L'età del comune

Storia di Venezia (1992)

L'età del comune

Giorgio Cracco

La città "bifronte"

L'idea di "un'età aurea"

L'importanza fondante - per la città-Stato di Venezia - dell'epoca che va dalle origini del comune (1140 circa) alla fine del Duecento è stata largamente recepita dalla storiografia che più volte si è concentrata, spesso con sottolineature trionfali, sugli eventi di questo lungo periodo, primo fra tutti la conquista di un impero in Oriente a seguito della quarta Crociata. Ne può essere esempio e prova uno studioso come Roberto Cessi, che dopo aver fatto rientrare quest'epoca nell'"età aurea del principato", continuò a connotarla in termini di felice "espansione", anzi di incipiente "egemonia mediterranea" sul piano economico-politico, e di fortunata "evoluzione" su quello sociale e delle istituzioni di potere (1). Anche Frederic C. Lane si soffermò ammirato davanti alla stessa epoca, che con la conquista di Costantinopoli "fece di Venezia una potenza imperiale", sempre più incentrata, anche nei suoi monumenti-simbolo (la basilica di S. Marco), sull'Oriente mediterraneo (2).

Pertanto, all'atto di produrre un volume dedicato all'"età del comune", non si poteva non tenere conto dell'eredità di questa storiografia e quindi privilegiare ancora le categorie della "crescita", dell'"espansione", addirittura del "salto di qualità". Del resto, anche a noi piace il profumo antico di un'epoca - quella della quarta Crociata - che non a caso è entrata nel mito.

Ma una volta confermata l'idea di "un'età aurea", non è mancato lo sforzo di andare alle radici per collocarla in una più giusta prospettiva. È la strada percorsa dai contributi di questo volume, che sono altrettanti approcci al "miracolo" di Venezia. La domanda, esplicita o implicita, sottesa a tutti, è una sola: come accadde che Venezia riuscì a collocarsi, proprio in quest'epoca, sul tetto del mondo?

E la stessa domanda si pone questa introduzione, che pertanto non vuole essere affatto una guida alla lettura del volume, ma un discorso d'insieme, incentrato su alcuni temi cruciali, che arrampicandosi sugli altri contributi, come nano sulle spalle di giganti, propone qualche dato in aggiunta e qualche idea in più.

Un periodizzamento ardito: "l'età del comune"

Il secolo e mezzo circa di storia che va dalla metà del XII alla fine del XIII secolo è stato individuato - è il titolo che abbiamo scelto per questo volume - come "l'età del comune". È un titolo di cui va sottolineata, in rapporto con la tradizione storiografica veneziana, una certa dose di novità. Non era consuetudine, infatti, connotare quest'epoca con un riferimento univoco all'istituto del comune. Roberto Cessi, ad esempio, vide nel Medioevo veneziano soltanto due epoche: "l'età ducale" (protratta fino alla quarta Crociata) e "l'età aurea del principato" (dagli inizi del XIII alla fine del XV secolo), confinando l'avvento del comune, spiegato in poche pagine, all'interno della prima: a lui sembrava, infatti, che il comune, lungi dal costituire un evento qualificante di lungo periodo, fosse solo una trovata "tecnica" in più, che "riaffermava la sovranità impersonale dello Stato" (3).

Neppure Gina Fasoli, esperta di feudi e comuni europei e quindi portata a utili raffronti, riuscì a porre in primo piano il comune veneziano, pur avendo dedicato ad esso un saggio importante. Difatti, al momento di definirlo, si fermò a mezza strada, prigioniera del mito della "città unica al mondo" che non aveva avuto un passato feudale, che non aveva mai conosciuto l'egemonia di un vescovo, dove da secoli vigeva il primato di un ducare o comunque di un duca con insegne regali: il comune di Venezia aveva poco a che vedere con i comuni di terraferma e restava quindi un'esperienza "alquanto diversa", condizionata dalla "fedeltà al modello bizantino ed al senso dello stato che gliene derivava". Come dire che non ebbe peso se non come svolgimento interno di un meccanismo di potere - lo spostarsi del "centro di gravità dell'organismo politico veneziano dal doge ad una cerchia di notabili" - destinato a sublimarsi in uno Stato come "opera d'arte" (4).

Fu piuttosto Frederic C. Lane a valorizzare sia il comune veneziano sia l'età del comune. Un capitolo della sua Storia parla del passaggio "dal ducato al comune" e anche dello "sviluppo delle strutture comunali" fin oltre la fine del Duecento; ma in quale prospettiva?. Quella di non smentire del tutto l'antico, duplice mito della "nascita indipendente e sovrana di Venezia" (che presuppone il conferimento del potere dal basso), e della sua "felicità" sociale e politica (tutti gli abitanti sempre concordi e intenti a procurare la "gloria della città"). Non sorprende allora che il comune di Venezia sia visto, "sotto nuovo nome e con una struttura che si venne trasformando via via", come "una continuazione del ducato", ossia come una realtà ben diversa da quella degli altri comuni (che "ammettevano una sovranità teorica dell'imperatore o del papa"), se si esclude il ruolo dell'aristocrazia, che fu decisivo dappertutto, ma altrove ebbe effetti distruttivi a causa dei conflitti con il popolo, mentre a Venezia tutti "conservarono il loro lealismo unitario verso il comune". Insomma, più che il comune, è la continuità del "regime aristocratico" a interessare Lane, ossia un regime che in fondo riguarda l'intera parabola della storia veneziana (5).

E lo stesso interesse non tanto per il comune, che difatti è studiato solo fino al 1204 per poi lasciar posto allo "Stato", bensì per il ceto di governo, anzi per la nascita di un ceto di governo dalle origini della città fino alla "serrata del maggior consiglio", muove più di recente il lavoro di Gerhard Rösch(6).

Perciò è un fatto nuovo l'avere scelto per quest'epoca il titolo di "età del comune". Significa voler far leva su una scansione inedita, ma ben più netta e penetrante; una scansione che induce a riaprire i problemi già noti e anche a riscoprirne di nuovi, con l'effetto di far progredire non poco le conoscenze sulla storia della città.

Una città che guarda anche a Occidente

Quante definizioni qualificanti per il XII secolo, l'età in cui si colloca l'esordio del comune veneziano: secolo dei comuni, dell'economia che si rinnova, delle Crociate, delle eresie, della ripresa del diritto, delle nascenti università, del "risveglio della vita evangelica", e così via. Sennonché, a ben guardare, definizioni siffatte riguardano sempre il Medioevo europeo, non già, se non per qualche aspetto, Venezia, e men che mai l'Oriente, che con Venezia, come si dà per ovvio, era tutt'uno.

Così si è spesso ragionato rafforzando sempre più l'idea di una "storia separata". Di qui una serie di "topoi": Venezia che ebbe un comune "alquanto diverso"; Venezia che restò ai margini delle prime Crociate (solo la quarta, ormai "secolarizzata", la coinvolse davvero); Venezia immune da eresie, Venezia che non ebbe un suo Studio, e così via. Ma più di recente si è innestato un processo contrario, teso a riscoprire il "cuore europeo" di Venezia, l'"occidentamento" della città: non solo per via di rapporti organici, politici e commerciali, con l'Impero tedesco fin dal 962 (7), ma anche, se non soprattutto, per il suo deciso integrarsi dentro il tessuto dell'"unitas catholica" di Roma proprio nel corso di questo XII secolo (come istituzioni, come Chiesa e anche "ideologia"), pur conservando caratteri suoi propri (8).

Venezia che si occidentalizza, che si colloca nel grande quadro della cristianità europea del XII secolo: perché allora non vedere anche il fatto del comune, che è coevo, nel contesto dell'Occidente cristiano? Andrea Castagnetti, nel suo contributo dedicato al "primo comune", ha fatto un passo enorme in questa direzione: i Veneziani, egli osserva, ben conoscevano l'esperienza dei comuni del Regno Italico; anche a Venezia ci fu un rapporto, tipico nei comuni dell'entroterra, "fra città e contado" se si tien conto dell'ascesa di Rialto sugli altri centri del ducato. Anche se poi, sulla laguna, non si trovano consoli e neppure podestà, e il titolare del vecchio regime, il duca, rimase al suo posto (la cosiddetta "via veneziana al comune") (9). Ma, salve le differenze, un fatto rimane: la città, che da secoli viveva d'Oriente, che da secoli mutuava dall'Oriente perfino i titoli d'onore dei suoi duchi, assunse una forma di reggimento che l'Oriente non conosceva, né conoscerà mai, adeguandosi in maniera vistosa alla "civilitas" dell'Occidente.

Si può forse dire di più: che con il comune emigrarono sulla laguna altre novità tipiche dell'Occidente del XII secolo. Ma questo comporta un cenno a parte, anche perché viene a toccare un tema delicato: quello dell'incidenza del "religioso" dentro la storia tradizionalmente tutta "civile" della città.

Il peso della " variante negata"

Uno studioso come Hagen Keller sostiene che dietro l'origine dei comuni è da vedere il bisogno di cambiare non certo il sistema dei valori allora vigente - secondo il quale ogni potere era di origine divina e discendeva dall'alto -, bensì i protagonisti tradizionali dello stesso (re, duchi, marchesi, conti, vescovi), dei quali si condannava l'incapacità a garantirlo nei termini della giustizia e della pace (gli unici termini allora attesi e pretesi dalla comunità cristiana). In altre parole, l'avvento del comune in quanto assunzione di poteri da parte di un gruppo sarebbe sulla linea dei "fermenti religiosi" che tra XI e XII secolo impressero una svolta positiva alle forme di convivenza tra i diversi "ordini" sociali (10).

Applicata a Venezia, una prospettiva siffatta sembra priva di senso. Già la Fasoli aveva ricordato che sulla laguna i vescovi e gli abati non esercitarono affatto "funzioni pubbliche" come i vescovi e gli abati di terraferma, e che quindi la riforma gregoriana non comportò per nulla un loro declino (il declino di cui avrebbero approfittato i "cives" per fondare il comune) (11). Come a dire: Venezia non conobbe fermenti religiosi importanti. Ma un giudizio siffatto risente troppo del mito tutto civile della Repubblica, ossia dell'idea che la storia di Venezia consistette quasi del tutto nella sua identità profana (Stato, traffici, ricchezze), e per nulla o molto secondariamente in quella religiosa.

Che le cose non stessero esattamente così, risulta invece da più dati. Ad esempio, fin dagli inizi del XII secolo si riscontra un oggettivo divaricarsi della "pietas" lagunare tra s. Marco, il patrono del duca rilanciato con l'"inventio" del 1094, e s. Nicola, il patrono traslato e requisito dall'alto clero in accordo con i mercanti all'indomani della prima Crociata: segno che i culti non solo "pesavano", ma anche veicolavano tensioni in atto tra le forze locali (12). Sempre negli stessi anni si registra una significativa apertura - un fatto nuovo per l'esclusivo mondo lagunare a influssi monastici stranieri di tipo cluniacense, con trasferimento sulla laguna di religiosi stranieri (13), Inoltre, verso il 1107, ben undici Veneziani figurano, accanto ai grandi della cristianità d'Occidente come Urbano II e l'abate Ugo di Cluny, nel cosiddetto Liber vitae di Polirone - segno dell'appartenenza spirituale a quella grande "familia" monastica -: tra essi membri di famiglie (Michiel, Badoer, Polani) poi protagoniste a vario titolo del rinnovamento del ducato e della Chiesa nel corso del XII secolo (14). Infine sempre in questi anni, al tempo di Pasquale II, compare un cardinale di estrazione lagunare, Stefano Stornato, il primo che si conosca (subito dopo ce ne sarà un secondo, Pietro Gradenigo) (15): segno di un collegamento importante tra il ducato e la curia romana, o forse, addirittura, di qualcosa di più.

Il qualcosa di più risulta da due fatti: verso il 1140 il pievano di S. Salvatore Bonfilio Michiel (un altro Michiel, si noti) scelse di praticare insieme con i suoi chierici - con la spinta determinante del patriarca di Grado Enrico Dandolo - la vita comune secondo la regola di s. Agostino, trasformando la sua chiesa in canonica regolare; circa dieci anni dopo, attorno al 1150, presso la chiesa di S. Clemente un altro gruppo di chierici decise di darsi ugualmente alla vita in comune. La vita comune del clero anche a Venezia; anche Venezia partecipe di quella "stagione canonicale" che allora stava vivendo la Chiesa d'Occidente come esito maturo della riforma gregoriana. Di tutto ciò occorre segnalare sia la valenza squisitamente religiosa (nel senso dell'emergere di un rapporto nuovo, più "evangelico", tra clero e laicato), sia l'impatto potente sulle istituzioni (ogni canonica era di per sé un ente immune, cioè sottratto a ogni autorità locale e soggetto alla sola Sede Apostolica, un vero e proprio "distaccamento" di Roma entro il territorio ducale). Ne derivò un aspro conflitto, che vide da una parte il duca Pietro Polani affiancato dal vescovo locale Giovanni (suo figlio), e dall'altra papa Innocenzo II che operava in simbiosi con un altro ecclesiastico locale, il patriarca di Grado Enrico Dandolo (16).

Non occorre addurre altri fatti: a questo punto è chiaro che per alcuni decenni di questo secolo XII il problema religioso - la "variante negata" - esplode con una forza tale da sconvolgere a fondo il mondo lagunare, prospettandone addirittura una nuova collocazione: verso Roma, verso il cuore della cristianità d'Occidente. Siamo, si ricordi, proprio negli anni in cui a Venezia compare il comune. In altri termini, l'idea di Keller, che la nascita del comune risenta dei "fermenti religiosi" dell'epoca, potrebbe trovare riscontro anche sulla laguna.

Un "eroe" di Chiesa

Ogni fase storica cruciale ha i suoi protagonisti di spicco, i suoi "eroi". Nella storia di Venezia gli "eroi" sono di solito grandi laici, quasi sempre duchi: ad esempio, attorno al Mille, gli Orseolo; nel Duecento, un Pietro Ziani, i Dandolo e i Tiepolo. L'idea di una grandezza solo "civile" turbava uno storico come Giuseppe De Luca, che andava alla ricerca di "uomini di pietà", di "eroi" religiosi (17). Orbene, avesse potuto studiare quest'epoca del primo comune, De Luca avrebbe forse trovato un personaggio a lui congeniale: il sopra citato patriarca di Grado Enrico Dandolo.

La sua famiglia - i Dandolo del confinio di S. Luca - era tra le maggiori della laguna: ricca di immobili (terre e case) e di liquidi (per migliaia di bisanti d'oro), attivissima nei traffici e perciò sempre in movimento tra Venezia e Costantinopoli, ai vertici del potere con i suoi membri, che più volte divennero giudici ducali e avvocati dei maggiori monasteri; una famiglia, insomma, che con le opportune alleanze poteva benissimo aspirare al seggio ducale. E si può perfino pensare che la elezione di Enrico al patriarcato sia stata il "compenso" concesso ai Dandolo per avere lasciato via libera ai Polani nella corsa a quel seggio. Ma Enrico, una volta divenuto patriarca (sembra nel 1135), non si limitò a una gestione "familiare" della carica: gli si attribuisce non soltanto una vita esemplare, ma anche un'adesione convinta alle idee gregoriane in tema di "libertas" (così com'erano mediate da Bernardo di Chiaravalle, il forte pilastro della Chiesa di allora), e quindi la volontà di riscattare a tutti i costi la Chiesa da ogni controllo laico. In effetti fu lui il vero ispiratore della svolta canonicale in S. Salvatore e in S. Clemente: svolta che poi sostenne, d'accordo con il papa, contro il duca e il vescovo; fu lui a opporsi allo stesso duca, che aveva deciso di concedere aiuto armato all'imperatore di Bisanzio insidiato dall'espansionismo dei Normanni, con l'argomento - sostenuto nelle prediche al popolo che gli "scismatici" (tali erano i Bizantini per la Chiesa di Roma) non dovevano essere aiutati; fu lui ad assecondare in tutto e per tutto, contro la linea del ducato, il progetto papale di fare del patriarcato di Grado il centro di una struttura metropolitica che abbracciasse sia le Chiese della Dalmazia settentrionale (per questa via sottratte all'influsso ungherese e normanno), sia le Chiese orientali controllate dai Veneziani (a danno degli "scismatici" e a esaltazione dei "cattolico-romani"): anche se tutto questo gli costò persecuzioni e condanne, i suoi parenti e seguaci cacciati da Venezia, le loro case rase al suolo, l'assassinio dello stesso Bonfilio Michiel.

Ma egli non cedette mai, e verso il 1150 ebbe, anzi, la sua rivincita: vide i propri familiari tornare in patria, le loro case ricostruite a spese del comune; e in seguito, quando fu decisa l'alleanza con il papato contro il Barbarossa, in fondo fu la sua linea a prevalere, che era quella, per lui prioritaria, dell'integrazione di Venezia dentro la Chiesa di Roma. E con un eroe così, per circa mezzo secolo il vero "spiritualis pater" della laguna (tale l'aveva definito uno dei suoi papi), e artefice fervido della riscossa del "religioso" (18), è ancora possibile parlare della nascita del comune veneziano come di un fatto di riassetto delle sole strutture "civili"?

Un comune di frontiera

Il "religioso", anzi il "sacro" è ancora di mezzo: perché può servire da chiave di volta per meglio inquadrare la "via veneziana al comune". Un fatto è chiaro: con l'avvento del comune la figura maestosa del duca impallidiva, mentre saliva alla ribalta il volto indistinto della comunità. Era un cambiamento enorme perché toccava riferimenti profondi, quelli in cui si riconosceva da secoli l'intera città.

Fin dalle origini di Venezia la figura del duca si era evidenziata soprattutto, in termini di regalità sacra: il duca, anche per i simboli che esibiva ("regalia insignia"), era un re, e come re aveva innanzitutto il ruolo di signore e custode della religione patria con tutto il clero annesso, che era "suo", ed era responsabile primo della salvezza dei sudditi, anch'essi "suoi". Non per nulla tra i compiti maggiori da assolvere - con l'aiuto del santo protettore Marco, che ugualmente era "suo" - c'era la costruzione o il restauro di chiese e monasteri nonché il soccorso materiale, con continue elargizioni, alle folle dei poveri.

Con l'avvento del comune la regalità sacra del duca crolla a picco e nulla è più "suo": non le chiese e i monasteri, che vengono sottratti, come risulta anche dalla "promissio" che giurerà, al suo controllo; non il popolo, che ora s'impegna a obbedire ai "sapientes" e non al duca; e neppure lo stesso s. Marco, trasformato in titolare dell'"honor" della comunità. Al duca vengono sottratti perfino i segni distintivi: non impugna più lo scettro tipico dei re, ma il vessillo di s. Marco, che diventa il simbolo del comune; e anche i pochi segni che gli lasciano - così afferma Boncompagno nel 1173 - riguardano più il potere sulle acque che non quello sul territorio (19).

Di per sé la regalità sacra del duca avrebbe dovuto passare intatta al comune; ma questo non accadde: se ancora nel 1107 il duca Ordelaffo Falier governava insieme con i suoi vescovi, con i giudici e con il popolo, nel 1164 il duca Vitale Il Michiel governa "con i giudici e i Sapienti e per consenso e volontà del popolo", senza i vescovi. L'avvento,del comune ebbe dunque anche questo esito: l'esclusione completa del clero dai vertici del potere (20). Segno del carattere nuovo, secolarizzato, dell'organismo comunale, in antitesi esatta con la tradizione del ducato.

Ma è segno anche di ben altro: si è sempre insistito sulla "fedeltà al modello bizantino" tipica delle istituzioni di governo veneziane (21). Ora, se il trasferimento della regalità dal duca a un'"élite" di grandi potrebbe in teoria non incidere su tale fedeltà (ma il "basileus" non sarebbe stato più tale ove avesse trasferito la sua sovranità a un'"élite" senatoria o burocratica), resta l'ostacolo della secolarizzazione del potere: i Veneziani, proprio perché di casa a Costantinopoli, ben conoscevano l'intangibile sacralità dell'imperatore e il rapporto geloso che lo legava alla sua Chiesa. La quale era tutt'uno con lui, sua reale creatura e "ministra" (a Bisanzio spesso i prelati diventavano ministri e i ministri finivano la carriera come prelati) (22).

Dunque, il fatto di escludere il clero crea in Venezia una situazione che non ha nulla a che vedere con il modello bizantino. Semmai il modello fu quello dei comuni di Occidente, dove appunto questo avvenne: l'esclusione del clero, la mortificazione dei vescovi, l'avanzata di "élites" di potere totalmente laiche.

In conclusione, il passaggio dal ducato al comune sconvolse a fondo i riferimenti di cui si diceva: il modello da secoli presente, Bisanzio, declinava, per lasciar spazio a idee che venivano dall'Occidente. Ma anche qui con scarti, con adattamenti: l'esclusione del clero non significò mai, sulla laguna, quello che normalmente significò in Occidente, ossia scontro frontale con le Chiese locali, usurpazione di beni e giurisdizioni ecclesiastiche, perfino "assassinî nella cattedrale" (23); semmai il contrario, cioè integrazione dello stesso clero, con un suo ruolo specifico (non più politico ma soltanto religioso), dentro il tessuto cittadino e dentro le istituzioni (solo a Venezia c'è la figura del prete-notaio) (24). Una situazione, di nuovo, "quasi bizantina".

Siamo al paradosso: il nesso che lega Venezia a Bisanzio viene troncato, ma non del tutto; l'omologazione all'Occidente avviene, ma non del tutto. Sembra un caso di evoluzione incompiuta, di strano ibridismo. Ma si può anche pensare a una crescita autonoma, a un processo di emancipazione che succhia il meglio da tutte le radici, insomma a un "raddoppio d'anima". È il paradosso, carico di possibilità, di un comune nato all'incrocio di due mondi, di un comune di frontiera.

Tra due mondi

Adottata dall'Occidente

Due eventi di segno contrario una catastrofe e un successo, ampiamente illustrati in questo volume, danno subito la misura di che cosa significasse a livello politico, nelle relazioni con il mondo esterno, il nuovo "status" bifronte della città.

La catastrofe è quella del marzo 1171, quando in un sol giorno i Veneziani che si trovavano nelle terre dell'Impero bizantino furono catturati e imprigionati e le loro navi e beni confiscati. La disfatta inattesa, che ebbe ripercussioni pesanti nella vita della città (mercanti ridotti in povertà, il duca Vitale II Michiel indicato come capro espiatorio e assassinato), è di solito ricondotta al contesto dei nuovi rapporti politici mediterranei (i due Imperi che incrociano i propri interessi in funzione antinormanna, minacciando di stritolare anche Venezia). Ma come non contare, tra le "cause" importanti, proprio il defilarsi di Venezia dalla "partnership" esclusiva nei confronti di Bisanzio? Alla corte del "basileus" si era capito da tempo che Venezia non era più un supporto sicuro, che si era emancipata e "lavorava" in proprio su tutti i fronti, anche su quelli "proibiti" (rapporti con il papato e con il Regno normanno): donde la "punizione". Appunto, la città era costretta a pagare duramente il fatto di essere diventata "bifronte", ossia di voler scavare un suo spazio autonomo tra Oriente e Occidente.

Il successo di cui si parlava risale invece al maggio del 1177, a pochi anni dalla catastrofe in Oriente, e sta nel fatto che le maggiori potenze dell'Occidente - in primo luogo l'imperatore, il papa e il re di Sicilia - si accordarono su Venezia come sede di un incontro al vertice per sancire una tregua. La scelta sarebbe caduta sulla città adriatica per ragioni, oggi diremmo, di sicurezza: a Venezia c'era un potere forte ("fortitudo et potestas"), capace sia di prevenire scontri tra i suoi governati sia di stroncare baruffe tra le folte delegazioni straniere (si calcola che tra personalità e seguito armato almeno 6.000 uomini giunsero sulla laguna) e poi Venezia era una città speciale: non era legata ad alcun potere superiore e dipendeva soltanto da Dio ("soli Deo subiacet") (25).

Si sa che i grandi trovarono in Venezia una realtà ben diversa: un governo debole, che non riusciva a riprendersi dalla rottura dei rapporti con Bisanzio; una città divisa - in parte schierata con il Barbarossa, in parte con il papato e il Regno normanno -, nella quale si produssero subito scontri armati (per poco la tregua non fallì). Ma un fatto s'impone con evidenza: che i grandi dell'Occidente scelsero Venezia in quanto la riconobbero come propria, una potenza dell'Occidente che stava dalla parte dell'Occidente e con l'Occidente poteva collaborare per il progetto, di cui allora si discusse, di una spedizione-Crociata contro gli scismatici di Bisanzio. Erano passati pochi anni da quando Venezia combatteva accanto a Bisanzio, in accordo con Bisanzio: non si può allora non prendere atto dell'enorme mutamento intervenuto; e anche capire meglio il cronista quando usa la frase a effetto "soli Deo subiacet": voleva dire non già che Venezia apparteneva solo a se stessa, bensì che non apparteneva più a Bisanzio. E il distacco da Bisanzio fu premiato: con i privilegi concessi dall'imperatore e dal papa al governo, alle chiese e ai monasteri della laguna. Questa volta Venezia raccoglieva frutti dall'essere "bifronte": frutti con i quali almeno in parte sopperire agli scacchi subiti in Oriente (26).

Ecco, dunque, che cosa significava il "bifrontismo" per Venezia: allontanarsi da Bisanzio ed essere risucchiata, quasi adottata, dall'Occidente. E non si trattava di una spinta episodica. Negli ultimi decenni di questo XII secolo si avvertono ben altri segni di un progrediente "occidentamento": i numerosi Pacta con le città di terraferma, i contatti (anche imparentamenti) con famiglie feudali, i rapporti frequenti con il papato e altre potenze europee, gli stessi elogi che arrivavano dall'Occidente: "Beati voi, Veneziani [si sarebbe detto dopo la tregua del 1177>, quia tanta pax apud vos potuit reformari" (27) (mentre da Bisanzio giungevano ingiurie).

Non era, insomma, soltanto l'Occidente a scoprire Venezia, ma anche Venezia a scoprire l'Occidente e, in certa misura, a occidentalizzarsi. Il che, per una città abituata a vivere di Oriente, ove quasi tutto - consuetudini, riti civili ed ecclesiastici, titoli del duca, perfino la moda delle donne - era bizantino, costituiva una novità dirompente con ripercussioni su tutti i piani.

La città complessa

Attorno al 1260 il cronista Rolandino inneggiava al "felice" comune veneziano, perché in esso i "cives" avevano un tale "senso dello Stato" (come oggi si direbbe) che nessuno osava anteporre il proprio interesse privato a quello dell'intera "communitas" (28). Anche ammesso che allora fosse così, è da escludere che l'elogio possa valere per l'epoca del primo comune, quando la stessa "communitas" era ancora in formazione, attraversata da spinte molteplici, divaricata in due opposte direzioni: a quale "communitas" avrebbero dovuto inchinarsi i cittadini?

Qui non si vuole incrinare affatto il "topos" della perenne coesione civile di cui avrebbe goduto Venezia nei tanti secoli della sua storia, ma soltanto far presente che in questa fase il processo di crescita della città fu tale da lasciar spazio a una pluralità di "anime". Basti dire che nel 1177, in Venezia, c'era chi esaltava il re normanno perché riforniva di biade la città, mentre detestava il Barbarossa "dal quale non abbiamo mai avuto niente" (29); c'era chi odiava il "basileus" e mai sarebbe sceso a patti con lui e chi, dopo il 1185, impose un accordo per cui parte della flotta imperiale venne allestita nei cantieri della laguna, e poi, dopo il matrimonio tra Enrico VI e Costanza d'Altavilla con conseguente "unio regni et imperii", spinse per un ritorno all'alleanza con Bisanzio a scapito dei rapporti con l'Occidente (30).

L'esistenza di più posizioni contrapposte, tutte legittime, tutte radicate su basi cospicue d'interessi, non era nuova nella storia della città; ma mentre un tempo veniva bloccata e risolta dal potere unitario del duca, ora trovava spazio e alimento nella natura stessa dell'organismo comunale, che era pluralistico: quando c'era da decidere, ogni gruppo cercava d'imporre le opzioni sue proprie tentando di prevalere e al limite di identificare se stesso con l'intera città. In altri termini anche a Venezia, proprio come nei comuni di terraferma, si accende una vera lotta politica, si entra in un clima fisiologico di instabilità che movimenta, anche con rotture vistose, la vicenda cittadina.

È quindi "normale" che nel 1172, all'indomani della repressione del "basileus", sia scoppiata una rivolta contro il duca Michiel al grido di "Traditi sumus et male ducti": era un tentativo di abbattere la maggioranza che allora reggeva il comune (31). E ugualmente normale è quanto accadde nel 1177, quand'era imminente l'arrivo del Barbarossa in città: comparvero sulla laguna due "partes" - una "pars imperii" e una "pars Ecclesiae" -, che inscenarono un "tumulto" o scontro armato (32). Ma proprio il fatto che i "partiti" si esprimessero non solo negli organi di governo o "consilia" (del resto, in quegli anni, ancora in via di formazione) ma anche fuori, per le piazze e le calli della città, è segno che la lotta politica coinvolgeva fatalmente la società lagunare, sfociando in lotta sociale.

Il regime ducale dei secoli precedenti aveva avuto questo di caratteristico: subordinava l'intera società come, in un corpo, il capo subordina le membra. La quale società non esisteva in se stessa, ma soltanto per i diversi livelli - "ordines" - riconosciuti dal vertice e che corrispondevano ad altrettante funzioni: i "maiores", con il clero, assistevano il duca e i "minores" lo servivano; chi non era in grado di svolgere un servizio attivo, come la folla dei poveri, viveva anche materialmente dei soccorsi del duca. Ma con l'avvento del comune ogni ruolo si ridefinisce: il duca non comanda più da solo, e i "maiores" comandano con lui e all'occorrenza sopra di lui; i "minores" scoprono che oltre che obbedire sono anche in grado di far valere le loro esigenze e perfino di aspirare a farsi "maiores"; il clero, che non esercita più una funzione politica quale "contorno" del duca, si radica, come oggi si direbbe, nel "sociale", mettendosi a soccorrere i poveri ai quali il duca non era più in grado di provvedere: non a caso si parla, nel 1181, della "moltitudo pauperum et maxime nobilium qui ad episcopos castellanos confluere solent" (33).

In altri termini, il regime comunale viene a poggiare non più su "ordines" consolidati, bensì su ceti in movimento. Con il conseguente scatenarsi di aspirazioni, tensioni e conflitti. Gli uomini di Venezia che vogliono convincere il custode delle reliquie di s. Stefano a farsi complice del "santo furto", lo corrompono con una prospettiva che allora doveva far presa non poco nella psicologia cittadina: "Non sarai più povero, ma potrai diventare ricco e potente" (34). Ai vertici della società la concorrenza comportò il declino di vecchie stirpi ducali (come quella dei Michiel) e l'ascesa di famiglie che non avevano affatto una tradizione ducale (come quella degli Ziani). E quei "minores", specie mercanti, che la repressione bizantina del 1171 e le lunghe interruzioni dei traffici con l'Oriente costrinsero almeno in parte alla disoccupazione e alla povertà appaiono pronti a tutto, anche ad atti estremi, pur di tutelarsi: nel 1196 una spedizione armata del comune giunta in Oriente, cui fu notificato l'ordine del comune di rientrare subito in patria, decise di ignorarlo e di fermarsi in Abido a sue spese; e la giustificazione fu questa: chiunque venga a trovarsi lontano da casa per ragioni militari o per affari ha il diritto di pensare non solo all'" honor patrie", ma anche ai "bona sua" (35).

Proprio così: in Venezia i gruppi che più "faticavano" (le parole "fatigari", "fatigationes" ricorrono di frequente nei documenti) (36), come quelli dei mercanti (chiamati non a caso "procertantes"), rivendicavano un loro spazio anche quando si ponevano fuori della legalità comunale. Segno di una complessità "sui generis", ignota ai comuni di terraferma, cui nessuno sbocco, a Oriente come a Occidente, era precluso.

Succedere a Bisanzio

"La partita più azzardata che avessero giocato", finita trionfalmente: così Donald M. Nicol parla dei Veneziani, concludendo la sua presentazione dell'evento centrale che coinvolse la città ai primissimi anni del Duecento, ossia la quarta Crociata (37).

Si sa che "i Veneziani non furono mai crociati entusiasti", per la buona ragione che le Crociate erano "cose" dell'Occidente e portavano forze e concorrenti dell'Occidente in aree (quelle dell'Impero di Bisanzio) in cui essi avrebbero voluto godere da soli privilegi e monopoli. Invece, nel 1202, di fronte a una Crociata che si presentava più che mai come "cosa" dell'Occidente - del papa Innocenzo III, dei baroni e conti di Francia e di Fiandra -, e che ugualmente avrebbe portato in Oriente forze e concorrenti dell'Occidente, i Veneziani aderirono entusiasti: non soltanto fornirono i mezzi di trasporto (li avessero negati e avrebbero potuto farlo la Crociata non sarebbe mai partita), ma anche si disposero a parteciparvi in massa (si parla di una mobilitazione, che sembra peraltro eccessiva, di 17.000 uomini).

Il cambiamento è enorme, e può essere giustificato alla luce di una precisa consapevolezza: che per tornare in Oriente dopo la catastrofe del 1171 a Venezia non restava altro modo se non quello di tornarvi da potenza dell'Occidente e insieme con le altre potenze dell'Occidente. Dopo di che l'obiettivo della Crociata era segnato e diventava quello già previsto nel convegno del 1177: non più i Musulmani, ma gli scismatici d'Oriente; non più Gerusalemme, ma Costantinopoli.

A capo dell'impresa fu posto il duca Enrico Dandolo, che aveva 95 anni ed era completamente cieco: segno che non si voleva un duca-condottiero, così come non si voleva un ducare, e che l'impresa sarebbe stata nelle mani dei "notabili" che ne facevano parte e che fatalmente portavano con sé le diverse "anime" del comune. Ne deriva una singolare contraddizione: il contingente veneziano, che è decisivo sul piano tecnico delle operazioni militari (conoscevano come nessuno, per precedenti viaggi, la topografia; sapevano condurre come nessuno una battaglia anfibia, "fra terra e acqua") (38), non riesce ad avere un corrispondente peso sul piano politico, dove concede molto ai "pelerins". E concede, si può credere, non tanto per la forza di costoro, quanto per le sue divisioni interne: sono in fondo gli elettori veneziani che fanno mancare al Dandolo la maggioranza per essere fatto imperatore (39).

Le divisioni esplodono ancor più al momento di raccogliere i frutti della Crociata: una parte dei "notabili" - quelli che decidono di insediarsi a Costantinopoli si danno per capo uno di loro, Marino Zeno, che assume il titolo di "potestas, despotis" e "dominator" della Romània ed entra per suo conto, non già come rappresentante del comune o del duca, in rapporti di "fidelitas" con l'imperatore latino; un'altra - parte tra cui familiari del duca - scelgono la strada (la stessa, si noti, intrapresa dai baroni e conti dell'Occidente) dell'avventura personale, occupando in proprio terre e isole (Marco Sanudo assunse il titolo di duca dell'Arcipelago): diventano insomma, come ha scritto Giorgio Ravegnani, "signori delle isole" (40).

Il comune di Venezia assisteva da lontano e impotente a questi esiti, avendo la netta percezione che in Oriente stesse per nascere un'altra Venezia: la Venezia che succedeva a Bisanzio.

Succedere a Bisanzio: non era sempre stato il sogno di Venezia, il sogno che aveva alimentato, tra l'altro, tanti "furti sacri", tante traslazioni di reliquie? Tutti si accorsero, nel mondo di allora, dell'enormità dell'impresa, che del resto segnò l'inizio della fine di Bisanzio (41). Ma più ancora se ne accorsero a Venezia, dove il comune si sentì da un lato "alleggerito" (nel senso che non pochi "notabili" avevano scelto di restare in Oriente), e dall'altro esautorato.

"Regnum Venetie"

L'età del comune non poteva non privilegiare ciò che è e resta il carattere originale della storia di Venezia, cioè quel suo essere un "grande emporio", il luogo da cui "le merci scorrono" per il mondo "come l'acqua dalle sorgenti" (giusta l'immagine di Martino da Canal) (42). Gerhard Rösch, che ha illustrato questo aspetto, pur notando, negli anni pre-Crociata, un difficile decollo degli affari a causa delle forti turbolenze politiche (come prova la vicenda di un Romano Mairano), non ha poi avuto difficoltà a individuare, dopo la Crociata, segni di "prepotente espansione" e insomma il profilarsi di un "impero commerciale veneziano" (43). E anche Ugo Tucci, affrontando magistralmente, dal punto di vista della scienza navale e delle attrezzature tecniche, il tema della mercatura, conferma con dovizia di dati "la misura del potenziale che la città aveva raggiunto" già negli anni della quarta Crociata (44).

Nessun dubbio, quindi, che la quarta Crociata abbia segnato uno stacco netto nella storia del comune veneziano: nel senso di una gigantesca metamorfosi, di un progresso su tutti i piani, come se tutte le precedenti tensioni - la cosiddetta "doppia anima" del comune - fossero state, in un sol colpo, cancellate. Eppure...

In una introduzione come questa, che si pone alla periferia dei grandi temi (già splendidamente illustrati nel corso del volume), non può non trovare spazio qualche dubbio, che peraltro è soltanto occasione per fornire alcuni dati in più. Leggendo per esempio una testimonianza prodotta verso il 1230, la Historia Ducum Veneticorum, si ha l'impressione di accostare un mondo che non corrisponde affatto a quello degli anni d'oro dei traffici. Basti dire che l'eroe collocato al centro della narrazione è il duca Pietro Ziani (1205-1229), del quale si tessono elogi come questi: passò la vita a far beneficenza (ai nobili ridotti sul lastrico, ai giovani che volevano entrare "in sacris", ai poveri che avevano fame) si comportò da "gran cattolico" e devoto "amator" della Chiesa di Roma, come un re-monaco (di notte si alzava a pregare e di giorno faceva solo opere buone), dolce con gli umili e i giusti, severo con i superbi e i malvagi; e fu sempre un perfetto governante nel senso che si mostrò ardito in guerra, dove schiacciò i nemici riportando trionfi e prede, e saggio in pace e nel promuovere la pace; soleva dire: "Lavorate per la pace perché la guerra fate sempre in tempo a farla", sicché baroni e magnati della Marca e della "Lombardia" tutta si rivolgevano a lui per consiglio come a un "pater" e a un "dominus" (45).

Certo, l'anonimo autore sa benissimo che il suo eroe è "dominator quarte et dimidie partis totius Romanie", ossia che c'era stata la quarta Crociata; ma è come se non lo sapesse: la sua ideologia è tutta orientata a Occidente, intrisa di cultura feudale, quasi che il duca Ziani non fosse in nulla diverso dai grandi personaggi di terraferma, per esempio un da Romano, che un altro cronista, proprio in quegli anni, stava celebrando quasi con le stesse parole(46). Un autore deviato, impazzito?

C'è da escluderlo, se non altro sulla base di alcuni dati. L'elezione dello Ziani nel 1205 comportò la messa in mora almeno parziale della struttura comunale, nel senso che gli furono riconosciuti poteri straordinari di tipo regale: la "promissio" da lui giurata dimentica limitazioni già imposte al suo predecessore e non accenna al maggior consiglio (47). Forse gli si volle conferire la forza necessaria per stroncare il separatismo orientale. Ma questo, di fatto, poi non avvenne: lo Ziani poco tentò e nulla concluse contro i Veneziani di Costantinopoli, che continuarono a riferirsi ai loro podestà, veri "despoti Romanie" (come s'intitolavano), invece che al duca delle lagune (ancora attorno al 1220 Giacomo Tiepolo, un "popolare" uscito dal niente, pur professando fedeltà allo Ziani trattava in proprio con l'imperatore greco di Nicea e con il sultano di Iconio) (48).

Piuttosto, lo Ziani molto tentò, e qualcosa concluse, in un àmbito che evidentemente più gli era consono, quello della terraferma: riuscì a collegarsi con Padova, che nel 1213 accolse come podestà Marino Zeno già despota a Costantinopoli, e a imporre all'intera Marca, sempre nello stesso anno, una tregua che doveva durare dieci anni (49).

Dunque, l'autore della Storia, parlando dello Ziani, non delirava affatto, ma esaltava, con il linguaggio caro all'Occidente, i trionfi del suo "eroe" relativi all'Occidente. Segno che la città, indebolita nella sua anima orientale (ormai operante in proprio sul Bosforo), dilatava in compenso la sua anima occidentale, e dell'Occidente rifletteva la cultura, l'"ethos" dominante, che era quello di un mondo da un lato in enorme espansione (non aveva appena schiacciato l'Oriente bizantino?) e dall'altro in sofferenza a causa dei suoi stessi cambiamenti. L'età dello Ziani coincide pur sempre con quella di Innocenzo III, del giovane Federico II, dello scontro tra campagna e città, tra famiglie e comuni, del profilarsi di una nuova Chiesa (quella dei Mendicanti) e di una nuova cultura (quella delle università).

Era del resto lo stesso Occidente a non poter prescindere da Venezia, e perciò a irrompere dentro di essa cercando di coinvolgerla, di omologarla. Si diceva del "regalismo" dello Ziani. Ebbene, esso trova riscontro e conferma proprio nella cancelleria di Federico II: nel 1220, nel diploma di rinnovo dei patti, il duca veniva collocato tra i re, anzi tra i "sapientes et discreti rectores regnorum", e Venezia era detta "regno" ("regnum Venetie") (50).

La ricomposizione dello strappo

Il già citato autore della Storia trascura di annotare due fatti di enorme rilievo: che il duca Ziani nel 1229 "refutò per conscientia" il ducato ritirandosi a vita privata, e che a succedergli - dopo una votazione contrastata (20 "ballote" per Marino Dandolo e 20 per Giacomo Tiepolo, con conseguente ricorso alla "sors periculosa") - fu Giacomo Tiepolo, ossia colui che era stato "despota" di Costantinopoli, "leader" dell'altra Venezia (51). Le due anime della città si ricomponevano di colpo?

C'è da escluderlo. Ziani e Tiepolo non rappresentavano soltanto se stessi, ma anche gruppi sociali in contrasto: quelli che il più tardo cronista identifica nei "nobiles" e nei "populares" (52). Dunque, nobiltà e popolo anche a Venezia, come nei comuni di terraferma. Ma nella variante lagunare, per la quale non esisteva la corsa alla terra, ma la corsa al mare; dove uno Ziani era interessato ai traffici non meno di un Tiepolo, ma con la differenza che il primo era un grande proprietario di beni immobili (terre e case) che si arricchiva "anche" con i traffici (prestando somme ingenti ai mercanti), mentre il secondo viveva solo di traffici e per giunta dipendendo, quanto ai finanziamenti, dal primo. È la differenza tra chi poteva restare in Venezia a vivere da "signore" e chi invece doveva mettersi in viaggio e vivere da "lavoratore", tra rischi di ogni sorta (dopo il 1172 i contratti contengono la clausola "excepto periculo incendii et violentia imperatoris") (53).

La quarta Crociata attenuò di certo quella differenza, giacché più di un mercante, grazie alle conquiste, poté realizzare il sogno di vivere da "signore", se non proprio "come lo Ziani"; ma ne evidenziò altre: i nobili rimasti a Venezia, anche perché liberati dalla pressione dei "popolari", Si affermarono più di prima e meglio di prima (come prova il ducato dello Ziani), mentre i "popolari" d'Oriente, dopo i primi successi, si trovarono in crisi. Accadde soprattutto a partire dal 1222, quando dovettero affrontare eventi nuovi e imprevisti - come la riscossa antilatina dell'imperatore niceno e la strana Crociata di Federico II - senza una propria valida forza militare e con una madrepatria non più motivata a difenderli e quindi volutamente "assenteista" (54). Per non essere spazzati via perdendo tutto, possessi e traffici, si trovarono costretti a rifluire verso la madrepatria in cerca di protezione. Allora lo strappo tra le due Venezie venne sanato, e ci fu anzi il contraccolpo a livello del potere: lo Ziani, il ducare, incapace o restio a gestire la nuova fase, dovette ritirarsi lasciando spazio non a chi forse preferiva, ossia a Marino Dandolo (che era stato al suo fianco come viceduca), bensì proprio al suo opposto, che poi era il portavoce dei "popolari" d'Oriente, ossia a Giacomo Tiepolo.

Val la pena di ripercorrere la carriera di questo "homo novus", che rappresenta splendidamente una nuova fase nell'età del comune: nocchiero, mercante, combattente, giudice di comun, duca di Creta, podestà di Treviso, podestà-"despoto" di Costantinopoli e poi, a coronamento di una parabola avventurosa e fatta anche di atteggiamenti "signorili", duca (55). Verrebbe da concludere che la sua elezione significa passaggio del comune dalle mani dei nobili a quelle dei popolari, dal governo del ducare a quello del mercante-signore.

Ma, al di là delle formule, l'avvento del Tiepolo rappresentò un indubbio rilancio del regime comunale: non perché egli fosse, quanto a concezione del potere, l'opposto dello Ziani, ma perché non avendo alle spalle appoggi familiari o di forti parentele fu costretto dai fatti a dare spazio alla risicata maggioranza che lo aveva espresso e, anzi, a fare ogni sforzo per allargarla. Si spiegano così alcune novità istituzionali: il fatto, per esempio, che giurò una "promissio" fortemente vincolante, la quale escludeva ogni velleità regalistica (56); il fatto che durante il suo ducato si registrò un allargamento massiccio del ceto di governo: il maggior consiglio - un organismo che nel 1201 era di soli 40 membri e quasi privo di capacità deliberante autonoma - si dilatò di colpo in misura abnorme (nel 1261 comprendeva 430 membri), imponendosi come vero organo di potere al di sopra di ogni altro "consilium" e dello stesso duca(57). Con il Tiepolo il comune sfiorò un traguardo ideale: esprimere il massimo di autorità e nel contempo ottenere il massimo dei consensi. In effetti, per oltre un quindicennio, la città marciò compatta al seguito del suo duca.

Sarebbe interessante approfondire questa fase di coesione civile e anche religiosa del comune tiepolesco, cui del resto corrispose, a riprova di una raggiunta maturità istituzionale, la compilazione nel 1242 degli Statuti cittadini; ma su di essa già esistono ottimi approcci (58). Qui importa piuttosto centrare un aspetto che nelle Storie della città non ha mai trovato un sufficiente rilievo, ossia l'incontro-scontro con il grande imperatore dell'Occidente, "stupor mundi", Federico II. Si pensi: il Tiepolo, l'uomo uscito dal nulla, che si era costruito in Oriente e per l'Oriente, "il miglior specialista di questioni orientali" (59), costretto a misurarsi con Federico II, l'erede degli Staufer e degli Altavilla, che stava rifondando il suo Impero in Europa e nel Mediterraneo.

Completare la quarta Crociata

Un'ipotesi di partenza: che Venezia abbia tentato, nei confronti dell'Impero d'Occidente, ciò che aveva già tentato nei confronti dell'Impero bizantino, cioè di succedergli, radicandosi in Occidente così come si era radicata in Oriente, facendosi dominatrice di territori non meno che di acque, completando o addirittura "raddoppiando" i successi raggiunti con la quarta Crociata. Ma se questo tentativo ci fu, esso si fece strada lentamente, attraverso la spinta di eventi aspri e complessi.

Il primo "contatto" avvenne nei primi mesi del 1232, quando Federico, dovendo recarsi da Ravenna ad Aquileia, decise di sostare in città per rendere omaggio alle reliquie di s. Marco. Si dice che avesse in mente due obiettivi: rinfocolare l'ostilità contro Genova e ottenere garanzie di libero transito verso il Friuli (di recente il passaggio per la valle dell'Adige gli era stato negato). Ma forse aveva in mente molto di più: fare di Venezia - che non percepiva più come "regno" ma neppure come comune, e definiva "ducatus" (in quanto "ducato" era inquadrabile nella struttura dell'Impero) (60) - il pilastro orientale della sua politica in Alta Italia.

Il comune rispose in maniera raggelante: prima fece sostare l'imperatore al confine in attesa di un permesso, poi lo avvertì che poteva entrare in città, ma solo per poco tempo (4 o 5 giorni), e una volta che fu in città accettò da lui importanti privilegi (soprattutto la libertà di commercio nel Regno di Sicilia) senza nulla concedere in cambio. Una risposta dettata non tanto, come si è detto, dalla prudenza, dalla volontà di essere neutrale, quanto da una vera e propria ostilità: non piaceva un imperatore come Federico, che già con la sua strana Crociata aveva sconvolto l'Oriente e ora cercava di inquadrare anche Venezia (61).

Le conseguenze del rifiuto furono ben più gravi di quanto si potesse prevedere: pochi giorni dopo l'imperatore si accordò con Ezzelino III da Romano, cui affidò il ruolo, che forse aveva immaginato per Venezia, di pilastro orientale della sua politica in Alta Italia; tutte le posizioni di favore fin'allora acquisite in terraferma (anche grazie al ducato dello Ziani) crollarono di colpo: non più podesterie veneziane a Padova, a Verona, a Vicenza, a Treviso, e anzi rivolta generale contro Venezia (nel 1233 Marino Dandolo, podestà in Treviso, fu assassinato per istigazione, sembra, dei Caminesi) (62). Qualche tempo dopo - nel 1237, l'anno della svolta - l'intera Marca cadde nelle mani dei da Romano collegati a Federico II; mentre quasi tutta l'Italia padana diveniva "imperiale" (nel 1239 lo stesso Federico tenne corte per qualche mese a Padova, quasi a ridosso della laguna) (63). Venezia, insomma, pagò l'ostilità a Federico con l'isolamento totale e con il rischio, neppure tanto teorico, di essere invasa. Ma che cosa aveva fatto il comune del Tiepolo?

Aveva fatto, si può rispondere, il meglio. Quando, nel 1232, Federico era venuto a Venezia, il Tiepolo, da "esperto dell'Oriente", lo aveva trattato come un disturbatore da combattere e arginare proprio in Oriente, dove avrebbe potuto agire di conserva con l'imperatore greco e quindi portare al collasso ovunque (a Costantinopoli, a Creta, in Siria) le già compromesse posizioni veneziane. Anche la semplice ipotesi di lasciare mano libera a Federico in Oriente (questo, in sostanza, egli chiedeva) in cambio di vaghi vantaggi in Occidente (quali?) suonava offensiva per una città che in Oriente, con uno spiegamento impressionante di uomini e mezzi, stava giocando il suo futuro (64). Neppure la prospettiva, che poteva balenare, di annettersi l'intera Marca avrebbe compensato la perdita anche parziale dell'Oriente. Il Tiepolo aveva dunque avuto mille ragioni per opporre un rifiuto netto alle "avances" dell'imperatore. E subito dopo era stato coerente: Venezia non aderì affatto alla Lega Lombarda, come tutti si attendevano (era o non era contro Federico?) e neppure si schierò a Cortenuova: la città era contro il Federico di Oriente, non contro il Federico di Occidente; e comunque perché rischiare di battersi su due fronti?

Ma a un certo punto il Tiepolo capì; e capì per primo. Il disegno di Federico era uno solo: conquistare Oriente e Occidente, stringere i due mondi sotto un unico scettro, e in mezzo ad essi anche Venezia. Il problema, dunque, cambiava: non era più in gioco soltanto l'Oriente, ma la sopravvivenza stessa della città; non si trattava più di difendere un'area lontana, per quanto preziosa, come l'Oriente, ma di fermare un nemico che avanzava minaccioso fino a sfiorare la laguna. Così, mentre il suo governo restava concentrato sull'Oriente, ufficialmente ignorando ciò che succedeva in terraferma, il Tiepolo ruppe gli indugi: a combattere contro le milizie imperiali della Marca si trovano anche Veneziani comandati da suo figlio Pietro, che fu poi podestà a Milano; altri Veneziani andarono podestà in altri comuni lombardi in lotta con l'Impero; a Cortenuova anche il figlio Pietro, con altri concittadini, combatté fieramente e cadde prigioniero. Il padre ne fu "turbato", ma lo additava a esempio per tutti: "in odium imperatoris" (65).

E allora, finalmente, anche tutta la città fu con lui, decisa a combattere contro Federico fino all'ultimo sangue. Nel 1238 il primo passo decisivo: a Roma, auspice il papa, fu siglato un patto novennale con Genova - la minaccia di Federico affratellava per il momento le due città -, che era di reciproca protezione ("debeant se adiuvare vicissim") ovunque le due città avessero interessi ("ubicumque fuerint"), ma specialmente in Oriente e nell'Italia del Sud, contro chiunque le avesse attaccate (Federico II, dato che i Saraceni erano esplicitamente esclusi). L'anno seguente, il 26 luglio del 1239, un secondo passo, se possibile ancora più decisivo: questa volta il patto fu firmato direttamente con il papa, e con un obiettivo quasi incredibile: l'occupazione del Regno di Sicilia ("pro eundo in regnum Sicilie ad ipsum occupandum") (66).

Occupare il Regno di Sicilia: un obiettivo, lo ripeto, incredibile, che per il papa significava spezzare quell'infausta "unio regni et imperii" di cui Federico si serviva per paralizzarla; ma per Venezia comportava un esito ancora più ambizioso: insediarsi nel cuore dell'Impero di Occidente, nella sua capitale, Palermo. Palermo e Costantinopoli: dopo avere ereditato il centro dell'Impero d'Oriente con la quarta Crociata, Venezia poteva ora ereditare il centro dell'Impero di Occidente. Si accingeva insomma a completare, in maniera grandiosa e imprevista, la quarta Crociata.

E che un tale disegno non fosse pura velleità lo dimostra l'impegno accanito con il quale il governo del Tiepolo perseguì ovunque, in asse con il papa, la lotta contro Federico: nell'Alto Adriatico e a ridosso della terraferma, dove strappò Treviso all'alleanza con l'Impero, occupò Ravenna, piegò Ferrara; e nel Regno di Sicilia, dove fece numerose incursioni occupando Barletta e Salpi. Dopo il 1245 Federico II, ormai perdente su molti fronti, sembrava avviato al collasso definitivo (67).

Per la Venezia del Tiepolo si profilava dunque il trionfo, la possibilità di radicarsi in Occidente non meno che in Oriente, nel continente non meno che sui mari. In Germania si sparse la voce che il Tiepolo sarebbe diventato il nuovo imperatore: in luogo di Federico II deposto nel 1245 da un concilio riunito a Lione. E il Tiepolo, lo si ricordi, era già, dai tempi della quarta Crociata, "dominatore di una quarta parte e mezza della Romània". Davvero, sotto la guida del Tiepolo, Venezia stava per salire sul tetto del mondo.

La città "serrata"

L'incredibile svolta

Tra il 18 luglio e la metà di agosto del 1245, reduci dal concilio di Lione che aveva deposto dal trono Federico II, tre legati veneziani caddero prigionieri del conte di Savoia Amedeo IV. Liberati subito dopo per intervento dell'imperatore, si recarono presso di lui per fargli strane dichiarazioni: il duca e i cittadini di Venezia volevano la pace; per le offese inflitte si scusavano, ma mai e poi mai avevano avuto l'intenzione effettiva di strappargli la "dignite dou roiaume"; e poi, quali immensi vantaggi da un reciproco accordo! Alla fin fine, se pure avevano sbagliato, dicono i proverbi che l'esperienza insegna e che si ha il dovere di rimediare. Era tempo, dunque, di mettere una pietra sul passato e di ricominciare tutto daccapo.

Federico rispose denunciando l'ingratitudine di Venezia: egli aveva sempre amato la città, e con lui la città aveva sempre fatto buoni affari; perché, dunque, si era schierata dalla parte dei Lombardi? Perfino durante la guerra egli aveva continuato ad accogliere nelle sue terre i mercanti veneziani. Anche per lui era però giunto il momento di fare pace: "a vantaggio vostro e mio". Così si chiuse il conflitto, che ormai durava da troppi anni, tra Venezia e l'Impero; del patto novennale con Genova, dell'accordo con il papa per occupare il Regno non si parlò più(68).

Ci si chiede: è mai possibile che proprio quando Federico era sull'orlo della rovina e si profilavano grandi conquiste, Venezia rinunci a tutto e passi dalla parte del vinto inimicandosi per giunta il papa e tutte le città antimperiali? Che senso aveva far pace con Federico quando questi continuava a sostenere l'odiato Ezzelino? C'era poi un risvolto umano non trascurabile: l'imperatore aveva fatto impiccare per vendetta, mentr'era in carcere, Pietro Tiepolo, il figlio del duca.

Cessi risponde che la svolta fu un atto di infedeltà al papa ("infedeltà saggia e pensosa"); Kantorowicz attribuisce la stessa svolta ai sospetti veneziani verso un papa genovese come Innocenzo IV. In altri termini - è la tesi consueta -, sarebbe stata l'ossessione per il "gran guadagno", il timore che la lotta a oltranza contro Federico pregiudicasse a fondo i traffici, a seminare in Venezia dubbi e contrasti, e quindi a indurre al rovesciamento delle alleanze (69). Non mancano certo argomenti a sostegno di questa tesi. Cessi crede che la goccia che "fece traboccare il vaso del malcontento" sia stato il fatto che, per paura di compromettere le rendite dei proprietari veneziani nel Padovano, il Tiepolo rinunciò a inseguire le milizie di Ezzelino che avevano aggredito la città dalla parte di S. Ilario: ma da quando gli interessi fondiari erano così forti da paralizzare il comune dei mercanti (70)?

Si potrebbe aggiungere, a conferma, che la pace con Federico veniva a essere per Venezia quasi un atto dovuto, perfettamente coerente con la sua linea politica: se era stato giusto far guerra a Federico quando questi, al culmine della sua potenza, "disturbava" e aggrediva ovunque, ora che lo stesso Federico era stato messo in condizioni di non nuocere deposto e respinto da molti se non da tutti continuare la guerra diventava un assurdo. E poi c'era da temere il vuoto politico che avrebbe lasciato: ne avrebbero tratto profitti enormi non soltanto il papa ma anche i comuni lombardi e soprattutto Genova, l'eterna avversaria.

Tutte spiegazioni valide; ma bisogna tenere conto anche delle "sorprese", ossia di quanto, e imprevedibilmente, la lunga lotta contro Federico aveva cambiato i protagonisti, soprattutto il papato, ma anche il governo tiepolesco. Una volta vinto e deposto Federico, il papato - quello di Innocenzo IV - dovette far paura: aveva in pugno le Chiese locali (nessun vescovo poteva essere eletto senza il gradimento di Roma); attraeva a sé i nuovi ordini religiosi, specie i Minori (persuasi a clericalizzarsi); condizionava le città (anche attraverso la nascente Inquisizione); strappava corone e le poneva sul capo, egemonizzava la cristianità e aveva in mente altre Crociate(71). Come poteva Venezia stare con un papa così? Significava come minimo dovergli consegnare il controllo delle Chiese lagunari, seguirlo in tutti i suoi obiettivi, pregiudicare la propria identità, perfino la propria libertà. Meglio, molto meglio, il distacco e l'accordo con il vinto Federico.

Le "sorprese", i cambiamenti qualcuno li aveva notati anche dentro Venezia a proposito del Tiepolo, il trionfatore nella lunga lotta contro Federico. Stava per diventare un "despota" in patria come lo era stato a Costantinopoli? C'erano molti segni: valorizzava la "concio" in opposizione ai "consilia"; amministrava la giustizia circondato dai suoi giudici e dai "boni homines", come i vecchi duchi; sentiva i cittadini come "subiecti", cioè sudditi; concepiva l'ufficio di duca come una "dignitas" personale ("regimen nostrum" lo chiama); aveva fatto compilare Statuti che si aprivano con la parafrasi quasi letterale della costituzione "Deo auctore" del Digesto, quasi a sottolineare una concezione del potere di marca giustinianea (72). Ma allora la pace con Federico ebbe anche questo significato: interrompere un trionfo annunciato, e bloccare un potere personale che stava incrinando la stessa costituzione del comune. Non per nulla, dopo il 1245, il Tiepolo risulta emarginato, fino a scomparire dalla scena. Nel 1249 rinunciò - o fu costretto a rinunciare - alla carica. E nella "promissio" subito elaborata vi è la condanna precisa, anche se indiretta, del suo ventennio di governo: laddove si inibisce al nuovo duca di esercitare poteri non previsti dalla legge, o di convocare l'arengo di propria iniziativa; laddove si afferma il diritto sovrano del comune di fronte alla Chiesa; e anche laddove si sancisce per la prima volta la possibilità di destituire un duca in carica e se ne stabilisce la procedura (73).

Quella del 1245 fu dunque una svolta incredibile, ma non troppo: molti e complessi motivi ne stanno alla base. In ogni caso, a causa di essa, una grande opportunità era andata perduta: quella di radicarsi in Occidente non meno che in Oriente, di conquistare terre non meno che piazze commerciali. Ora restavano solo i traffici, attorno ai quali tutta la città avrebbe dovuto far blocco: un'opportunità di per sé altrettanto grande, a patto però che continuassero a fluire abbondanti e senza ostacoli, pur attraverso i tumultuosi riassetti in corso nel più vasto mondo eurasiatico, "come l'acqua dalle sorgenti".

Al servizio dei traffici, non della Santa Chiesa

Dopo l'incredibile svolta, come se la città avesse ritrovato la sua strada maestra, tutti gli sforzi del comune furono volti a risanare e a estendere per quanto possibile la trama preziosa dei commerci. È dello stesso 1245 un patto con Mantova ispirato dal bisogno di garantire le vie di transito; riprendevano i rapporti con il sultano di Tunisi per la libertà del commercio in Barbaria; si dava impulso in Creta, a tutto vantaggio delle piazze orientali, allo sforzo di colonizzazione; si riprendeva il controllo, con una serie di operazioni militari, dell'una e dell'altra sponda dell'Adriatico, considerato più che mai, come arteria vitale per i traffici, "mare nostrum"; si escludevano relazioni private e non autorizzate con la terraferma, fossero esse sotto forma di cariche (podesterie) o di possessi extraconfine. Sempre in nome dei traffici tramontava, nonostante episodiche tregue, ogni forma di alleanza con Genova: preludio di una rottura completa e di scontri armati sempre più aspri. I traffici, insomma, assurgevano più che mai a unico ed esclusivo interesse del comune, nella certezza, come afferma il cronista, che per essi "ogni veneziano, ricco o povero, poteva accrescere il suo avere". Era l'effetto ovvio dell'incredibile svolta, un effetto che incoraggiava all'ottimismo: il cronista scrive che la città si sentiva "felice", e che si dava volentieri a feste e tornei, a coloriti convegni di dame e cavalieri (74).

Da allora furono i traffici a dettare ogni mossa politica, specie nei rapporti con l'Impero d'Occidente e con il papato. Dopo il 1245 la pace con Federico avrebbe dovuto, di per sé, comportare la pace anche con i suoi più fedeli alleati, in primo luogo con Ezzelino da Romano. E invece questo non avvenne: Ezzelino rimase nemico più che mai, anzi una "dolorosa spina nel fianco" esiziale per i transiti, e quindi da combattere e schiacciare con tutti i mezzi (75). La stessa pace con Federico avrebbe dovuto provocare, parallelamente, una rottura con il papato; ma la rottura invece non ci fu (non era nell'interesse di nessuno), solo un semplice raffreddamento (Roma rimpianse certamente gli anni del Tiepolo). Perciò quando, alla fine del 1255, Alessandro IV bandì una Crociata contro Ezzelino, fu proprio a Venezia, in S. Marco, nel corso di una solenne cerimonia durante la quale anche il duca e i nobili e il popolo presero la croce, che l'impresa ebbe il suo esordio; e Padova fu strappata a Ezzelino anche grazie alle forze veneziane. Ma poi, quando la lotta contro Ezzelino si spostò in Lombardia, in àmbiti in cui gli interessi commerciali non erano in gioco, Venezia rimase volutamente assente, e strinse invece rapporti utili (utili ai traffici) con lo scomunicato Manfredi; salvo poi trarre profitto dalla caduta di Ezzelino inviando i suoi podestà a governare i comuni della Marca(76).

In sostanza, nei confronti dell'Impero e del papato, ma anche nei confronti di qualsiasi altra potenza, Venezia inaugurava una politica ambigua, né a favore né contro, ma di volta in volta o a favore o contro a seconda dell'interesse dei traffici. E il mondo cominciò ad accorgersi, anche con dispetto, della "diversità" di Venezia: "Loro, i Veneziani - scrisse qualcuno oltre cinquant'anni dopo -, sono proprio gente speciale; non riconoscono nulla e nessuno - non Dio, non la Chiesa, non l'imperatore, non il mare, non la terra - nisi quantum volunt" (77).

E poi, ancora in nome dei traffici, si innestò, dentro il comune, il processo degli adattamenti istituzionali. Questo volume illumina parecchio su curie e uffici, sulla politica del diritto, sul funzionamento degli organi di amministrazione e di governo (78); meno illumina sul nesso, che ora comincia a profilarsi con un dinamismo suo proprio, tra potere e traffici. Ma per Venezia è un tema ineludibile. Si allarghi per un attimo lo sguardo: di recente si è indicato nel 1250 l'anno attorno a cui far ruotare eventi di lungo periodo come "la caduta dell'Oriente", "l'agonia di Bisanzio" e le metamorfosi della cristianità d'Occidente "colosso fragile e vulnerabile". Tra queste metamorfosi si contano l'affermarsi delle città sul territorio, l'emergere nelle città di un signore o di un gruppo di "magnati", il fatto che ora "lo Stato diventa uno Stato" (79). Venezia, si sa, non ha il problema di dominare un territorio (anche se è in quest'epoca che meglio si definiscono, in senso gerarchico, gli spazi lagunari); non approda, come altri comuni dell'Alta Italia, a un regime di signoria cittadina; eppure anch'essa presenta segni non dubbi di una statualità in cammino.

Si prendano i ben noti Statuta navium del 1255, ossia il corpo di norme volte a regolamentare aspetti e componenti dell'"industria" dei traffici. A parte il fatto che ricordano - il richiamo non sembri strano - gli Statuti rurali di terraferma (quelli che le città dominanti imponevano allora alle comunità del territorio per meglio omologarle), colpisce in essi una gerarchia di funzioni ormai consolidata: in alto, gli armatori o "patroni", con i loro legni ancorati in porto e in attesa di contratti di noleggio; poi i mercanti, che di quei legni avevano bisogno per il trasporto delle merci; e infine i marinai, che all'atto dell'imbarco dovevano giurare la loro "devozione" alla nave e alle merci caricate; ma più in alto di tutti è collocato il governo cittadino, che su tutti vigilava perché ognuno, nel suo ruolo, servisse fino in fondo la causa dei traffici (80). Che cosa impedisce di credere che quella gerarchia fosse per molti versi lo specchio di quella presente nello Stato e nella società?

Se ne accorse a suo tempo Cessi quando notò, per questi anni, il differenziarsi dei cittadini tra "nobili" e "popolari", "tra chi era chiamato a esercitare una funzione pubblica e chi ne era escluso", con conseguente delinearsi di una "classe dirigente" affiancata da una selva di "pubblici ufficiali" (81). Appunto, dentro Venezia si può cogliere il formarsi di una gerarchia di ruoli e di ceti: in alto le grandi famiglie come gli Ziani, i Dandolo, i Tiepolo, i Morosini e poche altre - cui era connaturato l'esercizio del comando; in basso la massa dei lavoratori e dei marinai, cui toccava servire; in mezzo un ceto misto, fatto di nobili e di popolo, che stava a metà strada tra gli affari e le cariche: affollava il maggior consiglio (che difatti si dilatò a parecchie centinaia di membri), ma non trascurava di operare nei traffici da cui venivano i mezzi per affermarsi. E più in alto di tutti il potere del comune, con il compito di regolare il complesso dinamismo.

Forse, subito dopo la metà del secolo, in Venezia, il riassetto che interessò la società e le istituzioni neppure si avvertì: perché s'intuiva che tutto era fatto a servizio dei traffici; e finché i traffici funzionavano, tutti i Veneziani, governanti e governati, ricchi e poveri, potevano arricchirsi ed essere felici. Ma se si fosse annunciato un "uragano", o semplicemente fosse apparso "il rovescio della medaglia" (82)?

Dentro il mondo in tempesta

"Voi dovete sapere" - è un'espressione tipica del cronista di questi anni, Martino da Canal - che siamo alle prese con uno dei periodi più controversi del Medioevo veneziano, per il quale esistono diverse e perfino opposte interpretazioni: epoca di crescita o di "depression"? "Mercanti in crisi" o mercanti fieri di una loro splendida maturità? Un regime che si chiude, che sfocia nella "serrata", o un regime che si allarga e trasmuta in Stato "sui generis", a costituzione mista, unico al mondo?

Di recente una visione complessiva dell'intero mondo medievale ha messo tra parentesi molti ottimismi calcando la mano, come già Huizinga, sui "toni crudi della vita". Di qui l'idea di un'epoca che incomincia a essere percorsa non da una ma da più crisi, con un'economia che ristagna ("il falso fulgore del commercio"), con una società spaccata tra "grassi" e "minuti", con città "minacciose" (rispetto al territorio) e Stati pieni di "ombre", con una Chiesa che rischia la paralisi, con una cultura inquieta e piena di "paure" (83).

Viene subito da pensare a Venezia, che appartiene pur sempre a quel mondo: come poteva passare indenne, o quasi, attraverso "il tempo delle crisi"? E invece, a leggere questo volume, nulla, o quasi nulla, si percepisce che sappia di "ombre lunghe" o di "tempesta" imminente. Invano si cercherebbe per esempio sulla laguna una città "minacciosa": Rialto, la capitale già ben "determinata" (per usare l'espressione di Ortalli), non annulla affatto le altre Venezie, "che pure era utile e opportuno tenere in vita", sicché anche i Chioggiotti potevano essere detti e soprattutto sentirsi Veneziani (84), In quanto all'economia, il saggio di David Jacoby, dedicato alla presenza veneziana oltremare, assicura che neppure alla fine del Duecento, quando la città patì una "crisi d'immagine collettiva", ebbe tracolli o interruppe la sua "crescita": solo "adattamenti", anzi spostamenti geografici, che però non turbarono "la continuità complessiva degli affari" (85).

Sono punti fermi, e non sarò certo io a revocarli in dubbio per uniformare a tutti i costi Venezia alla meno rosea congiuntura del più vasto mondo di allora. Ma, una volta ammessi quei punti fermi, non è detto che accanto ad essi non vi sia posto per qualche dato o interrogativo in più.

Si diceva dei traffici, e subito viene in mente l'immagine della città-emporio dove tutti o quasi tutti ruotano attorno ai traffici. Ma è un'immagine non del tutto esatta: a Venezia, oltre ai traffici, esistono anche i mestieri; oltre ai mercanti, anche gli artigiani. Questo volume ha il merito non piccolo - non era mai accaduto in alcuna Storia precedente - di aver dato spazio anche all'altra Venezia, quella degli artigiani(86). E una Venezia che già esisteva da tempo, sotto forme di associazionismo spontaneo, ma che solo ora diventa ingombrante, anzi un problema: se tra il 1219 e il 1261 si dettarono solamente 17 Statuti d'arte o Capitolari, ben altri 35 (più del doppio) ne furono ordinati tra il 1261 e il 1278. Il fatto è che il governo paventava corporazioni autonome che facessero concorrenza ai mercanti (sul terreno dei rifornimenti e dei prezzi delle materie prime, o addirittura della distribuzione dei prodotti e manufatti), e perciò interveniva con norme che ingabbiavano le Arti e le confinavano a supporto innocuo della città dei mercanti. Un fatto è pertanto sicuro: la Venezia dei mercanti escludeva la Venezia degli artigiani.

Si diceva anche dei commerci in crescita, o comunque stabili nonostante episodiche battute d'arresto; ma i commerci di chi? Negli Statuti marittimi del 1255 si precisano le misure ammesse per i legni da trasporto: le minime sono di 200 "milliaria", con 7 ancore, 20 marinai e 110 "kantaria" di carico utile; le massime di 1.000 "milliaria", con 20 ancore, 100 marinai e 1.050 "kantaria" (87). Dopo di che un "patrono" che non riusciva ad armare un legno con le misure minime richieste era escluso dal giro. E si sa che in seguito le esclusioni non mancarono.

Intervennero poi fattori molteplici a turbare e a ridurre il volume dei traffici: in primo luogo, nel 1261, la caduta dell'Impero latino d'Oriente, che apportò danni enormi all'economia veneziana (in termini di costi materiali e di mancati guadagni) e fece esclamare al cronista coevo: "en leu des Veneciens les Jenoés " (88); poi, il crescere dei concorrenti sulle piazze d'Oriente (non solo Genovesi ma anche Fiorentini, Catalani e Provenzali) e infine l'aleatorietà degli afflussi di merci attraverso le vie carovaniere asiatiche, che incideva, insieme con altri fattori, sul livello dei prezzi. Guai però a credere a un collasso dei traffici; è al contrario sicuro che la città reagì parando colpo su colpo, adattandosi alla congiuntura e spesso domandola (è in questi anni - gli anni dei Polo - che i Veneziani andarono a cercarsi le merci sempre più lontano, fin dentro il misterioso Oriente asiatico).

Ma la sostanziale tenuta dei traffici non significò affatto tenuta dell'intero ceto mercantile. Il quale anzi, per meglio resistere alle varie scosse, perse via via per strada, per selezione naturale, i suoi elementi più deboli. Dunque, ancora esclusioni: la Venezia dei mercanti non era più la Venezia di tutti i mercanti.

Diventava semmai, dopo tante esclusioni, la Venezia dei grandi mercanti, ossia di una minoranza di "grassi" - per usare termini consueti per le città in crisi di Occidente - dominante sulla massa dei "minuti". Non c'è da stupire se questa minoranza, proprio per meglio garantire i traffici, volesse avocare a sé, soltanto per sé, lo stesso comune, che era di tutti, identificandosi con il ceto di governo. Sia ben chiaro - "voi dovete sapere" -, stiamo ponendo il problema della "serrata".

Salvare il salvabile

Sembrerebbe cronaca, ma è storia, storia di una città turbata, costretta a confrontarsi al suo interno per decidere della propria vita, del proprio futuro. Un primo fatto: nel 1265 i responsabili del controllo delle Arti (i giustizieri) presero misure drastiche per reprimere possibili rivolte (stabilirono l'obbligo della delazione, limitarono la libertà di riunione). Vuol dire che gli artigiani resistevano all'esclusione e facevano paura. Un altro fatto: nell'agosto del 1266, quando corse voce che il governo volesse raddoppiare la tassa della macina, un gruppo di uomini si precipitò a palazzo, accolse con il lancio di pietre il duca che tentava di placarlo, quindi dilagò contro le case di alcuni nobili dandole al saccheggio. Il governo reagì facendo impiccare i più sediziosi, ma cedette alla piazza: della tassa della macina non si parlò più. Vuol dire che il malcontento serpeggiava in città, soprattutto negli strati più deboli. Terzo fatto: un odio profondo, dicono le fonti, divideva le famiglie Tiepolo e Dandolo, al punto che Lorenzo Tiepolo (il figlio dell'ex duca Giacomo) fu ferito in piazza da Leonardo e Giovanni Dandolo; e quando si sparse la notizia dello scontro tutta la città si mobilitò: chi parteggiava per il Tiepolo e chi per i Dandolo; si ostentavano le insegne delle due famiglie sulle case, sulle vesti, sugli scudi; comparvero le armi. Vuol dire che il disagio coinvolgeva ormai tutta Venezia, compresi i suoi vertici, in primo luogo le due famiglie-simbolo, chiamate a risolvere, in un senso o in un altro, le "sofferenze" della città (89).

È il caso allora di guardare meglio a questi personaggi: il Tiepolo, scrive il cronista, era tutto suo padre ("aprist bien les euvres de son pere"), ossia sapeva bene, si può intendere, che cos'era un comune retto da un duca autorevole, bilanciato tra Oriente e Occidente, dove nessun ceto importante veniva escluso. Ma, a parte i ricordi di famiglia, sembra fosse animato da un'idea precisa: che Venezia, pur in mezzo alle tempeste, poteva salvarsi tutta, identificarsi in tutti, non solo nei grandi operatori, e quindi anche nei mercanti medio-piccoli e negli artigiani. Non per nulla, nel 1268, la sua elezione a duca scatenò gli entusiasmi del popolo delle contrade e delle Arti: "se foste stati là, signori, avreste potuto vedere folla e strafolla, festa e strafesta, gioia e stragioia" (così il cronista, che lo esalta come un salvatore della patria) (90). Non per nulla, nei pochi anni in cui governò (fino al 1275), fece ogni sforzo per comporre gli interessi dei traffici con quelli delle Arti, appellandosi perfino alla volontà popolare (valorizzò l'arengo in alternativa ai consigli).

Ben diverso il profilo dei Dandolo: scomparso Marco Ziani, l'unico erede del grande Pietro, erano rimasti i "leaders" indiscussi delle maggiori famiglie, quelli che dominavano nei consigli larghi e ristretti orientando le scelte politiche, specie quelle che in nome dei traffici comportarono fatalmente il sacrificio degli operatori più deboli e degli artigiani. Furono loro a ostacolare fino all'ultimo l'ascesa del Tiepolo al ducato, e poi ad assediarlo nel corso del suo governo fino a costringerlo alla resa; e una volta morto liquidarono la sua eredità politica tagliando fuori per sempre gli uomini delle Arti, chiudendo via via il potere nelle mani delle grandi famiglie. Nel 1283, uno di loro, Giovanni, divenne duca; e durante il suo governo si cominciò a pensare apertamente che era tempo di stabilizzare il ceto di governo (91).

Ma al di là del profilo dei personaggi, ciò che importa in concreto valutare è se e quanto potesse essere vincente, in rapporto ai tempi difficili, il loro progetto politico. Prendiamo il caso del Tiepolo: la sua idea di salvare tutti i ceti, anche i più deboli, cozzava con la realtà dei traffici in crisi, la quale fatalmente escludeva gli operatori più deboli. Egli ne fu ben conscio; e perciò la rese "logica" architettando un piano politico-militare di grandi ambizioni, che doveva risolvere la crisi: una nuova quarta Crociata, condotta d'intesa con il papa e con Carlo d'Angiò, che rovesciando i termini del trattato di Ninfeo ripristinasse, a danno dei Greco-Genovesi, l'Impero latino d'Oriente, nel quadro di un "Impero apostolico del Levante" la cui anima fosse Venezia (lo testimonia Martino da Canal, il suo interprete devoto). Con il ritorno trionfale di Venezia in Oriente non ci sarebbe più stato posto per "invidie" e "discordie", per tragici "orgogli"; tutti in Venezia sarebbero tornati ricchi e felici. Sennonché, come ammette lo stesso cronista, il piano fallì: "nul dou Ponent ne se movoit"; e la Crociata non ci fu. La conseguenza fu ovvia: anche l'intero progetto del Tiepolo - l'idea di salvare tutta Venezia - crollò di schianto (92).

A imporsi, invece, furono i Dandolo: non perché è normale che i potenti schiaccino i deboli (come direbbe una malintesa storia sociale) ma perché è normale che vinca chi sa leggere più a fondo dentro il mondo in cui vive. E quel mondo, lo si è detto, era minaccioso, con tempeste a Oriente e a Occidente che giungevano a scuotere anche la laguna, inducendo ad alzare difese, a salvare il salvabile. I Dandolo colsero il dilemma: o arrendersi lasciando che l'intera città andasse alla deriva tra collassi esterni e convulsioni intestine; o resistere chiamando l'intera città a combattere, a stringersi attorno al suo cuore, che erano i traffici. Scelsero di resistere e trovarono le forze per resistere. Così il destino di Venezia fu segnato: divenne una città inchiodata ai traffici, una città "serrata". Ma anche una città salvata.

Verso lo Stato "unanime"

L'età del comune volge al tramonto. E se si vuoi sapere davvero, al di là del percorso sin qui seguito, quanto essa sia stata ardua e complessa, per certi versi ancora indecifrabile, si leggano i tanti contributi che costituiscono la forza e la ricchezza, e anche la novità, di questo volume. Si parlava, per esempio, di economia; ma l'economia non può prescindere dalla moneta (questa è pur sempre l'epoca in cui anche Venezia, nel quadro del ritorno dell'oro in Occidente, conia il ducato); e neppure può prescindere dalla finanza, che per una città-Stato altamente dirigista come Venezia significa fiscalità, dazi, prestiti forzosi, politica di spesa, debito pubblico.

Si parlava di guerre sui mari e per terra, che furono frequenti; ma come capire la loro incidenza sull'economia, sulla società cittadina, sulla stessa tenuta del patriottismo locale senza sapere qualcosa sugli obblighi militari e sul reclutamento (che prevedeva anche il mercenariato), sulle armi e sui mezzi terrestri e navali?

Si parlava di traffici, di "guadagni", di lotte politiche legate ai traffici, e giustamente: perché Venezia è i traffici; ma per fortuna alcuni contributi di questo volume sono lì a dirci che la stessa Venezia è molto, molto di più: è aspirazioni, affetti, emozioni, desideri, idee, riti, simboli, arte, pietà, un universo di cultura e di fede tradotto in edifici sacri e profani, in mosaici e sculture, in esperienze religiose. Anche se queste ultime (sia detto per inciso) appaiono tutt'altro che mosse: sempre "cattoliche", ben radicate alla parrocchia, ai preti e ai "padrini", con scarti individuali e di gruppo quasi trascurabili (le confraternite), senza picchi di "santità" (anche i Mendicanti, specie i Predicatori cari ai Tiepolo, furono omologati dentro la religione ufficiale) (93).

Certamente altri aspetti potevano essere meglio illustrati in questo volume, soprattutto sul piano della cultura, che non è solo lingua e istruzione ma anche coscienza di sé e messaggio: penso a Marco - il Marco Lombardo di Dante? -, cronista di fine secolo, che ha perso il filo delle vicende cittadine e balbetta brani di storia universale (94); penso allo stesso Marco Polo, che a mio giudizio appartiene a fondo alla storia della città, anzi all'agonia del libero comune: perché, diversamente, non si saprebbe come inquadrare quel suo affacciarsi a "meraviglie" lontane, a civiltà e regni talmente grandiosi che di fronte ad essi Venezia appare piccola, come un punto trascurabile dell'universo (95).

Ma un libro, per quanto ampio, non può comprendere tutto; è solo un piccolo passo verso il tutto. Non riesco tuttavia a rinunciare a un'ultima aggiunta. L'immagine sopra espressa di una città "serrata" richiama inevitabilmente all'esito istituzionale che si ebbe a Venezia verso la fine secolo, quando il partito dei Dandolo, se così si può chiamare, giunse a imporre la "serrata del maggior consiglio".

In tempi ormai lontani, di tenerezza verso la società e di diffidenza verso lo Stato, quell'esito mi parve oscuro, quasi una pietra tombale calata su una città in precedenza splendida e ricca (96). Ora mi è dato correggermi: l'esito fu sì oscuro, ma non quanto avrebbe potuto essere. Proviamo a introdurre, per spiegarci, una variante negata: se avesse vinto il Tiepolo? A Venezia, è facile immaginarlo, sarebbe nata una signoria cittadina (magari incarnata da un Tiepolo): una di quelle signorie che prima si affermano con il favore del popolo schiacciando, con l'aiuto del popolo, la nobiltà, e poi schiacciando anche il popolo con un potere assoluto, riducendo i cittadini a sudditi: è quel che accadde in molte città di terraferma (97). In altri termini, avesse vinto il Tiepolo, Venezia non sarebbe sfuggita alla sorte di instabilità e spesso di tragedia che toccò ai regimi signorili o principeschi.

Ma vinsero i Dandolo; e nacque, nell'apparente continuità delle istituzioni comunali, lo Stato veneziano. Riferita a quegli anni, la parola "Stato" ha un suono alquanto sinistro, perché vuol dire potere forte, costrizioni calate dall'alto, pesante apparato burocratico e militare, cultura e religione "comandate", meno spazio per gli individui, poca libertà. E non c'è da sorprendersi: non è questo, si diceva, "il tempo delle crisi", del mondo in tempesta? Per resistere lo Stato non poteva che essere forte e spietato, ovunque. Ovunque, ma non a Venezia, che pure risentiva, come parte di quel mondo, della tempesta e delle crisi. Certo, anche a Venezia lo Stato fu forte e spietato la sua parte, ma in modo diverso: non schiacciò la nobiltà, anzi la "serrata" significa proprio questo la salvò dal tracollo trasformandola in stabile patriziato (un patriziato non chiuso ai "nuovi ricchi") (98); non schiacciò il popolo, anzi lo mobilitò al suo servizio in modo tale che il popolo rispose con la fedeltà, perfino con il patriottismo; non privilegiò individui o famiglie, perché il suo obiettivo era uno solo: il vantaggio di tutti. Lo Stato veneziano nasceva, insomma, diverso e costruttivo (non per nulla durerà per secoli): come "Stato unanime", dove tutti dovevano essere per tutti, "unanimiter, ad bonum publicum" (99).

Meglio dunque, molto meglio, per Venezia, che abbiano vinto i Dandolo. La "serrata" fu si una via stretta, ma pur sempre una via, forse la sola, attraverso cui la città unica al mondo poté ricostruirsi come Stato unico al mondo.

1. Roberto Cessi, Storia della Repubblica di Venezia, I, Milano-Messina 19682, pp. 189 ss., 221 ss.

2. Frederic C. Lane, Storia di Venezia, Torino 1978, p. 3.

3. R. Cessi, Storia della Repubblica di Venezia, pp. 151-152.

4. Gina Fasoli, Comune Veneciarum, in AA.VV., Venezia dalla prima crociata alla conquista di Costantinopoli, Firenze 1965, pp. 71-102, in partic. pp. 81, 90, 96; Ead., Liturgia e cerimoniale ducale, in Ead., Scritti di storia medievale, a cura di Francesca Bocchi-Antonio Carile-Antonio I. Pini, Bologna 1974, pp. 529-561.

5. F. C. Lane, Storia di Venezia, pp. 102-108.

6. Gerhard Rösch, Der Venetianische Adel bis zur Schliessung des Grössen Rats. Zur Genese einer Führungsschicht, Sigmaringen 1989, pp. 81 ss.

7. Id., Venezia e l'Impero, 962-1250. I rapporti politici, commerciali e di traffico nel periodo imperiale germanico, Roma 1985: di "occidentamento" parla Hans-Georg Beck nella Prefazione, pp. 10-11.

8. Daniela Rando, Una Chiesa di frontiera. Le istituzioni ecclesiastiche veneziane nei secoli VI-XII, Bologna 1994, pp. 165 ss.

9. Andrea Castagnetti, Il primo comune, in questo volume.

10. Hagen Keller, La società comunale, in Giorgio Cracco, L'Europa e il mondo nel Medioevo, Torino 1992, pp. 275-290

11. G. Fasoli, Comune Veneciarum, p. 93.

12. Giorgio Cracco, I testi agiografici: religione e politica nella Venezia del Mille, in Storia di Venezia, I, Origini - Età ducale, a cura di Lellia Cracco Ruggini-Massimiliano Pavan (†) e Giorgio Cracco-Gherardo Ortalli, Roma 1992, pp. 923-961, in partic. pp. 944-949.

13. Giovanni Spinelli, I monasteri benedettini fra il 1000 ed il 1300, in La Chiesa di Venezia nei secoli XI-XIII, a cura di Franco Tonon, Venezia 1988 (Contributi alla storia della Chiesa veneziana, 2), pp. 109-133, in partic. pp. 111-113.

14. G. Cracco, I testi agiografici, pp. 949-950.

15. D. Rando, Una Chiesa di frontiera, pp. 170-171.

16. Ibid., pp. 176 ss.

17. Giorgio Cracco, Don G. De Luca studioso della pietà veneziana, "Ricerche di Storia Sociale e Religiosa", 28, 1985, pp. 35-43.

18. Id., Dandolo, Enrico, patriarca, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXXII, Roma 1986, pp. 448-450. Di recente D. Rando, Una Chiesa di frontiera, p. 173, ha parlato, e giustamente, di "epoca del patriarca Dandolo".

19. Boncompagni Liber de obsidione Ancone [A. 1173>, a cura di Giulio C. Zimolo, in R.I.S.2, VI, 3, 1937, p. 14; Agostino Pertusi, "Quaedam regalia insignia". Ricerche sulle insegne del potere ducale a Venezia durante il Medioevo, "Studi Veneziani", 7, 1965, pp. 3-123.

20. Giorgio Cracco, Un "altro mondo". Venezia nel Medioevo. Dal secolo XI al secolo XIV, Torino 1986, pp. 42-43. É

21. G. Fasoli, Comune Veneciarum, p. 81.

22. Alain Ducellier, L' Église byzantine. Entre Pouvoir et Esprit (313-1204), Paris 1990, pp. 179 ss.

23. Si v. il caso vicentino: Giorgio Cracco, Religione, Chiesa, pietà, in Storia di Vicenza, II, L'età medievale, a cura di Id., Vicenza 1988, pp. 359-425, in partic. pp. 393-394.

24. Id., "Relinquere laicis que laicorum sunt". Un intervento di Eugenio IV contro i preti-notai di Venezia, "Bollettino dell'Istituto di Storia della Società e dello Stato Veneziano ", 3, 1961, pp. 179- 189.

25. De Pace Veneta Relatio, a cura di Ugo Balzani, "Builettino dell'Istituto Storico Italiano", 10, 1891, pp. 7-16, in partic. p. 12. Cf. anche la nuova ediz. di Rodney M. Thomson, An English Eyewitness of the Peace of Venice, 1177, "Speculum", 50, nr. 1, 1975, pp. 21-32, in partic. pp. 29-32.

26. Paolo Brezzi, La pace di Venezia del 1177 e le relazioni tra la repubblica di Venezia, il papato e l'impero, in AA.VV., Venezia dalla prima crociata alla conquista di Costantinopoli, Firenze 1965, pp. 49-70, in partic. pp. 69-70.

27. Historia Ducum Veneticorum, a cura di Henry Simonsfeld, in M.G.H., Scriptores, 14, 1883, p. 83.

28. Rolandini Patavini Cronica in factis et circa facta Marchie Trivixane [1200 cc. - 1262>, a cura di Antonio Bonardi, in R.I.S. 2, VIII, 1, 1905, p. 50.

29. Romualdi Salernitani Chronicon [A. m. 130 - A.C. 1178>, a cura di Carlo A. Garufi, in R.I.S.2, VII, 1, 1914, pp. 279 ss.

30. G. Cracco, Un "altro mondo", pp. 54-56.

31. Id., Società e Stato nel Medioevo veneziano (Secoli XII-XIV), Firenze 1967, pp. 6-7, 48.

32. Romualdi Salernitani Chronicon, pp. 279 ss.

33. Paul F. Kehr, Italia Pontificia [...>, VII, Venetiae et Histria, Pars II [...>, Berolini 1925, p. 133 (lettera di Lucio III a Filippo vescovo di Castello del 1181).

34. De translatione Sancti Protomartyris Stephani [...>, in Flaminio Corner, Ecclesiae Venetae antiquis monumentis illustratae, VIII, Venetiis 1749, pp. 96-110, in partic. pp. 99-103.

35. Gottlieb L.Fr. Tafel - Georg M. Thomas, Urkunden zur älteren Handels- und Staatsgeschichte der Republik Venedig mit besonderer Beziehung auf Byzanz und die Levante. Von neunten bis zum Ausgang des fünfzehnten Jahrhunderts, I, in Fontes Rerum Austriacarum [...>, XII, Wien 1856, pp. 216 ss.

36. "Suis personis fatigari, denegantes fatigationem nostris personis": sono espressioni che compaiono nel documento citato alla n. precedente.

37. Donald M. Nicol, La quarta Crociata, in questo volume.

38. È un'espressione di Aldo A. Settia, L'apparato militare, in questo volume.

39. Giorgio Cracco, Dandolo, Enrico, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXXII, Roma 1986, pp. 450-458, in partic. pp. 455-456.

40. Giorgio Ravegnani, La Romània veneziana, in questo volume.

41. Henri Pirenne, Storia d'Europa dalle invasioni al secolo XVI, Firenze 1956, p. 365.

42. Martin da Canal, Les Estoires de Venise. Cronaca veneziana in lingua francese dalle origini al 1275, a cura di Alberto Limentani, Firenze 1972, pp. 4-5.

43. Cf. i tre contributi di Gerhard Rösch, Lo sviluppo mercantile, Le strutture commerciali e Il "gran guadagno", in questo volume.

44. Ugo Tucci, L'impresa marittima: uomini e mezzi, in questo volume.

45. Per l'Historia Ducum, cf. la mia presentazione in Società e Stato nel Medioevo veneziano, pp. 90-100.

46. Gerardo Maurisio, Cronaca ezzeliniana (anni 1183-1237), a cura di Flavio Forese, Vicenza 1986, p. 6.

47. Le Promissioni del doge di Venezia dalle origini alla fine del Duecento, a cura di Gisella Graziato, Venezia 1986, pp. 5-6.

48. Roberto Cessi, Venezia nel Duecento: tra Oriente e Occidente, Venezia 1985, pp. 69 ss.

49. Giorgio Cracco, Da Comune di famiglie a città satellite (1183-1311), in Storia di Vicenza, II, L'età medievale, a cura di Id., Vicenza 1988, pp. 73-138, in partic. pp. 89 ss.

50. M.G.H., Leges, IV, Constitutiones et acta publica imperatorum et regum, II, a cura di Ludwig Weiland, 1896, pp. 93-97.

51. G. Cracco, Società e Stato nel Medioevo veneziano, pp. 86-88.

52. Andreae Danduli Chronica per extensum descripta a. 46-1280 d.C., a cura di Ester Pastorello, in R.I.S.2, XII, 1, 1938-1958, p. 292.

53. G. Cracco, Società e Stato nel Medioevo veneziano, p. 46.

54. R. Cessi, Venezia nel Duecento: tra Oriente e Occidente, pp. 76-81.

55. G. Cracco, Società e Stato nel Medioevo veneziano, p. 88.

56. Le Promissioni del doge di Venezia, pp. 7-22.

57. G. Cracco, Un "altro mondo", p. 74; G. Rösch, Der Venetianische Adel, pp. 125 ss.

58. In particolare, sugli Statuti: cf. bibliografia in G. Cracco, Un "altro mondo", p. 77 n. 2.

59. Michel Mollat-Philippe Braunstein-Jean-Claude Hocquet, Réflexions sur l'expansion vénitienne en Méditerranée, in Venezia e il Levante fino al secolo XV, a cura di Agostino Pertusi, I, Storia, Diritto, Economia, Firenze 1973, pp. 515-539, in partic. pp. 529-530.

60. Giorgio Cracco, Federico II, Venezia e le città della Marca Trevigiana, in Federico II e la civiltà comunale nell'Italia del Nord. Atti del Convegno Internazionale di Studi (Pavia, 13-15 ottobre 1994) (in corso di stampa).

61. Id., Società e Stato nel Medioevo veneziano, pp. 142-144.

62. Marco Pozza, Venezia ed Ezzelino III da Romano (1228-1237), in AA.VV., Nuovi studi ezzeliniani, a cura di Giorgio Cracco, Roma 1992, pp. 381-386, in partic. pp. 384-385.

63. David Abulafia, Federico II: Un imperatore medievale, Torino 1990, pp. 259-260.

64. R. Cessi, Venezia nel Duecento: tra Oriente e Occidente, pp. 116 ss.

65. Ryccardi De Sancto Germano Chronica, a cura di Carlo A. Garufi, in R.I.S.2, VII, 2, 1937-1938, p. 207.

66. Gottlieb L.Fr. Tafel - Georg M. Thomas, Urkunden zur àlteren Handels- und Staatsgeschichte der Republik Venedig mit besonderer Beziehung auf Byzanz und die Levante. Von neunten bis zum Ausgang des fünfzehnten Jahrhunderts, II, in Fontes Rerum Austriacarum [...>, XIII, pp. 341-346, in partic. p. 342; Historia Diplomatica Friderici secundi [...>, a cura di Jean-Louis-Alphonse Huillard-Bréholles, V, 1, Parisiis 1857, pp. 390 ss.

67. D. Abulafia, Federico I1, pp. 312 ss.

68. Martin da Canal, Les Estoires de Venise, pp. 115-121.

69. R. Cessi, Storia della Repubblica di Venezia, p. 235; Ernst Kantorowicz, Federico II, imperatore, Milano 1976, p. 643.

70. R. Cessi, Venezia nel Duecento: tra Oriente e Occidente, pp. 155-157. Cf. anche, per il problema, Marco Pozza, I proprietari fondiari di terraferma, in questo volume.

71. Giorgio Cracco, Chiese locali e partito imperiale nell'Italia dei Comuni (1236-1254), in Federico II e le città italiane, a cura di Pierre Toubert-Agostino Paravicini Bagliani, Palermo 1994, pp. 403-419.

72. Id., La cultura giuridico politica nella Venezia della "serrata", in AA.VV., Storia della cultura veneta, II, Il Trecento, Vicenza 1976, pp. 238-271, in partic. pp. 244-245.

73. Le Promissioni del doge di Venezia, pp. 23-39.

74. Martin da Canal, Les Estoires de Venise, pp. 127-131.

75. R. Cessi, Venezia nel Duecento: tra Oriente e Occidente, p. 163.

76. Ibid., pp. 173 ss.

77. Cit. in G. Cracco, Società e Stato nel Medioevo veneziano, p. 224.

78. Cf. i due contributi di Andrea Padovani, La politica del diritto e Curie ed uffici, in questo volume.

79. Robert Fossier, Il tempo delle crisi, 1250-1520, Torino 1987, pp. 5 ss.

80. G. Cracco, Un "altro mondo", pp. 84-86.

81. R. Cessi, Venezia nel Duecento: tra Oriente e Occidente, pp. 241-245.

82. R. Fossier, Il tempo delle crisi, pp. 17-2 1.

83. Cf. supra, n. 79, e Giorgio Cracco, Mercanti in crisi: realtà economiche e riflessi emotivi nella Venezia del tardo Duecento, in AA.VV., Studi sul Medioevo Veneto, Torino 1981, pp. 7-24.

84. Gherardo Ortalli, I cronisti e la determinazione di Venezia città, in questo volume.

85. "Continuità", "adattamenti" e "crescita" descritti in David Jacoby, La Venezia d'oltremare nel secondo Duecento, in questo volume.

86. Giorgetta Bonfiglio Dosio, Le Arti cittadine, in questo volume.

87. G. Cracco, Un "altro mondo", p. 84 n. 3.

88. Martin da Canal, Les Estoires de Venise, p. 180.

89. G. Cracco, Società e Stato nel Medioevo veneziano, pp. 211 ss.

90. Martin da Canal, Les Estoires de Venise, p. 280.

91. G. Cracco, Società e Stato nel Medioevo veneziano, pp. 331 ss.

92. Id., Un "altro mondo", pp. 100-102.

93. Si vedano i contributi di Giuseppina De Sandre Gasparini, Chiara Frugoni, Wladimiro Dorigo, in questo volume.

94. Giorgio Cracco, Tra Marco e Marco: un cronista veneziano dietro al canto XVI del "Purgatorio"?, in AA.VV., Viridarium floridum. Studi di storia veneta offerti dagli allievi a Paolo Sambin, Padova 1984, pp. 3-23.

95. Id., Mercanti in crisi, pp. 20 ss.

96. Alludo al mio Società e Stato nel Medioevo veneziano.

97. La crisi degli ordinamenti comunali e le origini dello stato

del Rinascimento, a cura di Giorgio Chittolini, Bologna 1979.

98. G. Rösch, Der Venetianische Adel, p. 184.

99. È un'espressione di Andrea Dandolo, contenuta nella Chronica brevis, edita al seguito della Extensa, p. 353.

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