L'Europa tardoantica e medievale. Il cristianesimo nelle regioni occidentali. L'organizzazione ecclesiastica delle campagne

Il Mondo dell'Archeologia (2004)

L'Europa tardoantica e medievale. Il cristianesimo nelle regioni occidentali. L'organizzazione ecclesiastica delle campagne

Pier Giorgio Spanu

L’organizzazione ecclesiastica delle campagne

Nonostante i persistenti fenomeni di paganesimo, in età gregoriana, agli inizi del VII secolo, l’organizzazione ecclesiastica delle campagne era già avviata da tempo in diversi territori occidentali, in particolare nell’area mediterranea.

Un inquadramento delle strutture organizzative della Chiesa nelle aree rurali impone di riconsiderare la terminologia giuridica relativa; ci soccorre a riguardo, all’indomani della Pace della Chiesa, la legislazione conciliare di Arelate (Arles) del 314, dove è evidente che il termine diocesis si riferisce ai distretti rurali diversi dalla parochia, che definisce invece il centro in cui era stabilita la residenza vescovile. Nel canone 42 del Concilio di Arelate viene peraltro specificato che nell’ambito delle dioceses rurali vi erano le maiores: da ciò si deduce che nel 314 dovevano esistere dioceses minores con una conseguente presenza di chiese rurali. L’inversione di significato tra diocesis e parochia è guadagnata già a partire dal VI e VII secolo, anche se nei testi di Gelasio I (492-496) comincia già a distinguersi la diocesis, talvolta ancora definita parochia / paroëcia o ecclesia, in riferimento alla chiesa sede del vescovo e per estensione al suo territorio di pertinenza, e parochia / paroëcia per la chiesa amministrata da un prete che dipendeva dall’autorità vescovile, con funzioni proprie e ben determinate, che mancavano invece alle chiese minori, in particolare gli oratori privati. Solo più tardi dunque col termine “diocesi” si farà riferimento a una circoscrizione territoriale entro la quale un vescovo esercita i molteplici aspetti della propria autorità, mentre i termini utilizzati nelle fonti scritte (pontificie, conciliari, episcopali, ecc.) dell’Alto Medioevo per indicare le chiese rurali dipendenti sono diversi e il loro uso pone spesso non pochi problemi interpretativi, innanzitutto sul rapporto gerarchico esistente tra la sede vescovile e queste sedi decentrate, costituite a garanzia di una più capillare diffusione del cristianesimo nelle campagne, ma solo in parte finalizzate al controllo, da parte dei vescovi, del territorio di loro pertinenza. A tal proposito è opportuno notare che nei primi secoli, nella ripartizione delle aree diocesane, vi era la tendenza a far corrispondere il territorio sul quale un vescovo aveva giurisdizione con quello della civitas in cui era stabilita la sua sede vescovile; con Gelasio I, sullo scorcio del V secolo, a questo criterio che è stato definito di “territorialità”, sembra contrapporsi un criterio più “personale”, basato sul principio secondo il quale la diocesi non era costituita da un’area predefinita, che ricalcava quella civile, ma piuttosto dal popolo dei fedeli che faceva capo al vescovo, al quale si rivolgevano per l’amministrazione del battesimo e della cresima. Questo principio è importante, in quanto venne ricalcato dal sistema di cura d’anime nelle campagne, nel momento in cui si assistette al decentramento, presso le chiese rurali, di alcune funzioni che un tempo erano esclusive del vescovo.

Nello stesso epistolario gelasiano troviamo infatti la testimonianza che in quel momento i fedeli solevano recarsi presso le chiese rurali per ricevere il battesimo; d’altra parte la celebrazione della sinassi eucaristica domenicale in luoghi di culto sparsi nelle campagne è già attestata dal IV secolo, anche se è concessa in canoni conciliari solo a partire dal V propter fatigationem itineris, ossia per evitare che gli abitanti delle campagne si sottoponessero a un lungo viaggio per partecipare all’eucarestia presso le sedi urbane. Come documentato da una lettera del pontefice Damaso (366-384) indirizzata ai vescovi della Gallia, alla fine dello stesso IV secolo, diaconi e presbiteri cominciarono a poter ufficialmente amministrare il battesimo per paroëcias, dunque presso le chiese rurali: tale consuetudine doveva già essere comunque diffusa, anche se la sanzione papale potrebbe avvalorare l’eccezionalità del fatto. Una prima attestazione di una chiesa con funzione battesimale ubicata in ambito rurale si ha in una lettera del 443 di Leone Magno (440-461): tale chiesa, già esistente nel 417, era ubicata nel territorio diocesano di Lilybaeum, l’odierna Marsala in Sicilia.

Dopo la testimonianza damasiana, anche in altre aree, quali quella centroitalica o la Penisola Iberica, l’amministrazione del battesimo e di altri sacramenti venne sempre più frequentemente delegata a membri del clero stabiliti presso le chiese battesimali, definite ancora una volta paroëciae nelle lettere di Gelasio I: questi edifici di culto dovevano fin dall’origine essere assegnati alle rispettive diocesi, e non potevano essere staccati da queste, anche se ai fedeli che stabilmente appartenevano a una determinata sede episcopale secondo una struttura rigida era consentita una certa libertà di scelta nell’afferire a una chiesa battesimale piuttosto che a un’altra. Questa mobilità è indicativa da una parte della necessità di agevolare la conversione di popolazioni non ancora interamente cristianizzate, dall’altra di come le chiese battesimali di diritto vescovile fossero ancora di recente istituzione e soprattutto non avessero ancora raggiunto un completo sviluppo istituzionale. Le restrizioni di Gelasio circa gli oratori privati, sia che si trattasse di fondazioni dovute all’evergetismo di chierici, sia volute dai laici, mostrano come tale istituto fosse a quell’epoca ormai diffuso; i divieti del pontefice riguardavano in particolare l’amministrazione del battesimo e dunque la costruzione di battisteri, nonché l’insediamento di un prete stabile. In ogni caso per la loro consacrazione era indispensabile l’autorizzazione del papa, che comunque non dovette mancare in diversi casi, in un’apparente contraddizione alle disposizioni dello stesso pontefice.

Nonostante alcune eccezioni, Pelagio I (556-561) dovette confermare i divieti, segno evidente che la pratica della fondazione di battisteri e la stabilizzazione del clero presso gli oratori privati continuava ad attestarsi e a preoccupare le autorità religiose; e così sarà nell’età di Gregorio Magno (590-604), che esprime nel suo epistolario le stesse formule restrittive nei confronti di queste diffuse attestazioni. Nelle stesse lettere appare evidente la distinzione tra chiese battesimali e semplici oratori, anche se, come nota C. Violante, non vi è alcun accenno a un’autorità giurisdizionale delle prime nei confronti delle chiese private, a dimostrazione che ancora al principio del VII secolo la struttura delle istituzioni pievane era in una fase incompleta. Ciò che è opportuno porre in rilievo è l’intensa e vasta opera di cristianizzazione promossa personalmente da Gregorio Magno, impegnato nel non far mancare la cura animarum alle popolazioni delle campagne: i suoi provvedimenti, talvolta apparentemente accomodanti, sono tutti rivolti a questo fine.

L’aumento delle chiese battesimali, che per diverse aree, come la penisola italica, la Spagna e la Gallia, è attestato in base alle testimonianze documentarie nel corso dei secoli VI e VII, con un ulteriore incremento nei secoli successivi, dovette con tutta probabilità avere come effetto una progressiva fissazione dei fedeli che facevano riferimento a ciascuna chiesa battesimale: in tal modo veniva circoscritto il territorio di pertinenza delle singole chiese. In questo momento comincia a comparire nelle fonti il termine plebs, in riferimento sia alla chiesa dotata di battistero, sia alla sua circoscrizione territoriale entro la quale avveniva la cura d’anime di un popolo di fedeli ormai determinato. Le fonti mostrano altresì come negli stessi secoli si assista a una strutturazione territoriale, conseguente all’aumento delle parrocchie, che determinò anche ulteriori regolamentazioni, anche se le stesse fonti (ad es., i canoni dei concili iberici di Tarragona, del 516, e di Mérida, del 666) mostrano come la stessa ripartizione dei territoria ecclesiatici (diocesani e parrocchiali) fosse ancora instabile e non determinata. Con tutta probabilità inoltre, come sembrano confermare anche le indagini archeologiche, nelle aree in cui il numero delle sedi diocesane era piuttosto basso (per cui si deve pensare a vasti territori di pertinenza di ogni singolo vescovo, ma anche a zone non controllate) si aveva una maggiore concentrazione di sedi parrocchiali.

Per la costituzione di una parrocchia erano comunque necessarie condizioni di popolamento rurale consistente, tanto è vero che la nostra documentazione ci attesta l’inserimento di parrocchie in vici, castra, ville, destinate appunto a costituirsi in plebes. Alla metà del IX secolo il termine plebs era ormai d’uso comune, soprattutto in riferimento all’edificio di culto: plebes, idest baptismales ecclesias, scriverà Nicolò I (858-867) in una sua lettera, dando una spiegazione quasi canonica del suo significato, diffuso dapprima a livello popolare e solo successivamente accettato negli atti ufficiali. Ma appare importante che nell’evoluzione dell’organizzazione ecclesiastica “plebana” venga ammesso un principio che sembra richiamare quello che già in età gelasiana, alcuni secoli addietro, riconosceva la definizione di un territorio diocesano in base al popolo dei fedeli che facevano riferimento, per l’amministrazione dei sacramenti, a un determinato vescovo piuttosto che a un altro: per un processo analogo, sebbene non imitativo, con plebs si individuava ora il territorio di una chiesa battesimale e lo stesso edificio di culto officiato da un prete stabile, ma ciò che determinava la circoscrizione territoriale di ciascuna chiesa battesimale, ossia la pieve, era il popolo dei fedeli che a essa si riferiva per le celebrazioni liturgiche e per l’amministrazione dei sacramenti.

Nel momento in cui la chiesa battesimale si identifica con la pieve, sembra quasi formarsi un nuovo livello gerarchico degli uffici e delle funzioni degli edifici di culto: oltre alle chiese matrici, sedi vescovili con rispettive circoscrizioni diocesane, alle chiese battesimali con i territori parrocchiali e agli oratori privi di propria circoscrizione e spesso anche di un prete stabile, si avranno infatti alcuni oratori che, sottoposti alle pievi, cominceranno via via ad acquistare alcune funzioni di cura d’anime nei riguardi di un nucleo di fedeli e dunque avranno un nuovo territorio. Queste nuove parrocchie, sottoposte in qualche modo alle pievi, avranno un clero residente e propri territori parrocchiali, ed entro questi ambiti si troveranno, a questo punto al quarto livello gerarchico, gli oratori privati, detenuti a vari titoli. La definizione di pievi e parrocchie in senso moderno è però affermata dai corpora giuridici solamente a partire dall’XI secolo e in particolare nella Concordia discordantium canonum, il Decretum di Graziano da Chiusi, successivo al 1139.

Non bisogna comunque dimenticare il ruolo che nell’opera di cristianizzazione dell’ambiente rurale dovette avere il monachesimo, cenobitico ma anche eremitico, con figure che costituirono semplici esempi nella loro particolare condotta di vita. In alcuni territori in particolare i grandi monasteri ebbero un certo peso anche nella stessa organizzazione ecclesiastica: si pensi, ad esempio, all’Irlanda, dove all’aumento delle sedi monastiche sparse nelle campagne corrispose una diminuzione delle diocesi (che inizialmente ricalcavano le circoscrizioni civili, secondo il principio della territorialità), numerosissime già all’indomani dell’introduzione del cristianesimo, probabilmente avvenuta intorno alla metà del V secolo, assai poche nel secolo successivo, quando a un clero prevalentemente secolare ed episcopale si sostituì un clero definito “monastico”, soggetto al forte potere degli abati. In questa particolare organizzazione molti vescovi, in quanto monaci, dovevano sottostare all’abate del monastero dal quale dipendevano, anche se paradossalmente questo era subordinato al potere vescovile. A ogni modo i monaci irlandesi, insieme a quelli inglesi, ebbero nei secoli successivi un significativo ruolo nella cristianizzazione di altre aree dell’Europa centrale e settentrionale: la loro opera evangelizzatrice risultò certamente efficace più di ogni altra imposizione dettata dalla gerarchia ecclesiastica.

Nelle aree centrali dell’Europa e soprattutto nelle regioni nordiche la cristianizzazione fu comunque un fenomeno assai tardivo: si pensi alle regioni interne della Germania, come la Turingia, che conobbe il cristianesimo intorno all’VIII secolo, alla Polonia, cristianizzata a partire dalla fine del X secolo, alla Danimarca, all’Islanda e alla Groenlandia, che conobbero il cristianesimo tra la fine del X e i primi decenni dell’XI secolo, alla Scandinavia, dove i primi tentativi di introdurre la religione cristiana risalgono al IX secolo, anche se solamente nell’XI secolo cominciarono a evidenziarsi gli effetti di un’opera di conversione di massa portata avanti da monaci, mentre perduravano ancora forme cultuali pagane. Ovviamente nelle stesse aree geografiche anche la struttura organizzativa della Chiesa si data a fasi cronologiche assai più tarde rispetto a quanto avvenne nei Paesi mediterranei (fatta eccezione per le regioni balcaniche, dove la precoce cristianizzazione subì un’interruzione nell’età delle Migrazioni, per riprendere in alcune aree solo tra il IX e l’XI sec.) o nelle Isole Britanniche. Si sottolinea però il fatto che, rispetto alle aree in cui l’evoluzione dell’organizzazione delle strutture della Chiesa fu un processo lento che si risolse – assumendo anche forme differenti – nell’arco di molti secoli, nelle regioni in cui il cristianesimo divenne una religione diffusa solamente intorno al Mille, o anche successivamente, la Chiesa organizzò le proprie strutture territoriali in tempi molto brevi, anche perché coloro che si impegnarono nell’opera missionaria provenivano da aree, come la Gallia, dove le istituzioni ecclesiastiche nella loro strutturazione gerarchica si erano ormai affermate. La Polonia ebbe, ad esempio, una divisione in circoscrizioni ecclesiastiche diocesane e conseguentemente parrocchiali negli ultimi decenni del X secolo, la Danimarca nella seconda metà dell’XI secolo, mentre in altre regioni quali la Prussia e i Paesi scandinavi tale strutturazione si pose in tempi ancora successivi.

Da un punto di vista archeologico, i criteri distintivi di una chiesa rurale destinata alla cura d’anime possono identificarsi nell’esistenza di un battistero, di un’area cimiteriale e ovviamente di un’aula destinata al culto; ma a essa si raccordano talvolta anche una scuola, un ospizio e la canonica, la cui evidenza architettonica o archeologica è altamente aleatoria e dunque di difficile identificazione. Occorre comunque sottolineare che, in assenza di fonti d’altro tipo, non si può assolutamente essere certi dell’identificazione di un edificio di culto con funzione parrocchiale e dunque ufficialmente destinato alla cura d’anime delle popolazioni delle campagne, sebbene dotato di battistero e al quale è annessa un’area funeraria. Questi elementi, benché di pertinenza di una parrocchia rurale, potevano infatti riferirsi, come testimoniato dalle fonti, anche a chiese di fondazione privata, a oratori, a monasteri, a sedi episcopali rurali. Significativo a tal proposito è il caso del complesso di San Giusto presso Lucera, in Apulia, dove indagini recenti hanno rimesso in luce due basiliche a impianto longitudinale a tre navate, di notevoli dimensioni, una destinata alle funzioni liturgiche, la seconda con esclusiva destinazione funeraria, collegate da un nartece a un battistero circolare all’esterno e ottagonale all’interno, dotato di vasca battesimale quadrilobata. Il complesso cultuale, al quale erano annessi diversi ambienti di servizio, venne edificato alla metà del V secolo presso una grande villa residenziale di piena età imperiale e rimase in uso fino al successivo VII secolo. Circa la sua destinazione sono state formulate più ipotesi: potrebbe trattarsi di una ecclesia baptismalis con funzione parrocchiale, dipendente dal vescovo di Luceria o in alternativa da quello della vicina Aecae, oppure una chiesa di fondazione privata, da connettersi all’attività evergetica di un assai facoltoso personaggio, come sembrerebbero suggerire le ampie dimensioni delle aule di culto, dotate tra l’altro di una sontuosa pavimentazione musiva; un’ultima ipotesi, forse la più plausibile, porterebbe a identificare il complesso con la sede di una diocesi rurale, forse quella dell’episcopus Carmeianensis noto in fonti di fine V - inizi VI secolo. La prima ipotesi non escluderebbe l’ultima e si potrebbe infine proporre per San Giusto, analogamente a quanto verificato per altri contesti, un’originaria funzione parrocchiale che precedette la costituzione della sede diocesana rurale, stabilita in un ambito non urbano (forse presso un vicus) presumibilmente per fare fronte a condizioni di un consistente popolamento del territorio.

Il caso di San Giusto può essere esemplificativo delle difficoltà di inquadrare qualitativamente un complesso cultuale rurale, ossia di stabilirne con esattezza la funzione. Lo stesso può dirsi per un elevato numero di chiese rilevate archeologicamente, alle quali sono annessi battisteri e aree funerarie: il loro ruolo nella cura animarum delle popolazioni che abitavano le campagne circostanti è indubbio, ma in assenza di espliciti riferimenti nelle fonti scritte non si può essere certi del posto che tali edifici di culto occupavano in una struttura organizzativa ecclesiastica. A ciò si aggiunga il fatto che per gran parte di essi la funzione di chiese parrocchiali è documentata assai tardivamente, ma tale funzione poté essere stata acquisita solo in un secondo momento: in tal modo cappelle private, anche dotate di battistero, potevano essere originariamente prive di un proprio territorio e di un prete stabile e solo successivamente strutturate in un’organizzazione parrocchiale; ovvero sedi diocesane rurali furono talvolta “declassate” a semplici parrocchie, secondo quella tendenza dinamica che caratterizzò fin dalle origini la struttura che la Chiesa stabilì a garanzia della cura d’anime delle popolazioni rurali.

Non è possibile elencare nemmeno una parte delle numerose chiese battesimali, tenendo anche conto che per molte di esse, in assenza di precisi dati stratigrafici, è difficile comprendere appieno le fasi e stabilire una cronologia certa; può tuttavia considerarsi che in genere gli edifici erano di piccole dimensioni, spesso semplici aule mononave con battistero annesso, costituito spesso da un piccolo ambiente addossato all’abside o comunque collegato all’area presbiteriale, dotato di un fonte battesimale di ridotte dimensioni e di semplice forma. Tra gli edifici di tipologia così elementare si pensi, ad esempio, alla chiesa di S. Giovanni Battista di Nurachi, in Sardegna, costruita presso una statio e datata al VI secolo in base ai dati stratigrafici: l’aula rettangolare absidata, larga appena 4 m e con meno di 9 m di lunghezza, è affiancata da due ambienti laterali quadrati, con un lato di circa 2,5 m, posti nell’area presbiteriale, che conferiscono all’edificio una pianta a croce latina; l’ambiente sud era destinato a battistero, con una vasca di piccolissime dimensioni, circolare all’esterno e quadrilobata all’interno. Poco più ampi sono l’aula destinata alla sinassi e il battistero di S. Maria di Rescamone in Corsica, databili alla metà dello stesso VI secolo, che mostrano un’analoga disposizione degli spazi. Non mancano casi in cui è assente l’ambiente destinato ad accogliere la vasca battesimale, che è invece inserita all’interno della stessa chiesa: tra gli esempi, comunque numericamente limitati rispetto a quelli in cui chiesa e battistero sono distinti, anche se intimamente connessi da un punto di vista strutturale, si ricorda la chiesa edificata nel V secolo a Fiera di Primero, in provincia di Trento.

Non mancano certamente aule di più vaste dimensioni, scandite da più navate, talvolta dotate di ricche decorazioni, con battisteri e vasche di planimetrie e tipologie più complesse; naturalmente bisogna pensare in questi casi a una committenza più elevata, sia laica sia ecclesiastica, o a nuclei di popolazione più consistenti. Si possono anche a tal proposito fare alcuni esempi. Partendo dall’area centro-italica, in cui si ritrovano tra l’altro chiese battesimali con datazioni assai alte, si ricorda la chiesa di S. Stefano, fatta costruire dalla nobildonna Demetriade tra il 440 e il 461 nell’area della villa degli Anici, al III miglio della via Latina, dunque non distante da Roma: l’aula a tre navate è ampia 29 x 19 m e un ambiente addossato all’abside fungeva da battistero, con vasca ottagonale all’esterno e circolare all’interno dotata di due gradoni che le conferivano una singolare forma, simile a una conchiglia. Del problematico ma eccezionale caso di San Giusto di Lucera si è già ampiamente trattato, mentre si richiamano, per le planimetrie più articolate, per la ricchezza degli impianti decorativi, per la varietà tipologica delle vasche gli esempi di alcune aree, come l’Hispania e le Baliares: si ricordano solamente la basilica di Es Fornàs de Torelló a Minorca, in cui le sontuose decorazioni pavimentali dell’aula contrastano con la semplicità e le piccole dimensioni della vasca, o quella di Cap de Port a Fornells, sempre a Minorca, con una vasca cruciforme a lati curvi e fondo circolare gradato, o ancora la chiesa di Son Peretó-Sa Carrotja di Manacor a Maiorca, dotata di due vasche battesimali, probabilmente non coeve, ambedue cruciformi, una delle quali di notevoli dimensioni.

Considerando l’intensa opera evergetica che si pone all’origine di un gran numero di fondazioni, talvolta le aule di culto destinate alla sinassi liturgica e i battisteri dovettero adattarsi ai contesti entro i quali furono inseriti, in particolare in quei casi in cui vennero donate strutture ancora in elevato, soprattutto appartenenti a ricche ville rustiche, da destinarsi alle nuove esigenze d’uso; la necessità di riutilizzare per quanto possibile tali strutture già esistenti giustifica gli inconsueti assetti planimetrici degli edifici cultuali e in alcuni casi la forma della vasca battesimale. Gli esempi potrebbero essere innumerevoli, ed è altresì difficile stabilire un ordine tipologico, date le particolarità che caratterizzano ogni singola fondazione, a cui concorrono cause e volontà diverse, differenti possibilità economiche, necessità di utilizzare le preesistenze in alternativa a edificazioni ex novo, la conoscenza di modelli e tradizioni costruttive anche a limitata diffusione areale, le stesse esigenze legate alla densità di popolazione, all’estensione dei territoria delle parrocchie e delle pievi, e quant’altro.

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