Rousseau, Jean-Jacques

Dizionario di filosofia (2009)

Rousseau, Jean-Jacques


Filosofo (Ginevra 1712- Ermenonville, Oise, 1778).

La vita e le opere

Nacque da famiglia calvinista di origine francese; il padre era orologiaio. Già a sei anni R., assiduo lettore di romanzi, «aveva imparato a dissiparsi nella voluttà dell’emozione passiva». Fra il 1724 e il 1725 fu apprendista presso un incisore a Ginevra, ma a sedici anni se ne fuggì in Savoia e iniziò una vita randagia, che durò parecchi anni. Il curato di Confignon lo persuase a convertirsi e lo indirizzò ad Annecy presso Madame Louise-Éléonore de Warens, che, recente recluta del cattolicesimo, lo inviò in un ospizio di catecumeni di Torino, dove fu battezzato secondo il rito cattolico. Uscitone presto, trascorse quattro anni di vita errabonda, costretto ai più avvilenti servizi presso famiglie signorili; raggiunse poi di nuovo la sua benefattrice, che gli fu madre, amica e amante, nell’ameno rifugio campestre di Les Charmettes, nei pressi di Chambéry, dove trascorse il periodo più felice della sua vita. Furono, questi, anni di intensa stimolazione intellettuale: lesse molto, studiò musica, si abbandonò con compiacenza alla meditazione e alla «rêverie» solitaria. Dopo una ripresa di viaggi per la Francia e la Svizzera, tornò presso Madame de Warens, trasferitasi a Chambéry. Finalmente, travolto il patrimonio della de Warens in speculazioni sbagliate e illanguiditosi l’affetto, egli se ne staccò e accettò nel 1740 un posto di precettore presso la famiglia Mably di Lione. Nell’autunno del 1741 fu attratto da Parigi, dove trascorse per parecchi anni una vita grigia e stentata come maestro e copista di musica e come impiegato. Nella misera pensione che lo ospitava conobbe una domestica, Thérèse Levasseur, cui si legò per la vita, e da cui ebbe cinque figli, che egli inviò all’ospizio dei trovatelli (pare però che questa sia un’invenzione di R. e che egli in realtà non abbia mai avuto figli). A Parigi entrò in contatto con i maggiori rappresentanti dell’Enciclopedia e dell’Illuminismo, Diderot, Fontenelle, Condillac, F.M. Grimm, Voltaire. Dopo una sosta di circa un anno a Venezia, in qualità di segretario di Montaigu, ambasciatore di Francia presso la Serenissima, ritornò a Parigi; e qui doveva sollevarsi poco dopo, d’un colpo, a una fama europea. L’Accademia di Digione aveva bandito un concorso sul tema «Se il risorgimento delle scienze e delle arti abbia contribuito a epurare i costumi»; R. rispose negativamente, contrapponendo alla civiltà lo stato di natura. Riuscì vincitore (1750), e in pochi mesi conseguì una grande fama, subito consolidata dal trionfo (1752) al teatro di corte di Fontainebleau, dinanzi al re, dell’opera comica Le devin du village, cui seguì la rappresentazione della commedia Narcisse alla Comédie Française. Nel 1754 R. ribadì le proprie idee in un secondo discorso, sempre in risposta a un quesito della Accademia di Digione, «Sulla origine e i fondamenti della ineguaglianza fra gli uomini». Non vinse il premio, e insieme con la propria fama vide crescere l’opposizione dei suoi amici di ieri, gli enciclopedisti, contro i quali in sostanza erano rivolti i due discorsi. Nel suo viaggio a Ginevra nel 1754 vi fu accolto con grande onore e ritornò in seno al calvinismo per riaffermare la propria qualità di «cittadino». Accettò poi l’invito di Madame d’Épinay e andò ad abitare nella sua casa, all’Ermitage, presso la foresta di Montmorency (1756). Ma l’anno dopo abbandonava la sua protettrice e si rifugiava in una casetta nei dintorni dell’Ermitage a Montlouis, da cui passò nel castello di Montmorency, ospite del maresciallo di Luxembourg. Sono questi gli anni «di pazzia e di febbre», come li definì egli stesso più tardi, in cui redasse i suoi capolavori. La Nouvelle Héloise (trad. it. La nuova Eloisa) apparve infatti nel 1761, l’Émile (trad. it. Emilio) (➔) e il Contrat social (trad. it. Il contratto sociale) (➔) nel 1762. Cessata la febbre della creazione, cadde in uno stato di prostrazione e d’irrequietezza morbosa, accresciuto dalle persecuzioni dei poteri politici e religiosi. Proibito il Contratto sociale, bruciato per mano del boia l’Emilio, l’autore colpito da mandato di cattura, R. abbandonò precipitosamente la Francia e, cercato invano rifugio in Svizzera, riparò a Môtiers-Travers, nelle vicinanze di Neuchâtel, che apparteneva al re di Prussia. In questa solitudine stese le Lettres écrites de la montagne (trad. it. Lettere dalla montagna), uno dei suoi scritti più vivi e concisi, e pose mano alle Confessions (post., 1781-88; trad. it. Le confessioni). Stabilitosi nell’isola di Saint-Pierre, nel lago di Bienne, ne fu espulso da un decreto del senato di Berna. Accettò allora un invito di Hume, che lo volle ospite a Wootton; ma nel maggio del 1767 era già di ritorno in Francia, ripagando l’amico con sospetti e accuse infondate. Dopo un periodo di irrequieto vagabondare, si stabilì di nuovo a Parigi (1770), dove trascorse gli ultimi anni della sua vita in una solitudine sempre più scontrosa; le Rêveries du promeneur solitaire (trad. it. Le fantasticherie del passeggiatore solitario) e i Dialogues ovvero Rousseau juge de Jean-Jacques, di questi anni, sono contrassegnati dalla crescente febbre di autoesaltazione congiunta a una sorta di mania di persecuzione. Morì nel 1778 a Ermenonville. Nel 1794 le sue ceneri furono trasportate nel Panthéon di Parigi.

L’opera musicale e letteraria

R. fu anche appassionato cultore di musica: ne compose, infatti, e ne teorizzò. Tra le poche composizioni fu celebre Le devin du village, opera comica con la quale R. introduce in Francia questo genere di componimenti, imitando il modello pergolesiano della Serva padrona rappresentato poco prima (1752) a Parigi. Della sua attività teoretica rimane il Dictionnaire de musique, saggio già compilato per l’Enciclopedia e pubblicato poi a parte (1764). L’opera letteraria di R., e in particolar modo talune pagine della Nuova Eloisa, delle Confessioni, delle Fantasticherie del passeggiatore solitario, hanno esercitato un’azione stimolatrice sulla sensibilità europea e preparato il formarsi del gusto romantico. Il suo proposito di svelare sin nel profondo sé medesimo, nelle Confessioni e altrove, sta all’origine dell’individualismo romantico, e rappresentò un impulso all’analisi psicologica più complessa e acuta della narrativa posteriore. La vena schietta, anche se talora inquieta, di R. si riconosce nel suo sogno di felicità contraddetto dalla società umana e condotto a innalzarsi verso un ideale più puro: pertanto, il conflitto individuo-società, tipico del Romanticismo, ha in R. uno dei suoi primi interpreti. Né senza conseguenze storiche restò il sentimento della natura, che, dapprima diletto spensierato, diviene in R. da ultimo consolazione religiosa. Vastissimo il suo influsso sulla letteratura europea, palese in Francia specialmente in B. de Saint-Pierre, F.-R. de Chateaubriand, Madame de Staël, G. Sand, e rintracciabile in Italia soprattutto in U. Foscolo e in G. Leopardi.

I due Discorsi

Più profonda e duratura è stata la sua azione sul pensiero europeo; da un lato egli esprime la cultura illuministica, dall’altro se ne distacca e vi si oppone con violenta polemica. Proprio pubblicando nel 1750 il celebre Discours sur les sciences et les artes (trad. it. Discorso sulle scienze e sulle arti), R., contro la fiducia illuministica nel progresso, sosteneva che «le nostre anime si sono corrotte nella misura in cui le nostre scienze, le nostre arti hanno progredito verso la perfezione»: l’uomo, uscito dal felice stato di primitiva ignoranza, è stato corrotto dai progressi dell’incivilimento. Nel successivo Dis-cours sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes (1754; trad. it. Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini) () volle delineare il processo per cui, dalla bontà originaria del primitivo stato di natura, gli uomini sono passati alla «società civile» ingiusta e corrotta. Nello stato di natura (➔ natura, stato di) – di cui R. sottolinea il carattere di ipotesi come presupposto dell’analisi delle presenti condizioni dell’uomo – non esisteva proprietà, quindi neppure disuguaglianza, né sopraffazione, né soggezione di uomo a uomo. Lentamente però gli uomini cominciarono ad appropriarsi della terra e dei suoi prodotti, inventando e utilizzando le prime tecniche di trasformazione della natura, come la metallurgia e l’agricoltura. Nasce la divisione del lavoro e l’appropriazione dei suoi prodotti, ossia la proprietà: con questa sorge la «società civile», fondata sulla distinzione tra mio e tuo, cioè sulla disuguaglianza che le leggi vengono a garantire. Così, mettendo a frutto le caratteristiche proprie dell’uomo, la libertà e la perfettibilità, l’umanità è definitivamente uscita dalle condizioni originarie dello stato di natura e anche da quella organizzazione patriarcale che R. indicava come «la giovinezza del mondo»: è nata invece un’organizzazione coercitiva, fondata sulla distinzione tra ricchi e poveri, padroni e schiavi. Tuttavia questa accusa lanciata da R. contro la società civile e le sue strutture non significava il desiderio di riportare indietro l’umanità «nelle foreste con gli orsi», all’originaria innocenza ed eguaglianza. Si trattava invece, e questo è lo scopo del Contratto sociale, di definire i fondamenti di una nuova società che fosse capace di ristabilire «nel diritto l’uguaglianza naturale fra gli uomini»; si trattava di trovare i fondamenti di una società giusta: in questo R. torna a condividere le prospettive di riforma politica che ispirarono le polemiche illuministe.

Il Contratto sociale

Il problema del «contratto sociale» è quello di trovare una forma di associazione per la quale ognuno, protetto dalla forza comune di tutti, resti padrone di sé e libero. Fine del contratto o patto sociale è dunque anzitutto di garantire la libertà di ciascuno, che non sarà più la libertà naturale dello stato di natura, perduta con questo, ma la libertà che nasce dal contratto, alla cui formazione concorrono tutti i contraenti decidendo di sottomettersi alla volontà generale. Alle relazioni individuali si sostituisce la relazione dei cittadini con la legge, espressione della volontà generale, alla quale tutti si sottomettono. Clausola centrale del contratto è «l’alienazione totale di ciascun associato con tutti i suoi diritti alla comunità»; nasce così il corpo politico in cui i cittadini sono parti integranti del tutto e in cui tutti e ciascuno detengono la sovranità. Si esclude in questa prospettiva la figura di un cittadino o corpo separato rivestito della sovranità attraverso la rinuncia dei singoli ai propri diritti: tale rinuncia è impossibile; il corpo politico costituisce un tutto, un corpo morale e collettivo composto di tutti i membri, che trae dall’atto della propria volontà il suo Io comune. Lo Stato è quindi una persona morale, ente collettivo, ente di ragione che non s’identifica né con una persona, né con la somma aritmetica della volontà di tutti, ma con la volontà generale, che, come tale, è sempre retta e ha per suo fine l’utilità pubblica. Le leggi sono espressione della volontà generale, per cui tutti s’impegnano alle medesime condizioni e godono dei medesimi diritti. Così la volontà generale «ristabilisce nel diritto l’eguaglianza naturale tra gli uomini» e garantisce la libertà di ciascuno, libertà legata alla ragione e alle leggi. Rispetto alla libertà naturale, propria dei primi uomini «stupidi e limitati», s’instaura una libertà propria di esseri dotati di ragione, capaci di moralità. Si tratta della libertà civile, limitata solo dalla volontà generale in cui ciascuno s’identifica. Dalla concezione dello Stato come «ente collettivo», l’Io comune, che si esprime nella volontà generale e che non ammette defezioni o negazioni (ove libertà coincide con obbedienza), sono derivate interpretazioni assolutistiche di R., mentre dall’accento posto sul carattere inalienabile della sovranità esercitata dal popolo intero prendono le mosse le interpretazioni democratiche.

Il problema educativo

La riforma dell’uomo nella vita sociale, proposta dal Contratto, si pone come problema educativo individuale nell’Emilio, quale formazione dell’uomo nuovo. Poiché la natura è buona, la preoccupazione di R. sarà di non turbare l’armonia e lo sviluppo della natura nel bambino; l’educazione di Emilio dovrà essere dunque essenzialmente negativa, non dovrà mai intervenire nel processo di naturale maturazione delle facoltà del bambino, non pretendere di «vedere nel fanciullo l’uomo». Emilio deve trovare da sé i primi rudimenti delle scienze, nel lavoro manuale, nel contatto con la natura non mediato dai libri, e neppure suggestionato dalla società dalla quale dovrà restare lontano fin quando non avrà conquistato, con la ragione, la piena libertà. Infatti culmine dell’educazione è la conquista della ragione, della piena capacità di giudizio, l’affermarsi della coscienza morale: qui s’inserisce anche la scoperta di Dio fuori dalle rappresentazioni antropomorfiche. Si colloca a questo punto nell’Emilio la professione di fede del Vicario savoiardo, che comporta il riconoscimento di Dio creatore e provvidente attraverso l’ordine del creato; riconoscimento che è frutto anzitutto di un sentimento, non della ragione discorsiva. Con Dio, la religione di R. comporta il riconoscimento dell’immortalità dell’anima cui è connessa non solo la moralità, ma la necessaria prospettiva ultraterrena di premi e castighi quale ristabilimento di un ordine perduto nel mondo degli uomini. Questi i cardini della religione dell’uomo che R. vede coincidere con la «pura e semplice religione del Vangelo». Da questa si distingue la religione del cittadino legata a culti e dogmi, diversa da paese a paese. Diversa ancora è la fede puramente civile, cioè propria della società civile: se lo Stato non può intervenire nelle opinioni private degli individui, tuttavia esso deve stabilire i dogmi della religione civile: esistenza di Dio potente e provvidente, immortalità dell’anima, vita futura con premi e castighi, santità del contratto sociale e delle leggi: senza questa fede non è possibile per R. essere buoni cittadini; chi rifiutasse quei dogmi, dovrà essere cacciato dal corpo sociale come un uomo «incapace di amare le leggi, la giustizia, di sacrificare, se occorre, la propria vita al dovere»; chi poi tradisse la fede civile, dovrà essere condannato a morte. Posta al centro questa fede civile, R. difende anche la tolleranza religiosa contro l’intolleranza civile e teologica, che provoca contestazioni e guerre dannose alla sovranità dello Stato. Si intrecciano in R. motivi assai diversi e spesso soluzioni diverse si contrappongono o quanto meno si succedono nel tempo; ma appare sempre essenziale la continua attenzione per i problemi dell’uomo e della società, unita a un’ispirazione «religiosa» che lo sostiene nella lotta per il riscatto e la liberazione dal «male» e per la fondazione di un nuovo mondo morale.

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