L'Italia preromana. I siti etruschi: Tarquinia

Il Mondo dell'Archeologia (2004)

L'Italia preromana. I siti etruschi: Tarquinia

Massimo Pallottino
Giovanni Colonna
Maria Cataldi

Tarquinia

di Massimo Pallottino, Giovanni Colonna

Città (etr. tarch(u)na; lat. Tarquinii) etrusca e romana nella zona della medievale Corneto, a 100 km da Roma lungo il litorale tirrenico.

L’abitato antico sorgeva sopra un’altura naturalmente munita, a circa 6 km dal mare; intorno a esso si estendevano i sepolcreti, particolarmente  addensati nella necropoli dei Monterozzi. Fu uno dei centri più importanti della dodecapoli etrusca: già formato nell’VIII, fiorì soprattutto dal VII al V sec. a.C., soggiacque alla supremazia di Roma nel IV sec. a.C., ma continuò con ordinamenti e vita culturale autonoma fino all’ultimo secolo della repubblica romana. Le scarse testimonianze monumentali dell’abitato consentono tuttavia di riconoscere tracce di una planimetria urbanistica regolare, a vie diritte e incrociate. L’edificio più notevole che si conosce è il basamento di un grandioso tempio (la cd. Ara della Regina), di forma rettangolare con unica cella e forse con colonnato su tre lati, presumibilmente di 25 x 44 m, costruito nel IV o nel III sec. a.C. Il tempio, la scalea di accesso con podi sagomati e la muraglia di sostruzione lungo il lato sud sono di opera quadrata con blocchi di tufo: colonne e modanature erano di nenfro; la trabeazione di legno con rivestimenti di terracotta.

La cinta urbana, in gran parte riconoscibile lungo un perimetro totale di circa 8 km, è anch’essa di opera quadrata, senza torri, con sviluppo irregolare che segue l’andamento dell’altura: può datarsi tra la fine del V e la metà del IV sec. a.C. L’architettura sepolcrale è rappresentata dai tumuli (VII-VI sec. a.C.); ma più diffuso appare il tipo del sepolcro scavato nella roccia, con elementi imitanti gli interni delle case, generalmente con soffitto a doppio spiovente, ma anche a cassettonato (età ellenistica) e in forma displuviata (tomba della Mercareccia). L’interesse artistico di T. si concentra essenzialmente nelle testimonianze della pittura funeraria, che costituiscono il nucleo più notevole di monumenti pittorici conservato, non soltanto in Etruria, ma in tutto il mondo classico prima dell’età imperiale romana.

Si possono visitare nella necropoli dei Monterozzi, in ordine topografico, partendo dall’abitato moderno, le tombe dei Loculi, del Guerriero, del Padiglione di Caccia, della Caccia e della Pesca, delle Leonesse, della Pulcella, dei Giocolieri, dei Caronti, 808, del Gorgoneion, Cardarelli, 1701, dei Fiorellini, della Caccia al Cervo, Bartoccini, dei Festoni, dei Leopardi, dei Baccanti, Querciola, della Mercareccia, del Morto, del Tifone, degli Scudi, del Cardinale, dell’Orco, dei Vasi Dipinti, del Vecchio, del Morente, delle Iscrizioni, del Topolino, Francesca Giustiniani, del Mare, Giglioli, del Barone, del Frontoncino, dei Leoni di Giada, dei Tori, della Capanna, dei Tritoni, degli Auguri, del Pulcinella; si conservano distaccati nel Museo Archeologico di Firenze un frontone della tomba Tarantola e nel Museo Archeologico Nazionale di T. parte dei dipinti della Tomba Bruschi; inoltre è stata distaccata integralmente, per salvarla da irreparabile perdita, la decorazione delle tombe delle Bighe, del Triclinio, del Letto Funebre, delle Olimpiadi, della Nave e della Scrofa Nera, a opera dell’Istituto Centrale del Restauro.

La documentazione della pittura tarquiniese si estende dal VI al III sec. a.C.: essa presuppone un fiorente e ininterrotto sviluppo della decorazione pittorica degli edifici sacri e civili etruschi ed è preziosa anche ai fini della conoscenza della tecnica, dei caratteri e della storia della grande pittura parietale greca, purtroppo perduta. I dipinti furono eseguiti a fresco sopra un lievissimo strato di intonaco (eccezionalmente in modo diretto sulla roccia spianata) e per lo più preparati da un disegno graffito, che attesta il procedimento dei pittori imitanti a mano libera i loro modelli e offre talvolta la gradevole spontaneità dello schizzo. Dal punto di vista del significato e del valore delle pitture funerarie occorre tener presente che esse erano destinate essenzialmente ai defunti e piuttosto con intenti magico-religiosi che genericamente commemorativi; benché non si possano trascurare, come è evidente, nella decorazione dei sepolcri anche le esigenze sociali e le capacità economiche dei committenti. Ciò spiega la raffinatezza di figurazioni per destinazione precluse alla pubblica ammirazione e giustifica l’ipotesi che alla loro esecuzione possano essere stati chiamati pittori di vaglia.

Il gruppo più antico di tombe dipinte, di stile arcaico, appartiene al VI e al V sec. a.C. Fatta eccezione per il quadro mitologico della Tomba dei Tori (agguato di Achille a Troilo), il repertorio consueto dei soggetti comprende scene di banchetto allietate dalla musica e dalla danza, di giochi e di agoni, probabilmente funerari, e di cerimonie sicuramente funerarie: rappresentazioni, dunque, di vita reale, seppure alludenti alla morte. Per ciò che concerne lo sviluppo stilistico, non si conoscono a T. pitture di tradizione orientalizzante o dedalica, come in altre località etrusche (ad es., Cerveteri, Veio): le prime tombe dipinte, come quella dei Tori, rivelano già pienamente l’influsso figurativo greco-orientale o ionico, dominante in Etruria nelle fasi dell’arcaismo medio e maturo. Composizioni vivaci, talvolta sbrigliate e con particolari ricchi di carattere, figure per lo più carnose e in atteggiamenti movimentati, talvolta elementi di paesaggio contraddistinguono il disegno dei complessi pittorici degli ultimi decenni del VI sec. a.C. (tombe delle Iscrizioni, delle Olimpiadi, del Maestro delle Olimpiadi, degli Auguri, delle Leonesse, della Caccia e della Pesca, delle Baccanti, dei Giocolieri, Cardarelli, 1701, 1999, ecc.).

Il colore, distribuito uniformemente in campi delineati nettamente dal contorno grafico, appare intenso e con forti contrasti, spesso decorativamente irreale. Le figurazioni dipinte si presentano più sobrie, composte, ritmate nella Tomba del Barone; mentre in altri casi tendono a irrigidirsi in una stilizzazione manierata delle formule ionizzanti (Tomba dei Vasi Dipinti, fregio inferiore della Tomba delle Bighe). I riflessi del disegno attico si manifestano, a partire dal 500 a.C. circa, già nella Tomba delle Bighe e in particolar modo nel fregio superiore con scene di ludi agonistici; e successivamente nelle tombe del Triclinio, dei Leopardi, del Letto Funebre, del Frontoncino, della kylix di Hieron, di cui soprattutto la prima, databile fra il 480 e il 470 a.C., riflette taluni schemi raffinati, dinamici e lievemente patetici, del disegno greco del tardo arcaismo, trattati da un pittore di mano felice nel delineare le figure e nell’armonizzarne i colori. La tradizione di stile severo si prolunga nella pittura funeraria tarquiniese, con mediocri esemplari (tombe Francesca Giustiniani, Querciola, della Pulcella, della Nave), ben oltre i limiti della sua scomparsa in Grecia sotto l’impulso rinnovatore della pittura classica e probabilmente sino alla seconda metà del V sec. a.C.

La produzione pittorica, così intensa durante l’arcaismo, pare successivamente diradarsi e interrompersi, almeno per un certo periodo. Tuttavia non mancano, specialmente dopo le ultime scoperte, singole testimonianze di questa fase intermedia, compresa tra la fine del V e la seconda metà del IV sec. a.C. e caratterizzata dal progressivo affermarsi degli elementi dello stile classico nella composizione, nel disegno delle singole figure, nel chiaroscuro, ecc. Tra queste, in particolare, la riscoperta Tomba della Scrofa Nera. In generale persistono alcune assuefazioni tradizionali, con particolare riguardo all’iconografia e al predominio del contorno lineare. Ma, a partire dal IV sec. a.C. e poi nell’età ellenistica, si avvertono considerevoli innovazioni rispetto alle pitture funerarie arcaiche; giacché lo schema del banchetto appare trasferito nel mondo dell’oltretomba, con una più evidente individualizzazione dei personaggi rappresentati e con la presenza di divinità e demoni dell’averno greco ed etrusco; mentre vanno aggiungendosi anche scene di commiato e di partenza e di viaggio dei defunti verso il regno delle ombre.

Specialmente notevole è l’intento di accentuare la desolazione e l’orrore della morte attraverso figurazioni di esseri infernali mostruosi che, se pure non mancarono nella pittura greca, ebbero in quella etrusca uno sviluppo maggiore e più caratteristico. Alla seconda metà del IV o agli inizi del III sec. a.C. appartengono i cicli pittorici della Tomba dell’Orco, nell’ambiente di destra, con il famoso finissimo frammento di testa femminile di Velia consorte di Arnth Velcha, e nell’ambiente di sinistra, con il grande fregio della Nekyia. Al III e al II sec. a.C. si aggiudicheranno la decorazione della Tomba degli Scudi, dove il disegno scarno e vigoroso accenna a volte al ritratto individuale, delle tombe Bruschi, dei Caronti, Giglioli e di altre minori. I dipinti della Tomba del Cardinale, quasi del tutto scomparsi, sono degni di rilievo per il complesso e oscuro soggetto escatologico del fregio (una sorta di Libro dei Morti figurato) e per la presenza, nel primo e unico caso constatabile a T., di una tecnica compendiaria. Sia con questo complesso che con la Tomba del Tifone, che offre motivi di sapore asiatico (i demoni anguiformi) e classicistico, oltreché una scena di marcia agli inferi non priva di riscontri con il ritratto e il rilievo romani, siamo già pervenuti ai limiti tra il II e il I sec. a.C.

La scultura in pietra tarquiniese è caratterizzata, in età arcaica, dai rilievi a quadretti su lastre di pietra pertinenti alla struttura e alla decorazione delle tombe; mentre, a partire dal IV sec. a.C., si concentra soprattutto nelle figure dei sarcofagi con defunti distesi o recumbenti e nei rilievi con soggetti mitologici e scene di viaggi e soggiorni nell’oltretomba. Salvo casi eccezionali, il livello di queste sculture funerarie è piuttosto scadente; non mancano, per altro, esempi di ritratti concepiti con un certo vigore espressivo, come quello del sarcofago di Laris Pulenas e, soprattutto, di un grande sarcofago calcareo anonimo, proveniente dalla Tomba dei Partunu e conservato nel Museo di T., che può annoverarsi tra le opere più nobili della plastica etrusca di età ellenistica. Assai poco, rispetto ad altri centri, si conserva della plastica fittile di decorazione architettonica; ma il frammento di altorilievo frontonale con figure di cavalli alati, proveniente dal tempio dell’Ara della Regina (IV-III sec. a.C.) offre un indizio quanto mai suggestivo dell’esistenza di complessi stilisticamente e tecnicamente eccellenti anche in questo genere di produzione figurata e ornamentale tipicamente etrusca. Altre categorie di monumenti e di oggetti (ceramiche plastiche, incise e dipinte, suppellettili e statuette di bronzo, intagli di avorio e d’osso, oreficerie e armi decorate) rientrano nella comune produzione etrusca di “arte applicata”, senza che sia lecito finora individuarne una sicura provenienza da botteghe tarquiniesi specializzate o con tratti distintivi e caratteristici.

Bibliografia

P. Ducati, Tarquinii, 1. Le pitture delle tombe delle Leonesse e dei Vasi Dipinti, Roma 1937.

M. Pallottino, Tarquinia, in MonAnt, 36 (1937), coll. 1-616 (comprende tutta la bibliografia precedente, anche per i singoli monumenti citati nel testo).

P. Romanelli, Tarquinii, 2. Le pitture della tomba della Caccia e della Pesca, Roma 1938.

Id., Gruppo fittile rinvenuto a Tarquinia, in Le Arti, 1, 5 (1938-39), pp. 436-41.

Id., Tarquinia. La necropoli e il museo, Roma 1940.

Id., Tarquinia. Scavi e ricerche nell’area della città, in NSc, 2 (1948), pp. 193-270.

R. Herbig, Die jüngeretruskischen Steinsarkophage, Berlin 1952, passim.

M. Pallottino, La Peinture étrusque, Genève - Paris - New York 1952, passim.

G. Becatti - F. Magi, Tarquinii, 3-4. Le pitture delle tombe degli Auguri e del Pulcinella, Roma 1955.

L. Banti, Problemi della pittura arcaica etrusca. La tomba dei Tori, in StEtr, 24 (1955-56), pp. 143-81.

R. Bartoccini - C.M. Lerici - M. Moretti, La tomba delle Olimpiadi, Milano 1959.

M. Cagiano de Azevedo, Saggio su alcuni pittori etruschi, in StEtr, 27 (1959), pp. 79-106.

M. Moretti, Tarquinia. La necropoli villanoviana “alle Rose”, in NSc, 13 (1959), pp. 112-42.

Id., La tomba della Nave a Tarquinia, Milano 1962.

La decorazione pittorica delle tombe dipinte

di Giovanni Colonna

La scoperta, a partire dal 1958, di una larga messe di nuove tombe dipinte, impone la necessità di una completa revisione dello svolgimento della pittura tarquiniese nel VI e V sec. a.C., ossia nel periodo della sua massima fioritura.

A parte l’isolata testimonianza del Tumulo Avvolta, è ormai accertato che nel VII e nella prima metà del VI sec. a.C. la decorazione pittorica si limitò a sottolineare in nero l’“architettura” interna degli ipogei, integrandola talora con l’indicazione di una porta al centro della parete di fondo (tombe della Capanna, Marchese, 343 e forse lo stesso Mausoleo). Intorno al 550 a.C. queste monocrome orditure lineari vennero sconvolte dall’adozione sistematica di un ornato frontonale, consistente in animali (leoni, pantere, uccelli) contrapposti ai lati di un sostegno centrale. La nuova sintassi decorativa si avvalse largamente, oltre che del nero, del rosso (tombe 939, 1964, dei Leoni Rossi, Avakian) e più tardi del verde (tombe dei Leoni di Giada, dei Tritoni, Stefani). Nella Tomba Avakian lo sforzo di arricchire la decorazione si manifesta nella comparsa di elementi accessori, quali il motivo laconico degli archetti con melagrane e le crocette distribuite sulle pareti (come più tardi lo saranno sugli spioventi del cielo). La prima personalità di pittore nettamente individuata è quella della Tomba dei Tritoni: le sue forme robuste e armoniose, realizzate con estrema parsimonia di linee, sono tra le creazioni più felici dell’arte ionico-etrusca. Un appiglio cronologico è offerto dalla parentela con i vasi più antichi del gruppo La Tolfa (ca. 540 a.C.). Ricordi orientalizzanti affiorano nel timpano maggiore della Tomba Stefani, in cui il sostegno centrale è sostituito dalla figura del despotes theròn armato, tra uccelli e leoni gradienti.

Verso il 530 a.C. la decorazione figurata, arricchita dell’azzurro e carica ormai di precisi significati funerari, che si estrinsecano in temi narrativi (ludi atletici e musicali, danze, banchetti, giuoco del phersu, gare di abilità, ecc.), discende dai timpani e dilaga gioiosamente sulle pareti, dando inizio con un’opera di ineguagliato livello come la Tomba degli Auguri alla serie dei grandi cicli pittorici tarquiniesi. La Tomba dei Giocolieri rivela al confronto un temperamento modesto, incerto nella composizione (si notino i pentimenti nel disegno dell’equilibrista e addirittura la sostituzione di una pantera al leone originariamente disegnato nel semitimpano destro). Il discorso del fregio si snoda con difficoltà, né il riserbo ostentato dalle danzatrici arriva a essere elegante. Non mancano punti di contatto con la Tomba delle Leonesse (figurine efebiche a risparmio, zoccolo a onde, profusione dell’azzurro), ma la fonte di ispirazione, sempre greco-orientale, va cercata altrove: i tipi femminili richiamano gli affreschi di Gordion e i pinakes ceriti più vicini al gruppo delle hydriai. L’unica iscrizione della tomba: ARANTH HERACANASA, ossia “Ar(a)nth (servo) di Her(a)canas”, si trova accanto a una figura in atteggiamento scurrile, che potrebbe riferirsi proprio, con intento apotropaico, all’autore delle pitture, conservandoci così l’unica firma nota di pittore tarquiniese. Sulla scia della Tomba degli Auguri si collocano le tombe del Pulcinella e 1999, mentre incerta resta la posizione della troppo rovinata tomba 1000.

Un posto a sé occupa la Tomba delle Olimpiadi, in cui il ritmo travolgente del racconto crea un carosello di immagini colorate, con un effetto semplice ma efficace di sagra paesana (fiaccamente imitato nella Tomba del Maestro delle Olimpiadi). L’organizzazione sintattica della decorazione parietale ricevette una prima sistemazione, preludente a quella assai più vincolante affermatasi agli inizi del V sec. a.C., in un nutrito gruppo di tombe, databili tra il 520 e il 500 a.C., forse opera di uno stesso pittore, passato attraverso una fase ionicizzante (Tomba del Morto, delle Iscrizioni, del Vecchio, delle Baccanti) e una già toccata dalla cognizione del disegno attico 1701 (Tomba del Teschio o dei Secondi Archi, Cardarelli, la perduta Tomba della Porta di Bronzo). In queste tombe, dalla policromia molto sobria, si riprende largamente il vetusto motivo della finta porta (nella variante bullata, da portone, della Tomba degli Auguri), si stabilizza l’uso delle coroncine e degli alberelli, si risolve il problema dei campi frontonali con gruppi animalistici, si conferisce al columen una propria decorazione con dischi e foglie d’edera. Abile disegnatore, questo pittore si compiace di ritmi instabili, di figure gesticolanti, in cui la linea di contorno è forzata al massimo, non senza connessione, probabilmente, con le obliquae imagines di Kimon di Kleonai. Assai vicina alla sua maniera è la Tomba dei Vasi Dipinti, qualche legame mostra anche la Tomba del Morente. Affatto isolata nella sua nobile misura resta la Tomba del Barone.

Parallelamente a questa produzione, che fa largo posto alle figurazioni antropomorfiche e ai temi narrativi, si perpetua e si evolve la tradizione, più economica, delle tombe con decorazione puramente ornamentale, circoscritta ai frontoni. La Tomba dei Tori rientra sostanzialmente in questa corrente conservatrice, poiché il quadro posto sulla parete di fondo, nel suo isolamento e nel suo tema mitologico (Achille e Troilo), si collega più al passato (lastroni a scala, Tomba cerite della Nave e inoltre gli stessi Tritoni e il despotes theròn) che non al futuro della tematica funeraria. Alla Tomba dei Tori si affiancano, nel ricco cromatismo e nella parentela con il disegno dei vasi pontici più recenti e con il Pittore di Micali, le tombe del Mare, 3698 e del Topolino. In quest’ultima, mentre nei frontoni si insinua frammentariamente il tema del banchetto, le pareti sono rivestite in tutto il loro sviluppo da una serie di alberi frondosi, animati da volatili e roditori, creando una suggestiva pittura di giardino. Nella Tomba della Caccia e della Pesca la sollecitazione della corrente narrativa è forte: il giardino della prima camera si popola di figurette umane, i frontoni sono occupati da fregi continui con scene di banchetto e di caccia. Sulle pareti della seconda stanza però lo spunto narrativo della pesca è affatto soverchiato dall’amore per il paesaggio, cui dobbiamo una marina priva di qualsiasi rapporto con la tematica funeraria.

Il motivo del fregio frontonale con banchetto incontrò un certo favore, poiché lo ritroviamo nelle tombe del Frontoncino, Tarantola, Bartoccini, in quest’ultima sovraddipinto su fondo nero secondo un gusto, probabilmente desunto dalla ceramografia attica, che ritorna nel fregio maggiore della Tomba delle Bighe e nel frontone della Tomba della Caccia al Cervo (ma con figure correttamente risparmiate sul fondo). L’ultima eco della tradizione decorativa la incontriamo, ormai agli inizi del V sec. a.C., nella singolare Tomba del Cacciatore, concepita come l’interno di un padiglione dalle agili strutture lignee, ricoperto sino a terra da un velario in alto opaco e in basso traslucido. Alla base della parte opaca corre un fregio miniaturistico con animali e guerrieri su fondo scuro, la cui squillante policromia, il disegno rapido e la ripetizione dei motivi si ispirano volutamente alla decorazione tessile. Sotto il fregio sono appesi al velario animali uccisi e oggetti di abbigliamento, a grandezza naturale, dipinti con un gusto che si direbbe da natura morta. L’insegnamento attico, prepolignoteo, si manifesta nella visione in trasparenza di singoli elementi del paesaggio circostante, come la linea del terreno, un alberello con bende e finanche un capriolo pascente.

Agli inizi del V sec. a.C. si afferma con la Tomba delle Bighe un nuovo schema decorativo, che domina incontrastato fino alla metà del secolo e oltre: sulla parete di fondo tre coppie di banchettanti, sulle pareti laterali musiche, danze e giuochi, nei semitimpani figure sdraiate (confronta le tombe del Triclinio e della Nave), sugli spioventi del cielo una scacchiera multicolore. Purtroppo l’apporto conoscitivo delle tombe di recente scoperta è limitato, sia per la qualità che per il miserando stato di conservazione di molte di esse. Sulla scia dei migliori maestri dell’epoca, e in particolare di quello della Tomba del Triclinio, si pone la Tomba della Scrofa Nera, in cui la cognizione dello stile severo si manifesta nella corretta veduta di profilo dell’occhio, ancora non generalizzata, mentre nella movimentata scena di caccia del frontone principale è vivo il ricordo di composizione dell’arcaismo finale. Non è un caso che l’ardita figura del cacciatore visto di dorso trovi un precedente nello scudiero della Tomba delle Bighe o negli stessi combattenti dell’altorilievo di Pyrgi. Vicine alla Tomba della Scrofa Nera sono la Tomba Querciola, in cui forse appare uno spunto prospettico nella rete della caccia al cinghiale, e la tomba 3697, preziosa per la cronologia avendo restituito una kylix firmata da Hieron.

Allo stesso orizzonte cronologico (metà del V sec. a.C.) si riferisce la Tomba della Nave, opera di mediocre esecuzione, in cui però troviamo, inserito a forza nel fregio parietale, un brano di pittura di paesaggio, forse desunto da un originale di maggiore respiro. Due grosse navi da carico attorniate da barche sono proiettate su una distesa marina racchiusa da grandi rocce verticali (le riproduzioni pubblicate sono incomplete). Il confronto con la marina della Tomba della Caccia e della Pesca mostra non solo l’insegnamento polignoteo nello scaglionamento della composizione su piani diversi, come forse già nel pinax veiente con pescatore, ma anche una ben più vigorosa subordinazione dell’uomo alla natura, avendo le figurine dei marinai un valore affatto accessorio. Nulla sappiamo di questa estensione alla pittura di paesaggio dei principi prospettici polignotei e solo a titolo di ipotesi si può fare il nome dello scenografo Agatharchos, attivo ad Atene dall’età di Eschilo, ma proveniente dalla Ionia. Nella seconda metà del V sec. a.C. si assiste a una rapida involuzione della pittura tarquiniese, conseguente all’allentamento dei rapporti con il mondo greco, generale nell’Etruria tirrenica nonostante i tentati interventi della politica ateniese.

Fra i tanti complessi di mediocre esecuzione si distingue, per il disegno vibrante e un certo tormentato manierismo subarcaico, la Tomba della Pulcella: il suo grande loculo parietale, inserito nel sistema decorativo, è tipico di questa età, mentre l’abolizione dei campi frontonali – presente eccezionalmente nella Tomba del Letto Funebre – non ritorna che nel IV sec. a.C. Nei frontoni diviene ora frequente il motivo ctonio del gallo oppure una decorazione a grandi volute, anch’essa anticipata da una nota urnetta dipinta tardoarcaica. Un’estrema semplificazione di linguaggio, congiunta a un cromatismo violento, accomuna la Tomba Francesca Giustiniani e la tomba 3226, mentre nella Tomba del Guerriero si esprime, in una forma piuttosto equilibrata e corretta, tutta la limitatezza dei nuovi orizzonti, ormai inesorabilmente municipali. Qualche lontana eco di arte classica filtra alla fine del secolo nella Tomba del Gorgoneion, in cui viene ripreso il motivo del paradeisos come cornice a due personaggi conversanti, così come nel fregio frontonale della tomba 2327, con processione di personaggi panneggiati. In quest’ultima tomba si osserva anche, nei capelli di un tibicine, un tentativo di chiaroscuro, ottenuto variando la densità del colore, con procedimento simile a quello della pittura vascolare. È possibile, ma non dimostrabile, che qualcuna di queste tombe scenda nei primi anni del IV sec. a.C.

Certo nessun rapporto esiste tra esse e i monumenti pittorici sicuramente datati in questo secolo, come le tombe dell’Orco, Golini, François, o i frammenti di pinakes da Falerii. Il diradamento, se non addirittura l’interruzione, della pittura funeraria nella prima metà del  IV sec. a.C. non meraviglia, dopo che l’esplorazione sistematica della necropoli di Monterozzi ha mostrato che la percentuale delle tombe affrescate non va oltre il due per cento: la decorazione delle tombe è rimasta, comunque, sempre un fatto di élite, legato a particolari condizioni economiche e sociali. Il superamento del disegno di stile severo in Etruria fu un processo lentissimo e faticoso, che ebbe luogo non nella grande pittura, ferma su posizioni convenzionali e conservatrici, ma nell’artigianato, assai più ricco di fermenti vitali, degli specchi, dei vasi dipinti, delle ciste. La scuola pittorica tarquiniese ha esercitato il suo influsso, nella prima metà del V sec. a.C., anche fuori dai confini cittadini: lo dimostrano una tomba, ora perduta, di Bomarzo e le tombe dipinte di Chiusi.

Bibliografia

Tombe dipinte rinvenute tra gennaio 1958 e aprile 1962: M. Moretti, Nuovi monumenti della pittura etrusca, Milano 1966.

Tomba 1000 e particolari successivamente distrutti della Tomba della Scrofa Nera: C.M. Lerici, Nuove testimonianze dell’arte e della civiltà etrusca, Milano 1960, pp. 121, 136-37.

Scoperte successive: C.M. Lerici, Una grande avventura della archeologia moderna,Milano 1965.

Tomba ellenistica degli Anina: M. Pallottino, Un gruppo di nuove iscrizioni tarquiniesi e il problema dei numerali etruschi, in StEtr, 32 (1964), pp. 107-29.

Tomba Marchese: L. Marchese, Scoperta di due tombe etrusche in località “Monterozzi” nella necropoli tarquiniense, in NSc, 1944-45, p. 21, fig. 8.

Tomba Avakian: G. Avakian, Una tomba etrusca in Tarquinia la cui esistenza s’ignora, in Ephemeris Dacoromana, 6 (1935), pp. 148-52 (ivi anche un cenno alle fasce dipinte nel Mausoleo).

Tomba Stefani: E. Stefani, Tarquinia (VT). Scoperta di due tombe etrusche dipinte, in NSc, 1954, pp. 185-89, figg. 1-4.

Tomba del Topolino si identifica con ogni probabilità con quella edita, assieme ai resti del corredo, in NSc, 1881, pp. 366-71; da ultimo L. Cerchiai, La Tomba del Topolino, in AnnAStorAnt, n.s. 8 (2001), pp. 99-104.

Pinakes ceriti citati nel testo: F. Roncalli, Le lastre dipinte da Cerveteri, Roma 1965, pp. 77-84, tavv. IX, X e XVII.

Tomba arcaica di Bomarzo: E. Stefani, Tarquinia (VT). Scoperta di due tombe etrusche dipinte, in NSc, 1954, pp. 189-94, figg. 5-12.

Altri studi:

L. Banti, Disegni di tombe e monumenti etruschi fra il 1815 e il 1830: l’architetto Henri Labrouste, in StEtr, 35 (1967), pp. 575-93.

G.A. Mansuelli, Le sens architectural dans les peintures des tombes tarquiniennes avant l’époque hellénistique, in RA, 1967, pp. 41- 47.

G. Camporeale, Pittori arcaici a Tarquinia, in RM, 75 (1968), pp. 34-53.

A. Giuliano, Osservazioni sulle pitture della “tomba dei Tori” a Tarquinia, in StEtr, 37 (1969), pp. 3-26.

M. Sprenger, Qualche annotazione sull’esegesi e la cronologia della tomba dipinta detta del guerriero di Tarquiniaibid., pp. 403-12.

T. Dohrn, Rec. a M. Moretti, Nuovi monumenti della pittura etrusca, in GGA, 221 (1969), pp. 211-16.

A. Tonini, La tomba tarquiniese del Cacciatore, in StEtr, 38 (1970), pp. 45-65.

Scavi e ricerche

di Maria Cataldi

Il dibattito che negli ultimi anni si è andato sviluppando all’interno della comunità scientifica circa i tempi e la dinamica relativi alla formazione dei grandi centri urbani etruschi ha necessariamente toccato anche il processo di formazione della città di T. Analogamente a quanto sembra avvenire in tutta l’Etruria meridionale tirrenica, tra la fine dell’età del Bronzo e gli inizi dell’età del Ferro – in corrispondenza cioè del passaggio dall’aspetto culturale protovillanoviano a quello villanoviano (fine del X - inizio del IX sec. a.C.) – anche nel territorio tarquiniese si verifica l’abbandono dei numerosi villaggi sorti in epoca precedente e si assiste allo sviluppo di un vasto insediamento su quella che sarà la sede della futura città storica, che ha comunque conosciuto una forma di occupazione, anche se molto meno consistente, fin dal Bronzo Finale (X sec. a.C.). A T. il processo di formazione “protourbana” di età villanoviana (IX-VIII sec. a.C.) si realizza in un quadro topografico ben più vasto di quello della futura città che occuperà i due pianori contigui di Pian di Civita e Pian della Regina e il colle settentrionale della Castellina.

Dai dati attualmente disponibili infatti sembrerebbe che nel IX e almeno fino alla metà dell’VIII sec. a.C. all’abitato della Civita, cui si riferiscono le necropoli dei colli circostanti (e la cui estensione complessiva risulta peraltro maggiore, circa 150 ha rispetto a 120, di quella che sarà delimitata dalla cinta fortificata di età storica, interessando anche il Poggio Cretoncini situato immediatamente a nord di Pian della Regina), si affianchi una serie di piccoli insediamenti situati sulla vasta altura parallela dei Monterozzi dove, a partire dal VII sec. a.C., si svilupperà la grande necropoli cittadina. Al momento sono riconoscibili sui Monterozzi almeno quattro nuclei abitativi: in corrispondenza dello sperone occidentale del colle (cui si riferisce forse la necropoli delle Rose), in località Calvario (con la necropoli delle Arcatelle), in località Infernaccio (con la necropoli di Villa Bruschi Falgari) e in località Acquetta (dove è stato recentemente individuato un abitato con relativo sepolcreto). Punto fermo per la conoscenza del villanoviano tarquiniese sarà lo studio del sepolcreto di Villa Bruschi Falgari, il cui scavo sistematico, avviato dalla Soprintendenza Archeologica per l’Etruria Meridionale nel 1998 e tuttora in corso, ha portato in luce, fino al 2003, più di 200 sepolture inquadrabili nella quasi totalità alla prima fase dell’età del Ferro (Villanoviano 1A e 1B).

In base all’affioramento del materiale protostorico e ai dati stratigrafici provenienti dagli scavi sistematici dell’Università degli Studi di Milano sul Pian di Civita (a partire dal 1982), si è ipotizzato che l’abitato si estendesse diffusamente su tutta la superficie, articolato con una pluralità di cellule abitative divise da zone libere forse utilizzate per attività agricole. I villaggi sui Monterozzi, di limitata estensione e subordinati all’abitato della Civita, svolgevano verosimilmente una funzione strategica di controllo di quei percorsi che dalla costa conducevano alla Civita stessa. Una sicura, anche se limitata, conoscenza dell’organizzazione interna di uno di questi villaggi ci è fornita dallo scavo dell’abitato del Calvario che è a oggi l’unico insediamento villanoviano sufficientemente, anche se parzialmente, indagato. Promossa dalla Fondazione Lerici negli anni 1975-78, l’indagine ha messo in luce i resti di almeno 25 capanne disposte con densità disuguale e con superficie variante dai 35 agli 80 m2.

La forma delle capanne, ovale, quadrangolare o rettangolare, è definita da un solco perimetrale scavato nella roccia per l’ancoraggio dei pali che dovevano costituire l’ossatura delle pareti, mentre sul pavimento restano le impronte dei montanti di sostegno alle strutture del tetto; le diverse planimetrie sono state spiegate o con una successiva cronologia delle abitazioni o con una diversità di funzione delle strutture. Alcune capanne mostrano una partizione interna degli spazi con il settore di fondo dell’abitazione, isolato, che ricorda suggestivamente il thalamos della casa greca. Importanti dati per la storia della T. villanoviana vengono dagli scavi della stessa Università di Milano che hanno messo in luce un quartiere cittadino dove è stato individuato un luogo di culto frequentato fin dal Bronzo Finale e testimoniato da una cavità naturale, da depositi votivi, probabili sacrifici di bambini e sepolture di adulti legate a particolari pratiche religiose. Il ruolo predominante della T. villanoviana rispetto agli altri centri dell’Etruria meridionale – dovuto probabilmente anche al controllo delle miniere dei Monti della Tolfa almeno fino all’emergere di Caere alla fine dell’VIII sec. a.C. – è documentato, oltre che dall’eccezionale sviluppo della metallurgia, anche dai precoci contatti con le altre comunità dell’Italia antica, con la Sardegna, con la Sicilia e con i popoli del Mediterraneo orientale (Greci e Fenici). L’antichissima vocazione per i traffici marittimi è sottolineata dalla presenza di materiale dell’età del Ferro sulla costa, nei pressi delle Saline, la cui notevole consistenza e ampia distribuzione permette di ipotizzare l’esistenza di un vasto insediamento costiero legato non solo ad attività commerciali, ma anche a quelle “industriali” quali la pesca e l’estrazione del sale. Il processo di formazione urbana sembra concludersi definitivamente nella seconda metà dell’VIII sec. a.C. con il concentrarsi dell’abitato sulla Civita e con l’abbandono degli insediamenti minori sul colle dei Monterozzi che da questo momento diventa la sede del principale sepolcreto della città.

Le scoperte degli ultimi anni, nelle aree di abitato e di necropoli, hanno permesso di riconsiderare – almeno parzialmente – quella visione, ormai radicata nella letteratura scientifica, di una T. relativamente spenta dopo il grande momento villanoviano, visione in contrasto con quanto affermato dalla tradizione letteraria antica che definisce la città “grande e potente” quando – verso la metà del VII sec. a.C. – vi approdò e vi si stabilì con un seguito di artisti il nobile corinzio Demarato, padre di Tarquinio Prisco futuro re di Roma (Dion. Hal., III, 46). II numero delle grandi tombe gentilizie di epoca orientalizzante, che fino a pochi decenni fa era rappresentato solo dai due monumentali tumuli della Doganaccia e dal Tumulo Avvolta, è andato progressivamente accrescendosi con le scoperte, per limitarsi agli esempi più significativi, del tumulo dell’Infernaccio – sempre nella necropoli dei Monterozzi – e di quelli di Poggio del Forno e di Poggio Gallinaro sui colli periferici a est e a nord dell’abitato.

Le imponenti camere funerarie sono realizzate con tecniche diverse: scavate nel banco roccioso (Tumulo dell’Infernaccio), parzialmente costruite (tumuli Avvolta e della Doganaccia) o completamente realizzate con blocchi di pietra (tumuli di Poggio Gallinaro e Poggio del Forno). Lo schema caratteristico delle tombe tarquiniesi di epoca orientalizzante prevede una camera a pianta rettangolare allungata con pareti a profilo ogivale e volta solcata alla sommità da una fenditura longitudinale sigillata da lastroni squadrati. La camera è preceduta da un ampio vestibolo a cielo aperto forse usato per cerimonie di culto, come sembrerebbe suggerire l’esempio grandioso del Tumulo dell’Infernaccio, fornito di banchina e preceduto da una monumentale e articolata scalinata di accesso destinata agli spettatori. La quantità e la qualità dei corredi funebri rinvenuti, anche se generalmente i sepolcri hanno subito massicce spoliazioni in epoca passata, sono tali tuttavia da accomunare lo stile di vita degli aristocratici tarquiniesi a quello delle classi emergenti delle grandi città vicine.

A questo processo di monumentalizzazione dell’architettura funeraria ne corrisponde – in significativo parallelo – uno analogo delle strutture dell’area urbana, come hanno dimostrato gli scavi dell’Università degli Studi di Milano sulla Civita. Qui, fin dalla prima metà del VII sec. a.C., si costruisce un “complesso sacro-istituzionale” caratterizzato dalla presenza di un “edificio sacrificale” con muri di pietra realizzati con tecnica a pilastri; al suo ingresso fu sepolto un notevolissimo deposito votivo costituito da numeroso vasellame e da tre preziosi oggetti di bronzo: uno scudo, un’ascia e una tromba-lituo, insegne simboliche del potere di un principe-sacerdote, vertice prestigioso di quella classe aristocratica committente dei sepolcri monumentali sopra descritti. Un ulteriore documento della vivacità culturale della città di T. in epoca orientalizzante è stato fornito dalla scoperta, avvenuta nel 1971, della Tomba delle Pantere, databile tra lo scorcio del VII sec. a.C. e gli inizi del successivo e che costituisce fino a oggi il più antico ipogeo dipinto tarquiniese. Le figure dei grandi felini tracciate sulle pareti – tra le più mature creazioni di stile corinzieggiante – vengono così a colmare quella lacuna che sembrava fino a qualche anno fa caratterizzare la pittura funeraria di T. proprio nel suo momento iniziale.

Non conosciamo l’ubicazione del porto, o dei porti, di T. in età orientalizzante; in ogni caso essa non coincideva con lo scalo di Gravisca attivo solo, pare, dall’inizio del VI sec. a.C., ma potrebbe invece avere sfruttato più a nord la stessa foce del fiume Marta, come sembrerebbe confermare la scoperta avvenuta nel 1988 di una tomba principesca della seconda metà del VII sec. a.C. con oreficerie e altri oggetti prestigiosi nella piana costiera, in località Piano San Nicola, sulla riva destra del fiume. Anche presso le Saline, immediatamente a sud di Gravisca e già intensamente frequentate fin da epoca villanoviana, fu rinvenuto un ricco contesto orientalizzante, ora parzialmente conservato al Museo del Louvre. Il ruolo della città in età arcaica e classica (VI-V sec. a.C.), vale a dire nel momento del suo apogeo urbano, è andato ulteriormente delineandosi nel corso degli ultimi decenni grazie agli scavi condotti nell’abitato, nel porto di Gravisca con il santuario emporico greco, sorto appunto intorno al 600 a.C., e in seguito grazie al rinvenimento di un numero rilevante di nuove tombe dipinte che ha permesso la revisione della pittura funeraria nel periodo della sua massima fioritura.

È stato ipotizzato che in epoca arcaica l’abitato fosse circoscritto al Pian di Civita e che solo più tardi si sarebbe espanso verso oriente inglobando il pianoro contiguo di Pian della Regina. Anche se uno sbarramento artificiale fosse veramente esistito in corrispondenza della strozzatura che divide i due pianori, esso, più che costituire un limite della città, avrebbe molto probabilmente avuto piuttosto la funzione di difesa della parte occidentale e più interna dell’abitato. In tal senso parlerebbero anche i risultati di recenti indagini condotte dalla Soprintendenza sul margine settentrionale del Pian della Regina, lungo la grande cinta fortificata in opera quadrata, che confermano come il pianoro avesse sempre fatto parte dell’abitato e che hanno permesso di datare l’impianto della possente fortificazione – almeno in questo tratto – alla prima metà del VI sec. a.C. Allo scorcio del VII sec. a.C. risalgono poi, a quanto a oggi è dato conoscere, le strutture più antiche del santuario sorto forse come santuario federale degli Etruschi sul pianoro orientale della città lì dove – più tardi – verrà edificato il grandioso tempio noto con il nome di Ara della Regina che, secondo una recente rilettura dei resti monumentali, risalirebbe nel suo impianto iniziale al secondo quarto del VI sec. a.C. e di cui sono state identificate ben quattro fasi costruttive.

Il ritrovamento in più punti della Civita di terrecotte architettoniche arcaiche è comunque indizio sicuro di una intensa attività edilizia in tutta l’area abitata. Poco sappiamo dell’impianto urbanistico, ma è possibile che fin da epoca tardoarcaica esso presentasse un tessuto regolare di tipo greco; le tracce di assi viari ortogonali evidenziate dalle prospezioni geofisiche della Fondazione Lerici sul pianoro occidentale sembrano infatti ora confermate dalle recenti indagini archeologiche dell’Università di Milano e potrebbero risalire agli inizi del V sec. a.C. Dopo la “crisi” degli anni centrali del V sec. a.C., comune a tutti i centri dell’Etruria meridionale, allo scorcio del secolo o agli inizi del successivo, T. è protagonista di un forte processo di rinascita. La città sembra aver risolto i propri problemi sociali con trasformazioni istituzionali e politiche che portano la vecchia oligarchia di tipo tradizionale a rinnovarsi nelle forme economiche e nell’ideologia. Sulla base di alleanze gentilizie essa sembra ora assumere la guida della confederazione etrusca mobilitata in difesa della minaccia celtica da settentrione, ma soprattutto di quella ben più consistente costituita dalla crescente potenza romana a sud.

Questo nuovo periodo di floridezza comporta una sorta di febbrile attività edilizia con la ristrutturazione della imponente cinta fortificata, che presumibilmente assume in tale epoca l’aspetto definitivo che oggi conosciamo, lunga ben 8 km, delimitante i pianori di Civita e Pian della Regina e a nord anche lo sperone della Castellina, per una superficie di circa 120 ha. Vengono ristrutturati anche i principali edifici cittadini, primo fra tutti il tempio dell’Ara della Regina, di cui si ignorano le divinità cui era dedicato (Artumes? Apollo?) e alla cui decorazione frontonale si riferisce il celebre altorilievo fittile con coppia di cavalli alati. I dati disponibili fanno supporre un elevato numero di edifici sacri cittadini: iscrizioni dedicatorie ed ex voto testimoniano infatti la presenza di culti dedicati anche a Suri, divinità assimilabile ad Apollo, a Selvans, analogo al latino Silvanus, a Culsans, dio bifronte simile al latino Giano, e a Thufthas, divinità indigena di cui ignoriamo anche l’aspetto.

Dall’area del tempio dell’Ara della Regina provengono i frammenti degli Elogia Tarquiniensia, iscrizioni laudatorie dedicate nella prima età imperiale alla memoria di una grande famiglia aristocratica cittadina, gli Spurinna, e la cui interpretazione è tuttora oggetto di vivaci polemiche tra gli studiosi. Secondo una delle letture più accreditate dei testi, proprio il capostipite degli Spurinna, Velthur, sarebbe stato uno degli artefici della rinascita di T. e avrebbe guidato una felice spedizione dell’esercito etrusco a fianco di Atene in occasione della guerra contro Siracusa del 414/3 a.C. Ed è ancora in questa fase di splendore della storia cittadina, l’ultima prima del definitivo scontro armato con Roma, che si assiste a un nuovo fiorire dei grandi sepolcri dipinti per la nuova classe dirigente. Emblematico di questo particolare momento della pittura funeraria, caratterizzato dal nascere di nuovi programmi figurativi che perdureranno per tutta l’età ellenistica, è l’ipogeo dipinto dei Demoni Azzurri, venuto in luce  nel 1985.

Il sepolcro, databile nella seconda metà del V sec. a.C., sembra infatti scandire proprio il passaggio fra le due differenti ideologie della morte: quella di età arcaica e classica ancora legata alle rappresentazioni simposiache (parete sinistra con il viaggio trionfale del defunto verso l’oltretomba e parete di fondo con il banchetto nell’aldilà) e l’altra ispirata alle nuove dottrine escatologiche, con espliciti riferimenti alle grandi religioni misteriche, mutuate dal mondo greco e modellate sull’idea di un Ade popolato di divinità e demoni infernali e riflessa nella grande scena dipinta sulla parete destra che ha dato il nome al sepolcro. Si tratta senz’altro della più antica raffigurazione relativa al mondo dei morti della pittura funeraria tarquiniese: la defunta si avvia verso la barca di Caronte che, traghettatore di anime secondo l’iconografia greca, la porterà nei Campi Elisi. Ad attenderla due parenti premorti e ad accompagnarla nel viaggio eterno una serie di figure infernali il cui aspetto presuppone già l’avanzato processo di elaborazione che porterà alla definizione dei demoni etruschi della morte – gli esseri mostruosi con precisi attributi e nomi specifici – noti dalle pitture dei sepolcri di età ellenistica.

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