Iugoslavia

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Stato

Stato dell’Europa sud-orientale costituitosi nel 1918 con il nome di Regno dei Serbi, Croati e Sloveni (mantenuto fino al 1929, quando adottò quello di Regno di I.) e dissoltosi nel 1991-92 (con la formazione delle repubbliche indipendenti di Bosnia ed Erzegovina, Croazia, Macedonia, Serbia e Montenegro, Slovenia). Al momento della nascita occupava una superficie di 248.665 km2, saliti a 255.804 dopo la Seconda guerra mondiale a seguito degli acquisti territoriali ottenuti a spese dell’Italia (Istria, Zara), e contava circa 13.000.000 di ab., divenuti poco meno di 24.000.000 negli ultimi tempi dell’unità politica. La capitale era Belgrado.

Storia

La formazione dello Stato unitario

La Iugoslavia fu costituita nel 1918 sotto la dinastia serba dei Karađorđević, allora rappresentata da Pietro I. La sua fondazione costituì la conclusione di un ‘risorgimento’ unitario le cui origini risalgono almeno alla fine del Settecento.

Di grande importanza, per i popoli slavo-meridionali, fu l’esperimento delle province illiriche create da Napoleone (1809-14), quando per la prima volta Sloveni, Croati e Serbi si trovarono riuniti in un’unica formazione statale. Prese allora le mosse il movimento dell’illirismo, che esercitò un’influenza rilevante nella prima metà dell’Ottocento. Il serbo V.S. Karadžić e il croato L. Gaj avviarono parallelamente una riforma della scrittura e della grammatica, scegliendo di privilegiare come lingua letteraria il dialetto parlato (con lievi differenze) da Serbi e Croati.

Nella rivoluzione del 1848, l’aspirazione all’unità dei popoli iugoslavi fu alla base dei progetti politici dei partiti populisti sloveno, croato e di quello serbo della Voivodina. Nel frattempo, in Serbia era stato formulato (1844) un programma politico in cui convergevano gli orientamenti illiristici di Gaj e le prospettive di espansione verso l’Adriatico e l’Egeo suggerite dal patriota polacco A.J. Czartoryski; esso venne posto a fondamento delle tendenze serbe in favore della liberazione dei popoli slavi dell’Impero asburgico. In seguito, con il diffondersi del pensiero socialista, l’aspirazione all’unione degli Slavi meridionali si rafforzò e cominciò a delinearsi anche la prospettiva di una confederazione balcanica.

Dopo il regicidio del 1903, che pose fine alla dinastia degli Obrenović e permise il ritorno sul trono della Serbia dei Karađorđević, destituiti dal Parlamento nel 1858, si accentuò l’idea di una ‘missione’ liberatrice dei Serbi tra gli Slavi del Sud. L’annessione austriaca della Bosnia (1908) accrebbe le spinte unitarie presso Sloveni e Croati, che nella Prima guerra mondiale avviarono, grazie a un proprio Comitato iugoslavo, le trattative con il governo serbo per la creazione di uno Stato unitario (Patto di Corfù, 1917). Parallelamente si era sviluppato un movimento indipendentista croato dai connotati antiserbi, confluito attorno al Partito croato del diritto fondato da A. Starčević. Analoghe tendenze erano emerse a Lubiana per iniziativa del movimento dei Giovani Sloveni, mentre in Serbia alle spinte iugoslave si erano alternate aspirazioni volte alla creazione di una grande Serbia.

Il regno di Iugoslavia (1918-41)

Questi elementi, in parte contraddittori, confluirono quando fu fondata la I. come unione di Serbia e Montenegro alle province già austro-ungariche di Slovenia, Croazia, Dalmazia e Bosnia ed Erzegovina (Regno dei Serbi, Croati e Sloveni), condizionandone, sin dalle origini, la stabilità istituzionale. Il conflitto fra centralisti (il governo di Belgrado guidato dal serbo N. Pašić) e federalisti (soprattutto Croati) tormentò le relazioni politiche del nuovo Stato già nella fase costituente e proseguì anche dopo l’approvazione della Costituzione (1921), che prevedeva una monarchia ereditaria, con governo centralizzato. I contrasti politici, le tensioni sociali, la presenza di un forte partito comunista e infine alcuni atti terroristici indussero Pašić a imprimere una svolta autoritaria al paese (1921), che impose lo scioglimento del partito comunista e ridimensionò il ruolo dei sindacati.

Misure repressive furono varate anche contro la principale forza di opposizione croata, il partito dei contadini, il cui leader, S. Radić, fu ucciso nel 1928 in Parlamento da un deputato nazionalista montenegrino. Alessandro I (succeduto a Pietro I nel 1921) nel 1929 instaurò un governo dittatoriale che soppresse i partiti politici e mutò il nome in Regno di Iugoslavia. Nel 1934 il re fu ucciso a Marsiglia da sicari ustascia, gli aderenti al movimento croato filofascista contro il predominio serbo promosso da A. Pavelić. Data la minorità dell’erede al trono Pietro II, fu nominato reggente il principe Paolo. Nel 1939 fu raggiunto un accordo fra il governo centrale e il partito dei contadini croato per la creazione di una provincia autonoma di Croazia; l’inizio della Seconda guerra mondiale non permise, tuttavia, il consolidamento del regno, anche per l’accentuarsi delle divisioni, nella borghesia e nei gruppi dirigenti, fra filobritannici e fautori di un avvicinamento alle potenze dell’Asse. Il 25 marzo 1941 la I. aderì al Patto tripartito. Due giorni dopo un colpo di Stato incruento depose Paolo, lasciando sul trono il giovane Pietro II, ma il 6 aprile la I. fu invasa dagli eserciti dell’Asse che in pochi giorni travolsero ogni resistenza.

Il paese fu smembrato: parti della Slovenia, della Dalmazia e del Montenegro passarono all’Italia; il Kosovo fu annesso all’Albania (dal 1939 unita all’Italia); la Macedonia fu attribuita alla Bulgaria; parti della Voivodina, della Barania e del Medumurje passarono all’Ungheria; la Slovenia settentrionale fu annessa dalla Germania, che acquisì anche il controllo della Serbia, occupata militarmente; furono infine costituiti, come vassalli delle potenze dell’Asse, uno Stato montenegrino e uno Stato croato indipendente (governato dagli ustascia), comprendente anche la Bosnia. Dopo le prime insurrezioni in Krajina (dove gli ustascia avevano avviato il massacro dei Serbi, per una Croazia etnicamente ‘pura’) e in Montenegro, protagonista della resistenza iugoslava divenne il partito comunista, guidato dal 1937 dal croato J. Broz (Tito).

La Iugoslavia di Tito

Nel 1943 a Jajce, territorio liberato della Bosnia, il Consiglio antifascista di liberazione nazionale iugoslavo costituì un governo provvisorio sotto la guida di Tito. Nel 1945, a termine della guerra, gli Alleati tentarono di indurre Tito a un compromesso con il governo monarchico, in esilio dal 1941, ma fu subito chiaro che egli godeva di ampi margini di autonomia, grazie alla preponderanza militare e ai vasti consensi che i comunisti raccoglievano per aver liberato il paese. La riforma agraria e la nazionalizzazione dell’industria, delle finanze e del commercio furono i primi atti del governo rivoluzionario, che ottenne la sanzione popolare nelle elezioni per l’Assemblea costituente del novembre 1945.

Dichiarata decaduta la monarchia (gennaio 1946), fu varata una Costituzione ispirata a quella sovietica del 1936; alla guida del nuovo Stato fu confermato Tito. Il federalismo della neocostituita Repubblica Popolare Federale di I., imperniata su sei repubbliche (Slovenia, Croazia, Bosnia ed Erzegovina, Serbia, Montenegro, Macedonia) e due regioni autonome (Voivodina e Kosovo, nell’ambito della Serbia), fu limitato dalla pianificazione centralizzata dell’economia. In politica estera i crescenti contrasti con l’URSS portarono all’espulsione della I. dal Kominform (1948).

Tito difese con intransigenza l’indipendenza della I. e sfruttò a vantaggio del paese le tensioni fra Est e Ovest, ottenendo l’appoggio di Stati Uniti e Gran Bretagna. Tra il 1948 e il 1952 fu promosso un progetto politico alternativo al modello stalinista, con la decentralizzazione dei poteri dello Stato e l’autogestione nelle fabbriche. Il partito comunista fu trasformato in Lega dei comunisti di I., a simboleggiare l’aspirazione a una maggiore articolazione della vita politica, comunque entro i limiti di un rigido controllo del partito. La politica agricola fu modificata (1953), con il ritorno alla piccola proprietà. L’intensa attività internazionale di Tito contribuì alla nascita del movimento dei paesi non allineati (Belgrado 1961), nel cui ambito il leader iugoslavo avrebbe mantenuto fino alla morte un ruolo di primo piano.

Il varo di un complesso pacchetto di leggi in materia economica (1965) mutò in pochi anni il volto del paese, che nel 1963 aveva cambiato il nome in Repubblica Socialista Federale di I.: diffusione dei beni di consumo, libertà di spostamento, urbanizzazione, apertura al turismo, crescita del terziario fecero della I. non solo il paese socialmente più articolato dell’Europa centro-orientale, ma anche quello più vicino agli standard di sviluppo occidentali.

La maggiore articolazione della società impose una riforma dello Stato, intesa sia come graduale rinuncia all’intervento preponderante nell’economia (con conseguente sviluppo dell’autogestione), sia come decentramento amministrativo e rafforzamento del ruolo delle repubbliche a scapito degli organismi federali. Nel 1968 la crescita delle disparità fra strati sociali e tra repubbliche sviluppate e arretrate sfociò sia in una contestazione studentesca dai connotati democratici, sia in una protesta nazionalista che trovò una prima espressione nel Kosovo; ma fu soprattutto in Croazia che le tendenze nazionaliste assunsero maggior vigore. Nel 1974 una nuova Costituzione concesse larghissime autonomie alle sei repubbliche e alle due regioni.

Le spinte centrifughe

Dopo la morte di Tito (1980), il peggioramento della situazione economica alimentò la ripresa delle spinte nazionaliste. Dal 1981 si sviluppò un’agitazione nel Kosovo, la cui maggioranza albanese rivendicava la trasformazione in repubblica federata, richiesta avversata dai Serbi che vedevano nel Kosovo la culla della propria nazione. I Serbi, inoltre, cominciarono a guardare con sempre maggiore insoddisfazione alla propria condizione nel quadro istituzionale iugoslavo: come nazione maggioritaria, infatti, erano i meno favoriti dalla ripartizione paritetica delle rappresentanze, mentre la loro Repubblica era l’unica che includeva al proprio interno regioni autonome.

Il divario fra le più ricche e sviluppate repubbliche del Nord (Slovenia e Croazia) e quelle povere del Sud favorì nel decennio successivo la crescita di una sorta di separatismo economico e l’allentamento dei legami unitari, cui contribuì l’ascesa di nuovi dirigenti politici che cercavano di ampliare il consenso mediante il nazionalismo e la tutela degli interessi regionali.

La dissoluzione della Federazione

Con l’avvento di S. Milošević alla presidenza del Partito comunista serbo (1986) e della Repubblica serba (1989) la politica di quest’ultima si orientò in senso nazionalista: la situazione nel Kosovo subì un progressivo deterioramento e l’aggravarsi del conflitto tra Serbi e Albanesi portò nel 1990 alla soppressione dello statuto di autonomia della regione (insieme a quello della Voivodina). A ciò si accompagnò l’aumento delle tendenze separatiste in Slovenia e in Croazia (v. fig.), fino alla frattura della Lega dei comunisti lungo linee nazionali. L’ultimo congresso della Lega (1990) aveva approvato l’introduzione del multipartitismo e nel corso dell’anno si svolsero nelle sei Repubbliche elezioni pluripartitiche che condussero al potere forze portatrici di istanze nazionalistiche. Il primo ministro federale, il croato A. Marković, tentò invano di salvaguardare l’unità del paese, ma dalla fine del 1990 Slovenia e Croazia imboccarono la via della secessione, sfociata nella proclamazione unilaterale di indipendenza delle due repubbliche il 25 giugno 1991.

La guerra civile

L’intervento delle truppe federali per assumere il controllo delle frontiere internazionali diede inizio alla guerra civile. In Slovenia ebbe breve durata: dopo una tregua, concordata con la mediazione della CEE, le forze di Belgrado furono ritirate dal territorio. La relativa omogeneità etnica della Slovenia rese la secessione assai meno problematica di quella della Croazia, dove una parte consistente (circa il 12%) della popolazione era costituita da Serbi, che avevano rifiutato la secessione dalla I. e proclamato a loro volta l’indipendenza dalla Croazia. Con l’aiuto delle forze federali, i Serbi di Croazia stabilirono il controllo su quasi un terzo del territorio, proclamando la Repubblica Serba di Krajina (1991).

Dall’autunno 1991 il processo dissolutivo si estese anche al resto della I.: a novembre la Macedonia proclamò l’indipendenza; nel marzo 1992 anche la Bosnia ed Erzegovina si dichiarò indipendente. In aprile Serbia e Montenegro diedero vita a una piccola I. (Repubblica Federale di I.), ratificando così il distacco delle altre quattro repubbliche, nel frattempo riconosciute dalla comunità internazionale.

La separazione fra le repubbliche su basi nazionali risultava problematica (con la parziale eccezione della Slovenia) per la loro composizione etnica e culturale complessa e articolata. Un caso limite era costituito dalla Bosnia ed Erzegovina in cui la maggioranza, musulmana, rappresentava poco più del 40% della popolazione, a fronte di quasi un terzo di Serbi e un sesto di Croati. Pertanto, la divisione della I. suscitò nuovi focolai di tensione fra Albanesi e musulmani in Macedonia, Serbia e Montenegro (particolarmente grave divenne la situazione nel Kosovo); fu però in Bosnia ed Erzegovina che, a partire dal marzo 1992, si sviluppò una nuova fase della guerra civile. La dichiarazione di indipendenza della repubblica fu seguita dalla ribellione della componente serba della popolazione al governo di Sarajevo e dalla proclamazione di una Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina (marzo) nelle aree abitate in prevalenza da Serbi. Ne derivò un violento conflitto, concluso solo nel 1995, che diede luogo ad atrocità e massacri, nonché a estesi fenomeni di espulsione e deportazione dalle zone conquistate dall’una o dall’altra comunità, allo scopo di renderle etnicamente omogenee.

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