L'ERA DEL PETROLIO

XXI Secolo (2010)

L’era del petrolio

Marcello Colitti

Il modello del petrolio

Vi sono evidenti ragioni per considerare l’inizio del 21° sec. come ancora appartenente all’era del petrolio, ossia al periodo nel quale il sistema economico e sociale si fonda sull’utilizzo degli idrocarburi (petrolio e gas naturale). Le attività umane continuano infatti in massima parte a essere basate proprio sull’uso di queste fonti fossili: non soltanto per la produzione e il trasporto di beni e servizi, ma anche per il comfort nelle abitazioni e durante il tempo libero. La stessa struttura decentrata delle città moderne, basata sulla mobilità individuale, è stata resa possibile, come il comfort domestico, dal prezzo relativamente basso dei prodotti petroliferi e dell’elettricità. Il modello degli idrocarburi è perciò divenuto un modello totalitario. In esso, le altre fonti di energia hanno un’importanza, se non proprio marginale, certamente secondaria, anche se il carbone dà un contributo importante alla produzione di elettricità e di acciaio.

Questo modello totalitario è ad altissima produttività, per varie ragioni. La mobilità a basso costo ha ridotto i costi della produzione di beni e servizi, ha aumentato la produttività dei singoli e delle imprese, e quindi il reddito. La petrolchimica ha immesso sul mercato un gran numero di nuovi prodotti e ha ridotto il prezzo di quasi tutti quelli già esistenti. La produzione di elettricità ha ridotto i propri costi, prima grazie all’olio combustibile e poi al metano. Da ultimo, la spesa per l’uso dell’energia da destinare al comfort domestico ha finito per costituire una parte modesta del costo della vita e quest’uso si è così potuto diffondere anche tra i meno abbienti. Lo sviluppo dell’economia mondiale avvenuto dopo la Seconda guerra mondiale e quello più recente dei Paesi asiatici non sarebbero stati così rapidi senza il sistema fondato sugli idrocarburi.

Quello del petrolio è un modello dinamico che si è diffuso in un tempo relativamente breve, prima negli Stati Uniti, poi in Europa e infine in tutto il mondo. Di recente, la sua forte vitalità ha contribuito ad avviare processi di industrializzazione e di sviluppo in aree che erano ancora lontane dall’economia moderna, migliorando la loro condizione, ma aumentando la domanda di risorse – non solo di energia – che sono per loro natura finite. Negli ultimi anni, il modello elettronico, che favorisce l’aumento della produttività, si è combinato efficacemente con quello petrolifero, essendo questo costitutivamente un sistema mobile. Lo sviluppo dei sistemi di comunicazione personalizzati e di reti che coprono ormai una larga parte del mondo ha fatto della combinazione fra alta mobilità fisica, basso costo dell’energia e facilità di comunicazione una caratteristica primaria del sistema economico e sociale moderno.

Carbone e petrolio: confronto tra modelli

Quando, agli inizi della seconda metà del 19° sec., le prime rudimentali perforazioni negli Stati Uniti portarono alla scoperta di giacimenti petroliferi, il petrolio non aveva ancora un vero mercato, se non forse quello dell’illuminazione. Sin dall’inizio della rivoluzione industriale, era il carbone la fonte di energia dominante per gli usi domestici e industriali: esso costituiva infatti il combustibile per caldaie, impianti industriali e mezzi di trasporto (treni e navi), e da esso veniva il gas per l’illuminazione, il riscaldamento domestico e la cottura dei cibi. Il carbone veniva mandato alle cokerie (che producevano coke per l’acciaio) e alle officine del gas (che producevano il gas distribuito con reti nelle città); il gas era inviato anche agli impianti di sintesi per produrre derivati chimici. Le ricerche sui derivati del carbone portarono già alla metà del 19° sec. alle prime produzioni di coloranti e medicinali sintetici.

È opportuno confrontare il sistema del carbone con quello del petrolio. Nel sistema del petrolio, greggio e gas fuoriescono dai pozzi; il greggio va (per oleodotto e per nave) alla raffineria, dove si ottengono carburanti per il trasporto, combustibili, nonché basi per i lubrificanti e virgin naphta; quest’ultima, con una parte del gas prodotto assieme al greggio, alimenta gli impianti di cracking che producono gli intermedi petrolchimici. Nel gas estratto, assieme al greggio, vi è il metano (prodotto anche da pozzi a solo gas) che, trasportato per metanodotto o per nave refrigerata, è un combustibile e un carburante, nonché una materia prima per la petrolchimica.

Il confronto tra i due sistemi permette di evidenziare significative e rilevanti differenze. Per produrre un manufatto nel sistema del carbone, per es. un tubo, si comincia dalle miniere di carbone e di ferro. Una parte del carbone è inviata alle cokerie, e i sottoprodotti sono indirizzati verso le industrie chimiche; il ferro viene mandato alle industrie metallurgiche, assieme al coke (donatore di carbonio all’acciaio e di calore) e al gas (combustibile). Poiché il carbone è un concrezionato pesante e di grande volume per unità di peso, il suo trasporto risulta costoso, e le filiere industriali si localizzano presso le miniere, lungo un’integrazione verticale (carbone-coke-ferro-acciaio-industria meccanica) che implica grandi imprese, macchine ingombranti e pesanti, fabbriche di notevoli dimensioni e l’apporto di numerosi lavoratori. Rispetto al carbone, il vantaggio del petrolio non è soltanto il minor costo di produzione, ma anche la maggiore semplicità e la linearità del suo sistema: non vi è bisogno di un altro materiale per realizzare un manufatto. L’industria è più leggera, gli impianti sono più piccoli, meno inquinanti, richiedono minore capitale e meno lavoratori per chilo di prodotto; l’industria si può disperdere nel territorio, perché trasportare petrolio costa relativamente poco. Si comprende pertanto come il convertitore siderurgico, l’impianto chiave dell’industria del 19° sec., sia stato sostituito dal cracker e dalla polimerizzazione, che produce polimeri soffiabili, pressurizzabili e confezionabili in qualunque foggia e in una miriade di prodotti finiti. Il carbone è stato sostituito con petrolio ed elettricità. L’avvento del motore a benzina ha rivoluzionato i trasporti terrestri e marittimi, rendendo possibile il trasporto aereo e favorendo la struttura decentrata delle città moderne. Il petrolio ha determinato in questo modo un sistema economico e sociale che, alla fine del 20° sec., si è diffuso nei Paesi ricchi come in quelli poveri. Non vi è oggi Paese al mondo privo di automobili, trattori o autocarri con motori a benzina o a gasolio. Il petrolio è diventato il prodotto trasportato in maggiore quantità nel mondo e la sua produzione si misura in miliardi di tonnellate all’anno.

L’industria petrolifera e la formazione del prezzo

L’industria mineraria

Le attività di esplorazione e di produzione sono il cuore dell’industria petrolifera, il settore in cui si sviluppano e si impiegano le tecnologie più avanzate e da cui provengono i maggiori profitti, a compenso del rischio minerario. Oltre al rischio tecnico, consistente nell’evenienza che la struttura geologica individuata non contenga idrocarburi o ne contenga in quantità non commerciale, vi è quello economico, definito dalle possibilità che al momento dell’entrata in produzione, anni dopo la scoperta, il prezzo del greggio renda il nuovo giacimento non profittevole. La scoperta di un nuovo giacimento, la definizione della sua capacità produttiva e il suo approntamento per la produzione richiedono investimenti importanti e tempi lunghi, durante i quali il prezzo del petrolio può cambiare più volte. Le imprese prendono perciò le loro decisioni in funzione di prezzi ombra, che sono basati sulle previsioni per il futuro e che possono essere maggiori o minori del prezzo reale. Le spese di ricerca vera e propria, per il margine di rischio che le caratterizza, devono essere coperte con capitale proprio e non sono ammortizzate. Dopo la scoperta, i progetti per sviluppare il campo, metterlo in produzione e raggiungere il mercato possono essere realizzati con capitali di prestito, e ciò ha dato luogo a importanti esempi di project financing.

Negli anni Ottanta il costo di produzione di un barile di greggio risultava vicino ai 20 dollari. A partire da allora iniziò un periodo di riduzione del costo grazie all’introduzione di nuove tecnologie, come la perforazione di pozzi orizzontali; questi infatti attraversano tutta l’area del giacimento e non soltanto il suo spessore (ognuno di essi produce come parecchi pozzi verticali). La tabella 1 mostra una stima della ripartizione del valore di un barile di greggio nel 2004, 2006 e 2010; i dati si riferiscono alla produzione petrolifera di una major in un Paese produttore, con un rapporto contrattuale di production sharing agreement, in cui il valore della produzione è ripartito tra il Paese produttore e la compagnia petrolifera. La tabella permette di apprezzare l’incidenza dei costi tecnici, che in termini percentuali è rimasta costante, intorno al 32%; in valore assoluto tali costi sono tuttavia saliti da 12 dollari al barile nel 2004 a oltre 26 nel 2010, per la crescita del costo delle attrezzature (e in generale dei macchinari), per l’aumento delle complessità tecniche e anche per la debolezza del dollaro. Sul valore della produzione gravano, inoltre, le imposte dovute ai Paesi produttori, salite in percentuale (dal 36% del 2004 a oltre il 42% del 2010) e in valore assoluto (dai circa 13 dollari del 2004 ai 34 del 2010).

Va precisato che il costo di produzione è legato anche alla profondità dei pozzi e alla complessità dell’approntamento per la produzione; negli ultimi anni si è sviluppata la produzione di olio e di gas in giacimenti sottomarini situati a profondità sempre crescenti, che richiedono quindi di porre le strutture di sfruttamento del pozzo a profondità anche rilevanti. La relativa tecnologia ha permesso di sfruttare giacimenti altrimenti irraggiungibili soltanto pochi anni prima, che hanno però un costo di produzione notevolmente più alto della media.

Il progresso tecnologico si basa sull’esigenza di ridurre i costi e aumentare la produzione, e anche sulla necessità di lavorare in aree relativamente marginali rispetto alle grandi aree produttrici. Poiché le grandi compagnie private internazionali non sono sempre ben accette nei Paesi produttori, che preferiscono invece operare attraverso le loro compagnie nazionali, esse devono lavorare nelle aree disponibili, che non sono necessariamente le migliori.

Il funzionamento dell’industria mineraria è a grandi linee lo stesso di un tempo; tuttavia oggi si può identificare un giacimento con grande precisione, in tre e addirittura in quattro dimensioni (cioè aggiungendovi quella temporale), con riduzione dei costi e, di contro, aumento della complessità del sistema.

La redditività di un giacimento è infine definita dalla qualità del greggio, che non è un prodotto omogeneo: ogni giacimento offre, infatti, un greggio diverso. Esistono varie classificazioni: le più semplici e più importanti sono quella che distingue fra greggi leggeri e pesanti e quella che suddivide i greggi solforosi (detti acidi) dai dolci. I greggi dolci e leggeri valgono di più, perché in raffineria producono un’alta percentuale di sostanze leggere, cioè GPL (Gas di Petrolio Liquefatto), virgin naphta e benzina. Quelli pesanti e acidi, che possono avere un prezzo minore rispetto ai primi anche di diversi dollari al barile, producono una quantità maggiore di combustibili, olio combustibile e gasolio pesante, e richiedono una desolforazione.

I giacimenti di petrolio greggio producono quasi sempre anche una certa quantità di gas associato, costituito da una miscela di vari gas: fino al 70% di metano, e poi gas diversi, principalmente etano, propano e butano. I gas vengono separati, iniziando dal metano, che è un eccellente combustibile e si separa facilmente dal petrolio e dagli altri gas, e proseguendo con questi ultimi, che richiedono operazioni più complesse. L’etano è la migliore materia prima per produrre etilene in un cracker petrolchimico. Propano e butano sono anch’essi buone cariche petrolchimiche, ma essendo facilmente liquefacibili, contrariamente al metano e all’etano, vengono anche venduti per uso termico domestico, in bombole o nelle reti urbane. Negli Stati Uniti, o in Arabia Saudita, il volume complessivo del gas associato prodotto insieme al greggio rappresenta circa il 10% del volume del greggio. Il recupero di questi gas ha permesso di abbandonare l’uso di bruciare in torcia i gas associati (flaring), che recava grave danno all’ambiente e sprecava una risorsa importante. In molte aree del mondo vi sono inoltre giacimenti di gas secco, cioè di metano con scarsa presenza di prodotti liquidi, come quelli della Valle Padana.

Una volta scoperto e messo in produzione il giacimento, l’aumento della sua produzione richiede costi addizionali quasi nulli: il costo marginale della produzione di greggio è cioè quasi zero, per cui le imprese tendono ad aumentare la produzione. Tale propensione favorisce l’alternanza tra periodi di intensa concorrenza, seguiti dall’istituzione di un controllo della produzione, come la proration adottata negli Stati Uniti negli anni Trenta, oppure la concentrazione dell’attività in grandi imprese, capaci di graduare la produzione e forgiare il mercato in oligopolio stretto.

Il mercato del greggio

Il prezzo del greggio venne inizialmente ricavato, ai fini del calcolo delle royalty (le somme dovute alla casa reale o allo Stato come loro parte del greggio prodotto, commisurate ai profitti della compagnia ricavati dal giacimento), dal prezzo offerto negli Stati Uniti (un’area ad alto costo) dalle grandi raffinerie ai produttori indipendenti. Con il grande shock petrolifero del 1973, l’OPEC (Organization of the Petroleum Exporting Countries, che raccoglie tra l’altro tutti i principali Paesi produttori del Medio Oriente tranne l’Omān) decise di avocare a sé sia il volume di produzione sia il prezzo, per mantenere il primo più basso possibile e più alto il secondo, aumentando così la quota del Paese produttore. Nel 1985 il prezzo crollò per la decisione dell’Arabia Saudita di legare il proprio greggio al Brent del Mare del Nord. In precedenza, durante il periodo di formazione del mercato del petrolio greggio, lo sviluppo del mercato spot (attraverso cui singole navi erano vendute on the spot, cioè nel punto in cui si trovavano, e poi dirottate verso questo o quel compratore) aveva consentito ai Paesi produttori di valutare se il prezzo OPEC rispondesse effettivamente al rapporto corrente fra la domanda e l’offerta. Al momento del crollo del prezzo, il mercato spot fornì le basi per il passaggio al mercato dei futuri, lo scenario attuale. Il mercato dei futuri, da cui ancor oggi viene fissato il prezzo, è basato su due greggi leggeri, il West Texas intermediate e il Brent, che rappresentano una piccola percentuale della produzione globale. Su questo mercato agiscono compratori e venditori, alcuni interessati al prodotto, ma in grande maggioranza speculatori, che comprano o vendono sul futuro, cioè con un prezzo pattuito per consegna fissata dopo determinati giorni, mesi o anni. Queste partite sono rinegoziate un numero quasi infinito di volte, e raramente diventano liquide: il mercato dei futuri realizza un enorme numero di transazioni (in un giorno di mercato si scambia in teoria più dell’intera produzione petrolifera di un anno) e rappresenta un’area importante per capitali di rischio alla ricerca di un impiego remunerativo. Per es., un calo del rendimento dei titoli di Stato o delle obbligazioni produce un flusso di capitale che esce da quei titoli ed entra nei futuri petroliferi, producendo un aumento della domanda, anche se fittizia, e quindi del prezzo. Il mercato del greggio è oggi un mercato speculativo estremamente sensibile alle più piccole variazioni delle aspettative dei singoli negoziatori, che molto spesso rispondono alle aspettative non tanto del mercato petrolifero quanto di quello finanziario.

Pertanto le compagnie petrolifere, grandi e piccole, non gestiscono più il mercato del greggio, e sono price takers, non più price makers. Lo stesso dicasi dell’OPEC, che tuttavia controlla il volume della produzione. Per le compagnie, una parte del loro profondo cambiamento si sostanzia nel fatto che hanno abbandonato il concetto di integrazione, ridotto la loro presenza nei settori meno determinanti, come il trasporto e la raffinazione, e anche per ciò che riguarda la gestione del greggio sono ormai dipendenti dal mercato. Esse hanno concentrato gli investimenti nel settore minerario, ma anche qui preferiscono utilizzare i servizi di terzi, che non richiedono immobilizzi di capitale ma solo costi correnti. La tendenza alla riduzione dei costi fissi in favore di quelli variabili si è verificata anche nelle attività di ricerca e produzione mediante il rapido sviluppo delle imprese di servizi tecnici che realizzano praticamente tutte le operazioni, lasciando alle compagnie solo le funzioni decisionali e i negoziati con i Paesi produttori. In pratica, ogni compagnia petrolifera controlla il sistema di lettura per via elettronica di tutte le linee sismiche (sistema play-back) del proprio archivio, aumentando così la capacità di scoprire nuovi giacimenti. Nel mercato petrolifero, le compagnie operano spesso attraverso traders, venditori e compratori, i quali hanno una posizione di indipendenza e sono un autonomo centro di profitto dentro l’impresa. Essi hanno la possibilità di vendere anche tutta la produzione, scegliendo la possibilità più conveniente dal punto di vista del profitto per ottenere ciò che serve alla società per la raffinazione e la distribuzione dei prodotti. Le società partecipano al mercato dei futuri come qualsiasi altro operatore, e la tendenza alla professionalizzazione dei traders le ha influenzate al punto che si comportano allo stesso modo delle grandi organizzazioni finanziarie e bancarie operanti sul mercato dei futuri.

Le compagnie sono cambiate anche nel loro rapporto con i propri azionisti. Esse temono le scalate dei gruppi finanziari, e per evitare tale eventualità pagano dividendi piuttosto alti e ricomprano proprie azioni per tenerne alto il valore. Una serie di fusioni ha ridotto il numero delle grandi compagnie aumentandone le dimensioni, un obiettivo perseguito da un lato per ridurre i costi e dall’altro per rendere più costose le possibili scalate.

Accanto alle majors, vi sono le imprese di Stato (dette NOC, National Oil Companies) che producono in proprio nei Paesi ove il petrolio è nazionalizzato. Esse collaborano con le compagnie petrolifere sulla base di accordi complessi di ripartizione della produzione, e forniscono un contributo decisamente rilevante alla produzione mondiale (tab. 2; per completezza, ai dati della tabella andrebbero aggiunte le quantità spettanti alle NOC in base agli accordi con le compagnie private, che però sono variabili e difficilmente stimabili con esattezza).

All’inizio del 21° sec. si sono verificati fortissimi aumenti di prezzo, prima con un passaggio da 30 a 40 dollari al barile fra il 2003 e il 2004, poi con una continua crescita, fino a 140 dollari nell’estate del 2008, per ricadere successivamente a 40 dollari nel febbraio 2009 e risalire a 80 un anno dopo (dati OPEC). Le cause di questi aumenti e della volatilità del prezzo sono legate sostanzialmente al sistema dei futuri. Vi sono stati timori di scarsità e afflussi di denaro speculativo proveniente da altre aree del mercato finanziario: la combinazione di questi due fenomeni, più la scarsa capacità di raffinazione negli Stati Uniti, ha indotto gli operatori a previsioni negative sull’offerta di greggio e di prodotti, e ha provocato quindi l’aumento dei prezzi, determinando una straordinaria crescita dei profitti delle compagnie e una forte riduzione della domanda (soprattutto in Europa e Giappone, ma anche, per un periodo più breve, negli Stati Uniti). Nell’aumento dei prezzi hanno giocato un ruolo rilevante anche la caduta del dollaro rispetto all’euro e alla sterlina e l’aumento delle tasse dei Paesi produttori. L’aumento viene giustificato con l’argomentazione che può favorire l’ingresso sul mercato dei cosiddetti petroli non convenzionali, ottenuti dalle sabbie petrolifere o dagli scisti bituminosi venezuelani o canadesi che si ritengono necessari per sostenere l’offerta, ma hanno costi di produzione molto più elevati del greggio prodotto dai giacimenti ora in funzione.

Le altre fasi dell’industria

Il trasporto avviene in primo luogo per mare. I sistemi di condotte si sono affermati come metodo efficiente di trasporto, via mare e via terra, sia per olio sia per gas, e sono in concorrenza con il trasporto con nave. Le navi petroliere sono oggi di dimensioni molto grandi (300.000 t e oltre), e sono capaci di percorrere a costi bassi anche le rotte più lunghe. Il costo di trasporto si è quindi ridotto: esso era rilevante quando il greggio costava pochi dollari, ma non lo è più con i prezzi che si sono registrati dalla crisi petrolifera del 1973 in poi. Le compagnie petrolifere sono quasi completamente uscite dal settore, e usano navi di terzi, talvolta noleggiate per molti viaggi. Il trasporto del greggio e dei suoi sottoprodotti ha una forte valenza ambientale, in quanto la nave è a maggior rischio di inquinamento: anche nel raro caso di incidente, un oleodotto può essere riparato molto rapidamente, mentre il sinistro di una nave è più difficile da gestire. In ogni caso, le implicazioni ecologiche e ambientali del trasporto hanno portato a regolamenti molto restrittivi: i porti specializzati e le navi petrolifere hanno dovuto attrezzarsi con sistemi di controllo dell’inquinamento che hanno causato un aumento del costo complessivo del trasporto.

La raffinazione avviene in un complesso industriale (raffineria), ove il greggio è in primo luogo lavorato da un impianto di raffinazione a pressione atmosferica chiamato topping. I suoi prodotti (GPL, virgin naptha, benzina, gasolio, olio combustibile, bitume) vengono lavorati in una serie di impianti a cascata, detti secondi o terzi, che massimizzano il prodotto più richiesto dal mercato e conferiscono le qualità richieste sul piano dell’efficienza e della riduzione dell’inquinamento. Poiché la concorrenza del gas e del carbone ha ridotto la domanda di olio combustibile, la raffinazione tende a limitare al minimo le frazioni pesanti, e il residuo finale viene bruciato per produrre energia elettrica. Dopo il topping, si usano i reformers per l’idrogenazione della benzina, gli impianti sottovuoto per il gasolio e quelli per la desolforazione, fino agli impianti di cracking per massimizzare le frazioni leggere. Spesso vi sono impianti per additivi ottanizzanti e impianti di cracker petrolchimico. Le raffinerie moderne trattano tutti i tipi di greggio, ma, per ottenere una quantità di benzina in percentuale non rilevante, si può utilizzare greggio leggero in minor quantità di quello pesante, e dunque con costi minori. Le raffinerie che riforniscono quei mercati la cui domanda è soprattutto di benzina, come quello degli Stati Uniti, preferiscono comunque trattare greggi leggeri, che costano di più ma hanno maggiore resa in benzina. In Europa, invece, la motorizzazione si è mossa decisamente verso l’uso del gasolio, per aumentare la percorrenza per litro di carburante e ridurre così i consumi complessivi. Ciò permette anche l’uso di greggi più pesanti, e meno costosi. Negli Stati Uniti vi è scarsa capacità di raffinazione, dovuta anche al fatto che alcune fra le grandi compagnie hanno ceduto una buona parte dei propri impianti a produttori non integrati. La forte domanda di benzina ha quindi prodotto un aumento (paradossale, dato il maggiore costo di trasporto) dell’esportazione di benzina dall’Europa verso gli Stati Uniti, dove la benzina deve poi essere confezionata per rispondere alle diverse regole ambientali dei vari Stati. Questa varietà di norme ha ulteriormente ridotto la capacità di raffinazione, e ha accentuato la tensione sull’offerta di prodotti petroliferi, rimbalzata poi sul prezzo del petrolio greggio.

La distribuzione è l’attività che mette in contatto l’impresa petrolifera con il mercato e i suoi consumatori e che consente di ottenere la migliore qualità dei prodotti e la totale copertura del mercato, anche in quelle aree che risultano meno favorite.

I prodotti petroliferi sono distribuiti capillarmente in tutto il mondo: non vi è Paese, per quanto sperduto, ove questa attività non abbia luogo. La forma di mercato è un oligopolio stretto, con imprese leader a livello mondiale e concorrenti locali o parziali. La concorrenza fra marche è relativamente scarsa, anche se vi sono delle differenze qualitative fra i prodotti. Di recente si è diffusa in Europa e negli Stati Uniti la vendita di carburanti presso i supermercati creando così una forma di concorrenza. Il costo della distribuzione è dovuto soprattutto alla logistica, cioè al trasporto dei prodotti su strada, che richiede una costosa rete di depositi. Inoltre, le singole stazioni di servizio sono spesso gestite con contratti di comodato e di utilizzo di impianti non di proprietà del gestore. Questo comporta spesso condizioni di subalternità, rendendo i gestori simili a dipendenti aziendali, disponibili quindi a usare sistemi di tipo sindacale per aumentare il proprio reddito.

La petrolchimica è strettamente integrata all’industria petrolifera: la maggioranza delle compagnie petrolifere opera in entrambe. Il suo impianto di base, lo steam cracker, produce gli intermedi petrolchimici (etilene, propilene, miscela C4 e benzina pirolitica), da cui si ottengono, con la polimerizzazione o con altri procedimenti, beni intermedi e finiti in enorme quantità. I polimeri hanno grande flessibilità, possono essere lavorati in tutti i modi possibili e hanno vantaggi di peso, durata e flessibilità che i metalli raramente eguagliano. Il prezzo del polimero per unità di peso o di volume è basso perché l’industria è fortemente concorrenziale; l’industria degli oggetti di plastica si è perciò sviluppata fino ad assumere dimensioni paragonabili a quelle dell’industria meccanica. La diffusione della plastica, infatti, ha ridotto drasticamente il peso degli oggetti – quello delle automobili è meno della metà di quello che era trent’anni fa – e ha creato la possibilità di confezionare i prodotti alimentari con la plastica trasparente, che li tiene freschi più a lungo e ne facilita il trasporto, rendendo possibile l’affermazione della grande distribuzione.

La tendenza alla specializzazione delle imprese non ha svalutato il legame con la materia prima, soprattutto negli Stati Uniti, dove l’etano è la principale carica petrolchimica e gli impianti sono concentrati nell’area del Golfo del Messico, dove vi è una forte produzione di greggio e sono frequenti i duomi salini sotterranei in cui è possibile stoccare gas come l’etano o l’etilene. Anche in Europa vi è stretta integrazione con la raffinazione che produce virgin naphta, ossia la carica per il cracker in assenza di etano. L’integrazione della petrolchimica con l’industria petrolifera ha poche eccezioni, fra cui principalmente l’Arabia Saudita, dove l’impresa petrolchimica, cresciuta ormai a livello mondiale, è separata da quella petrolifera.

Il metano

Il metano, principale componente del gas naturale, è entrato in scena a livello mondiale relativamente tardi, dopo il primo shock petrolifero. Considerato un tempo dalle imprese petrolifere fuori dagli Stati Uniti e da alcuni Paesi europei un prodotto senza mercato (un pozzo a gas era considerato l’equivalente di una ricerca fallita), costituisce oggi un’importante fonte di energia, più adatta per gli usi termici dei prodotti petroliferi, essendo più puro, meno inquinante e di miglior combustione. Le riserve mondiali di metano sono molto ampie, e la produzione è ormai salita a livelli alti, comparabili a quelli del petrolio, pur se comunque inferiori (tab. 3). Le riserve note sono ripartite geograficamente in modo molto diverso da quelle del greggio: nel 2008 (ENI 2008), più del 55% era localizzato in tre Paesi, Russia (26,3%), Irān (14,7%) e Qaṭar (14,0%). Le riserve dell’Irān e del Qaṭar sono ancora scarsamente utilizzate, e il rapporto riserve-produzione di questi Paesi è di qualche secolo, mentre quello della Russia era nel 2006 di 76 anni. Il commercio internazionale del gas è ancora relativamente poco sviluppato: il 26% della produzione mondiale nel 2005, con il 70% delle esportazioni avvenuto via metanodotto e il resto per nave refrigerata. L’Europa è il maggiore importatore del mondo: i suoi Paesi più interessati a tale commercio (Germania, Italia, Francia, Spagna, Belgio, Austria) hanno importato nel 2007 oltre 270 miliardi di m3, un valore più che doppio di quello degli Stati Uniti (poco più di 130 miliardi); i dati evidenziano il livello ancora modesto dell’uso delle navi refrigerate (tab. 4). Il mercato del metano è molto diverso da quello dei prodotti petroliferi. Esso è infatti venduto al consumatore finale alla bocca di un metanodotto, e pertanto i rapporti contrattuali fra impresa fornitrice e cliente sono diversi da quelli relativi ai prodotti petroliferi, e simili a quelli dell’energia elettrica: il gas, così come l’elettricità, viene commercializzato con formule tariffarie miste, che tengono conto sia della quantità di energia effettivamente venduta sia della potenza richiesta, cioè il volume massimo di energia richiedibile. In futuro, il gas sarà destinato a svolgere un ruolo di crescente importanza, e si prevede possa diventare il massimo fornitore di energia termica.

Negli ultimi anni del 20° sec. e, con maggior forza, nei primi anni del successivo, si è sviluppato il trasporto per nave di gas liquefatto a bassissima temperatura che ha creato un nuovo mercato simile a quello spot per il greggio, molto più concorrenziale e più sensibile ai mutamenti dell’equilibrio fra domanda e offerta.

Gli aspetti limitativi del modello petrolifero

Il modello del petrolio presenta tre aspetti che potrebbero rivelarsi limitativi: l’aumento del costo e del prezzo; il prevedibile esaurimento delle riserve; il problema della sostenibilità ambientale.

Nel definire il modello del petrolio si è fatto riferimento alla sua competitività con il carbone; tuttavia, come già detto, agli inizi del 21° sec. il prezzo del greggio ha avuto un’impennata, superando notevolmente l’aumento del reddito dei consumatori. Ne consegue, quindi, che oggi l’uso del petrolio richiede una maggiore capacità di acquisto da parte dei consumatori. È possibile che questa non sia una condizione transitoria, a causa dell’ipotizzabile futuro aumento dei costi dei nuovi giacimenti, il che farebbe perdere definitivamente al petrolio il suo ruolo di risorsa a buon mercato.

Il secondo punto è legato al primo. Il modello del petrolio è basato sull’utilizzo di risorse naturali che non sono ricostituibili. Non è, infatti, possibile ricostituire i giacimenti esauriti, benché la tecnologia già in atto possa ‘ringiovanire’ anche più volte i giacimenti, ma a costi crescenti.

La quantità di idrocarburi consumata si può quindi compensare principalmente trovando altri giacimenti, cioè sviluppando l’esplorazione. Sembra comunque vi debba essere un limite, poiché anche queste risorse dovranno necessariamente esaurirsi. Per valutare quanto sia distante il momento dell’esaurimento, è necessario in primo luogo considerare l’andamento e la durata delle riserve di petrolio (tab. 5). Di solito, per semplicità, tale durata è calcolata dividendo le riserve per la produzione dell’anno. Questo calcolo è però impreciso perché ‘istantaneo’: non considera, cioè, che in quel numero di anni si troveranno probabilmente nuove riserve. Su scala mondiale, il rapporto ‘istantaneo’ tra riserve e produzione, di 42 anni nel 1991, era sceso a 39 anni nel 2007; per gli Stati Uniti era di 8 anni nel 1991 e di 11 nel 2007 (ENI 2008). In ogni anno di questo intervallo di tempo si sono però trovate riserve sufficienti per preservare la loro durata. D’altro canto, la serie statistica del volume delle riserve non mostra alcuna linea di tendenza; in altre parole, la scoperta di idrocarburi è un fenomeno discontinuo, anche se le riserve mondiali hanno mostrato un leggero aumento tra il 2000 e il 2007. La serie temporale delle riserve è formata da lunghi periodi in cui se ne scoprono in quantità sufficiente solo a mantenerne immutato il livello, o quasi, e da piccoli intervalli, distribuiti irregolarmente, in cui si scoprono nuovi grandi giacimenti e le riserve segnano repentini incrementi. È dunque molto difficile fare previsioni, e anche gli studi che sono stati condotti a livello planetario, tentando di stimare la naftogenesi delle varie aree sedimentarie del mondo, non sembrano indicare dati sicuri.

Un esempio di tale difficoltà è rappresentato da uno studio effettuato a metà degli anni Novanta (Colitti, Simeoni 1996), che prevedeva l’attività futura di ricerca, i possibili ritrovamenti, la produzione dei vecchi giacimenti, quella dei nuovi, e quella realizzabile con i metodi di recupero assistito. In questo studio, la data di esaurimento delle riserve di idrocarburi (petrolio e gas) veniva individuata negli anni Ottanta del 21° secolo. Da allora, tuttavia, è straordinariamente migliorata la tecnologia di ricerca e di produzione (anche se è aumentata la domanda, soprattutto da parte dei Paesi in via di sviluppo); sembra dunque che la stima prima citata debba essere spostata in avanti almeno di qualche decennio, soprattutto per lo sviluppo della produzione assistita (che stimola il giacimento quando la sua energia non è più sufficiente). È però difficile essere più precisi, perché il progresso della tecnologia permette di operare, sia in terra sia in mare, a profondità impensabili soltanto dieci anni fa, e le possibilità di nuove scoperte e di una maggiore produzione dai giacimenti noti sono tutt’altro che trascurabili.

Va precisato che la distribuzione delle riserve mondiali non è uniforme: un’area, relativamente piccola, quale il Medio Oriente, che ha un rapporto riserve-produzione di 70 anni, è assolutamente predominante.

Di recente altri fattori sono venuti a complicare ulteriormente le previsioni sull’esaurimento delle riserve. Spronata dal prezzo alto del petrolio, si è avuta una vera e propria esplosione della tecnologia delle fonti rinnovabili, tra le quali l’energia eolica e quella solare rappresentano già oggi una potenziale alternativa al petrolio per la produzione di elettricità. È probabile, inoltre, che lo sviluppo della produzione di carburanti ricavati dai prodotti agricoli e dell’auto elettrica contribuirà a far sì che il panorama dell’energia diventi molto meno concentrato sul petrolio, circostanza che allungherebbe la vita delle riserve, anche molto oltre quanto era stato finora previsto. Secondo alcune ipotesi, forse un po’ azzardate, lo sviluppo futuro della tecnologia sarà tale che il petrolio seguirà la stessa sorte del carbone, e rimarrà in parte nei giacimenti senza essere sfruttato, perché altre fonti di energia si saranno sviluppate, sostituendolo. In ogni caso, i consumi petroliferi dovranno essere severamente contenuti per ragioni ambientali, e anche questo avrà l’effetto di prolungare la durata delle riserve.

È dunque comprensibile come sulla data dell’esaurimento degli idrocarburi si sia sviluppato un vivace dibattito. Un numero crescente di esperti ritiene che l’inizio della fine delle riserve petrolifere, cioè il picco della produzione dopo il quale questa dovrà lentamente ridursi, sia molto vicino, o addirittura sia già avvenuto. Alcune delle principali aree di produzione di petrolio e di gas fuori dall’area OPEC stanno effettivamente esaurendosi. È il caso di aree, pur recenti, come il Mare del Nord e certe zone dell’Alaska. In queste condizioni sembra trovarsi anche il Messico, a causa non tanto di fattori fisici quanto di un’insufficiente ricerca. Altri Paesi produttori fuori dall’area OPEC stanno probabilmente avvicinandosi al picco. Esistono per contro aree ancora da sviluppare completamente (per es., il Mar Caspio o certe zone dell’Africa) e altre tuttora non accessibili (per es., quelle sotto la calotta di ghiaccio dei poli).

Le condizioni politiche e ambientali della ricerca

Le nuove riserve devono essere cercate, trovate e messe in produzione. Ogni tentativo di previsione, anche qualitativo, deve quindi valutare le attività di esplorazione e di perforazione, che si stanno sviluppando in aree sempre più isolate e difficili, sia perché quelle più facili sono già state oggetto di ricerca sia perché, in molti Paesi, alle compagnie petrolifere private viene negato l’accesso alle aree indiziate, riservate alle compagnie nazionali. Le grandi compagnie private sono ricche di mezzi finanziari e scarse di nuove aree, mentre quelle dei Paesi produttori tendono a essere scarse di denaro, perché devono sostenere il bilancio dei loro Stati, ma ricche di aree: una situazione che dovrebbe alla fine condurre a un’effettiva cooperazione. Se le migliori tecnologie di ricerca e di produzione – generalmente nelle mani delle grandi compagnie private e delle imprese che vendono loro i servizi tecnici – si potranno applicare a tutte le aree disponibili, quasi certamente verranno messe in luce rilevanti nuove riserve.

Un esempio interessante è il boom, iniziato in America Settentrionale con il nuovo secolo, del gas naturale ‘non convenzionale’, ossia il metano che si estrae da formazioni geologiche diverse da quelle solite (scisti e simili), e che richiede attrezzature e processi particolari di frammentazione delle rocce. La produzione statunitense di gas, in declino da una decina di anni, ha ripreso ad aumentare notevolmente, nonostante il maggior costo del nuovo gas.

La ricerca petrolifera sin dalle sue origini ha interferito in modo pesante con la natura dei luoghi in cui si realizza. Un esempio particolarmente grave si è avuto nel 2010 con l’esplosione di un pozzo sottomarino nel Golfo del Messico (dal quale sono fuoriusciti decine di migliaia di barili al giorno di greggio), dovuta, si può supporre, a un tardivo o mancato comando di bloccare la perforazione. Le ricerche petrolifere risulteranno più accettabili, e aree oggi chiuse, ma indiziate, potranno venire gradatamente aperte (per es., negli Stati Uniti settentrionali) soltanto se le compagnie petrolifere si renderanno conto dell’esigenza di operare con il massimo rispetto per l’ambiente.

La strategia MER e quella dell’OPEC

A partire dagli anni Venti del 20° sec., negli Stati Uniti le grandi imprese e i produttori di petrolio indipendenti adottarono una strategia di sfruttamento dei giacimenti denominata maximum economic rate (MER), in base alla quale circa il 30% delle riserve del giacimento viene prodotto già nei primi quattro anni (successivamente l’energia del giacimento ha la tendenza a scemare, e la produzione a decrescere, fino al suo esaurimento al venticinquesimo o trentesimo anno). Secondo questa strategia, il produttore ammortizza già nei primi anni di produzione il costo della ricerca e dello sviluppo del giacimento.

L’OPEC, invece, gestisce la produzione dei Paesi che ne sono membri in modo da prolungare la vita delle riserve e massimizzare gli introiti. L’OPEC ha cioè mantenuto una metodologia di sfruttamento opposta a quella delle compagnie che operano secondo il MER: i giacimenti del Medio Oriente, che hanno il costo di produzione più basso, invece di essere sfruttati per primi, come richiederebbe la logica economica, lo sono per ultimi. Quindi le risorse che dureranno più a lungo nel tempo saranno appunto quelle dell’Arabia Saudita e degli altri Paesi del Golfo, perché sono molto ampie e perché quei Paesi cercheranno di far durare nel tempo il loro reddito petrolifero. Questa strategia è perfettamente compatibile con un prezzo alto – che del resto non è dettato dall’OPEC, ma stabilito dal mercato dei futuri –, dato che questo tende a ridurre la domanda. L’esperienza del primo shock petrolifero indica effettivamente che un aumento molto forte del prezzo può determinare un calo della domanda. Tuttavia non è sempre così: il forte aumento dei primi anni del 21° sec. ha prodotto le stesse conseguenze, ma soltanto sui Paesi a economia matura (Europa, Giappone e, in minor misura, Stati Uniti). Alcuni Paesi in via di rapido sviluppo, come la Cina o l’India, hanno impostato un percorso di crescita dei consumi petroliferi che sembra mantenere la sua dinamica anche con prezzi molto alti. È opportuno ricordare che nello shock petrolifero del 1973 la domanda di prodotti petroliferi si ridusse soprattutto nell’industria, che oggi consuma in prevalenza gas, e molto meno nei trasporti. Rispetto ad allora, nei Paesi sviluppati è più alto il numero di consumatori che hanno un livello di reddito per il quale il costo del carburante non riveste grande importanza, e le automobili di grossa cilindrata (grandi consumatrici di carburante) rappresentano un simbolo di status.

Tuttavia è realistica, come detto, la possibilità di sostituire in parte i carburanti petroliferi con altri di origine agricola, la cui produzione va aumentando ed è, al contempo, sostenuta da molti governi e istituzioni sovranazionali (fra cui l’Unione Europea), preoccupati per il problema della sicurezza dei rifornimenti energetici e incoraggiati nella loro azione dal prezzo alto del petrolio, che rende competitive produzioni altrimenti fuori mercato. Si può ipotizzare per il petrolio, quindi, un regime di prezzi alti durevole nel tempo, con l’effetto di restringerne i consumi ai soli carburanti, anch’essi miscelati con prodotti di origine agricola che potrebbero raggiungere volumi rilevanti entro il 2020. Gli usi termici, per l’industria o per la produzione di energia elettrica, potranno essere soddisfatti con gas naturale o, a più lungo termine, con il carbone e l’energia nucleare. In realtà la sostituzione del petrolio per questi usi è già in atto da tempo, e questo è un altro fattore che ne potrà prolungare la vita oltre il termine previsto.

Efficienza del consumo

La durata dello sfruttamento delle risorse petrolifere può essere prolungata anche dall’aumento dell’efficienza del loro impiego. I sistemi di utilizzo dell’energia sono fortemente migliorati negli ultimi trent’anni, un processo iniziato nel 1973, con il primo shock petrolifero. Per es., il consumo per chilometro percorso delle automobili si è ridotto di più della metà perché le automobili sono più leggere (per il maggior uso di materie plastiche e di alluminio) e i motori sono più efficienti. Lo stesso dicasi per la produzione dell’energia elettrica, perché l’avvento del gas ha portato un forte miglioramento tecnologico (con le centrali a ciclo combinato). I possibili ulteriori sviluppi dell’efficienza energetica costituiscono di per sé un fattore di maggiore durata del petrolio. Peraltro, il risultato di questa tendenza si vede già nei dati del consumo di questi ultimi anni: molti grandi Paesi sviluppati, come quelli europei o il Giappone, fanno segnalare aumenti relativamente piccoli del loro consumo di greggio, intorno all’1% annuo. Gli unici Paesi che aumentano la domanda delle fonti di energia a ritmi molto alti sono quelli in via di sviluppo e, sia pure in modo più contenuto, gli Stati Uniti. Il forte aumento della domanda di petrolio di certe aree moltiplica i consumi a livello planetario. In Paesi come la Cina e l’India, il consumo pro capite di prodotti petroliferi è intorno al 10% di quello europeo, e c’è quindi ampio spazio per aumentarlo; tuttavia è poco probabile che questi Paesi raggiungano livelli di consumo simili a quello per es. degli Stati Uniti, anche a causa del prezzo troppo alto del petrolio.

Tutte queste considerazioni avvalorano l’ipotesi di un esaurimento delle riserve di petrolio in un lasso di tempo abbastanza lungo, dell’ordine di circa tre quarti di secolo, il quale tuttavia potrebbe anche essere ulteriormente protratto.

La sostenibilità

Un modello basato sul consumo di fonti di energia, per la mobilità o per il calore, produce un certo livello di inquinamento dell’aria e dell’acqua. Gli idrocarburi inquinano meno delle fonti energetiche utilizzate in precedenza, in particolar modo del carbone, ma il loro uso generalizzato – e in continuo aumento – costituisce ugualmente una minaccia all’assetto complessivo del pianeta Terra. Il modello degli idrocarburi è molto flessibile, ma è pur sempre basato sulla combustione, e quindi su emissioni che si possono ridurre difficilmente a zero.

Il problema di quanto possa perdurare il sistema petrolifero non può quindi essere considerato soltanto dal punto di vista della durata fisica degli idrocarburi. L’altro punto di vista, ben più importante, riguarda la sostenibilità ambientale. Sembra certo (su questo punto il consenso generale del mondo scientifico è ormai ben definito e stabile) che il sistema petrolifero così com’è adesso non sia sostenibile, in quanto produce danni ambientali capaci di alterare in modo permanente l’equilibrio del pianeta. Tuttavia, allo stato attuale né le compagnie petrolifere private né, in realtà, i consumatori hanno mutato sostanzialmente il loro comportamento: come già evidenziato, il forte aumento del prezzo ha portato a una riduzione della crescita della domanda, ma solo nei Paesi maturi, e non in quelli in via di sviluppo. Pertanto sarà forse necessario indurre politicamente un cambiamento radicale del sistema petrolifero. È difficile dire quale veste potrebbe assumere un tale cambiamento, che avrebbe carattere epocale. Si può tuttavia prevedere che al petrolio verrà riservato il solo settore del trasporto, già oggi la sua principale utilizzazione. L’aumento dell’efficienza dei veicoli potrebbe quindi ridurne il consumo, l’inquinamento e le emissioni. Dato il livello di congestione urbana (e non soltanto nei Paesi sviluppati), una misura del genere sembra inevitabile, anche per continuare a garantire ai consumatori il vantaggio fondamentale del sistema petrolifero, cioè la mobilità.

Il problema dell’inquinamento atmosferico urbano non potrà essere risolto se non con una di queste due ipotesi: o la trasformazione delle città con la creazione di reti di trasporto su rotaia (sul modello ottocentesco, ancora oggi perfettamente funzionante, per es. nella città di Londra); o l’utilizzazione di motori mossi in tutto o in gran parte dall’elettricità. Delle due ipotesi sembra più probabile la seconda, ma anche la prima potrebbe essere perseguita efficacemente, data la concorrenza che i treni veloci già fanno al trasporto aereo a medio raggio. Questa prospettiva richiederebbe però di sostituire totalmente il petrolio con qualche altro combustibile per la produzione di energia elettrica e per gli usi industriali, opzione peraltro vincolata a soluzioni (non ancora percorribili) del problema della cattura (o, meglio, dell’utilizzazione) della CO2 e a quello di una maggiore accettabilità dell’energia nucleare. Negli usi termici il petrolio è già stato largamente sostituito dal gas naturale, il quale però produce anch’esso CO2, seppure in quantità ridotta. Tuttavia è molto probabile che questo insieme di misure non sia sufficiente, anche se la riduzione delle emissioni, sia nella produzione di elettricità sia nel trasporto, potrebbe essere comunque molto rilevante.

Ulteriori previsioni sono condizionate da una fondamentale domanda: come sarebbe possibile smettere di aumentare le emissioni ed eventualmente ridurle a zero senza sminuire decisamente il ruolo del petrolio nel sistema economico, e quindi la mobilità nella vita quotidiana delle città moderne? Sembrano inevitabili forti restrizioni fisiche al consumo di greggio, con il possibile favore dei nuovi leader della scena petrolifera, i Paesi produttori, i quali hanno interesse a prolungare il più possibile la vita del petrolio, a cui è legato, almeno per il momento, il loro benessere economico. Regolamenti restrittivi sono già stati applicati in molte città europee, ma non sembra che abbiano ridotto né la mobilità né il consumo di prodotti petroliferi. Interrogarsi sulla sorte del sistema petrolifero, cioè sull’epilogo o meno dell’era del petrolio, richiede risposte decisive su questo complesso di problemi che ha assunto i termini dell’urgenza. Occorre in ogni caso tenere presente che il progresso tecnologico sarà con tutta probabilità in grado di cambiare in modo radicale il quadro attuale.

Bibliografia

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Salvatore Carollo, C’era una volta il prezzo del petrolio, Milano 2009.

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