in Gaetano Cozzi, Paolo Sarpi tra Venezia e l'Europa, Torino 1979, pp. 135-234, valido soprattutto ad intenderne i rapporti con Sagredo, Sarpi, Micanzio.

29. Sul quale v. il profilo di Gino Benzoni, in Storici e politici, pp. 733-756.

30. Cf. AA.VV., Antichi scrittori d'idraulica veneta, I-IV, Venezia 1919-1952, ora disponibili in riprod. anast., Venezia 1987, cui s'aggiunge, come vol. V, l'edizione di Alvise Cornaro, Dialogo sulla laguna, con quello che si ricerca per la sua lunga conservatione, a cura di Pasquale Ventrice, Venezia 1988.

31. Per una valutazione del quale v. AA.VV., Agostino Gallo nella cultura del Cinquecento, a cura di Maurizio Pegrari, Brescia 1988.

32. Leggibile nell'edizione a cura di Marino Berengo, Torino 1975. Per un'impostazione di ciò che distingue Tarello da Gallo v. Emilio Sereni, Spunti della rivoluzione agronomica europea nella scuola bresciana cinquecentesca di Agostino Gallo e di Camillo Tarello, in AA.VV., Miscellanea in onore di Roberto Cessi, II, Roma 1958, pp. 113-128.

33. Antonio Ceruti, Lettere inedite di dotti italiani del secolo XVI tratte dagli autografi della biblioteca Ambrosiana, Milano 1867, pp. 3-4.

34. Cf. Lettere inedite di ragguardevoli personaggi del secolo XVI dirette al conte Marco degli Emilj, Verona 1832, pp. 33-38.

35. Ibid., p. 60.

36. Cf. Gino Benzoni, Aspetti della cultura urbana nella società veneta del '5-'600. Le accademie, "Archivio Veneto", ser. V, 108, 1977, pp. 98-100 (pp. 87-159).

37. Cf. Giorgio Busetto, La leggenda erudita di Sara Copio Sullam, letterata del ghetto di Venezia, in AA.VV., Il gran secolo di Angelico Aprosio, Sanremo 1981, pp. 45-65.

38. L'elenco che segue è stato desunto da Michele Maylender, Storia delle accademie d'Italia, I-V, Bologna 1926-1930. Per una valutazione dell'affermarsi e diffondersi delle accademie quale fenomeno caratterizzante la vita intellettuale della penisola v. Amedeo Quondam, L'Accademia, in AA.VV., Letteratura italiana, I, Il letterato e le istituzioni, Torino 1982, pp. 823-898.

39. Cf. Paolo Sarpi, Opere, a cura di Gaetano e Luisa Cozzi, Milano-Napoli 1969, pp. 64-65.