SCHILLER, Johann Christoph Friedrich

Enciclopedia Italiana (1936)

SCHILLER, Johann Christoph Friedrich

Rodolfo Bottacchiari

Poeta, drammaturgo, filologo, una delle figure più salienti e affascinanti del periodo aureo della letteratura tedesca, della cosiddetta Genieperiode. Nacque a Marbach, nel Württemberg, il 10 novembre 1759. Suo padre, Johann Kaspar, uomo probo e non indotto, era chirurgo e prestò, in questa qualità, per molti anni servizio nell'esercito, raggiungendo il grado di capitano; sua madre, Elisabeth Dorotea Kodweiss, era di umile condizione, ma aveva l'educazione e la religione del cuore, e fu guida preziosa ai primi passi del figlio. La posizione del padre obbligò la famiglia Schiller a continui mutamenti di residenza, ma più a lungo essa rimase a Lorch e a Ludwigsburg, dove Federico ebbe un'educazione regolare. Compiuti i primi studî con eccezionale profitto, per desiderio, che era quasi un ordine, del duca Carlo Eugenio di Württemberg, il quale nel 1760 aveva fondato una scuola militare (Hohe Karlsschule) nella residenza di Solitudine, il giovinetto fu accolto in questa scuola nel gennaio 1773. In tale ambiente, che erroneamente è stato da alcuni ritenuto quasi un luogo di correzione per la disciplina severa ma non insopportabile che lo governava, lo Sch. studiò legge e, più tardi, quando l'Accademia fu trasferita a Stoccarda, medicina. Certo è però che la vita nell'istituto non era affatto favorevole al temperamento di lui, il quale, insofferente d'ogni studio speciale, leggeva nei momenti di relativa libertà gli scrittori classici e le opere del Voltaire, del Rousseau e del Goethe, alimentando quella vocazione che non tardò a determinarsi prepotente e invincibile. E non soltanto Rousseau e Ossian fecero grande impressione sull'animo del giovane Sch.; egli si entusiasmò anche alla lettura della Messiade del Klopstock, da cui trasse l'ispirazione per un poema: Mosè; lesse avidamente i drammi del periodo dello Sturm und Drang, del Klinger e del Leisewitz, il Goetz del Goethe, e cominciò egli stesso a tentare l'arringo drammatico, scrivendo le scene dello Studente dí Nassau e del Cosimo de' Medici. Risalgono a questo tempo anche i primi tentativi lirici, ma il teatro, specialmente dopo che ebbe conosciuto lo Shakespeare nella versione del Wieland, l'attraeva sempre più, e a soli diciotto anni, in mezzo alla meraviglia e all'ammirazione dei compagni, egli scrisse la prima grande tragedia: Die Räuber, che pubblicò anonima nel 1781.

Il dramma, suggeritogli da un racconto dello Schubert, imperniato sul contrasto inconciliabile tra due fratelli, a tinte forti e pieno d'impeto indisciplinato, di fervore lirico potentemente trasmodante, è da considerarsi come un prodotto del periodo dello Sturm und Drang, il più eloquente anzi e il più rappresentativo. Perché, pur tra molti difetti, di esagerazione soprattutto e di inverosimiglianza, mostra una scomposta veemente aspirazione alla libertà individuale al disopra di ogni legge morale e di ogni dovere familiare e sociale e anche contro di essi. Il protagonista Carlo Moor è il tipo di brigante che ai naturali sentimenti di bontà e di generosità unisce la violenza delle azioni che gli sono imposte da un'eccessiva reazione alle ingiustizie sofferte; e quando soccombe, sembra piuttosto una vittima di esigenze sociali che non un volgare assassino. Agli occhi del tempo la sua figura doveva perciò apparire nobile di eroismo e cinta dell'aureola del sacrificio. Ecco perché questo dramma facilmente attrasse l'attenzione dell'intendente del teatro ducale di Mannheim, barone Dalberg, e poté essere rappresentato con immenso successo (1782). Alla rappresentazione assisteva, incognito, lo Sch., che segretamente si era assentato da Stoccarda, dove, dopo avere lasciato l'Accademia nel 1780, serviva come aiuto chirurgo presso un reggimento della guarnigione. Ma quando si seppe il vero nome dell'autore, il duca Carlo Eugenio gl'impose di non occuparsi più di teatro e di limitarsi a fare pubblicazioni di medicina. Lo Sch. non credette di tener conto dell'ordine sovrano, ed essendosi recato una seconda volta a Mannheim con lo stesso scopo, fu punito con la prigione. Allora si sottrasse, pieno di amarezza, alla disciplina militare, abbandonando Stoccarda e ponendosi in cerca d'un rifugio che, dopo alcune settimane di ansiose peregrinazioni, trovò nel castello della signora di Wolzogen a Bauerbach, in Franconia, dove rimase fino al luglio 1783.

Nella pace di questo ritiro, dove fiorì l'idillio fra il poeta e Carlotta di Wolzogen, e nel successivo soggiorno a Mannheim, dove era stato chiamato come Theaterdichter, diede forma definitiva a due nuovi lavori drammatici, la tragedia storica Die Verschwörung des Fiesko e la tragedia borghese Luise Millerin - intitolata poi Kabale und Liebe -, l'una pubblicata nel 1783, l'altra l'anno successivo e rappresentate rispettivamente nel gennaio e nel marzo del 1784. Anche questi due lavori drammatici appartengono al periodo dello Sturm und Drang e sono il riflesso delle condizioni letterarie dell'epoca non meno di quelle particolari dell'autore, il quale, nella prima tumultuaria concezione poetica, trova uno sfogo contro la disciplina mortificatrice d'ogni slancio generoso a cui fu sottomesso. Minori amplificazioni liriche ha Die Verschwörung des Fiesko, perché il tessuto storico che è nel fondo di questa "tragedia repubblicana" fu per lo Sch. un freno a non divagare eccessivamente, mentre nella Luise Millein, in cui è il riflesso dell'idillio di Bauerbach, la prima dolorosa esperienza d'amore a poco a poco gli smorza la tempesta rivoluzionaria e lo porta a indulgere a un profondo e quasi morboso pessimismo sociale che si scioglie in elegia. Il pubblico non accordò al Fiesko il plauso che concesse invece incondizionato alla Luise Millerin, la quale, come opera di fantasia, ha sui Räuber il vantaggio di portare sulla scena tipi e figure conosciuti e studiati dal poeta, e perciò meno irreali e a noi più vicini.

Seguì la tragedia Don Carlos, che, vagheggiata durante l'idillio di Bauerbach, ripresa a Mannheim e continuata sotto l'influsso della passione per Carlotta von Kalb e più tardi, nella quiete di Gohlis e di Loschwitz, sotto quello della fraterna amicizia di C. G. Körner, fu compiuta fra nuovi contrasti e incertezze e disagi nel 1787 e subì, anche più tardi, modificazioni. Il Don Carlos è l'opera più tormentata dello Sch. Concepita dapprima come una tragedia familiare, i cui elementi drammatici egli aveva trovato in una novella storica su Don Carlos scritta da Saint-Réal, essa a poco a poco era venuta trasformandosi nella mente del poeta in un'esaltazione di fede politica. La tragica passione dell'infante per la matrigna, la regina Elisabetta, cessa così di essere al centro dell'azione principale, dove invece giganteggia la figura del marchese di Posa, il rappresentante del nuovo ideale politico-umanitario dello Sch. Ma da questo stesso tormento del poeta non poteva scaturire un'opera d'azione organica, ed è significativo che proprio lo Sch. sentisse il bisogno di difendere il suo lavoro nei Briefe über Don Carlos, in cui egli ribadisce, in fondo, la convinzione, espressa già nel 1784 in una conferenza, che il teatro debba essere una tribuna per bandire un vangelo. Il Don Carlos è, nella redazione definitiva, la prima opera drammatica dello Sch. scritta in versi. Della tragedia in prosa il primo atto apparve nella rivista da lui fondata, Die rheinische Thalia (1784), e nella stessa rivista, che poi s'intitolò Thalia e infine Die neue Thalia, furono in seguito pubblicati altri frammenti.

Dopo il Don Carlos si apre, nella produzione drammatica dello Sch., un'ampia parentesi che va fino al 1797. Di questo periodo, oltre molte liriche e soprattutto ballate - di cui si dirà più innanzi - e la novella Der Geisterseher, è una serie di scritti teorici e storici, frutto di una più profonda analisi degli argomenti drammatici, trattati e da trattare, e di una raccolta meditazione, nella quale il poeta pare cerchi il nuovo impulso e il più saldo volo da dare alla sua arte. Ma, oltre questi studî, una favorevole circostanza doveva preparargli un periodo riposato di attività. Il duca Carlo Augusto di Weimar aveva già nel 1785 ascoltato la lettura del primo atto del Don Carlos e aveva insignito il poeta del titolo di consigliere. Lo Sch. nell'estate dell'87 (allora il Goethe era in Italia) si recò a Weimar, dove fu accolto con simpatia dalla duchessa Amalia, dal Herder e dal Wieland, e l'anno seguente, anche mercé l'aiuto del Goethe, ottenne la cattedra di storia presso l'università di Jena, in cui, svolgendo la sua prolusione, trattò dello scopo dello studio della storia universale. Nel 1790 sposò Carlotta Lengefeld, una dolce anima di fanciulla, che aveva conosciuta a Rudolfstadt e che gli fu sempre compagna intelligente e amorosa. Poco dopo fu costretto ad abbandonare l'insegnamento per ragioni di salute e ottenne per tre anni una pensione dal principe C. Federico di Holstein Augustenburg. Dal principio del 1794 data la sua vera amicizia col Goethe - il primo incontro fra i due poeti è del 1788 -; un'amicizia che si rinsaldò con gli anni e divenne sempre più intima e per l'uno e per l'altro fecondissima, specialmente dopo che lo Schiller, nel 1799, definitivamente si trasferì a Weimar.

In questo periodo egli scrisse la Geschichte des Abfalls der vereinigten Niederlande (1788-89) che è come una continuazione degli studî compiuti per il Don Carlos, seguita due anni dopo dalla Geschichte des dreissigjährigen Krieges, finita nel 1793. Nessun metodo rigoroso informa questi lavori per quanto riguarda la ricerca e la critica delle fonti; più che storia propriamente detta, lo Sch. faceva della filosofia della storia, seguendo una sua ideale concezione sullo sviluppo e la finalità degli avvenimenti storici. A Jena, oltre che di storia, si occupò, anche in un corso privato di lezioni, di estetica e precisamente della tragedia; da questi studî nacquero i due saggi ber den Grund des Vergnügens an tragischen Gegenständen (1791) e Über die tragische Kunst (1792). Dell'anno seguente è il trattato filosofico, ispiratogli da principî kantiani ripresi con poetico sentimento, Über Anmut und Würde, in cui espone i principî d'un'estetica morale applicata all'individuo. Seguono nel 1795 le lettere Über die ästhetische Erziehung des Menschen, ove egli considera lo stesso problema rispetto alla collettività, e il trattato Über naive und sentimentalische Dichtung.

La serie dei capolavori drammatici s'inizia con la trilogia del Wallenstein, in cui lo Sch. dà l'affermazione matura del suo genio, raggiungendo, in conformità dei canoni artistici lungamente meditati, una rappresentazione umana, idealizzata da elementi storici. La trilogia consta del Wallensteins Lager, quadro imponente, colorito, straordinariamente vario e vivo e al tempo stesso terribile della guerra dei Trent'anni, di I Piccolomini, che costituisce l'antefatto e la motivazione della vera azione drammatica, risultante dal graduale spezzarsi della compagine dell'esercito imperiale e quindi del delinearsi della figura tragica del Wallenstein, e del Wallensteins Tod, in cui si compie il destino dell'eroe. Le prime parti sono così due grandi prologhi alla vera tragedia. La trilogia contiene, nelle singole parti, non poche sproporzioni, e senza dubbio l'elemento lirico ha qua e là concitazioni febbrili e ridondanze romantiche, ma è certo ch'essa è anche il risultato di un profondo intuito drammatico, a cui docilmente obbediscono la fantasia, il sentimento, l'accorgimento scenico e soprattutto la mirabile pieghevolezza della lingua, ricca di toni formidabili e di sfumature delicate e sapienti. Della qual cosa maggiore è l'ammirazione, pensando alla fecondità del poeta in questo periodo. Perché, mentre compiva il Wallenstein, egli pensava già a drammatizzare la fine tragica di Maria Stuart. E infatti nel 1800 la tragedia in cinque atti era già compiuta (fu rappresentata a Weimar il 14 giugno dello stesso anno), rivaleggiando questa volta, per quanto era concesso al temperamento dell'autore, con la sobria purezza e armonia delle tragedie classiche. Maria Stuart, e la tragedia che seguì poco dopo, Die Jungfrau von Orléans, sembrerebbero a prima vista drammi storici, ma in verità la storia non offre ad essi che lo sfondo, sul quale la fantasia dell'autore ha tracciato azioni e situazioni in gran parte immaginarie.

In Maria Stuart lo Sch. si preoccupa soprattutto di ritrarre caratteri umani. Il dramma è imperniato tutto sulla rivalità di due figure di donne e regine, quella tenera dolce rassegnata di Maria e quella superba feroce inflessibile di Elisabetta. In Die Jungfrau (1801) l'azione drammatica s'allontana ancora più dalla realtà storica, e non vi manca quell'elemento meraviglioso e soprannaturale che, nella tragedia greca, è rappresentato dal fato. Lo Sch. pur non sdegnando d'introdurre nel dramma il miracoloso, ha fatto della vergine di Domrémy una figura umana. Egli immagina che ella si innamori di un guerriero nemico, ed eccoci al pathos, al contrasto degli affetti, alla tragedia fra l'amore e il dovere e alla catastrofe coronata dalla aureola del martirio e del sacrificio. In Die Braut von Messina oder die feindlichen Brüder (1803) si attenua ancora più la derivazione storica e appare il complemento classico del coro, a cui lo Sch. commette l'ufficio di allontanarsi dallo stretto circolo dell'azione per distendersi sul passato e sull'avvenire, con ammonimenti di saggezza e con movenze liriche che procedono, quasi a passi divini, sui culmini delle cose umane. Qui spunta la Schicksalstragödie, ma lo Sch. non trascende alle ultime desolate conseguenze contenute in tali drammi, per non negare il libero arbitrio. Perciò questo tentativo di ripristinare la tragedia greca con la sua fatalità incombente e i suoi magnifici cori classici è riuscito solo in parte, soprattutto come rappresentazione scenica. Di questo difetto fu consapevole lo stesso poeta il quale tornò subito dopo al suo dramma antico, in cui sono tutte le energie volitive, corrisposte dall'attività fattiva dell'uomo, e scrisse il Wilhelm Tell, l'opera che segnò una piena vittoria fin dalla prima rappresentazione che fu data a Weimar il 27 marzo 1804. Lo Sch. trasse la materia di questo dramma dalla Cronaca Elvetica di Egidio Tschudi, in cui è narrata la rivolta dei tre cantoni svizzeri di Schwyz, Uri e Unterwalden contro l'imperatore d'Austria Alberto I. Tell, personaggio immaginario, non ama che la sua famiglia, la sua casa, il suo arco e rappresenta il difensore del diritto naturale: solo quando questo è offeso egli si ribella e uccide il tiranno Gessler. Il Wilhelm Tell riassume in una sintesi mirabile i due grandi amori della vita dello Sch.: l'amore per la bellezza della natura e l'amore per la libertà. Questo dramma non era stato ancora rappresentato, che il poeta volgeva già la sua attenzione a un altro soggetto, quello del falso Demetrio, preteso figlio dello zar Ivan IV. Il Demetrius, interrotto, prima da un viaggio del poeta, poi dall'ultima sua malattia, è rimasto incompiuto. Quando lo Sch., per un sopravvenuto attacco polmonare, morì il 9 maggio 1805, si trovò sul suo tavolo un monologo che doveva essere compreso nel secondo atto di questo dramma.

Lo Sch. partecipa al vasto e complesso movimento per cui lo spirito tedesco si svolge e si afferma, nella seconda metà del sec. XVIII, con incessante e, diremmo, eroica tendenza all'espansione e ad un corrispondente sforzo di assimilazione e di sintesi, ed ha, nello stesso tempo, intuizioni e anticipazioni che illuminano e, in certo modo, preparano il futuro. Come il Lessing e il Herder, anch'egli sogna un'umanità superiore, in cui si concilino e armonizzino i dissidî che separano gli uomini e li spingono a combattersi, o che la stessa propria vita interiore spezzano, suscitando più fiere lotte e più profondo tormento. Come il Goethe e il Hölderlin, anch'egli sente profondamente il culto per l'arte greca e dell'ideale ellenico fa la sua religione. I Greci avevano realizzato il supremo ideale d'umanità attraverso l'educazione estetica; lo Sch. crede che tale ideale possa ancor oggi essere realizzato.

In tutta l'opera sua sono chiari i riflessi dell'evoluzione del pensiero tedesco dall'Aufklärung all'idealismo, dallo Sturm und Drang al romanticismo; e forse appunto da questo è derivata la suggestione di distinguere le liriche e i drammi giovanili da quelli della maturità, distinguere cioè lo Sch. ribelle e rivoluzionario dallo Sch. kantiano; lo Sch. democratico, esaltatore dei diritti dell'uomo, dallo Sch. dell'imperativo categorico della legge morale e della virtù; il poeta insomma della libertà interiore dal poeta della libertà esteriore. Ma questo è troppo schematico e quindi superficiale. Più vero è, invece, che in tutta la sua opera è dato ricercare, cogliere e mettere in luce una fondamentale unità ideale e lo sviluppo d'uno stesso pensiero costruttivo. Essa, infatti, è interamente dominata da un principio etico, da un'idea morale. Così anche dove egli si abbandona all'impeto d'una reazione individuale o sociale o politica, come appunto nei drammi giovanili, nei quali sembra con passione e ostentazione parteggiare per i ribelli e quasi incitarli egli stesso alla rivolta alla lotta alla vendetta, non assolve mai, bensì condanna e punisce. Evidentemente simpatizza col suo primo eroe, Carlo Moor, ribelle e brigante mostruoso, ma alla fine non esita a sacrificarlo alla duplice condanna della umana e della divina giustizia. V'ha di più: in questo torbido dramma è già il preannuncio dell'idea ispiratrice dei drammi posteriori; nella figura di Moor è già il fremito della coscienza morale di Maria Stuart, e l'anelito alla resurrezione di Giovanna; nella scena finale dell'ultimo atto è il presagio delle salvazioni future. Anche nell'esaltazione, dunque, d'un disordinato e irruente individualismo, la quale corrisponde al periodo giovanile, lo Sch. non vede mai soltanto l'uomo ribelle. A tutti i suoi eroi che, sia pure contro la morale e la legge, lottano per la propria o per l'altrui libertà, egli medesimo, assetato di libertà, dà l'impeto della sua passione magnanima o temeraria, e, nello stesso tempo, non li priva mai interamente della fiamma della sua fede e del sentimento di responsabilità morale. Né è necessario attendere la figura del marchese di Posa per riconoscere nel pensiero schilleriano un principio di ricostruzione. Esso è chiaro anche nelle scomposte demolizioni dei primi drammi. Il sogno di redenzione politica e umana del marchese di Posa, come l'ultima e sia pur vana invocazione di Carlo Moor, come l'anima di Bruto in Fiesko, come la rassegnazione di Luisa Millerin, sono strettamente congiunti da una medesima realtà etica. Che è, contro il razionalismo e oltre la concezione illuministica, sempre l'elevazione morale dell'individuo e, di conseguenza, dell'umanità. Qui è la modernità del suo dramma. Questa fede suprema non gli impedisce, tuttavia, di credere alla potenza delle energie individuali. Wallenstein è la figura tipica in cui è esaltata la potenza dell'individuo. In lui è una scintilla di titanismo; titano dalla fede illimitata in sé stesso e dalla smisurata volontà, eroe che non vede chiaro, potenza senza razionale determinatezza, figura sommamente drammatica, il cui carattere tragico è tutto in questa tirannica volontà di dominio e di vittoria. Ma anche in lui le possibilità realizzatrici sono inesorabilmente spezzate, e chiuso è il suo destino. Esiste, dunque, un limite alla potenza dell'individuo, ed esso è, ancora, di ordine morale. L'eroe ha coscienza d'avere oltrepassato i limiti imposti ai suoi istinti sensibili e d'essere perciò piombato nel dominio della fatalità. Sicché la sua azione, non più libera, non può essere che un "Akt der Notwehr". E in quanto egli agisce unicamente per necessità, non solo dalla sua azione esula ogni gioia, ma essa stessa gli procura sofferenza. Così manca il titano e l'eroe cade.

Con la catastrofe di Wallenstein, quella che era stata per lo Sch. naturale intuizione diventa luminosa realtà e certezza. È la luce dell'idealismo kantiano. La Critica della ragion pratica è per lo Sch. il raggio di sole che gli rischiara, oltre ogni dissidio, il suo mondo ideale. Il Kant svolge i concetti sui quali si fonda la nostra facoltà di pensare e di conoscere; lo Sch. si sforza di chiarire e precisare le idee che dànno valore alla nostra vita. Il suo pensiero non è soltanto conoscenza, ma anche e soprattutto convinzione morale, fede. Qui s'impernia la sua concezione della libertà. Alla libertà che l'uomo cerca fuori di sé, seguendo i proprî istinti e il proprio arbitrio, egli aveva già opposto la legge morale; una legge che non è possibile ignorare né superare. Ora, senza negarla, indica il dovere di accettarla volontariamente. Perché, in quanto la nostra volontà riesce a coincidere con la legge morale, questa non sarà più coercizione, ma spontaneità gioconda, libera aspirazione, intimo bisogno di realizzarsi. Soltanto così l'uomo giunge al pieno possesso dell'umanità e all'armonia dello spirito. La quale armonia, pertanto, non è un dato, bensì un problema e si raggiunge non già con l'annullamento dell'attività sensibile, ma attraverso il superamento di essa. Il vero uomo, l'uomo completo, comincia appunto là dove si avverte il passaggio dall'attività dei sensi a quella della ragione, dalla necessità fisica a quella logica e morale. Questo passaggio s'attua, secondo Kant, per mezzo d'una rivelazione interiore d'una folgorazione; per lo Sch. è necessaria una mediazione: superamento non può significare che conquista, e quindi lotta. La vita deve essere eroica; solo nella lotta e nella vittoria è l'affermazione della personalità umana. Ecco come il pensiero critico e l'idealismo kantiano diventano nello Sch. ideale dell'umanità. Egli umanizza la concezione kantiana della vita.

Tutto preso dall'ideale che si realizza nell'uomo perfetto, lo Sch. dall'astrazione filosofica di nuovo torna alla realtà della vita, alle espressioni, cioè, più alte e significative di essa. Le figure eroiche del passato l'attraggono, in quanto egli vede in esse il simbolo della eterna verità della vita umana. Perciò la storicità è sempre vista e sentita in funzione del suo ideale. Tutte le età hanno lavorato - egli dice - per l'umanità del nostro secolo; perciò anche noi dobbiamo sentirci collaboratori delle età venture. È, in fondo, la concezione della storia del Herder, abbellita di contenuto etico. In questo senso la poesia che s'ispira alla storia, della storia idealizzata è chiamata a dire l'ultima parola, in quanto sul valore etico di essa si fonda il processo d'idealizzazione del poeta. Ciò vale per le singole personalità, come per le collettività storiche; un eroe, come un popolo, ha sempre la possibilità di affermare e salvare un principio morale, quanto, cioè, v'ha in lui di incorruttibile e di eterno. Ma il trionfo non si ottiene senza lotte e dolori, contrasti e disarmonie, nella vita come nell'arte, e da tale necessità ha appunto origine la concezione drammatica dello Sch., la quale, così, si riallaccia alla più profonda tradizione spirituale della Germania: la concezione etica del divenire individuale. Nelle figure di Maria e Giovanna l'ideale etico schilleriano trova piena espressione. Esse sono spiriti che interiormente riescono a distruggere la colpa, mediante il superamento, non l'annullamento, del sensibile e si liberano dalle potenze del male che avvincono tutte le creature umane. In ciascuno di questi spiriti si rispecchia, nel momento della liberazione, l'ordine morale del mondo; di esso sono parte, con esso tornano in armonia.

Una volta riconosciuta nell'ideale morale l'unità della concezione poetica dello Sch., ideale di elevazione e di perfezione umane, sempre accessibile, sia pure con la rinuncia alla vita fisica, è evidente l'impossibilità di trovare nel dramma schilleriano un tragico immanente, fatalistico, o cosmico o prometeico, quale si sprigiona da forze antagonistiche che sono e devono essere e non possono non essere. Non dissidio fra io e mondo, fra uomo e Dio, fra necessità e libertà, ai quali elementi l'idealismo dello Sch. toglie fondamentalmente ogni capacità di soluzioni che non siano preordinate e conosciute. Il dramma dello Sch., pertanto, è piuttosto la rappresentazione della vita umana nelle sue lotte e nei suoi dolori, idealizzata dalla coscienza del poeta e drammatizzata dalla sua passione. E se così è, è logico e anche inevitabile che tale idealizzazione, in quanto è il prodotto d'una esigenza morale, debba, talvolta, ostacolare appesantire sviare o arrestare il naturale svolgimento dell'azione drammatica. Così, quando la libera fantasia e l'ardente passione del poeta sono raggiunte e sorprese dallo scrupolo del moralista, abbiamo i sermoni religiosi di Melvil, i monotoni rimproveri di Giovanna a sé stessa, il monologo della giustificazione di Tell prima dell'uccisione del tiranno e la inutilissima e artisticamente lacrimevole scena del parricida. Certo non è possibile scambiare la poesia con la filosofia, ma si può ricercare e spiegare come lo Sch., il quale non solo non negò l'autonomia del fatto estetico, ma fu anzi fra i primi a riconoscerla, considerasse tuttavia la poesia e l'arte in funzione dell'elevazione dell'uomo e in esse vedesse anche la possibilità di realizzare il suo ideale: la totalità della vita umana. Anche nella formulazione d'una teoria oggettiva del bello, lo Sch. muove dalla speculazione kantiana. L'idea della libertà - egli argomenta - è tratta dalla ragion pratica ed è attribuita agli oggetti, i quali non si determinano di fatto da sé, né sono realmente liberi, ma soltanto appaiono tali. Orbene, bello è ciò che presenta l'analogo di quello che costituisce l'essenza della moralità nell'uomo, cioè autonomia e libertà. Bellezza è "Freiheit in Erscheinung". Ma quando dalla determinazione dell'oggettività del bello passa a fissare le norme di un'educazione estetica, immancabilmente torna nel campo morale; alla stessa maniera, quando le condizioni della determinazione astratta del buono porta nella tragedia, cioè nella vita, invece di trovarsi di fronte a un tragico immanente e insuperabile, si trova ancora logicamente e naturalmente nella serenità d'una cosmica armonia.

Ecco perché egli, spirito acutissimo, è preso spesso da ansiosi e angosciosi dubbî sull'essenza della poesia e sul valore intrinseco della propria arte. Così, mentre esalta l'intuitività dello spirito del Goethe, constata nella propria attività creatrice una scissura fra pensiero e immaginazione, fra concetto e figura e aggiunge, precisando: "e io resto perplesso e incerto e oscillo fra ragione e sentimento, fra concetto e intuizione, fra la tecnica cerebrale e la geniale spontaneità".

Questo dissidio fra il pensatore e il poeta, del quale lo Sch. torna a parlare con sempre maggiore frequenza negli ultimi anni, è evidente anche nella sua produzione lirica. In lui, a differenza di quanto avviene nel Goethe, difficilmente la poesia è frutto d'un profondo processo interiore, svolto in piena indipendenza da influssi razionali, riflessivi. Egli osserva la vita che gli è intorno, ne esamina con minuta analisi gli atteggiamenti e i moti più tenui, ne ascolta le voci più sottili: quella visione, quelle voci hanno riflessi e risonanze immediate nella sua anima sensibilissima e calda di simpatia umana. Il poeta si abbandona allora alla corrente del sentimento, ma ecco, d'un tratto, l'intervento della riflessione lo arresta o lo fa deviare. E se anche esso manchi o non s'avverta, quella stessa simpatia, sempre pronta e vibrante e riboccante, impedendo al poeta un intimo raccoglimento, un ripiegarsi calmo e sereno su sé medesimo per cercarvi una limpida visione, tutta sua, facilmente lo trascina a una esaltazione che più spesso si esprime in forme turgescenti e declamatorie. Lo Sch. non si accontenta della realtà. Tutta la fioritura lirica del pensiero schilleriano è caratterizzata da uno sforzo verso una meta ideale che è di là d'una realtà presente. Poeta - egli dice - può essere soltanto chi al posto della misera realtà pone un altro mondo e quella supera con idee che vivono nel regno di una pura spiritualità. Fra reale e ideale ondeggia il mondo poetico dello Sch.; se a quello egli è più vicino la sua rappresentazione tende alla satira; se più a questo egli tiene lo sguardo, il canto gli si scioglie in elegia.

Nelle prime liriche, scritte nel suo periodo Sturm und Drang e raccolte quasi tutte, insieme con poche di altri poeti, nella Anthologie auf das Jahr 1782, il poeta, come nei primi drammi, dà, sì, libero sfogo al suo temperamento vulcanico e ribelle, ed esalta la vita dei sensi e si scaglia contro le tirannidi politiche e le ingiustizie sociali, ma già in esse si avverte l'aspirazione verso un ideale di umanità più alta. Canta in esse l'amore trionfante - odi a Laura - ma ecco, poco dopo, nella nuova esperienza amorosa con Carlotta von Kalb, canta la rinuncia e la rassegnazione. La gioia è oltre il soddisfacimento sensuale, nella libertà dello spirito. Qui il dissidio d'una potente personalità di fronte al mondo dei sensi e a quello dello spirito appare più prossimo a essere superato. Così anche quello di fronte al mistero della vita e dell'universo. Il panteismo schilleriano, fatto di naturalismo e di misticismo, quale egli aveva già espresso nella Theosophie des Julius, tende a diventare, attraverso l'accettazione delle leggi dello spirito, nobile elevazione della vita, oltre il piacere dei sensi e senza astratte negazioni della vita stessa. Questo idealismo eroico che, come nei drammi, si ritrova anche nel fondo delle liriche ispirate dall'amore, trova una più chiara e profonda espressione nella esaltazione del sentimento d'amicizia: An die Freude. Dopo il tumulto delle passioni giovanili, l'amore di Carlotta Lengefeld segna il placarsi dell'interiore dissidio e il ritrovamento di una armonia, che in piena luce si riflette in Die Götter Griechenlands e che rivela al poeta il compito e lo scopo della sua vita d'artista (Die Kunstler). Più tardi, quando il pensiero kantiano illumina e precisa la Weltanschauung dello Sch., anche la sua ispirazione lirica si muove unicamente entro l'orbita d'una alta idealità morale (Die Ideale, Das Ideal und das Leben, Der Spaziergang). Qui ogni dissidio fra etica ed estetica sembra dissolversi. Il mondo e la vita si mostrano al poeta in una luminosa chiarezza. Ed egli scrive le sue famose ballate, nelle quali la trasfigurazione lirica della realtà cede interamente il posto alla semplice rappresentazione di essa. Carattere epico più che lirico hanno infatti le ballate Der Handschuh, Der Taucher, Die Bürgschaft, Ritter Toggenburg, ed anche Der Ring des Polykrates e Die Kraniche des Ibykus, ed infine il celebratissimo Lied von der Glocke: l'epopea-lirica in cui, in un mirabile quadro sono fatte passare tutte le vicende della vita umana. Essa ebbe, dopo la morte dello Sch. un epilogo, scritto dal Goethe stesso, nel quale questi affermava che la luce che aveva illuminato l'animo dell'impareggiabile amico perduto, era ormai diventato da tempo la fede di migliaia di uomini.

Lo Sch. non esercitò nessun vero e proprio influsso sui poeti italiani, anche perché egli non ebbe mai in Italia la popolarità di altri scrittori stranieri, malgrado l'opera sua fosse esaltata se pur non del tutto compresa, già dal gruppo lombardo del Conciliatore. Innumerevoli tuttavia sono state le riduzioni e rappresentazioni teatrali delle sue principali tragedie. Quasi tutte furono musicate da compositori italiani e alcune, specie il Don Carlos e Maria Stuart, da più d'un compositore.

Ediz.: Sämmtliche Werke, Säkularausgabe, a cura di E. v. der Hellen, in 16 voll., Stoccarda 1904-1905; altre edizioni: quelle durate da L. Bellermann (Bibliographisches Institut), 2ª ed., voll. 15, Lipsia 1922 segg., da O. Güntter e G. Witkowski, voll. 20, Lipsia 1910 segg.; fra lk edizioni di opere scelte, quella curata da E. von der Hellen in 6 volumi, Stoccarda-Berlino. Per le lettere, v. Schillers Briefe, a cura di F. Jonas, voll. 7, Stoccarda-Berlino 1892-96. Per gli epistolarî col Körner, col Goethe, con la moglie Lotte, con W. v. Humboldt, v. le ediz. nella raccolta Bibliothek Cotta'sche der Weltliteratur, Stoccarda 1895 segg. Cfr. inoltre: Schiller-Bibliothek, a cura di P. Trömel, nuova ed., Lipsia 1924.

Chr. G. Körner, Nachrichten von S.s. Leben, Tubinga 1812; Karoline v. Wolzogen, S.s. Leben, Stoccarda 1830, 5ª ed., 1876; J. Petersen, S.s. Gespräche Berichte seiner Zeitgenossen über ihn, Lipsia 1911. Monografie: W. v. Humboldt, Über S. und den Gang seiner Geistesentwicklung, Stoccarda 1830; K. Hoffmeister, S.s. Leben, Geistesentwickelung und Werke im Zusammenhang, ivi 1838-42, rielaborato da H. Viehoff, ivi 1875; J. Minor, S., sein Leben u. seine Werke, Berlino 1889-90; L. Bellermann, S., Lipsia 1901; E. Kühnemann, S., Monaco 1905; Th. Ziegler, S., Lipsia-Berlino 1905; R. Petsch, Freiheit u. Notwendigkeit in S.s. Dramen, Monaco 1905; K. Berger, S., ivi 1905-09; L. Bellermann, S.s. Dramen, Berlino 1908; E. Heusermann, S.s Dramen, 1915; W. Bolze, S.s., philosophische Begründung der Tragödie, Lipsia 1913; F. A. Hohenstein, S. Die Metaphysik seiner Tragödie, Weimar 1927.

Per quanto riguarda la fortuna letteraria dello Sch. in Italia, v. la Bibliografia schilleriana, a cur di C. Fasola, in Rivista di letteratura tedesca (1908) e le correzioni e aggiunte alla medesima di L. Mazzucchetti, ibid. (1911), e L. Mazzucchetti, S. in Italia, Milano 1913. Monografie e studi italiani sul teatro di Sch.: G. Mazzini, Scritti editi ed inediti, Firenze 1901; F. De Sanctis, Saggi critici, nuova ed., Napoli 1930; B. Croce, Poesia e non poesia, Bari 1924; 2ª ed., Bari 1936; L. Tonelli, L'anima moderna. Da lessing a Nietsche, Milano 1925; E. levi, Il principe Don Carlos nella leggenda e nella poesia, Roma 1923; A. Belli, Pensiero, lirica, drammi di F. S., Venezia 1925; G. A. Borghese, Ottocento europeo, Milano 1927; A. Farinelli, Poesia germanica, ivi 1927; G. Gabetti, Prefazione alla M. Stuarda, tradotta da A. Maffei, Torino 1924; G. A. Alfero, S. I drammi della giovinezza, ivi 1929; R. Bottacchiari, Il dramma di F. S., Messina 1930.

Per una traduzione italiana dell'intero teatro dello Sch. si è ancora a quella di A. Maffei (ed. definitiva, Torino 1917-18, voll. 5); numerosissime le versioni dei drammi isolati, o di gruppi di opere, con buone introduzione, e quasi al completo anche quelle delle opere dicarattere filosofico ed estetico.