ITALIA

Enciclopedia Italiana - III Appendice (1961)

ITALIA (XIX, p. 693; App. I, p. 742; App. II, 11, p. 72)

Roberto ALMAGIA
Mario DI LORENZO
Giovanni SPADOLINI
Arnaldo BOCELLI
Giulio Carlo ARGAN
Alberto PIRONTI
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Confini e area. - Secondo gli accordi intervenuti fra l'Italia e la Iugoslavia nell'ottobre 1954, il territorio di Trieste è stato suddiviso in modo che la cosiddetta zona A con la città di Trieste è rimasta sotto l'amministrazione italiana, la zona B alla Iugoslavia, con lievi modifiche a favore di questa. L'Italia ha peraltro riconosciuto questo stato di cose soltanto come provvisorio. L'area dell'Italia è pertanto salita a 301.223 km2.

Popolazione. - Il 4 novembre 1951 è stato eseguito il 9° censimento della popolazione italiana, che ha dato come risultato complessivo 47.158.738 ab. presenti e 47.515.537 residenti. Al 31 dicembre 1959 la popolazione residente era calcolata a 50.707.816 ab. (Vedi oltre il prospetto con i dati per regioni e province).

Riguardo al movimento della popolazione si può osservare che l'eccedenza dei nati vivi sui morti si è mantenuta negli ultimi anni all'8‰ all'anno pur con notevoli oscillazioni da regione a regione, da meno di 1‰ (Firenze, Siena, Pistoia) a 15-17 (Basilicata). Nelle province meridionali quasi senza eccezione l'eccedenza è superiore al 10‰. Passivo è il bilancio per tutte le province piemontesi, per quelle di Pavia, Genova, Savona, Imperia, Trieste.

Ma sul movimento della popolazione hanno nell'ultimo decennio influito notevolmente gli spostamenti interregionali o interprovinciali, che è difficile valutare nella loro entità numerica. Hanno contribuito la persistenza e in alcuni casi l'accentuazione dello spopolamento di aree montane, segnalato per alcune parti della Liguria occidentale, per l'Appennino emiliano-romagnolo, manifestatosi ora anche in quello umbro-marchigiano, in quello abruzzese, nelle regioni montane della Calabria, ecc. In molti casi le aree di recente bonifica costituiscono centri di attrazione: come è avvenuto in passato per la bonifica pontina, così ora famiglie di contadini veneti si sono insediate nelle bonifiche di Alberese e Maccarese e qua e là in altre località del Lazio. Coloni meridionali si sono insediati nell'Appennino romagnolo; contadini ed altri lavoratori siciliani appaiono nelle campagne e anche nelle città della Toscana meridionale. Nel Fucino si sono trasferite famiglie provenienti dalle circostanti montagne, ma anche dalle Marche e dal Teramano, nella bonifica di Oristano coloni romagnoli, nella Nurra coloni profughi dall'Istria. A Carbonia, pure in Sardegna, più della metà della popolazione proviene da diverse regioni della penisola. Viceversa lavoratori sardi si insediano nel Lazio e nella Toscana meridionale; contadini calabresi si sono insediati a formare nuclei permanenti nella Riviera di Ponente. In aree di recente bonifica della Puglia, della Basilicata, della Calabria, si incontrano non di rado contadini marchigiani.

Il mare esercita pure un'attrattiva, ma l'incremento spesso veramente cospicuo di centri marittimi recenti in connessione con le industrie balneari e affini, è dovuto per lo più a trasferimenti di popolazioni provenienti dalla regione medesima; modesti spostamenti continuano a verificarsi invece dall'Adriatico al Tirreno per l'esercizio di attività pescherecce.

Molto notevole continua ad essere l'immigrazione di elementi meridionali nelle grandi città del Settentrione, come Torino, Genova, Milano, Brescia, Verona, Bolzano, ma non sempre si posseggono dati precisi in proposito. Certo è che per queste ed altre grandi città l'aumento di popolazione nell'ultimo decennio trova la sua spiegazione, oltre che nell'eccedenza delle nascite, nelle correnti d'immigrazione. E ciò vale in prima linea per Roma, dove vengono a stabilirsi famiglie non solo dalle regioni circostanti ma, in diversa misura e per differenti motivi, da ogni regione d'Italia.

Il censimento del 1951 fornisce anche dati relativi alla popolazione attiva distinta secondo le varie categorie di occupazione. La popolazione definita come attiva e che comprende i censiti in età superiore ai dieci anni addetti ad una qualsiasi occupazione, arte o mestiere, era nel 1951 di 14.760.000 individui sul totale di 22.959.000, in grandi confronto a 13.260.000 su 20.234.000 nel 1931. Limitandoci alle categorie di occupazioni, risulta che il 41,1% della popolazione attiva era dedito all'agricoltura, compresa la pesca e la caccia, il 32,5% alle industrie, il 3,7% ad attività connesse con i trasporti e le comunicazioni, il 16,1% al commercio (compreso il credito, le banche, ecc.), il 6,6% alla pubblica amministrazione, ecc. Le cifre percentuali corrispondenti erano, venti anni prima (censimento 1931): agricoltura 51%; industria 27,2%; trasporti ecc. 4%; commercio ecc. 11,3%; pubblica amministrazione 5,5%. In questo confronto colpisce anzitutto l'aumento nella categoria delle attività industriali, a scapito delle attività agricole. Non si può più dire oggi che l'Italia sia uno stato agricolo; essa rientra ormai nella categoria degli stati agricolo-industriali. Notevole la diminuzione della gente dedita al lavoro della terra, che aveva già cominciato a verificarsi sin dall'inizio del secolo attuale (1901: agricoltura 59,8%; industria 23,8%).

Lo sviluppo delle attività industriali e commerciali è in parte notevole la causa dell'incremento della popolazione delle maggiori città e dei conseguenti preoccupanti fenomeni di urbanesimo. Secondo il censimento del 1951 le seguenti tredici città superavano i 200.000 ab. (tra parentesi la popolazione calcolata alla metà del 1959): Roma 1.651.754 (1.943.733); Milano 1.874.245 (1.447.006), Napoli 1.010.550 (1.139.411), Torino 719.300 (926.629), Genova 688.447 (752.983), Palermo 490.692 (585.231), Firenze 374.625 (424.625), Bologna 340.526 (420.859), Venezia 316.891 (342.991), Catania 299.629 (358.047), Trieste 272.522 (284.492), Bari 268.183 (311.509), Messina 220.766 (246.504). Nel 1959 anche Verona ha superato i 200.000 ab.

Ordinamento amministrativo. - La Repubblica italiana è divisa in 92 province ed in circa 8000 comuni (8019 nel 1959), come risulta dalla tab. alla pag. seguente. L'area media della provincia è di 3272 km2 e la popolazione media è di circa 525.000 ab.; ma gli scarti sono notevolissimi: a parte Trieste, la provincia più piccola è quella di Gorizia (473 km2), la meno popolata è Aosta (94.140 ab. nel 1951); la provincia più vasta è Cagliari (9297 km2), la più popolosa è Milano (2.505.153 ab.).

L'area media del comune è di circa 38 km2, la popolazione media è di 6200 ab.; qui gli scarti sono ancora più ampî. Il comune più vasto è notoriamente quello di Roma (1507 km2), che è anche il più popoloso; il comune più piccolo è attualmente Atrani, in provincia di Salerno, con 0,1 km2 di area e 1250 abitanti; ma quest'ultima cifra è tuttavia superiore a quella relativa al comune di Moncenisio, che con 74 ab. risulta essere il comune meno popolato d'Italia.

Agricoltura. - Secondo le più recenti statistiche ufficiali, circa il 35,3% del territorio è classificato come montagna (regioni caratterizzate dalla presenza di notevoli masse rilevate, aventi altitudine di regola non inferiore a 600 m nell'Italia settentrionale, a 700 nell'Italia centromeridionale e nelle isole), il 41,6% è classificato come collina, il rimanente 23,1% come pianura. La superficie agraria è ragguagliata a 20.958.500 ha, pari al 69,5% (seminativo 47,4%, colture foraggere 3,9%, coltivazioni legnose 13,6%); i boschi, compresi i castagneti, occupano 5.769.500 ha, cioè circa il 19,1% della superficie totale; il cosiddetto incolto produttivo (pascoli naturali, macchie, ecc.) 1.093.000 ha, cioè il 3,8%. Il residuo, circa 2.298.000 ha pari ad un po' più del 7,6 oó, è rappresentato da suolo improduttivo.

La superficie agraria è notevolmente alta in relazione alla parte tanto cospicua occupata dalla montagna; tuttavia essa tende a crescere, per le opere di bonifica che acquistano nuovo terreno coltivabile, soprattutto nel basso Po e Ferrarese (valli di Comacchio), nella Campagna Romana, nella Puglia e Basilicata, in Calabria, in Sicilia e in Sardegna.

Per quanto riguarda l'ultimo decennio, è da segnalare anzitutto l'ascesa della produzione del frumento, dovuta peraltro all'incremento del reddito unitario più che all'estensione dell'area coltivata l'aumento della produzione del mais, la contrazione dell'area coltivata a riso, l'incremento, in taluni casi altissimo, delle produzioni ortofrutticole (frutta polpose) e anche quello della produzione delle uve e del vino. Anche la produzione dell'olio, molto oscillante, è in complesso, nonostante circostanze sfavorevoli (distruzioni belliche, gelate disastrose), in aumento rispetto al periodo prebellico. Per quanto riguarda le coltivazioni industriali, è in rapida ripresa la produzione della barbabietola da zucchero, in più rapida ascesa la produzione del tabacco, in notevole diminuzione quella della canapa.

La tabella qui in calce offre alcuni dati al riguardo.

La superficie irrigata si calcolava nel 1958 a 2.785.500 ha, per la massima parte nella pianura padano-veneta. Attualmente le maggiori opere d'irrigazione si collegano con quelle di bonifica generale e con la costruzione di bacini e serbatoi artificiali, che alimentano le reti irrigatorie. Il concetto di bonifica si è pertanto molto ampliato; la bonifica è strettamente collegata a sua volta con la riforma fondiaria. Gli enti di bonifica operanti in altrettanti comprensorî sono attualmente nove: l'Ente Maremma opera dal 1951 nel territorio fra Arno e Tevere fin quasi alle porte di Roma, affiancandosi a minori bonifiche anteriori (Maccarese, Isola Sacra ecc.); l'Ente Fucino prosegue l'opera di redenzione iniziata col prosciugamento (1876) dell'antico lago. Gli altri comprensorî sono: Garigliano-Volturno; Molise-Lucania-Puglia (il più esteso), Sele, Sila (con la fascia di colline e pianure che scende fino allo Ionio a sud della foce del Crati), la Sicilia, le bonifiche sarde (Campidano, pianure di Oristano, Nurra) e infine il Delta Padano (ente costituito nel 1951).

Consistenza del bestiame. - Non esistono veri e propri censimenti recenti del bestiame. Una valutazione del 1958 dà (cifre arrotondate) bovini 8.650.000, ovini 8.626.000, caprini 1.549.000, suini 3.900.000, cavalli 474.000, asini 556.000, muli e bardotti 363.000.

Le gravi perdite causate dalla guerra nel patrimonio bovino sono state interamente risarcite. Continua la diminuzione degli equini. La partecipazione delle singole regioni non ha subìto notevoli variazioni.

Pesca. - Caratteristica principale dell'attività peschereccia italiana negli ultimi anni è la diminuita importanza della pesca tradizionale con velieri e barche, pur sempre numerosissime, in confronto all'intervento dei motopescherecci e delle motobarche. Al 1° gennaio 1959 esistevano 3045 motopescherecci (t 81.800), 8.145 motobarche (t 26.938) e 32.207 motovelieri (t 44.938). La pesca si esercita quasi esclusivamente in acque nazionali: una sola società, la Genepesca, opera con 4 unità nelle acque di Terranova e con 9 minori unità nelle acque della Mauretania. La pesca lagunare ha ancora importanza assai modesta. Quintali di pesce sbarcato nel 1958: 1.417.900, di cui 603.650 tra alici, sarde e scombri e 29.900 tonni (39 tonnare attive): si aggiungono molluschi e crostacei.

Fonti di energia. - Mentre la produzione dei combustibili fossili - carbone Sulcis, antracite, lignite - tende a diminuire, l'Italia ha fatto ormai il suo ingresso fra i paesi petroliferi, non per una maggior produzione dei vecchi modestissimi giacimenti del Piacentino e limitrofi, ma per la scoperta di ricchi giacimenti a grandi profondità nella Sicilia di sud-est (Ragusa, Gela). La produzione del petrolio greggio, che era di poco più di 17.000 t nel 1951, è salita a circa 200.000 nel 1955, a circa 1.260.000 nel 1957, ha superato 1.800.000 nel 1958 e 2 milioni nel 1959 (per il 90% della Sicilia). Un oleodotto trasporta il greggio da Ragusa al porto di Augusta. Il petrolio greggio è raffinato in Italia (circa 1.327.400 t nel 1958), ma i nostri impianti di raffinazione, circa una quarantina, raffinano quantità di gran lunga superiori di petrolio greggio estero (circa 22.800.000 t nel 1958). Molto larghe appaiono anche le prospettive per la produzione del metano, che da meno di un milione di m3 nel 1951 è passata a oltre 6 milioni nel 1958 e a 8 nel 1959. I centri maggiori sono nel Cremonese, nel Lodigiano, nel Parmense; seguono la regione del Delta Padano, e il Ravennate che sembra avere ingenti riserve. Numerose sono le segnalazioni di giacimenti in altre località. La rete dei metanodotti si avvicina a 5.000 km.

Per quanto riguarda l'energia elettrica, l'Italia nel 1958 possedeva 2665 centrali idroelettriche e 755 centrali termoelettriche (comprese quelle azionate da energia interna come i soffioni di Larderello); le prime fornivano circa 36 miliardi di kWh, le seconde oltre 9.500. Un centinaio erano gli impianti idroelettrici principali (dei quali una ventina entrati in funzione tra il 1° gennaio 1958 e il 30 giugno 1959). Tra questi una quindicina nell'Italia centro-meridionale, un paio in Sicilia, e due in Sardegna.

Per alcuni principali prodotti delle miniere e cave la tabella che segue offre i dati relativi al 1958 (il segno + indica tendenza ad aumento della produzione, il segno − tendenza a diminuzione, il segno = stasi).

Industria.- Nel 1951, parallelamente al censimento demografico, è stato eseguito il censimento industriale, il quale fornisce dati copiosi ma in parte già superati, sulla struttura industriale dell'Italia. Come si è già detto, della popolazione attiva, il 35% era occupato nelle industrie, percentuale che risulta ancora accresciuta, se si tiene conto di altre attività più o meno direttamente collegate con quelle industriali. Le attività che occupavano maggior numero di addetti erano quelle tessili (circa 1.150.000), comprese le industrie del vestiario e abbigliamento, seguite dappresso dalle metallurgico-meccaniche (circa 1.120.000). Al terzo posto per numero di addetti venivano le industrie alimentari in senso largo, al quarto quelle edili, al quinto le industrie chimiche e affini, al sesto le industrie del legno. Per il complesso delle attività industriali, di gran lunga al primo posto è la Lombardia; a distanza seguono Piemonte, Veneto, poi, nell'ordine, Toscana, Emilia-Romagna, Lazio, Campania, Liguria, Sicilia, Puglia.

Le industrie che hanno mostrato, già nel periodo bellico e postbellico, il maggiore slancio sono quelle metallurgico-meccaniche, come è dimostrato da alcune cifre tipiche relative al 1958 (fra parentesi le cifre del 1951): produzione della ghisa 2.060.000 t (950.000); dell'acciaio 6.271.000 t (3 milioni); produzione di autoveicoli 403.500 (145.500). In grande incremento sono anche le costruzioni navali, il cementificio, che deve rispondere alle crescenti esigenze delle industrie edilizie, alcuni rami di industrie chimiche (fertilizzanti e concimi chimici, solfato di rame, prodotti farmaceutici e fotografici, ecc.; materie plastiche in grande incremento dopo il 1951; tessili artificiali, carta). Tra le industrie tessili vere e proprie si mantiene saldamente quella laniera, e in modo meno vivace la cotoniera; in declino le altre.

Tra le industrie alimentari il maggior incremento è dimostrato, nell'ultimo decennio, dall'industria casearia e da quelle conserviere.

Un fatto che non trova il suo riflesso nei dati del censimento 1951, perché si è accentuato negli anni successivi, suscitando problemi oggi dibattutissimi, è quello della industrializzazione del Mezzogiorno. Si rimanda per questo alla voce industria, in questa App., notando qui soltanto che un vivace impulso si manifesta non solo nei centri maggiori dell'Italia peninsulare (Napoli e satelliti, Salerno, Bari, Taranto, Crotone, Reggio), della Sicilia (Catania, Messina, Palermo), della Sardegna (Cagliari, Sassari), ma anche in centri minori, quali, per esempio, Maratea in Calabria, Augusta in Sicilia, Carbonia in Sardegna, ecc. Vedi tav. f. t.

Comunicazioni e trasporti. - La restaurazione della rete ferroviaria è ormai completa (v. ferrovia). Essa sommava nel 1958 a 21.745 km, dei quali 8530 elettrificati. Nell'ultimo quinquennio non vi è stato un sensibile aumento di linee (anzi alcuni brevi tronchi sono stati abbandonati) ma un incremento notevole della rete elettrificata e soprattutto acceleramenti nelle linee più importanti dovuti anche all'aumento delle elettromotrici (circa 600 nel 1959; in confronto a 464 nel 1955). I servizî tranviarî extraurbani sono invece in diminuzione, per la concorrenza dei servizî autofiloviarî. Ma il numero dei viaggiatori e delle merci non tende ad aumentare, per effetto, diretto o indiretto, di aumenti di tariffe, di concorrenza dell'auto, ecc.

Sono molto migliorate le comunicazioni ferroviarie con gli stati confinanti attraverso i valichi alpini e i trasporti diretti senza trasbordo (fino a Calais, Ostenda, Hoek van Holland, Amburgo, Berlino, Copenaghen, Oslo, Stoccolma, Varsavia, Praga, Belgrado, Istanbul, ecc.). Esistono anche servizî combinati ferroviarî e automobilistici.

Le strade ordinarie sommavano nel 1958 a 181.055 km non comprese quelle vicinali, di bonifica, ecc. (175.175 nel 1955) delle quali 25.199 statali, 47.223 provinciali e 181.055 comunali; 60,1 km per 1000 km2 di superficie; 36 km ogni 10.000 ab. In rapporto all'area è alla testa il Veneto (1055 km per ogni 100 km2), all'ultimo posto la Basilicata (30,4); in rapporto alla popolazione è in testa il Trentino-Alto Adige (65,4 km ogni 10.000 ab.) e all'ultimo posto il Lazio (21,1). La rete autostradale comprendeva nel 1958: 510 km costruiti, 462 in costruzione e 956 in progettazione approvata. Il parco automobilistico comprendeva circa 4.787.000 veicoli, dei quali 1.627.000 a quattro ruote. Sono in funzione da qualche anno linee di autotrasporti internazionali, soprattutto per servizî turistici.

Navigazione. - La navigazione interna ha fatto, nell'ultimo decennio, progressi modesti: è aumentato il movimento sul Po dall'Adriatico (per il Po da Volano a Ferrara e più a monte fino a Cremona e per il Mincio a Mantova) per trasporto di petrolio greggio, carbone, ecc. Si sta attrezzando il porto fluviale di Cremona ed è stato migliorato quello di Pontelagoscuro. Sono in progetto il canale Milano-Adda-lago di Como e un canale dal Mincio a Peschiera sul Garda.

Per quanto riguarda i trasporti marittimi, il naviglio mercantile, che aveva subìto gravissime distruzioni per effetto della guerra, è stato ricostruito, e il suo tonnellaggio supera di gran lunga il livello prebellico: 3,5 milioni di stazza lorda alla fine del 1952, 4,6 milioni alla fine del 1957 e 5,3 milioni alla fine del 1959 (navi di oltre 100 t). Il naviglio è quasi tutto a propulsione meccanica; l'epoca dei velieri è definitivamente chiusa: non esistono più che una cinquantina dí velieri di stazza lorda media di 200 t appena.

Le gravissime distruzioni recate ad alcuni porti - Genova, La Spezia, Livorno, Napoli, Bari, Ancona - sono state riparate; tutti questi porti sono anzi in espansione, ad eccezione di Ancona per il quale un piano organico di lavoro è in progetto. Per Genova sono in corso opere di ampliamento e di attrezzature grandiose. La Spezia si va trasformando in porto industriale (petrolio, ecc.); per Savona e Vado Ligure è contemplata la fusione in un unico complesso portuale. Il traffico petroliero dà vita ad alcuni porti o ne modifica le funzioni: Falconara, Pesaro, Ravenna, Gela, ecc. sono esempî cospicui. Per traffico di merci il primo posto spetta a Genova (oltre 11 milioni di t di merci sbarcate nel 1958, cioè un quarto del totale di tutti i porti italiani); seguono nell'ordine Venezia, Napoli, Livorno, Savona, Trieste, La Spezia, Augusta, Bari. Per movimento passeggeri Napoli ha una lieve precedenza su Genova; seguono Venezia, Trieste e Brindisi.

Aviazione civile. - La funzione che spetta all'Italia in virtù della sua situazione che ne fa come un ponte tra l'Europa di nordovest, il Levante, l'Africa orientale e l'Asia meridionale, ha ripreso in pieno per quanto riguarda i servizî aerei dopo la stasi della seconda guerra mondiale; e ancor più profondamente hanno influito le rinnovate e intensificate relazioni con i paesi di oltre Atlantico. Pertanto il numero, l'efficienza e la rapidità dei servizî aerei aumentano ogni giorno.

Gli aeroporti in funzione per servizio civile sono una ventina o poco più, e di essi alcuni hanno un movimento limitato: quattro sono i maggiori per numero di aerei arrivati e partiti. L'aeroporto internazionale di Fiumicino (Roma), entrato in funzione nel gennaio 1961 in sostituzione di quello di Ciampino oramai inadeguato alle necessità del traffico, è di gran lunga al primo posto; seguono quelli di Milano (Malpensa e Forlanini), Napoli (Capodichino), Brindisi, e con funzioni più limitate, quelli di Palermo, Cagliari e Alghero (Fertilia), Venezia, Torino (Caselle). Un grande idroscalo e aeroporto è in costruzione a Genova, un nuovo aeroporto a Venezia.

La tabella della seguente colonna contiene i dati relativi ai servizî internazionali nei quattro maggiori aeroporti per il 1958.

Per movimento passeggeri Pisa e Treviso hanno importanza superiore a Brindisi. I servizî aerei internazionali sono concentrati in una sola società, l'Alitalia, che gestisce servizî diretti: oltre Atlantico con Montreal e Chicago, Boston, New York, Caracas, Rio de Janeiro e S. Paolo, Montevideo e Buenos Aires; per l'Oriente con Atene, Istanbul, Tel Avīv, Beirut, Damasco, Angora, Baghdād, Teheran, Karachi, Bombay; per l'Africa con Tripoli, Alessandria, Khartum, Mogadiscio, Entebbe, Nairobi, Johannesburg. Inoltre provvede ai collegamenti con tutte le maggiori città europee ed ai servizî interni.

Anche i servizî interni sono in notevole sviluppo: i passeggeri trasportati furono nel 1958 circa 305.000 (160.000 nel 1955), la posta 13.500 q (7.200 nel 1955), i bagagli e le merci 70.000 q (41.000 q nel 1955). Per i servizî interni hanno importanza Palermo e Catania per le comunicazioni con la Sicilia, Cagliari e Alghero (Fertilia) per quelle con la Sardegna. Gli aeroporti di Fiumicino e di Milano (Malpensa e Forlanini) sono anche scalo di servizî aerei di bandiere estere. È al primo posto per tutti i servizî la bandiera britannica; seguono nell'ordine la statunitense, la francese, l'olandese, la belga, la svizzera.

Commercio. - Il movimento commerciale con l'estero era caratterizzato, prima dell'ultima guerra, dall'incremento delle esportazioni, che erano arrivate a rappresentare quasi il 90% delle importazioni; nell'immediato dopoguerra (1947) le esportazioni erano cadute a meno del 47%; nel 1952 erano risalite al 60% circa, nel 1958 all'80%.

Quanto alle correnti del traffico, le importazioni dall'America, che nell'immediato dopoguerra erano in assoluta prevalenza (59% nel 1948, dei quali 38% dai soli Stati Uriiti), sono grandemente diminuite (meno del 25%) di fronte a quelle da paesi europei (quasi il 49%). Fra gli stati europei importatori è tornata al primo posto la Repubblica Federale Tedesca, seguita dalla Francia, dall'Austria, dalla Svizzera; dai paesi confinanti dunque. Il resto delle importazioni viene in quasi ugual misura dagli stati asiatici e dagli africani. L'Australia è a gran distanza. Con ritmo ancor più accelerato le nostre esportazioni tornano pure ad avviarsi a stati europei (57% nel totale nel 1958), soprattutto in virtù della creazione dell'OECE; meno del 20% vanno in America; seguono i paesi africani, quelli asiatici e l'Australia.

Un fatto molto notevole è che le importazioni tendono bensì a crescere (misurate naturalmente in lire), ma l'acquisto di generi alimentari - prodotti naturali o elaborati -, che rappresentò, nello immediato dopoguerra, il peso più gravoso (circa il 46% del valore totale delle importazioni nel 1948), si è ridotto a poco più del 20% nel 1958. Per contro il prodotto delle industrie (non alimentari) rappresentò nel 1958 circa il 72%; il rimanente rientra nella categoria delle cosiddette "materie ausiliarie". Le importazioni di generi alimentari sono press'a poco bilanciate dalle esportazioni. Per i prodotti delle industrie non alimentari importati, è da osservare che in essi sono comprese, per la metà e più, materie prime che alimentano le industrie nazionali e che i prodotti di queste sono poi a loro volta largamente esportati. Di fatto nel 1958 l'esportazione dei prodotti qualificati come di complessa lavorazione o trasformazione (meccanici, ecc.) fu quasi doppia (in valore) della corrispondente importazione. Questi fatti attestano la rapida espansione dell'attività industriale italiana.

La tabella alla pagina seguente fornisce i dati delle importazioni ed esportazioni per gli stati che hanno i maggiori traffici con l'Italia. I dati si riferiscono al 1958; ma è da avvertire che da anno ad anno vi sono ancora notevoli fluttuazioni, il che attesta che le correnti non sono ancora ovunque stabilizzate normalmente.

Bibl.: Bibliografia geografica dell'Italia, a cura della Società Geografica Italiana, continuata fino al 1953; R. Almagià, L'Italia, Torino 1959 (con bibl.; pp. 1271-1288); Touring Club Italiano, L'Italia fisica, Milano 1958; id., La flora, Milano 1958; id., La fauna, Milano 1959; id., Annuario generale 1961, Milano 1961; Istituto Nazionale di Economia Agraria, I comprensorî di bonifica, vol. I: Italia settentrionale, Roma 1942; vol. II: Italia centrale, Roma 1947, vol. III: Italia meridionale (in corso di stampa); F. Milone, L'Italia nell'economia delle sue regioni, Torino 1955; F. Ferrero, Questa nostra terra, Roma 1957; Istituto Centrale di Statistica, IX censimento generale della popolazione, 4 novembre 1951, Roma 1958; id., III censimento dell'industria e del commercio, 4 novembre 1951, Roma 1959; id., Annuario di statistiche industriali, Roma 1956; id., Dizionario ufficiale dei comuni e dei centri abitati, Roma 1958; Confederazione Generale dell'Industria, L'industria italiana alla metà del secolo XX, Roma 1953; D. Gribaudi, Geografia dell'energia elettrica in Italia, Torino 1953.

Economia e finanze.

Il 1948 fu l'anno che segnò il ritorno dell'economia italiana a condizioni di stabilità, dopo i gravi perturbamenti causati dalla guerra. Grazie ai provvedimenti restrittivi dei crediti, adottati nell'autunno 1947, era stato ristabilito l'ordîne sul mercato monetario e creditizio ed era ritornata la fiducia nella moneta, gravemente compromessa dall'ondata inflazionistica dei primi anni del dopoguerra. A sua volta, l'afflusso degli aiuti americani, a valere sul piano ERP, iniziato con l'aprile 1948, aveva assicurato la ripresa produttiva attraverso l'approvvigionamento di merci essenziali dall'area del dollaro. In questo clima di riconquistata stabilità, l'economia italiana, dopo una breve fase di assestamento, poté iniziare un processo di sviluppo, svoltosi quasi senza soste per oltre un decennio e tuttora in atto, ad un saggio d'incremento che non trova riscontro in nessun altro periodo della storia economica del paese.

Il quinquennio 1949-1953. - La fase di assestamento dell'economia italiana si protrasse fino al primo semestre del 1950. Ad agevolarla contribuì non poco la caduta dei prezzi sui mercati internazionali, che determinò una correlativa diminuzione del costo delle materie prime, incidendo in misura limitata sui bilanci aziendali, a causa dei ridotti livelli delle scorte. A ridurre ulteriormente i costi contribuirono altresì il più regolare afflusso degli approvvigionamenti, il più corretto utilizzo delle fonti di energia, la minore incidenza delle spese generali e la migliore utilizzazione della mano d'opera in corrispondenza con il graduale aumento della produzione.

I prezzi all'ingrosso all'interno registrarono, tra il dicembre 1948 e il giugno 1950, una diminuzione del 18%. Una flessione di tale entità, che in altre condizioni sarebbe stata indice di una grave situazione di crisi, risultò invece, in quel particolare momento, la naturale conseguenza del processo di normalizzazione in atto nell'economia del paese. Essa consentì di correggere parecchie delle distorsioni che l'inflazione aveva determinato nel sistema dei prezzi e di ridurre e quasi annullare il margine che era venuto a crearsi tra l'indice dei prezzi all'ingrosso e quello del costo della vita. Incoraggiata dalla forte domanda di beni di consumo, sia interna sia estera, e da una crescente domanda di beni d'investimento per il completamento della ricostruzione e l'attuazione dei primi programmi di sviluppo, la produzione industriale segnò, tra il dicembre 1948 e il giugno 1950, un aumento di oltre il 20%. Tra il 1948 e il 1950 la produzione agricola si incrementò del 13% e il prodotto nazionale lordo aumentò del 15% in termini reali. Un contributo sostanziale alla ripresa fu dato dagli aiuti americani a valere sul piano ERP, che apportarono alla nostra bilancia dei pagamenti, nel biennio 1949-50, un beneficio di circa 660 milioni di dollari.

Nel corso del 1949 i rapporti economici con l'estero migliorarono sensibilmente. Il disavanzo delle partite correnti ordinarie, che era stato di 291 milioni di dollari nel 1948, si ridusse a 191 milioni, a causa del miglioramento della bilancia commerciale e della bilancia trasporti e del maggiore a flusso di turisti. Gli aiuti americani e il saldo attivo dei movimenti di capitale, oltre a coprire il disavanzo delle partite correnti, determinarono un'accumulazione netta di valuta di 460 milioni di dollari. Ne deriva un notevole rafforzamento del potere di acquisto esterno della moneta, che consentì, all'epoca della crisi della sterlina, nel settembre 1949, di limitare la svalutazione della lira all'8% soltanto (da 575 a 625 lire per dollaro), contro svalutazioni del 30% per la sterlina e le monete dei paesi scandinavi, del 21-22% per il marco tedesco e il franco francese e del 12% per il franco belga. Fino a tutto il 1949 gli scambî con l'estero si svolsero in regime di rigido controllo amministrativo e sulla base di accordi di natura strettamente bilaterale. Un primo passo verso l'abolizione dei vincoli venne compiuto nel gennaio 1950 con la liberalizzazione delle importazioni dagli altri paesi OECE del 77% delle materie prime, del 52% dei prodotti agricoli alimentari e dell'11% dei prodotti finiti. L'entrata in vigore, a partire dal 15 luglio 1950, di una nuova tariffa doganale, largamente articolata, in sostituzione del dazio ad valorem del 10% e dei dazî specifici precedentemente applicati alla generalità delle merci importate, costituì la premessa indispensabile per l'attuazione di una più efficace politica commerciale e per ulteriori progressi sulla via della liberalizzazione. Nel settembre dello stesso anno, infatti, le liberalizzazioni delle importazioni di prodotti finiti dai paesi OECE furono portate dall'11 al 50%.

Nel settore della moneta e del credito, la formazione delle disponibilità monetarie, che nei primi anni del dopoguerra, e specialmente nel 1948, aveva segnato incrementi notevolissimi, a causa della ricostituzione delle riserve di liquidità dei privati, assottigliate durante la guerra e l'inflazione, segnò nel 1949 un certo rallentamento, dovuto anche alla diminuzione dei prezzi, ed ancor più si ridusse nel primo semestre del 1950. Nel 1949 la flessione riguardò principalmente la raccolta delle aziende di credito e fu in parte compensata dagli aumenti verificatisi nei depositi presso le casse di risparmio postali, nella raccolta sul mercato finanziario e nelle disponibilità createsi a fronte degli aiuti internazionali. Nel primo semestre del 1950 quasi tutte le voci di raccolta segnarono una diminuzione; soltanto la raccolta attraverso il mercato finanziario registrò una ulteriore espansione. Dal lato degli impieghi, il 1949 fu caratterizzato da una sensibile contrazione degli investimenti a favore del Tesoro (che si dimezzarono rispetto al 1948 in corrispondenza con il miglioramento della situazione della tesoreria statale) e da un aumento di quelli a favore dell'economia, specialmente da parte degli istituti speciali, del mercato finanziario e dell'Istituto di emissione per il finanziamento degli acquisti di valuta estera effettuati dall'UIC. Nel primo semestre del 1950 la quota destinata allo stato segnò di nuovo un aumento per l'impiego dei fondi derivanti dagli aiuti internazionali, mentre si contrassero gli impieghi bancarî a favore dell'economia e quelli originati dalla cessione della valuta estera. Col ritorno a condizioni di normalità sul mercato monetario e in presenza di una tendenza alla flessione dei prezzi, le autorità monetarie, nell'intento di favorire lo sviluppo dell'attività economica, attuarono nell'agosto 1949 una prima riduzione del saggio ufficiale dello sconto dal 5,50 al 4,50% e una seconda riduzione al 4% nell'aprile 1950.

Nei primi anni del dopoguerra, la politica statale nel settore degli investimenti fu dettata soprattutto dall'esigenza di riparare i danni causati dalla guerra. Un primo accenno a una politica di sviluppo, intesa ad ottenere la piena utilizzazione delle risorse disponibili attraverso l'attuazione di programmi coordinati, lo si ebbe nel febbraio 1949 con il Piano di incremento dell'occupazione operaia mediante la costruzione di case per i lavoratori (Piano Fanfani), avente il triplice scopo di sopperire alla deficienza di case, di alleviare la disoccupazione e di imprimere, attraverso l'espansione dell'edilizia, un più intenso ritmo di attività a tutta l'economia nazionale. Finalità analoghe ebbero la legge Tupini del luglio 1949 e la legge Aldisio dell'agosto 1950. Ai provvedimenti in favore dell'edilizia fecero seguito, a breve distanza di tempo, quelli in favore dell'agricoltura. Con la Legge Sila e la Legge Stralcio, rispettivamente del maggio e dell'ottobre 1950, venne attuato un importante esperimento di riforma agraria, mirante a dare alle zone agricole più depresse una nuova struttura sociale ed economica mediante la sostituzione della piccola proprietà coltivatrice di origine bracciantile alla precedente conduzione estensiva o latifondistica e la contemporanea attuazione di una complessa opera di trasformazione fondiaria ed agraria delle zone medesime. Un programma completo di sviluppo, non limitato ad un settore particolare, ma esteso al complesso dell'attività economica, fu posto in attuazione con la legge 10 agosto 1950 che istituì la Cassa per il Mezzogiorno, ente di diritto pubblico, incaricato di coordinare gli investimenti pubblici e privati nell'Italia meridionale e nelle isole.

Lo scoppio delle ostilità in Corea determinò una netta inversione di tendenza, dando inizio ad una fase dominata dalla psicosi inflazionistica del tempo di guerra. A seguito dell'aumento dei prezzi sui mercati internazionali, l'indice dei prezzi all'importazione aumentò, nel giro di un anno, di oltre un terzo, con una punta del 45% nel settore delle materie prime; a sua volta l'indice dei prezzi all'ingrosso all'interno registrò, tra il giugno 1950 e il febbraio 1951, un incremento di oltre il 20%. Il forte aumento della domanda, sia interna sia estera, causato dalla corsa all'accaparramento delle merci, favorì lo sviluppo dell'attività industriale, che presentò nei mesi compresi tra il settembre 1950 e il marzo 1951 un aumento dell'ordine del 20%.

Nel settore dei rapporti economici con l'estero, il peggioramento della ragione di scambio (cioè del rapporto tra prezzi all'esportazione e prezzi all'importazione) non si tramutò immediatamente in un peggioramento della bilancia commerciale, a causa del forte sviluppo quantitativo delle esportazioni. Nel secondo semestre del 1950 la bilancia delle partite correnti ordinarie registrò un saldo attivo di 40 milioni di dollari, che passò a 175 milioni con l'apporto degli aiuti americani. Nel settore del movimento dei capitali, peraltro, a seguito principalmente di maggiori pagamenti anticipati a fronte delle importazioni, si ebbe un saldo passivo di 218 milioni di dollari, cosicché il semestre si chiuse con una diminuzione di 43 milioni di dollari nelle disponibilità valutarie sull'estero. Nel primo semestre del 1951, principalmente a causa dell'aumento quantitativo delle importazioni, del peggioramento della ragione di scambio e del peggioramento della bilancia trasporti, la bilancia delle partite correnti ordinarie si chiuse con un disavanzo di 225 milioni di dollari, che fu coperto per 129 milioni dagli aiuti americani e dall'afflusso di capitali dall'estero e per 96 milioni con prelievi dalle riserve.

Le maggiori erogazioni di valuta per pagare le importazioni determinarono, nel periodo luglio 1950-giugno 1951, una sensibile contrazione nel volume delle disponibilità monetarie, mentre la domanda di credito per il finanziamento della ripresa produttiva e per l'accaparramento delle merci cresceva sensibilmente. Di conseguenza il rapporto impieghi-depositi delle banche passò tra il giugno 1950 e il giugno 1951 dal 69 al 76% e il rapporto tra le riserve primarie di liquidità e i depositi scese dall'11,6 all'8,8%. In queste circostanze, la politica dell'Istituto di emissione mirò, attraverso la limitazione del risconto e delle anticipazioni e un più severo esame delle richieste di deroghe di fido, ad ostacolare la concessione di crediti aventi finalità speculative, mentre consentì che le banche largheggiassero nei crediti diretti all'importazione di materie prime e di altri prodotti necessarî all'economia del paese.

Nella primavera del 1951, diminuita la tensione politica internazionale, cominciarono a manifestarsi i primi sintomi di inversione della congiuntura. A partire dal marzo, in concomitanza con l'andamento dei prezzi sui mercati internazionali, l'indice dei prezzi all'ingrosso all'interno cominciò a flettere, diminuendo nel giro di 16 mesi di circa il 10%. Nel settore dei beni di consumo, la domanda finale perdette quello straordinario impulso che le derivava dalla psicosi rialzista e venne successivamente a contrarsi, determinando una flessione nel livello di produzione delle corrispondenti industrie. Verso la fine dell'anno, mentre la richiesta interna di beni di consumo andava stabilizzandosi su livelli più normali, subentrò la flessione della domanda estera, specie di prodotti tessili, che fu l'elemento determinante dell'ulteriore diminuzione dell'indice della produzione di beni di consumo alla quale si assisté lungo il primo semestre del 1952. Al contrario, la domanda di beni d'investimento si mantenne sostenuta, sia perché proveniente da categorie che non avevano in genere subìto decurtazioni dei loro redditi reali, sia perché promossa da particolari esigenze di politica economica, come nei casi della produzione per la difesa e dell'edilizia statale e sovvenzionata.

Nel secondo semestre del 1951 la bilancia commerciale migliorò sensibilmente per il favorevole andamento delle esportazioni e il miglioramento della ragione di scambio, mentre le bilance dei settori dei servizî e dei trasferimenti unilaterali tornavano ad essere attive, facendo chiudere praticamente in pareggio il settore delle partite correnti ordinarie. A loro volta, gli aiuti americani e l'afflusso di capitali dall'estero determinarono un aumento delle riserve valutarie per oltre 250 milioni di dollari. Nel corso del 1952, la crisi del settore tessile e le restrizioni agli scambî adottate da alcuni paesi dell'Europa occidentale ridussero sensibilmente le esportazioni, mentre lo sviluppo degli investimenti all'interno e la politica di progressiva liberalizzazione degli scambî perseguita dal nostro paese contribuirono ad incrementare le importazioni; di conseguenza la bilancia mercantile si chiuse con un disavanzo di ben 747 milioni di dollari. I saldi attivi registrati nelle altre partite della bilancia dei pagamenti non riuscirono a colmare la differenza e l'annata si chiuse con una diminuzione di 93 milioni di dollari nelle riserve valutarie.

L'afflusso di valuta estera costituì la principale causa dell'aumento delle disponibilità monetarie verificatosi nel secondo semestre del 1951 e nei primi mesi del 1952. Nei rimanenti mesi del 1952 la diminuzione di liquidità causata dalla perdita di valuta estera fu più che compensata dall'aumento delle spese a carico del bilancio statale e da importanti aumenti nei pagamenti delle pensioni della previdenza sociale. Le maggiori disponibilità monetarie così formatesi andarono per la massima parte ad incrementare i depositi a risparmio e i conti correnti delle banche, consentendo a queste di aumentare considerevolmente gli impieghi. Il rapporto impieghi-depositi, che, dopo la stretta monetaria del giugno 1951 era andato sensibilmente scendendo fino a toccare un minimo del 68,5% a fine marzo 1952, risalì nel dicembre al 71,3%.

La fase discendente della congiuntura coreana si esaurì verso la metà del 1952 e ad essa subentrò una nuova fase di sensibile progresso produttivo. L'indice della produzione di beni di consumo, che nel maggio 1952 risultava tornato all'incirca sul livello del giugno 1950, iniziò da quella data un movimento ascendente, sotto la spinta di una crescente domanda interna e di una domanda estera alquanto migliorata, giungendo nel dicembre 1953 a superare di poco il punto massimo della fase ascendente della congiuntura coreana. In connessione con lo sforzo sostenuto per l'aumento degli investimenti e delle produzioni cosiddette di base, gli indici della produzione di beni d'investimento e di materie ausiliarie per l'industria, che nella fase discendente della congiuntura coreana avevano soltanto attenuato il loro ritmo di sviluppo, registrarono tra il marzo 1952 e il dicembre 1953 aumenti rispettivamente del 23 e del 28%.

La ripresa produttiva all'interno e l'andamento assai sostenuto della domanda estera, specialmente di prodotti delle industrie meccaniche, fecero aumentare sensibilmente nel 1953 il volume del commercio estero, in entrambe le direzioni di scambio. In termini di valore, la discesa relativamente maggiore dei prezzi all'importazione determinò un lieve miglioramento della bilancia commerciale; l'eccedenza di importazione rimase peraltro cospicua e richiese un esborso di valuta pari a 740 milioni di dollari. Le altre partite della bilancia dei pagamenti compensarono in gran parte questa differenza, limitando a 57 milioni di dollari la diminuzione delle riserve valutarie.

Il mercato monetario presentò nel 1953 caratteristiche di maggiore equilibrio per il ricostituito parallelismo tra l'espansione monetaria e creditizia e quella della produzione. La formazione di disponibilità monetarie superò di poco il livello dell'anno precedente; la raccolta delle aziende di credito segnò una lieve flessione, mentre aumentò sensibilmente quella sul mercato finanziario; gli impieghi in favore del tesoro diminuirono a circa un terzo del totale (contro il 50% nel 1950) e corrispondentemente si accrebbero quelli in favore dell'economia, specialmente da parte degli istituti speciali; il rapporto impieghi-depositi delle aziende di credito aumentò ulteriormente, raggiungendo a fine anno il 73,7%; il rapporto tra le riserve primarie di liquidità e i depositi, che già alla fine del 1952 era sceso al 9,5%, si ridusse a fine 1953 al 7,9%.

I progressi realizzati dall'economia italiana nel primo quinquennio dopo la riconquistata stabilità monetaria possono essere sintetizzati nelle seguenti cifre: aumento del reddito nazionale del 5,7% all'anno in termini reali; sviluppo della produzione industriale in ragione del 10% all'anno con incrementi medî annui del 13,2% nel settore delle materie ausiliarie, dell'11,3% in quello dei beni d'investimento e del 7,6% nel settore dei beni di consumo; aumento medio annuo del 6,3% in campo agricolo. Nella media del 1953, l'indice Istat dei prezzi ingrosso registrava una diminuzione del 3,5% rispetto al 1948 e un aumento di 52,5 volte nei confronti del 1938. L'indice del costo della vita presentava invece un aumento del 17% sul 1948 e di quasi 57 volte rispetto al 1938, con un massimo di 67 volte per la spesa alimentare e un minimo di 18 volte per il capitolo abitazione. Nel campo salariale, le retribuzioni avevano segnato ulteriori progressi in termini reali: i salarî degli operai agricoli superavano dell'8% la cifra del 1948 e del 50% quella del 1938, mentre nel settore dell'industria gli aumenti ascendevano rispettivamente al 22 e al 35%.

Lo sviluppo del commercio estero nel quinquennio è documentato da un aumento quantitativo dell'85% dal lato delle importazioni e del 138% dal lato delle esportazioni. In valore le importazioni ammontarono nel 1953 a 1.513 miliardi e risultarono costituite per il 19% da generi alimentari, per il 58% da materie prime e semilavorati industriali e per il 22% da prodotti finiti industriali. Rispetto al 1948 si notava una sensibile diminuzione della partecipazione dei generi alimentari, a vantaggio delle altre due categorie di prodotti. A loro volta le esportazioni ammontarono a 942 miliardi, costituiti per il 24% da generi alimentari, per il 29% da materie prime e semilavorati industriali e per il 47% da prodotti finiti industriali. Rispetto al 1948 si notava un aumento della partecipazione dei generi alimentari a scapito di quella delle materie prime e semilavorati industriali. Per quanto riguarda la ripartizione geografica, la partecipazione dell'Europa al nostro interscambio complessivo risultava notevolmente aumentata, pur senza raggiungere il livello del 1938, mentre quella dell'America si era più che dimezzata. Il 48% delle importazioni e il 58% delle esportazioni riguardavano paesi europei; il 22% delle importazioni e il 18% delle esportazioni concernevano paesi del continente americano.

Nel settore monetario e bancario il totale dei mezzi di pagamento presentava, nella media del 1953, un aumento di 81 volte nei confronti del 1938, contro un aumento di 73 volte del reddito nazionale lordo. I coefficienti di moltiplico dei varî mezzi di pagamento risultavano di 66 volte per i biglietti e monete, di 72 volte per i vaglia e assegni e di 98 volte per i conti correnti delle aziende di credito. Ultimato il processo di ricostituzione dei segni monetarî, cominciava a manifestarsi quella tendenza, chiaramente delineatasi negli anni successivi, a un incremento della moneta bancaria relativamente maggiore di quello della moneta fiduciaria. Un più lento ritmo di sviluppo presentavano i depositi a risparmio, ancora inferiori, in termini reali, alla consistenza del 1938. Alla fine del 1953 gli impieghi delle aziende di credito in favore dell'economia segnavano un aumento del 173% sul 1948. Un incremento sensibilmente maggiore (da 210 a 921 miliardi tra il 1948 e il 1953) registravano gli impieghi degli istituti per il credito all'industria e alle opere pubbliche, incaricati di finanziare dapprima lo sforzo della ricostruzione e successivamente l'opera di sviluppo delle infrastrutture e di potenziamento delle attrezzature produttive. Notevole sviluppo ebbe pure l'attività degli istituti di credito agrario e di credito fondiario ed edilizio, ma la consistenza degli impieghi di questi istituti risultava a fine 1953 in moneta a potere d'acquisto costante, ancora sensibilmente inferiore al livello prebellico.

Il bilancio dello stato registrò nel quinquennio un sensibile miglioramento. Tra l'esercizio 1948-49 e quello 1953-54 le entrate effettive presentarono un incremento del 76%, raggiungendo i 2001 miliardi e le spese aumentarono del 42%, passando a 2326 miliardi; a sua volta la parte delle spese coperta con le entrate passò dal 70 all'86%. Il forte aumento delle entrate derivò principalmente dallo sviluppo dei proventi delle dogane e imposte sui consumi, delle tasse e imposte indirette sugli affari e delle entrate extratributarie; venne invece quasi ad esaurirsi l'apporto degli aiuti americani, che negli esercizî dal 1948-49 al 1952-53 aveva determinato entrate per complessivi 836 miliardi. Nella sua nuova struttura, la parte relativa alle entrate presentava le seguenti caratteristiche: le imposte dirette fornivano il 18% del totale, le tasse e imposte indirette sugli affari il 35%, le dogane e imposte sui consumi il 23%; i monopolî, lotto e lotterie il 16% e gli altri tributi l'8%. Dal lato della spesa, si assisteva a un sensibile aumento delle erogazioni per la difesa militare, per finalità di carattere sociale, per la pubblica istruzione, per gli interessi del debito pubblico e per la finanza locale, mentre risultavano in diminuzione le spese per le opere pubbliche e quelle dipendenti dai prezzi politici. Grosso modo, nel bilancio 1953-54, su 100 lire di spesa, 27 riguardavano la sicurezza interna e internazionale, 20 gli oneri di carattere economico e produttivo, 24 le spese di carattere sociale, compresa la pubblica istruzione, 8 gli interessi sul debito pubblico, 6 la finanza locale, 3 gli oneri in dipendenza di prezzi politici e le rimanenti 12 lire oneri di varia natura. Alla fine del 1953 il debito pubblico interno ammontava a 3635 miliardi, segnando un aumento dell'83% rispetto al debito pubblico interno registrato alla fine del 1948 e di 26 volte rispetto alla fine del 1938. Il 69% di esso era costituito da debito fluttuante.

Gli anni dal 1954 al 1959. - Se il 1953 può essere considerato l'anno del ritorno a una situazione di normalità, dopo il superamento della fase decrescente della congiuntura coreana, esso rappresenta anche il punto di partenza per un ulteriore sviluppo dell'economia italiana. Il periodo che va dalla fine del 1953 alla crisi di Suez fu caratterizzato da un continuo progresso dell'attività economica, svoltosi in un clima di sostanziale stabilità monetaria ed esente da variazioni cicliche di qualche entità. In assenza di fattori di disturbo provenienti dall'esterno, la politica economica statale poté indirizzare tutti i suoi sforzi verso la soluzione dei problemi di fondo dell'economia del paese, costituiti dalla necessità di trovare una occupazione per la notevole aliquota di forze di lavoro disoccupate e sottoccupate e di eliminare lo squilibrio economico tra il nord e il sud. Di qui gli sforzi intesi ad incrementare al massimo gli investimenti e a creare nelle zone depresse del meridione e delle isole condizioni adatte per un loro rapido sviluppo economico. Così si effettuavano ulteriori cospicui interventi a favore dell'agricoltura (stanziamenti per opere di bonifica e trasformazione fondiaria, legge per lo sviluppo della piccola proprietà contadina, provvedimenti straordinarî per la Calabria), dell'industria (disposizioni per lo sviluppo dell'attività creditizia nel campo industriale, con particolare riguardo alle medie e piccole imprese, attuazione di iniziative intese ad incrementare la produttività, legge sui finanziamenti industriali nell'Italia meridionale e insulare, provvedimenti a favore dell'industria mineraria), dell'edilizia (leggi Romita per l'eliminazione delle abitazioni malsane e per lo sviluppo dell'edilizia popolare, proroga del programma INA-Casa per un altro settennio) e nel settore delle opere pubbliche (regolamentazione dei bacini montani, opere stradali, edilizia scolastica, ecc.).

Proseguendo nella via già intrapresa verso un razionale coordinamento di tutte le iniziative, si giunse, verso la fine del 1954, alla formazione di uno schema decennale di sviluppo dell'occupazione e del reddito, noto come Piano Vanoni, che si proponeva come obiettivi principali il mantenimento, lungo tutto il decennio, di un saggio annuale d'incremento del reddito nazionale del 5% e la creazione di 4 milioni di nuovi posti di lavoro, sufficienti ad assorbire la disoccupazione e sottoccupazione esistente e le nuove leve di lavoro. Esso si basava sul presupposto di uno sviluppo degli investimenti tale da far aumentare il loro rapporto rispetto al reddito nazionale dal 20,5 al 25,4% al termine del decennio; risultato da ottenersi mediante una politica di limitazione dei salarî e dei consumi e il concorso di capitali esteri. Il piano, anche a seguito della morte del ministro proponente, avvenuta agli inizî del 1956, non ha avuto in seguito pratica attuazione attraverso precise disposizioni di legge; esso ha però esercitato notevole influenza sugli orientamenti della politica economica dell'ultimo quinquennio.

Negli anni dal 1954 al 1956 il reddito nazionale lordo registrò, in termini reali, un incremento medio annuo del 5,3%, dovuto soprattutto al rapido sviluppo del settore industriale e delle attività terziarie. Dal lato degli impieghi del reddito, gli investimenti presentarono, sempre in termini reali, un saggio medio di aumento del 10% all'anno, contro un aumento dei consumi di meno del 4%; di conseguenza il rapporto tra gli investimenti e il reddito nazionale passò dal 20,5 al 22,6%. Tra il dicembre 1953 e il giugno 1956 la produzione industriale segnò un incremento del 21%, dovuto in particolar modo al brillante andamento delle industrie produttrici di beni di investimento e di materie ausiliarie. Nel settore dei beni di consumo, invece, a causa della crisi verificatasi nell'industria tessile, si ebbe un aumento del 6% soltanto. La produzione agricola segnò nel triennio un andamento alterno: ad una annata mediocre, quella del 1954, che registrò un volume di produzione inferiore del 5% a quello - peraltro eccezionale - del 1953, fecero seguito un'annata buona nel 1955 e di nuovo un'annata mediocre nel 1956, per effetto dell'ondata di gelo abbattutasi sul paese nel febbraio di quell'anno, che arrecò gravi danni alle colture.

Il livello dei prezzi all'ingrosso si mantenne sostanzialmente invariato nel corso del biennio 1954-55; nei primi mesi del 1956 esso mostrò una certa tendenza all'aumento, in connessione con l'andamento dei prezzi sui mercati internazionali e con la minore offerta di prodotti agricoli all'interno causata dal gelo, ma nel giugno la situazione risultava normalizzata e l'indice presentava un aumento dell'1% appena rispetto alla media del 1953. Per contro, gli indici dei prezzi al consumo e del costo della vita mostrarono una continua tendenza all'ascesa, che si accentuò nei primi mesi del 1956 per effetto degli aumenti dei prezzi dei generi alimentari. Alla metà del 1956 detti indici avevano raggiunto rispettivamente i livelli di 109 e 111, fatto uguale a 100 il 1953. La diversa dinamica dei tre indici è da attribuire a cause varie, tra le quali sono da rammentare i diversi sistemi di ponderazione, il processo di adeguamento dei fitti legali e delle tariffe dei servizî, l'aumento della tassazione indiretta, il maggior costo dell'intermediazione commerciale, anche per effetto del suo miglioramento qualitativo, e infine i vigenti sistemi di scala mobile dei salarî, che tendono a consolidare aumenti di prezzo dovuti a fattori di carattere transitorio.

Nel settore degli scambî con l'estero, la nostra politica economica si mantenne costantemente fedele al principio di collaborare con tutte le iniziative intese a promuovere la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizî e dei capitali e a realizzare la libera convertibilità delle monete. Di qui l'adesione dell'Italia al GATT, all'Unione europea dei pagamenti, ai clubs internazionali dell'Aja e di Parigi, alla CECA e da ultimo alla Comunità economica europea, all'Euratom e alla Banca europea degli investimenti; ed inoltre i provvedimenti dell'agosto 1954 e del marzo 1956 che aumentarono al 40% la liberalizzazione delle importazioni dagli Stati Uniti e dal Canada, l'emanazione nel 1955 delle nuove disposizioni intese ad agevolare l'afflusso dei capitali esteri in Italia, la graduale semplificazione della legislazione valutaria.

L'intenso sviluppo economico all'interno e la favorevole evoluzione della congiuntura nella maggioranza dei paesi esteri determinarono nel triennio in esame un sensibile aumento del valore dell'interscambio commerciale. Dal lato delle importazioni, l'andamento fu ascendente in tutto il triennio per le materie prime industriali e per le attrezzature; i prodotti alimentari segnarono invece una notevole diminuzione nel 1954 per effetto di minori acquisti di frumento e quelli tessili registrarono un minimo nel 1955 in connessione con l'acuirsi della crisi dell'industria tessile. Dal lato delle esportazioni, i maggiori incrementi si ebbero nei settori meccanico e metallurgico, in conseguenza sia dell'ammodernamento delle attrezzature in Italia, sia della elevata domanda estera di beni d'investimento. In complesso, le esportazioni presentarono nel triennio un incremento del 42%, alquanto superiore a quello delle importazioni (+ 31%), ma non tale da ridurre negli anni 1955 e 1956 il disavanzo mercantile della bilancia dei pagamenti, che passò da 636 milioni di dollari nel 1954 a 672 nel 1955 e a 732 nel 1956. Nel settore dei servizî e dei trasferimenti unilaterali, lo sviluppo dell'attività della nostra marina mercantile ridusse a cifra minima il disavanzo della bilancia dei trasporti, mentre le entrate per il turismo, le rimesse degli emigrati e dei nostri lavoratori all'estero e le donazioni private registrarono un andamento crescente; di conseguenza il saldo passivo delle partite correnti ordinarie andò gradualmente diminuendo, riducendosi nel 1956 a 226 milioni di dollari, cifra pari a circa la metà del disavanzo del 1953. Gli aiuti americani e le entrate per movimento di capitali colmarono in tutti e tre gli anni la differenza e determinarono anzi un aumento delle disponibilità valutarie, che fu di 55 milioni di dollari nel 1954 e di 109 milioni in ciascuno degli anni 1955 e 1956.

L'eccedenza attiva della bilancia dei pagamenti tornò quindi a figurare come fattore di aumento della liquidità del mercato. L'altro principale fattore di liquidità, rappresentato dal finanziamento del disavanzo di cassa della tesoreria attraverso il ricorso al debito fluttuante, segnò invece, a partire dal secondo trimestre del 1955, una graduale diminuzione, in connessione con la riduzione del disavanzo del bilancio statale e con l'emissione di buoni del tesoro poliennali. Il volume totale delle disponibilità monetarie segnò una lieve flessione nel 1954, raggiunse un nuovo massimo assoluto nel 1955 e si mantenne intorno a quel massimo nel 1956; i principali incrementi si verificarono nella raccolta sul mercato finanziario e nel volume della circolazione monetaria. La riduzione del saggio d'interesse sui buoni postali fruttiferi attuata nel novembre 1953 e il sensibile aumento dei tassi d'interesse sui depositi vincolati disposto dall'accordo interbancario del febbraio 1954 determinarono una diminuzione del risparmio affluito all'amministrazione postale a vantaggio di quello raccolto dalle aziende di credito e uno spostamento dei depositi bancarî dai conti correnti liberi ai conti vincolati. Le minori necessità di cassa della tesoreria, le più ampie possibilità di manovra consentite dall'aumento dei depositi vincolati e l'aumento delle disponibilità monetarie misero in grado il settore bancario di agevolare lo sviluppo dell'attività produttiva con adeguate concessioni di credito. I fondi affluiti al settore privato dell'economia registrarono negli anni 1955 e 1956 sensibili incrementi e correlativamente diminuirono gli impieghi in favore del tesoro, fino a ridursi nel 1956 al 12% appena del totale.

La crisi di Suez provocò nella seconda metà del 1956 e nei primi mesi del 1957 un movimento ascendente dei prezzi, che interessò non soltanto le merci formanti oggetto del commercio di transito attraverso il canale, ma si estese a numerosi altri prodotti, a causa dell'aumento dei noli e degli accaparramenti. L'indice dei prezzi all'importazione registrò tra il giugno 1956 e il gennaio 1957 un aumento del 7% e l'indice dei prezzi all'ingrosso all'interno si incrementò del 3%, con un massimo del 17% nel settore dei combustibili. A partire dal febbraio 1957, peraltro, con il miglioramento della situazione internazionale, i prezzi all'ingrosso registrarono una graduale flessione. Alla metà del 1958 le perturbazioni arrecate dalla crisi potevano dirsi esaurite: l'indice risultava tornato al livello di due anni avanti e le variazioni nella struttura dei prezzi nel frattempo verificatesi risultavano praticamente eliminate. I prezzi al consumo e il costo della vita mostrarono invece una pressoché continua tendenza all'ascesa, che si protrasse fino al giugno 1958, facendo ulteriormente aumentare il già forte divario con i prezzi all'ingrosso.

Favorita dall'aumento della domanda sia interna sia estera e dalla lievitazione dei prezzi, la produzione industriale registrò nel secondo semestre del 1956 e nei primi 9 mesi del 1957 un aumento del 10%. Il primo a muoversi fu il settore tessile, nel quale la mutata situazione congiunturale rendeva più impellente la necessità di ricostituire le scorte, ridotte al minimo dopo la crisi del 1955. Ad esso fecero seguito, verso la fine del 1956, i settori siderurgico, meccanico e dei mezzi di trasporto, mentre le industrie produttrici di materie ausiliarie e quelle del cemento e del vetro si videro in un primo tempo costrette a segnare il passo, a causa della scarsa disponibilità di prodotti petroliferi.

Nel settore del commercio con l'estero, il peggioramento della ragione di scambio fece aumentare sensibilmente, nei primi mesi del 1957, il saldo passivo della bilancia mercantile e, in mancanza di variazioni compensative nelle altre poste della bilancia dei pagamenti, determinò una uscita netta di valuta. Nel secondo semestre, peraltro, la flessione dei prezzi delle materie prime sui mercati internazionali, la caduta dei noli e il lieve aumento dei prezzi all'esportazione fecero migliorare la ragione di scambio, mentre le esportazioni, specialmente di prodotti metallurgici e meccanici, segnarono un notevole incremento. Di conseguenza l'annata si chiuse con un saldo commerciale passivo soltanto di poco superiore a quello del 1956. Le entrate per il turismo e le rimesse dei lavoratori all'estero e degli emigrati registrarono un sensibile incremento, dimodoché il saldo delle partite correnti risultò passivo per soli 88 milioni di dollari. Le partite straordinarie e i movimenti di capitale colmarono la differenza e determinarono un aumento di 286 milioni di dollari nelle disponibilità sull'estero.

Durante la crisi di Suez, il maggior fabbisogno di credito da parte dell'economia in dipendenza dell'aumento dei prezzi, dello sviluppo dell'attività produttiva e dell'aumento degli investimenti in scorte non fu soddisfatto senza sforzo dal sistema bancario e dal mercato. Nel primo semestre del 1957, la formazione delle disponibilità monetarie segnò un forte rallentamento, a causa del minor afflusso di danaro sul mercato finanziario e nei conti correnti bancarî. In corrispondenza diminuirono gli impieghi delle banche e degli istituti speciali e gli investimenti in titoli. Le riserve primarie di liquidità delle aziende di credito scesero nel giugno al 4,7% dei depositi (livello minimo assoluto dell'intero decennio) e il rapporto impieghi-depositi si mantenne per tutto il semestre intorno al massimo assoluto del 79,9% raggiunto alla fine del 1956. Nel secondo semestre del 1957 la situazione del mercato migliorò sensibilmente. L'afflusso di valuta dall'estero conseguente al mutato indirizzo della bilancia dei pagamenti restituì al mercato la necessaria liquidità, mentre venivano ad affievolirsi o a cessare le cause che avevano determinato la precedente fase di tensione e altre sopravvenivano ad operare nel senso della distensione. I depositi bancarî ripresero il ritmo ascendente, la domanda di credito si affievolì, aumentò la raccolta sul mercato finanziario. Alla fine del 1957 le riserve di liquidità delle aziende di credito risultavano tornate al livello di un anno avanti e il rapporto impieghi- depositi era sceso al 77,6%.

Nell'ultimo trimestre del 1957 il clima congiunturale cambiò. Vennero in evidenza gli eccessi negli investimenti e nella produzione verificatisi in alcuni paesi e in alcuni settori industriali, le scorte accumulate risultarono eccessive, i prezzi sui mercati internazionali continuarono a flettere e gli operatori economici procedettero a un riesame delle proprie scelte. La recessione americana e la crisi monetaria della sterlina dell'agosto-settembre si ripercossero sulle economie degli altri paesi, che presentarono tutte, in maniera più o meno accentuata, i sintomi di una fase di ristagno. In Italia, peraltro, le ripercussioni furono meno intense che altrove e di più breve durata. L'indice della produzione industriale, dopo il massimo del settembre 1957, cominciò a declinare, raggiungendo il minimo nell'aprile 1958. La flessione riguardò principalmente i settori dei beni d'investimento e dei beni di consumo e in modo particolare l'industria siderurgica e quella tessile. Ma già nel maggio si manifestarono i primi sintomi della ripresa, che fu sensibile e rapida nel settore dei beni di consumo e in quello delle materie ausiliarie, mentre il settore dei beni d'investimento mantenne una tendenza debole fino a tutto il primo semestre del 1959. Nell'intero anno 1958, l'indice della produzione industriale segnò un aumento di appena il 3% sul 1957. Per fortuna, la produzione agricola registrò un aumento di oltre il 10%, cosicché l'annata poté chiudersi con un aumento del reddito nazionale del 6% in termini monetarî e del 4% in misura reale. Dal lato degli impieghi del reddito, i consumi aumentarono quantitativamente del 3,8%, mentre gli investimenti superarono di poco il livello del 1957.

Nel settore degli scambî con l'estero, la politica di alleggerimento delle scorte di materie prime ridusse il fabbisogno di importazione, mentre il livello delle esportazioni si mantenne elevato. Contemporaneamente, la flessione dei prezzi internazionali e dei noli e l'andamento sostenuto dei prezzi all'esportazione determinarono un miglioramento sensibile della ragione di scambio. Di conseguenza il disavanzo commerciale si contrasse da 769 a 381 milioni di dollari. Le entrate per servizî e le rimesse degli emigrati segnarono dal canto loro un sensibile sviluppo, cosicché per la prima volta nell'ultimo venticinquennio il saldo delle partite correnti risultò attivo per l'Italia e per cifra assai rilevante, cioè per 463 milioni di dollari. Il settore dei movimenti di capitale registrò anch'esso una notevole eccedenza di entrate, che raggiunse l'elevato importo di 432 milioni di dollari, dimodoché l'annata si chiuse con un aumento di 895 milioni di dollari nelle nostre disponibilità lorde sull'estero.

Un afflusso di valuta di tali dimensioni non poteva mancare di ripercuotersi, attraverso il meccanismo dell'acquisto della divisa da parte dell'Ufficio italiano dei cambî, sul ritmo di formazione delle disponibilità monetarie; ed in effetti l'attività economica si svolse per tutto l'anno sotto il segno di una grande liquidità. Tutte le voci di raccolta segnarono un incremento, che fu particolarmente elevato per i conti correnti bancarî e i depositi a risparmio; aumentò pure notevolmente il flusso del risparmio attraverso il mercato finanziario. La stasi degli investimenti fece rallentare il ritmo di aumento della domanda di credito da parte dell'economia e le banche aumentarono considerevolmente il loro portafoglio titoli. Le riserve primarie di liquidità delle aziende di credito raggiunsero alla fine dell'anno il 10,6% dei depositi, livello, questo, che non avevano più toccato dal lontano 1952, e il rapporto impieghi-depositi scese al 70,5%.

Nell'intento di promuovere la ripresa dell'attività produttiva e degli investimenti, l'Istituto di emissione ridusse nel giugno 1958 il saggio dello sconto e quello d'interesse sulle anticipazioni dal 4 al 3,50%. In virtù dell'accordo interbancario, vennero a ridursi in corrispondenza i tassi minimi applicati dalle banche per le operazioni attive. Una diminuzione di mezzo punto fu pure apportata ai tassi d'interesse sui buoni del tesoro ordinarî. Infine, a decorrere dal 1° gennaio 1959, anche i tassi d'interesse sui depositi bancarî furono ridotti dello 0,50%. Nessun uso fu fatto dello strumento della riserva obbligatoria per ridurre la liquidità eccedente, non volendosi ostacolare in nessun modo la espansione dell'attività creditizia. Solamente nell'agosto 1958 si ritenne opportuno estendere l'obbligo della riserva anche alle casse di risparmio, peraltro con alcuni temperamenti (20% dell'aumento dei depositi rispetto alla consistenza del 31 agosto 1958), ma il provvedimento ebbe sostanzialmente l'unico scopo di eliminare la differenza di trattamento che fino allora esisteva tra le casse di risparmio e tutte le altre aziende di credito.

Sul mercato finanziario la liquidità determinò un rapido aumento dei corsi dei titoli a reddito fisso e, a partire dalla seconda metà dell'anno, anche di quelli delle azioni, nonostante che l'emissione complessiva di valori mobiliari fosse passata, tra il 1957 e il 1958, da 550 a 937 miliardi. Le quotazioni di molti titoli a reddito fisso superarono la pari e i rendimenti segnarono notevoli flessioni: tra un dicembre e l'altro, il rendimento dei titoli di stato scese dal 7,34 al 5,68%, quello delle obbligazioni dal 7,12 al 6,24% e quello dei titoli azionarî dal 5,26 al 4,68%.

Nel primo semestre del 1959 il perdurare della stasi degli investimenti, l'andamento sempre riflessivo dei prezzi e le incertezze sull'evoluzione della congiuntura all'estero determinarono una temporanea battuta di arresto nel ritmo di sviluppo della produzione industriale, nonostante che la domanda di beni di consumo, e quindi l'attività delle corrispondenti industrie, si mantenesse su livelli soddisfacenti. A partire dal luglio, però, il clima congiunturale mutò sostanzialmente. La necessità di ricostituire le scorte, ridotte al minimo nella precedente fase di ristagno, i programmi di investimenti pubblici posti in atto in funzione anticiclica, l'aumento della domanda interna di beni di consumo durevoli e di servizî la ripresa degli investimenti privati e le migliorate possibilità di esportazione determinarono un rapido aumento della produzione industriale, che presentò nella media del 1959 un incremento dell'11% sul 1958. La produzione agricola registrò un aumento del 3% rispetto all'annata precedente, che era peraltro risultata eccezionalmente favorevole. Il reddito nazionale aumentò del 6,6% in termini reali; l'aumento degli investimenti (+ 8,4%) tornò a superare quello dei consumi (+ 4,6%). I prezzi all'ingrosso proseguirono la tendenza alla diminuzione fino al luglio 1959, per dar luogo, nei mesi successivi, a una certa ripresa. Analogo andamento palesarono gli indici dei prezzi al consumo e del costo della vita, con la differenza che il movimento ascendente degli ultimi mesi dell'anno apparve più accentuato.

Nel settore dei rapporti economici con l'estero, le esportazioni, soprattutto per gli sviluppi del secondo semestre, registrarono un aumento del 12% in valore e di circa il 20% in quantità, contro aumenti, rispettivamente del 4 e del 9% dal lato delle importazioni. Di conseguenza, il disavanzo mercantile della bilancia dei pagamenti si ridusse da 373 a 125 milioni di dollari e la parte delle importazioni coperta dalle esportazioni passò dall'87 al 95%. Grazie al sempre elevato apporto del settore dei servizî e delle rimesse degli emigrati e all'ulteriore afflusso di capitali dall'estero a breve ed a lungo termine, le disponibilità valutarie lorde sull'estero si incrementarono di altri 991 milioni di dollari, raggiungendo a fine anno i 3 miliardi di dollari.

Con il rafforzamento della situazione valutaria e a seguito degli impegni assunti dall'Italia in sede internazionale, la liberazione degli scambî e dei movimenti valutarî fece ulteriori progressi. Alla fine del 1958, con la dichiarazione di convertibilità della lira, venne disposta la soppressione quasi integrale delle limitazioni riguardanti l'area di spendibilità delle lire detenute da non residenti, nonché delle prescrizioni di valuta per i residenti. Nel settore doganale, a partire dal gennaio 1959, furono attuati la prima riduzione dei dazî del 10% prevista dall'Accordo istitutivo del Mercato comune europeo per le merci provenienti da paesi della Comunità (successivamente estesa per molte merci a tutte le provenienze) e il primo aumento dei contingenti nella misura del 20%. Un altro aumento del 20% nei contingenti ha avuto luogo nel gennaio 1960. Nel maggio 1959 la quota di liberalizzazione delle importazioni dall'area del dollaro venne aumentata all'85%. Un ulteriore passo verso la liberalizzazione degli scambî è stato effettuato nel gennaio 1960 con la pubblicazione di nuove tabelle di importazione dalle varie aree valutarie, comportanti ulteriori liberazioni dall'area del dollaro e dai terzi paesi. Nel febbraio 1960 è stata fissata la nuova parità aurea della lira in lire 703,297396 per grammo di fino, sulla base della parità aurea del dollaro e del cambio di 625 lire per dollaro.

Al pari dell'anno precedente, anche il 1959 è stato caratterizzato da una grande liquidità del mercato monetario e finanziario, dovuta all'ulteriore forte incremento delle partite valutarie della Banca d'Italia. La liquidità si è riflessa nell'aumento dei depositi a risparmio e dei conti correnti delle banche, che è stato dell'ordine del 17%, e in un aumento della raccolta attraverso il mercato finanziario. In relazione alla ripresa dell'attività produttiva, gli impieghi bancarî in favore dell'economia si sono accresciuti in misura più che doppia di quella del 1958. Sono pure considerevolmente aumentati gli impieghi attraverso il mercato finanziario, affluiti per una parte cospicua allo Stato, mediante le sottoscrizioni di buoni del tesoro ordinarî (470 miliardi, contro 292 nel 1958) e dei buoni del tesoro settennali 1966 (300 miliardi), emessi nel luglio 1959 per consentire l'attuazione di un programma di investimenti pubblici a fini anticongiunturali. Anche durante il 1959 si è avuto un rialzo delle quotazioni dei valori mobiliari, che nel settore dei titoli azionarî ha superato il 60%, in conseguenza della pressoché costante prevalenza della domanda, in parte di origine estera. Il rendimento delle azioni è sceso dal 4,7 al 3%; quello dei titoli di Stato dal 5,7 al 5,4% e quello delle obbligazioni dal 6,2 al 5,5%.

I progressi realizzati e le variazioni strutturali intervenute nel corso del sessennio possono compendiarsi nelle seguenti cifre: il reddito nazionale ha presentato, in termini reali, un saggio medio annuo di aumento del 5,3%, leggermente superiore a quello ipotizzato nello schema Vanoni; nel settore della produzione industriale si è avuto un incremento medio del 7,8% all'anno, con un massimo del 10,5% nel comparto delle materie ausiliarie e un minimo del 5,7% in quello dei beni di consumo; in campo agricolo si è avuto un incremento del 2% all'anno; la partecipazione dei varî rami di attività alla formazione del prodotto netto al costo dei fattori risulta passata dal 26 al 19% per l'agricoltura; dal 39 al 41% per l'industria e dal 35 al 40% per le attività terziarie.

Nel settore dei prezzi, l'indice dei prezzi all'ingrosso si situava nel dicembre 1959 a un livello di poco inferiore (0,7%) soltanto alla media del 1953. La leggera diminuzione era dovuta ai prezzi dei prodotti industriali, ridottisi del 2%, mentre quelli dei prodotti agricoli registravano un aumento del 4%. Tra le medesime epoche, i prezzi al consumo presentavano un incremento del 15% e l'indice del costo della vita risultava aumentato del 20%, per effetto soprattutto della maggiore spesa per l'abitazione, quasi triplicatasi per il graduale sblocco dei fitti, e degli incrementi verificatisi nei capitoli alimentazione (+ 13%) e spese varie (+ 16%). Nel campo salariale, le retribuzioni reali degli operai agricoli superavano rispettivamente del 66 e del 14% i livelli del 1938 e del 1953, mentre quelle degli altri operai presentavano in media incrementi del 41 e del 5%.

Lo sviluppo del commercio estero nel sessennio è documentato da un aumento quantitativo del 95% nelle esportazioni e del 37% nelle importazioni. Le importazioni del 1959 hanno riguardato per il 18% generi alimentari, per il 57% materie prime e semilavorati industriali e per il 25% prodotti finiti industriali. Rispetto al 1953 si nota un leggero spostamento in favore dei prodotti finiti industriali. A loro volta, le esportazioni sono risultate costituite per il 19% da generi alimentari, per il 25% da materie prime e semilavorati industriali e per il 56% da prodotti industriali finiti. Il che sta ad indicare, che, nei confronti del 1953, risulta sensibilmente diminuita la partecipazione dei generi alimentari e in misura minore quella delle materie prime e dei semilavorati industriali, a tutto vantaggio dei prodotti finiti industriali.

In merito alla ripartizione geografica, si osserva, tra il 1953 e il 1959, un forte aumento delle correnti di scambio, in entrambi i sensi, con i paesi del Mercato comune e dell'Europa orientale e delle nostre esportazioni verso i paesi dell'emisfero occidentale. Per contro risultano notevolmente diminuiti, in senso relativo, i nostri scambi con i paesi dell'area della sterlina e i nostri approvvigionamenti nell'area del dollaro. Nel 1959 i paesi del Mercato comune hanno fornito il 28% delle importazioni e assorbito il 29% delle esportazioni. Le partecipazioni delle altre aree commerciali sono state rispettivamente le seguenti: piccola zona di libero scambio, 18 e 22%; emisfero occidentale, 19 e 22%; area sterlina non partecipante, 15 e 5%; Europa orientale, 5 e 4%, altri paesi, 15 e 18%.

Nel settore monetario e bancario, il totale dei mezzi di pagamento ha raggiunto, nella media del 1959, i 5.900 miliardi, pari a 140 volte il livello del 1938, a fronte di un incremento del reddito nazionale di 111 volte. Gli aumenti sono stati di 100 volte per la moneta legale, 95 per i vaglia e assegni e 185 per i conti correnti bancarî. I depositi a risparmio presso le aziende di credito, soprattutto a seguito del favorevole andamento degli ultimi due anni, si sono moltiplicati per 138; quelli presso le casse postali sono aumentati invece di 64 volte soltanto. Dal lato degli impieghi, i coefficienti di sviluppo risultano pari a 155 per le aziende di credito, 194 per gli istituti per il credito all'industria e alle opere pubbliche, 97 per gli istituti di credito immobiliare e 142 per gli istituti di credito agrario.

Il bilancio dello Stato ha registrato un ulteriore miglioramento. Tra l'esercizio 1953-54 e quello 1958-59 le entrate effettive hanno presentato un incremento del 62%, raggiungendo i 3.249 miliardi e le spese sono aumentate del 44%, toccando i 3.361 miliardi; a sua volta la parte delle spese coperta con le entrate è passata dall'86% al 97%. Il forte aumento delle entrate è dovuto principalmente allo sviluppo delle imposte dirette ordinarie e delle dogane e imposte sui consumi, mentre i proventi delle imposte indirette sugli affari e dei monopolî, lotto e lotterie hanno registrato incrementi più moderati e le entrate per gli aiuti americani sono venute completamente a cessare. Su 100 lire di entrate, 20 sono state fornite dalle imposte dirette, 34 dalle tasse e imposte indirette sugli affari, 23 dalle dogane e imposte sui consumi, 14 dai monopolî, lotto e lotterie e 9 dagli altri tributi. Dal lato della spesa, i maggiori incrementi si sono verificati nel settore della pubblica istruzione, nelle spese per la finanza locale e in quelle di carattere sociale, negli oneri di carattere economico e produttivo e negli oneri diversi. Le spese per la sicurezza interna ed internazionale e quelle per gli interessi del debito pubblico hanno presentato incrementi assai più moderati, mentre gli oneri in dipendenza di prezzi politici si sono ridotti della metà. Su 100 lire di spesa, 27 hanno riguardato gli oneri di carattere sociale (compresa fra questi la pubblica istruzione), 22 la sicurezza, 21 gli oneri di carattere economico e produttivo, 7 gli interessi da pagare per il debito pubblico, 7 la finanza locale e le rimanenti 16 lire oneri di varia natura. Il finanziamento dei disavanzi di bilancio ha comportato nel sessennio un aumento del debito pubblico interno di quasi 2.100 miliardi. Alla fine del 1959 detto debito ammontava a 5.647 miliardi, segnando un aumento di 40 volte rispetto al 1938; il 61% di esso era costituito da debito fluttuante.

Bibl.: Oltre alle Relazioni generali sulla situazione economica del paese, dei Ministeri del bilancio e del tesoro, alle Relazioni annuali della Banca d'Italia e della Confederazione dell'industria e agli Annuarî della congiuntura economica italiana dell'Istituto per gli studî di economia, v.: Comitato Interministeriale per la Ricostruzione, Lo sviluppo dell'economia italiana nel quadro della ricostruzione e della cooperazione europea, Roma 1952; id., Politica di sviluppo - cinque anni di lavoro, Roma 1958; Banco di Roma, The Italian banking system after the war, in Review of the economic conditions in Italy, maggio-luglio 1954; id., L'economia italiana nel decennio 1947-56 (autori varî), Roma 1957; D. Menichella, Le esperienze italiane circa il concorso delle banche nella realizzazione dell'equilibrio monetario e della stabilità economica, in Bancaria, gennaio 1956; P. Baffi, Monetary developments in Italy from the war economy to limited convertibility, in Quarterly review della Banca Nazionale del Lavoro, dicembre 1958; id., Stabilité monétaire et développement économique en Italie-1946-1960, in Revue d'Économie politique, novembre 1960, pp. 128-157; L. Rosania, La réglementation bancaire et la politique de crédit en Italie au cours des dix dernières années, in Bollettino della Banca nazionale del Belgio, ottobre 1959.

Storia.

I governi De Gasperi. - L'anno 1949 s'inizia sotto i segni di una profonda inquietudine che caratterizza i gruppi democratici minori alleati della democrazia cristiana nell'esperienza quadripartita di governo. Il presidente De Gasperi aveva costituito, dopo le elezioni del 18 aprile 1948, una vera e propria coalizione coi liberali, i socialdemocratici e i repubblicani; ma i fermenti di critica e di revisione che agitano quei raggruppamenti politici non accennano a placarsi, nel momento stesso nel quale, all'interno della DC, si approfondiscono i contrasti fra il centro tradizionale e la nuova sinistra guidata da G. Dossetti, d'ispirazione sociale e non senza punte integraliste. Nel gennaio, B. Villabruna assume la segreteria del PLI, il partito di cui era esponente l'allora presidente della Repubblica, L. Einaudi. Aveva così termine l'esperimento liberale di centro-destra impersonato da R. Lucifero e che si era tradotto, nella consultazione del 1948, in un'alleanza coi resti del partito qualunquista (poco produttiva di voti per il partito liberale). Contemporaneamente il nuovo segretario inizia conversazioni per l'unificazione delle forze liberali con gli esponenti della sinistra liberale che aveva abbandonato il PLI dopo il congresso del 1947: il gruppo che più fortemente sente il richiamo della tradizione laica e pone condizioni al prolungamento della collaborazione di governo con la democrazia cristiana.

Un fenomeno analogo avviene sulla sponda socialdemocratica. Un estremo tentativo di unificazione socialista punta a sanare le conseguenze dell'alleanza fra socialisti e comunisti sanzionata dal "Fronte popolare" del 1948 e a riportare il PSI nell'area democratica. Se ne fa interprete uno dei vecchi esponenti della tradizione turatiana e piemontese, G. Romita. Ma il suo sforzo è rapidamente sconfessato dalla direzione del PSI, dove le correnti contrarie agli stretti legami col comunismo sono ormai in netta minoranza.

La prova dell'indecisione e del travaglio interno nelle file del PSI indusse il gruppo dei socialdemocratici capeggiato da Giuseppe Saragat (allora riunito sotto le insegne del PSLI) a superare tutte le perplessità e le riserve determinate dalla permanenza al governo. Alla fine del gennaio del 1949, il congresso del PSLI a Milano sanzionò a larga maggioranza la linea di collaborazione democratica assunta dal gruppo scaturito dalla scissione del 1947. A questa collaborazione il presidente De Gasperi teneva in modo particolarissimo, per evitare l'isolamento della DC verso la destra e mantenere aperto un dialogo con le forze democratiche e autonomiste del socialismo.

Sul nuovo grande problema della politica italiana, quello della adesione dell'Italia al Patto atlantico, si approfondisce ormai decisamente il contrasto fra i due partiti socialisti (e ormai si può parlare di tre: in quanto i secessionisti del PSI presieduti da G. Romita si organizzano gradualmente a loro volta in un gruppo politico). Dopo una serie di "casi di coscienza", del resto comprensibili alla luce della tradizione neutralista del socialismo italiano, il partito guidato dal Saragat accoglie la tesi dell'inserzione dell'Italia nel blocco delle nazioni atlantiche, sia pure accentuando l'interpretazione difensiva del "patto". Su una linea di prudente attesa si muove invece il gruppo del Romita; mentre su un piano di opposizione assoluta si schiera il PSI, deciso ormai a perseguire fino in fondo la politica di unità d'azione coi comunisti (benché questa suscitasse sempre riserve e dilaceramenti nell'interno del partito).

Nel maggio del 1949 il congresso nazionale del PSI a Firenze vede infatti la prevalenza, sulle superstiti correnti autonomiste, della corrente detta "fusionista" decisa a portare alle estreme conseguenze (teoricamente anche alla "fusione") la collaborazione coi comunisti nelle amministrazioni comunali e provinciali, nelle leghe del lavoro, nei sindacati e nelle cooperative. È il momento in cui il Comisco (l'organo esecutivo dell'Internazionale socialista) decide l'espulsione del PSI dalle proprie file, mentre il gruppo socialdemocratico accentua la sua caratterizzazione democratica e riformista. Le trattative per l'unificazione socialista riprendono, ma limitate ora ai gruppi di secessionisti dal PSI guidati dal Romita. Trattative lunghe e laboriose. Alla fine, anziché entrare senz'altro nel partito del Saragat, il gruppo del Romita decide di dar vita a un nuovo raggruppamento, il Partito Socialista Unitario (che celebrerà a Firenze il suo primo congresso nazionale nel dicembre del '49).

L'anno 1949 era stato segnato da importanti sviluppi nelle relazioni internazionali dell'Italia. Forte di una coalizione efficiente e autorevole di forze democratiche, rappresentative di tutti i gruppi storici della democrazia italiana, il quinto gabinetto De Gasperi (quello rinnovato dopo la consultazione generale dell'aprile 1948) aveva portato al superamento di fatto del trattato di pace con accoglimento pleno iure dell'Italia fra i membri originarî del Patto atlantico (inserzione consacrata il 4 marzo 1949). L'ostruzionismo dell'estrema sinistra nei due rami del Parlamento era stato vinto dopo la più lunga seduta della storia parlamentare italiana, durata 50 ore consecutive; e l'adesione dell'Italia al Patto atlantico aveva finalmente ricevuto la sanzione di 342 voti favorevoli contro i 170 contrarî. Il 4 aprile 1949, il ministro degli Esteri, Carlo Sforza, apponeva ai protocolli della lega atlantica la firma dell'Italia: primo passo per il superamento dei problemi lasciati aperti dalla guerra (a cominciare da quello di Trieste).

Contemporaneamente si accentuava l'azione della diplomazia italiana per risolvere la questione delle colonie, legata all'eredità della sconfitta. Rivelatosi impossibile un accordo fra le quattro grandi potenze sullo status delle colonie italiane (naturalmente di quelle prefasciste) la questione era deferita alle N. U.: e in tale sede l'Italia chiedeva il mandato fiduciario sulla Somalia, sull'Eritrea e sulla Tripolitania.

Senonché le N. U. si sottraevano a qualsiasi decisione. Il 6 maggio del '49 Sforza si accordava direttamente con la Gran Bretagna. Il compromesso Sforza-Bevin prevedeva l'amministrazione italiana fiduciaria in Tripolitania e Somalia, inglese in Cirenaica, francese nel Fezzan. L'Eritrea - terra legata ai ricordi dell'Italia umbertina - avrebbe dovuto essere annessa all'Etiopia (tranne le province occidentali cedute al Sudan), con uno speciale statuto in favore di Asmara e Massaua.

Purtroppo questa intesa diretta anglo-italiana non valse a far maturare in senso favorevole la decisione delle N. U. - giudice di ultima istanza. Per un solo voto (quello del rappresentante di Haiti) mancò la maggioranza richiesta. Con un gesto di coraggio, che torna a onore della diplomazia italiana, il nostro governo dichiarò, fin dal 1° ottobre 1949, di ritirare le precedenti richieste e di chiedere l'immediata indipendenza della Tripolitania e dell'Eritrea (sola via per por fine alle gestioni militari e conservare, al di là di ogni vincolo giuridico, rapporti morali ed economici con quelle terre africane). Ultimo punto fermo: la richiesta dell'amministrazione fiduciaria per la Somalia, limitatamente a un periodo di 10 anni, in considerazione delle particolari condizioni di quel territorio.

La decisione delle N. U. non corrispose neppure questa volta al pur ragionevole ed equilibrato piano dell'Italia. Il 21 novembre 1949, il comitato politico dell'Assemblea delle N. U. decideva che Tripolitania, Cirenaica e Fezzan costituissero un unico Stato, indipendente dal 1° gennaio 1952 (la questione dell'Eritrea fu per allora rinviata). All'Italia veniva riconosciuta l'amministrazione fiduciaria sulla Somalia per 10 anni. Amministrazione esemplarmente tenuta nel corso dell'intero decennto (v. somalia, in questa App.), con profondo rispetto delle autonomie locali e con incremento al progresso della popolazione.

All'interno, intanto, si consolidava la linea politica impersonata da De Gasperi, anche in seno alla democrazia cristiana. Le tesi innovatrici (estese al campo della politica estera) e la volontà di affermazione della sinistra democristiana non riuscivano a scalzare la maggioranza di centro del partito di maggioranza, confermata al congresso di Venezia (2-5 giugno 1949: con elezione alla segreteria di Paolo Emilio Taviani). Anche la polemica sulla politica finanziaria condotta da G. Pella, fondata sulla difesa della lira, fu fronteggiata dalla direzione e dalla segreteria del partito. Si accentuò solo l'orientamento sociale del partito dei cattolici italiani, conformemente del resto alla sua tradizione e alle sue stesse origini storiche.

La crisi di governo scoppiata il 14 gennaio 1950 ha qui le sue radici: da un lato le impazienze della sinistra democristiana; dall'altro l'accentuato fermento nelle file della socialdemocrazia (fin dal novembre 1949 infatti la delegazione del PSLI si era ritirata dal governo, in vista di favorire le trattative per l'unificazione socialista con il gruppo Romita). La nuova formula tripartita, fra DC, PSLI e PRI, nacque dalla volontà di realizzare una politica di "apertura sociale". Si verificava allora l'uscita dei liberali dalla maggioranza (nel luglio del 1949 la presidenza onoraria del partito era stata assunta da Benedetto Croce e quella effettiva da Raffaele De Caro), motivata dall'opposizione alla rifornna agraria, oltre che alle regioni.

In effetti il nuovo tripartito di "centro-sinistra" era la formula che meglio corrispondeva allora alle aspirazioni e agli orientamenti interni del partito di maggioranza, dove il peso delle correnti di sinistra sociale era pari alle profonde aspirazioni di rinnovamento (non spente dal successivo ritiro del massimo "leader" di quella tendenza, Giuseppe Dossetti, dall'agone politico). Il nuovo governo avrebbe dovuto condurre avanti una politica di ardite iniziative sociali - dalla riforma agraria alla Cassa per il Mezzogiorno - rafforzandola con una sicura impostazione anticomunista e con una ferma fedeltà occidentale (la legge stralcio sulla riforma agraria è del 17 marzo 1950 e quella costitutiva della "Cassa per opere straordinarie di pubblico interesse per il Mezzogiorno" è del 10 agosto 1950). Il PRI, il partito del conte Sforza, garantiva la perfetta osservanza degli impegni atlantici ed europeistici; la socialdemocrazia portava nel governo il fervore dell'antico riformismo sociale, correggendo anche le punte e le asprezze dell'intransigentismo cattolico.

Anche questo sesto ministero De Gasperi, tuttavia, urtò contro le difficoltà derivanti dal travaglio interno del PSLI. A pochi mesi di distanza dalla formazione del gabinetto (in cui pur la socialdemocrazia deteneva ministeri importanti), la ripresa delle trattative per l'unificazione socialista rimetteva in discussione il problema della partecipazione al governo. Nell'aprile del 1950, nasceva la "Unione Italiana del Lavoro" (UIL), organismo sindacale di orientamento socialdemocratico (cui aderivano i repubblicani) che accentuava la pressione classista sul partito; nell'estate dello stesso anno, d'altra parte, il Comisco interveniva con tutto il peso della sua autorità per accelerare il ritmo delle trattative per l'unificazione fra il PSLI e il gruppo Romita.

A superare le ultime resistenze, concorsero alcuni sintomi di crisi che, all'inizio dell'anno successivo, sembrarono incrinare i partiti dell'estrema sinistra. Nel gennaio del 1951, nel congresso nazionale del PSI a Bologna, si verificava la secessione del gruppo autonomistico e democratico che faceva capo all'on. Gian Carlo Matteotti; nello stesso mese il PCI subiva la prima frattura del dopoguerra, con l'uscita degli on. Cucchi e Magnani, che si proponevano di interpretare certi atteggiamenti di rivolta al dogmatismo e al conformismo del partito affioranti nella base. Questi elementi di crisi nel blocco socialcomunista indussero gli esponenti dei due gruppi socialdemocratici a sancire, nel marzo del 1951, l'unificazione del PSLI e del PSU, successivamente ratificata dagli organismi deliberanti dei due partiti.

L'uscita della delegazione socialdemocratica dal governo fu la conseguenza immediata della raggiunta unificazione. Per guadagnare un maggiore spazio politico verso sinistra, il nuovo partito (che si chiamò "partito socialista - Sezione italiana dell'Internazionale socialista" e solo più tardi mutò il suo nome in "Partito Socialista Democratico Italiano") ritenne infatti opportuno di recidere ogni vincolo di collaborazione ministeriale con i partiti di centro, accentuando i connotati autonomi e originarî del proprio programma.

Si era nell'aprile del 1951; il presidente De Gasperi non giudicò conveniente aprire una crisi ministeriale proprio alla vigilia delle già decise elezioni amministrative e provvide, attraverso un semplice rimpasto, a sostituire i ministri socialdemocratici dimissionarî.

Senonché l'esito delle elezioni amministrative del centro-nord fra il 27 maggio e il 10 giugno 1951 ripropose il problema della stretta collaborazione dei partiti democratici contro le ali estreme dello schieramento politico. Nonostante la nuova legge elettorale (che contemplava il sistema degli "apparentamenti" e il premio di maggioranza), ispirata al modello francese, lo spazio delle forze democratiche tese a restringersi piuttosto che ad allargarsi. La democrazia cristiana subì fortemente l'offensiva dei gruppi di destra, dal MSI al PNM, e registrò un regresso delle sue posizioni rispetto alle elezioni politiche del 1948 (anche se non rispetto alle elezioni amministrative del 1946). La socialdemocrazia riuscì solo a salvaguardare le sue posizioni (circa il 9,6% dei voti), nonostante l'effetto psicologico e propagandistico della recente unificazione. L'estrema sinistra mantenne saldamente le sue percentuali (il 37,1% fra comunisti, socialisti e indipendenti affiliati), mostrando di aver dominato, almeno sul piano elettorale, gli elementi di inquietudine e di eresia recentemente affiorati nelle sue file.

Quella tendenza dell'elettorato verso le estreme - destra e sinistra - fu confermata sia dalle elezioni per l'Assemblea regionale siciliana (3 giugno 1951) sia e ancor più dal secondo turno delle consultazioni amministrative che si tenne l'anno successivo, il 25 maggio 1952, per le province del centro-sud. L'erosione della DC a favore dei partiti di destra, e particolarmente del PNM, si accentuò sensibilmente; l'incremento delle sinistre superò tutte le resistenze e i diaframmi tradizionali del Mezzogiorno (in una fase di incipienti trasformazioni sociali).

La collaborazione delle forze democratiche conobbe momenti di difficoltà. La proposta di una "lista civica" per Roma comprendente i partiti di destra aveva rischiato nell'aprile 1952 di spezzare l'intesa fra la DC e i partiti di democrazia laica, sancita dal sistema degli apparentamenti. La vigorosa resistenza del presidente De Gasperi e dei suoi collaboratori, affiancata dai ministri repubblicani presenti nel suo governo, aveva convinto i promotori della "lista civica" che Roma sarebbe stata salvata dal pericolo di una maggioranza social-comunista anche senza una alleanza estesa al PNM e al MSI; ma l'impressione suscitata da quella proposta illuminò i dirigenti della DC sulla necessità di un più saldo legame con le forze democratiche di sicura ispirazione costituzionale.

La DC si trovava ora a dover fronteggiare l'offensiva delle correnti di destra, esterne e interne al partito; i partiti laici dovevano resistere, da parte loro, alle seduzioni degli opposti massimalismi (pericoloso il PNM per i liberali; pericoloso il PSI per i socialdemocratici). Un'alleanza elettorale fra democrazia cristiana e democrazia laica sembrò la sola via per fronteggiare il rischio di evasioni e di fughe dell'elettorato. Da più parti si pensò di estendere il sistema degli apparentamenti e del premio di maggioranza - usato per le amministrative - alla ormai prossima consultazione politica. Un fronte comune dei quattro partiti, DC, PLI, PSDI e PRI - favorito da una opportuna legge elettorale con premio di maggioranza - avrebbe rappresentato un decisivo richiamo (almeno così si pensava) sugli strati incerti o dispersi dell'elettorato, un sicuro punto di riferimento.

Si voleva evitare ogni "apertura" alle estreme di destra o di sinistra; si intendeva cementare, su un piano quasi istituzionale e organico, l'alleanza fra le forze di democrazia cattolica e quelle di democrazia laica; v'era chi scorgeva nell'evento l'occasione storica per superare i problemi ereditati dal Risorgimento.

Le comuni esperienze di governo sembravano favorire l'operazione. Proprio nel dicembre del 1951 il partito liberale aveva firmato a Torino un patto di unificazione con le correnti di sinistra favorevoli all'alleanza democratica.

Nel gennaio del 1952 il PSDI aveva assunto la sua forma definitiva con la segreteria affidata all'on. Romita. Fra i quattro partiti del centro democratico i punti in comune prevalevano di gran lunga su quelli di contrasto. Soprattutto i rapidi progressi della politica europeistica (grazie all'azione congiunta di De Gasperi e di Sforza) avevano creato una solida piattaforma d'intesa in cui tutte le forze democratiche si riconoscevano, al di là di ogni superstite suggestione neutralistica o revisionistica.

Grazie ai successivi governi di coalizione democratica, lo smantellamento delle eredità del trattato di pace era stato portato avanti con vivo spirito di fedeltà all'Occidente. Era del febbraio 1951 la conferenza italo-francese di Santa Margherita Ligure (base per la completa normalizzazione dei rapporti fra Roma e Parigi); dell'aprile dello stesso anno la firma del piano Schumann per la CECA; del maggio la visita a Londra di De Gasperi e Sforza; del giugno il viaggio di Adenauer a Roma.

A completare il quadro degli impegni internazionali dell'Italia, si aggiungeva, nel febbraio del 1952, la firma a Lisbona del trattato istitutivo della "Comunità Europea di Difesa", che rappresentava in Italia un saldo punto di riferimento e di intesa della nascente coalizione fra i partiti democratici. Un altro passo avanti sulla via della liquidazione di ogni eredità bellica era segnato, nel maggio dello stesso anno, dall'accordo tripartito (Italia, S.U.A., Gran Bretagna) per l'ingresso di funzionarî italiani nell'amministrazione della zona A del territorio libero di Trieste, premessa decisiva per il non lontano ritorno della città giuliana nel seno della madre-patria.

Quando si delineò, negli ultimi mesi del 1952, l'intesa fra la DC e i partiti di democrazia laica per l'approvazione di una legge elettorale maggioritaria, le basi di un comune orientamento sui destini della democrazia italiana erano già gettate, sia riguardo alla politica internazionale sia a quella interna. Le agitazioni sociali - così aspre ancora fra il 1980 e il 1951 - tendevano ad attenuarsi; sintomi di distensione affioravano perfino nei riflessi interni della guerra fredda. Gli effetti delle prime grandi riforme sociali dei governi De Gasperi cominciavano a farsi sentire. Le forze democratiche si preparavano a raccogliere i frutti di cinque anni di costruttivi progressi: senonché gli ostacoli - che presto si delinearono all'orizzonte - supereranno ogni previsione.

Già l'accordo sulla nuova legge elettorale non fu molto facile. Delineato fin dall'estate del '52, fu infatti ratificato dai varî partiti interessati solo alla fine dell'anno (e non senza aspri contrasti interni, e principî di dilaceramento, in seno ai gruppi di democrazia laica). Il vigore delle opposizioni si accentuò mentre sembrarono approfondirsi i dissensi sulle modalità della legge elettorale, come per es. sulla entità del "premio di maggioranza" (assegnazione alla lista che aveva ottenuto la maggioranza dei due terzi, ovvero tre quinti, ecc. dei seggi parlamentari) o sulla entità della maggioranza stessa necessaria per concorrere al premio: se assoluta (0 51 o 50+1% dei voti validi) o relativa (45%, ecc.). Alla violenta opposizione dell'estrema sinistra si aggiungeva ora una crescente opposizione dell'estrema destra.

Quando il disegno di legge che portava il nome del ministro degli Interni Scelba venne presentato alla Camera ai primi di dicembre del 1952, ogni risorsa dell'ostruzionismo parlamentare fu messa in opera dalle opposizioni in vista di ritardarne l'approvazione. Lo stesso fenomeno si ripeté, aggravato, al Senato, dove la legge arrivò il 27 gennaio 1953 e dove il suo esame si prolungò fino al 29 marzo: attraverso una serie convulsa e drammatica di incidenti culminati nell'aggressione al banco del presidente M. Ruini, succeduto da pochi giorni al presidente G. Paratore.

Sia il PSI sia il PCI non parteciparono alle votazioni finali sulla legge (il 21 gennaio 1953 alla Camera con 335 "sì" e 25 "no"; la seduta-fiume del 26-29 marzo al Senato con 174 voti favorevoli e 3 astenuti). La battaglia elettorale fu combattuta senza esclusione di colpi. Le particolari riserve che aveva suscitato la misura del premio - fissata nel 65% dei seggi alla lista o gruppo di liste che avessero conseguito la maggioranza assoluta (50%+1) dei voti - favorirono la campagna di entrambe le opposizioni. Neppure settori del mondo democratico e borghese restarono estranei alla lotta contro la nuova legge (definita dai comunisti "legge truffa"). Una secessione di particolari conseguenze politiche e psicologiche si avrà sulla sinistra del PSDI.

La rinuncia di socialisti e comunisti ad adottare una formula di battaglia tipo "fronte popolare" agevolò il loro rafforzamento elettorale. Sull'opposto settore dello schieramento politico, il Partito Nazionale Monarchico condusse una veemente campagna elettorale, che non mancò di sottrarre voti alla DC particolarmente nel Mezzogiorno, dove pure i governi De Gasperi, con la riforma agraria e la Cassa del Mezzogiorno, avevano prodigato il massimo del loro sforzo riformatore.

Avvenne così che il gruppo dei partiti apparentati del centro democratico non raggiunse nelle elezioni del 7 giugno il 50+1% dei voti necessario per far scattare il meccanismo della legge elettorale che avrebbe attribuito il premio di maggioranza. La DC migliorò sensibilmente le proprie posizioni rispetto alle amministrative del 1951-52, passando dal 36,2 al 40,1% dei voti; ma le forze di democrazia laica dovettero registrare notevoli perdite, conseguenza dell'aspra campagna cui erano state sottoposte dalle due Estreme e dalle minori "liste di disturbo". Il PSDI passò in percentuale dall'8,6% del 1948 (e dal 7,7 dei due turni del 1951-52) al 4,5 nelle elezioni per la Camera; il PRI dal 3 del 1948 (e dal 2,5 del 1951-52) all'1,6%; i liberali (che però nel 1948 comprendevano l'"Uomo qualunque") dal 3,3 (e 3,9 nelle amministrative) al 3%. I monarchici del PNM passarono, rispetto al 1948, dal 3,8 al 6,9%. Il MSI, che nel 1948 era appena nato, registrò una leggera flessione rispetto alle amministrative (6,3) ma conservò comunque una forza pari al 5,8% dei voti.

Dal 32,1% del "Blocco del Popolo" nel 1948, socialisti e comunisti passarono al 35,4% cosi ripartito: 22,6 al PCI, 12,8 al PSI. Si aggiungeva, a rendere più equivoca la situazione, l'esistenza di oltre un milione di schede contestate.

Il quadro del nuovo Parlamento, dopo le elezioni, non era certo dei più confortanti. Ingrossate le opposizioni di destra e di sinistra, i quattro partiti del centro democratico conservavano alla Camera una maggioranza di stretta misura (in mancanza dello scatto della legge maggioritaria, i seggi della Camera erano stati ripartiti con il sistema proporzionale vigente per le precedenti elezioni); ma le polemiche e le discussioni nate dalla grave delusione del 7 giugno non consentivano l'immediata ripresa di un colloquio.

La legislatura che segue alle elezioni del 1953. - Il presidente De Gasperi si prodigò ancora una volta per salvare la possibilità di una formula di solidarietà democratica, rivolgendosi agli antichi alleati del centro per un "governo di buona volontà"; ma ricevette un fermo rifiuto del PSDI, il partito dell'on. Saragat che propugnava, sia pure in via sperimentale e dimostrativa, una formula di "apertura a sinistra". Dileguata ogni possibilità di coalizione, De Gasperi si decise a tentare un governo monocolore: contando su una benevola attesa del centro e forse su un'astensione monarchica. Ma il "sì" del centro mancò, e così l'astensione del PNM (irrigidito in una politica di rancore e di dispetto). Il 28 luglio il grande statista, che aveva legato il suo nome alla ricostruzione della democrazia italiana, venne battuto da un voto del Parlamento, che apriva un lungo periodo d'inquietudine e d'instabilità parlamentare.

Un tentativo di governo quadripartito presieduto da Attilio Piccioni fallì; il 15 agosto il presidente Einaudi conferì un mandato di emergenza, per un "governo d'affari" limitato nel tempo e nel programma, a Giuseppe Pella, già titolare del dicastero del Bilancio. Il nuovo presidente del Consiglio si presentò alle Camere con un governo prevalentemente tecnico, rafforzato da alcuni indipendenti qualificati.

Senonché gli sviluppi della situazione internazionale obbligarono presto il ministero Pella ad uscire dai limiti in cui si era volontariamente confinato. In particolare, l'improvviso aggravamento della questione di Trieste (col discorso del maresciallo Tito a San Basso e la richiesta di annessione alla Iugoslavia della zona B) spinse il governo ad assumere atteggiamenti che sollecitarono il consenso entusiastico dei raggruppamenti di destra. Il monocolore amministrativo cominciò pertanto a caratterizzarsi sempre più come un governo di centro-destra: le diffidenze e le perplessità, in seno alla DC, si accentuarono.

Nel settembre la segreteria della democrazia cristiana era stata assunta, e sia pure dopo una contrastata votazione, da De Gasperi, che succedeva a G. Gonella. La crisi del partito, seguita alle elezioni del 7 giugno, era ormai in via di superamento; una chiarificazione dei rapporti fra partito e governo si imponeva.

Giunto alla prova, il governo Pella, nato al di fuori di ogni indicazione del partito e per una scelta discrezionale del capo dello Stato, non volle piegare alle ingerenze del partito nella scelta dei ministri (in vista di un ventilato rimpasto), e preferì il 4 gennaio 1954 rassegnare le dimissioni. Un tentativo di governo della sola DC esperito da Amintore Fanfani non ottenne la fiducia della Camera, nonostante il vigoroso impegno prodigato dal nuovo presidente e la notevole mole di disegni di legge presentati nel momento stesso di chiedere la fiducia al Parlamento.

Gli sviluppi preoccupanti della crisi spinsero ormai i partiti del centro democratico a riesaminare la loro posizione. Le intransigenze, comprensibili nel clima della sconfitta elettorale, non avevano più senso a oltre sette mesi di distanza dal mancato scatto della legge maggioritaria. Il PSDI si convinse che una collaborazione con la DC, a determinate condizioni, avrebbe conseguito migliori risultatidi un'opposizione giustificata solo dalle speranze alquanto vaghe di una maturazione democratica del PSI.

In queste condizioni nacque il gabinetto quadripartito dell'on. Scelba. L'ex ministro dell'Interno di De Gasperi non aveva partecipato ai governi successivi al 7 giugno 1953 e aveva rilanciato, in un discorso a Novara del novembre 1953, la formula della solidarietà democratica fra i partiti del centro tradizionale. Entravano a far parte della coalizione liberali e socialdemocratici (con Sagarat alla vicepresidenza); i repubblicani, che pure avevano votato a favore del monocolore Fanfani, ne restavano fuori, in una linea di appoggio esterno.

La Camera votò la fiducia al nuovo governo con 300 sì, 283 no e un astenuto; il Senato con 123 sì, 110 no e 2 astensioni. Era un margine di maggioranza ristretto, ma il ministero iniziò la sua attività con slancio e fervore. Neppure la tempesta scatenata sul paese dal cosiddetto "caso Montesi") riuscì ad arrestare il ritmo legislativo del nuovo gabinetto di coalizione, ispirato a un programma di riforme (particolarmente importante quella tributaria) e appoggiato a ferme pregiudiziali antitotalitarie, con un vigoroso impegno di fedeltà al Patto atlantico ed alla politica europeistica quale era stata tracciata da Sforza e De Gasperi. Intanto, si verificava un fatto di notevole importanza: al congresso nazionale della DC, tenuto a Napoli (26-29 giugno), la corrente di "Iniziativa democratica", capeggiata da Fanfani, riusciva vittoriosa, e lo stesso Fanfani assumeva la segreteria del partito.

Purtroppo, a distanza di neppure due mesi, la scomparsa di Alcide De Gasperi (19 agosto 1954) toglieva alla democrazia cristiana l'autorità, il freno equilibratore e la guida orientatrice del più insigne dei suoi capi, divenuto da poco presidente del consiglio nazionale del partito. I contrasti fra le correnti DC, non superati dal congresso di Napoli, presero a riaffiorare; la collaborazione fra i partiti democratici tornò a conoscere momenti difficili. Anche la politica europeistica non rappresentava più il fondamentale cemento unitario delle coalizioni: dal momento che, il 30 agosto 1954, la Camera francese respinse la CED e aprì la crisi, non ancora oggi chiusa, delle istituzioni e degli ideali europeistici.

Il 18 settembre 1954, le dimissioni del Piccioni da ministro degli Esteri provocarono un rimpasto ministeriale. A Piccioni succedeva il liberale Martino, che lasciava il ministero della Pubblica Istruzione al democristiano Ermini (e quel trapasso fu oggetto di vivaci critiche negli ambienti laici). Il successivo dibattito parlamentare non mancò di note tempestose, in quanto l'opposizione tentò di sfruttare a ogni costo la "questione morale" (cogliendo il pretesto dagli sviluppi giudiziarî dell'inchiesta sul cosiddetto "caso Montesi").

Ma il governo Scelba superò anche quella difficile prova e fu confortato nella sua opera dal successo del ritorno di Trieste all'Italia. Già l'8 ottobre del 1953, ai tempi del governo Pella, gli Alleati avevano deciso la cessione dell'amministrazione della zona A all'Italia. Ma solo il memorandum d'intesa italo-iugoslavo del 5 ottobre 1954 - frutto di una paziente e accorta opera diplomatica - poneva fine all'amministrazione militare nelle due zone del "Territorio libero di Trieste", consacrava il passaggio formale della zona A all'amministrazione italiana e definiva una lieve rettifica di confine a favore della zona B, rimasta all'amministrazione iugoslava, creando anche le premesse per normalizzare i rapporti diplomatici con Belgrado.

La raggiunta soluzione diplomatica della questione di Trieste servì a rafforzare le basi della coalizione di centro. In ottobre l'amministrazione civile italiana subentrava a Trieste al governo militare alleato; alla fine del mese le truppe del gen. De Renzi sfilavano nella città e ai primi di novembre il presidente del Consiglio vi pronunziava un discorso misurato e consapevole (auspicando il superamento degli odî nazionali). Contemporaneamente il governo italiano cooperava validamente alla ripresa delle trattative fra gli alleati europei per la costituzione di uno strumento politico-diplomatico sostitutivo della tramontata CED. Quello strumento fu l'Unione europea occidentale i (UEO), il cui trattato istitutivo fu firmato il 23 ottobre 1954. Il Parlamento italiano approvava l'adesione del nostro paese a quella rinnovata lega europea a distanza di pochi mesi: il 23 dicembre 1954 la Camera, l'11 marzo 1955 il Senato.

Il rifiorire della solidarietà occidentale, dopo le inquietudini e le preoccupazioni suscitate dal naufragio della CED, agevolò il superamento dei riaffioranti motivi di contrasto all'interno della coalizione ministeriale presieduta dall'on. Scelba. Una richiesta di rinvigorimento del governo avanzata dall'on. Saragat ai primi di novembre del 1954 si concluse nella stipulazione di una nuova intesa programmatica fra i quattro partiti democratici, volta a rianimare l'attività del ministero. Fra i punti compresi nel programma: una nuova legislazione sui patti agrarî.

Ma fu proprio su questa delicata materia che scoppiò una nuova e più grave crisi politica all'inizio del 1955. Protagonisti, i liberali (spostatisi ora su posizioni di centro-destra con la nuova segreteria dell'on. G. F. Malagodi) e i socialdemocratici (preoccupati dalla concorrenza del PSI, ora non ostacolata e anzi in certa misura favorita da talune correnti della democrazia cristiana). Un comitato ristretto formato dal Consiglio dei Ministri (17 gennaio 1955) non riusci a comporre le divergenze fra PLI e PSDI sulla questione dei patti agrarî. Un progetto di legge presentato dal presidente del Consiglio (12 febbraio) e pur sottoscritto dai rappresentanti liberali nel ministero non incontrò l'approvazione della segreteria del partito liberale.

Fu quello il momento più acuto della crisi, che lasciò tracce non facilmente cancellabili nei rapporti fra i varî gruppi democratici. Malagodi si dimise dalla segreteria del PLI in segno di protesta; le sue dimissioni furono successivamente respinte dal consiglio nazionale del PLI (26-27 febbraio), e una via di compromesso fu alla fine trovata, accettando l'accordo del 12 febbraio ma impegnando segreteria e ministri ad ottenere una più soddisfacente soluzione complessiva dell'intricato problema. Senonché il partito repubblicano - membro della coalizione, ma fuori dal governo - non ritenne di dover ratificare il raggiunto compromesso fra le varie posizioni. Fra il 18 e il 20 marzo il Consiglio nazionale del PRI decideva di respingere l'accordo del 12 febbraio sui patti agrarî e di riacquistare libertà d'azione nei confronti del governo Scelba. Era una libertà d'azione che non arrivava alle soglie dell'opposizione (il partito si riservava di giudicare il governo "caso per caso") ma metteva in discussione il patto originario e fondamentale su cui si fondava quel ministero. Si aggiungevano le crescenti opposizioni che la formula centrista incontrava all'interno della DC: in particolare da parte della "concentrazione" (gruppo che raccoglieva i "notabili " cioè gli esponenti della vecchia tradizione popolare, messi in ombra nel Congresso di Napoli). Le minoranze democristiane aspettavano da tempo l'occasione migliore per sconfiggere la segreteria del partito, alleata (ma non senza distinzioni e riserve) al governo Scelba.

L'occasione dello scontro non tardò a presentarsi con l'elezione del nuovo presidente della Repubblica, fissata per il 28-29 aprile 1955. Il candidato della segreteria democristiana, il sen. Cesare Merzagora, non riuscì a raggiungere nei primi scrutinî la maggioranza richiesta dei due terzi; una parte degli stessi democristiani orientò i proprî voti verso il presidente della Camera e autorevole esponente della "concentrazione", Giovanni Gronchi.

Vecchio e coerente combattente della sinistra cattolica, l'on. Gronchi richiamò col suo nome i voti dei gruppi di sinistra, che al primo suffragio si erano orientati verso l'ex-presidente del Consiglio Ferruccio Parri. Al terzo scrutinio, i suffragi per Gronchi erano già 281 contro i 245 di Merzagora (61 voti andarono al presidente Einaudi, per la cui riconferma si battevano liberali e socialdemocratici).

In queste condizioni il sen. Merzagora decideva di ritirare la propria candidatura. I voti dei parlamentari democristiani convergevano allora sul nome dell'on. Gronchi. Una votazione quasi plebiscitaria coronava, il 29 aprile, il quarto scrutinio: 658 voti a Gronchi contro 70 a Einaudi e 92 schede bianche.

L'avvento di Giovanni Gronchi al Quirinale coincideva con una svolta importante della vita nazionale. Il nuovo presidente della Repubblica non aveva mai fatto mistero della sua avversione alle formule centriste di governo e della sua ansia di allargare le basi dello Stato e della democrazia. Il suo messaggio di insediamento (11 maggio 1955) ribadì con assoluta chiarezza tutti i principî che avevano guidato la sua lunga e ininterrotta milizia politica.

I contraccolpi dei nuovi eventi sulla coalizione ministeriale, già logorata da tante prove, non mancarono di farsi sentire. Un primo gesto di dimissioni del governo Scelba, come "doveroso omaggio personale di ossequio al nuovo capo dello Stato", fu formalmente respinto. Ma la crisi, già iniziata di fatto in occasione della polemica sui patti agrarî, si sviluppò rapidamente. L'ostilità delle correnti di minoranza della DC al governo quadripartito si accentuava; contemporaneamente si approfondivano i fermenti critici dei repubblicani e di una parte dei socialdemocratici. Una chiarificazione si imponeva; e l'iniziativa fu assunta dallo stesso presidente del Consiglio Scelba.

Laboriose trattative ebbero inizio fra i partiti di centro per ricomporre, mediante un rimpasto, una più salda e efficiente solidarietà democratica. Il successo delle elezioni regionali in Sicilia (5 giugno) parve di buon auspicio per la riuscita dell'esperimento. Anche le gravi responsabilità internazionali (il 1° giugno si era riunita a Messina la conferenza dei ministri degli Esteri della CECA per il cosiddetto "rilancio europeo") sembravano dover favorire il superamento delle divergenze.

Ma la chiarificazione promossa dall'on. Scelba si scontrava presto in ostacoli insuperabili. Il PRI rifiutava di entrare nel governo; e il 21 giugno la direzione della DC giudicava ormai impossibile un semplice rimpasto.

Le dimissioni del governo Scelba (22 giugno) aprivano la via a un nuovo governo di coalizione tripartita (DC, PSDI, PLI) presieduto dall'on. Segni. Ancora una volta liberali e socialdemocratici si trovavano a far parte della stessa compagine ministeriale. L'appoggio esterno del PRI era ricuperato, attraverso una politica di minore intransigenza nei riguardi del PSI e un certo cambiamento di accenti nella guida della politica interna (Tambroni succedeva a Scelba) che sembrò ispirarsi alle linee fondamentali del messaggio presidenziale.

La vita del governo Segni fu meno travagliata di quella del governo Scelba. Non mancarono, al nuovo ministero, benevoli attese e indulgenti tolleranze da parte di settori della sinistra (e in particolare del PSI). Il nuovo presidente del Consiglio, che aveva legato il suo nome alla riforma agraria, riuscì a incanalare nel governo anche certi fermenti e certe istanze della sinistra cattolica. I rapporti fra governo e partito migliorarono; la "concentrazione" - promotrice della fine del governo Scelba - occupò importanti posti di responsabilità in seno al nuovo ministero. Sul terreno economico, la direttrice di marcia del nuovo governo fu segnata dal "piano Vanoni per lo sviluppo dell'occupazione e del reddito" già elaborato sotto il governo Scelba.

Particolari progressi furono conseguiti nel campo dell'attuazione costituzionale: dall'entrata in funzione della Corte Costituzionale (23 aprile 1956) sotto l'illuminata guida di Enrico De Nicola all'istituzione del Consiglio nazionale dell'Economia e del Lavoro in attuazione dell'art. 99 della Costituzione (con legge del 5 gennaio 1957).

La politica estera, ancora affidata al Martino, proseguì secondo le ferme direttrici atlantiche dei precedenti governi. Fra 1954 e 1955, si erano avuti frequenti incontri internazionali, e il prestigio italiano si era elevato. Dopo lo scioglimento della questione di Trieste (una delle grandi tappe della ricostruzione postbellica) si era avuta la visita del premier francese Mendès-France a Roma (6-13 gennaio); poi il viaggio di Scelba e Martino a Londra (15-18 febbraio); successivamente la missione del premier inglese Eden a Roma (5-6 marzo); infine il viaggio di Scelba e Martino nel Canada e negli S.U.A. (24 marzo-8 aprile).

Il consolidamento delle alleanze dell'Italia era indispensabile ad affrontare la nuova fase della distensione fra il blocco occidentale e l'orientale, che già si delineava all'orizzonte. Opportuna fu, in questo senso, l'iniziativa italiana di una sessione atlantica a Parigi (16 luglio 1955) in vista dell'incontro al vertice di Ginevra. La nostra diplomazia continuò ad operare secondo una linea di difesa globale degli interessi occidentali, che risaliva alla migliore tradizione dei tempi di De Gasperi e di Sforza. Contro ogni particolarismo ed ogni egoismo, l'Italia si richiamava al senso della solidarietà occidentale (già consacrata in un recente e decisivo avvenimento, l'entrata della Repubblica Federale di Germania nella NATO, decisa fra il 9 e l'11 maggio 1955).

In questa situazione, ogni sopravvivenza del trattato di pace diventava ogni giorno più assurda e anacronistica. Già il governo Scelba aveva ottenuto (10 maggio 1955) la fine di ogni aspetto discriminatorio del trattato di pace attraverso una decisione collegiale del consiglio della NATO. L'opera, intrapresa da quel governo come da tutti i ministeri precedenti, veniva portata a termine il 14 dicembre 1955 con la solenne ammissione dell'Italia insieme con altri 17 paesi) alle N.U. Era il totale seppellimento di ogni eredità bellica, il riconoscimento anche formale (dopo quelli sostanziali degli anni precedenti) della parità conseguita dall'Italia fra i paesi liberi, contro tutti i veti e le preclusioni di un assurdo spirito di vendetta e di punizione.

Il miglioramento dei rapporti internazionali - anche in relazione alle crisi interne affioranti nell'URSS dopo la morte di Stalin - esercitava benefici effetti sulla situazione interna del paese. La coalizione tripartita, iniziata non senza sospetti e riserve, si irrobustiva e rafforzava sulla via delle concrete opere di governo. Una nuova scissione liberale (fra il 9 e l'11 novembre usciva dal PLI la sinistra, all'insegna del partito "liberaldemocratico" poi chiamatosi "Radicale") non aveva immediate conseguenze sull'equilibrio dei gruppi di governo. Il X congresso nazionale del PSDI a Milano (3-5 febbraio 1956) ratificava a larga maggioranza la linea di solidarietà democratica. Gli incipienti sintomi di crisi nel blocco comunista sembravano confermare la validità dell'impostazione socialdemocratica a quasi dieci anni di distanza dalla scissione socialista. Si apriva un largo e fecondo campo alla propaganda socialdemocratica nei riguardi degli elettori incerti e perplessi del PSI: campo che doveva essere sfruttato nelle ormai imminenti elezioni amministrative.

Il 27 maggio 1956 vedeva il rinnovo dei consigli comunali e provinciali in 7.090 comuni e consentiva di verificare le posizioni delle forze politiche a tre anni di distanza dalla consultazione politica del 1953. Si parlò allora di "rivincita sul 7 giugno". In effetti il margine delle forze democratiche si allargò, le perdite del 1953 furono largamente colmate. La DC conservò saldamente le proprie posizioni (arrivando, nelle elezioni provinciali, a sfiorare il 39% dei suffragi). Il PSDI tornò al "maximum" dell'aprile 1948, raccogliendo quasi un milione e ottocentomila voti nelle elezioni per i consigli provinciali, dove PCI e PSI si erano presentati uniti (e sfiorando, in percentuale, il 7,5%). Il PLI guadagnò a scapito delle destre (superando, sempre nelle elezioni provinciali, il milione di voti: in percentuale il 4,2%). Principî di regresso registrarono monarchici e MSI (il blocco di destra passò dall'11,2% del 1951-52 al 10,8). I comunisti risentirono i contraccolpi del XX Congresso del PCUS, mentre i socialisti guadagnarono solo nelle zone in cui accentuarono la loro autonomia dal PCI.

L'adozione del sistema proporzionale (decisa l'8 marzo 1956 per uno degli impegni del governo Segni) rese più difficile la formazione delle giunte e creò alleanze contraddittorie in varie città della penisola; ma, più delle difficoltà amministrative, pesava sui futuri sviluppi della politica italiana il problema del socialismo, quale si poneva alla luce della "destalinizzazione" e della conseguente revisione dei rapporti fra PCI e PSI.

L'eco del "rapporto Chruščëv" in Italia fu immensa; la possibilità di una crisi comunista apparve, a molti uomini politici di parte democratica, non impossibile. In questo clima maturò un incontro fra Saragat e Nenni (Pralognan, 25 agosto 1956), su richiesta di questo ultimo. Gli impegni di massima assunti in quel colloquio (adesione da parte del PSI a una politica estera di solidarietà occidentale e impegno a non collaborare mai al governo coi comunisti) furono oggetto di infinite ed estenuanti polemiche, di interpretazioni contrastanti e contraddittorie.

Ma il capitolo dell'unificazione socialista era ormai aperto; la vita politica italiana ne sarebbe stata dominata per anni. Il primo contraccolpo degli eventi lo subì la coalizione governativa di centro. Via via che il PSI accentuava il processo revisionistico della sua tradizionale alleanza coi comunisti, logorata da troppi anni di sterile opposizione ai governi democratici, si accentuavano nell'interno del PSDI le correnti contrarie ad un'ulteriore collaborazione con la DC e i liberali. Nonostante la buona volontà dimostrata in questa occasione dal partito liberale, i motivi di frizione e di contrasto tendevano ad accrescersi piuttosto che a diminuire.

Il VI congresso nazionale della DC a Trento (14-18 ottobre 1956) confermava la validità della politica centrista, ma dimostrava di non essere insensibile ai nuovi orientamenti del PSI. La segreteria fanfaniana non aveva mai chiuso rigidamente nei riguardi del PSI; ed era stato quello uno dei motivi di contrasto col governo Scelba. Già ai tempi del congresso socialista di Torino (31 marzo 3 aprile 1955) si erano avuti segni non dubbî di simpatia e di interessamento della DC nei riguardi di una eventuale evoluzione autonomistica del PSI che portasse alla rottura radicale coi comunisti.

I drammatici avvenimenti della rivolta ungherese (ottobre-novembre 1956) furono in questo senso decisivi. L'emozione profonda suscitata in tutti gli uomini liberi dalla generosa resistenza di quel popolo alla sopraffazione sovietica favorì, anche nello schieramento politico italiano, la convinzione che la rottura fra socialisti e comunisti fosse ormai irreversibile, che il PSI non potesse più tornare sulle sue decisioni. Accenti eloquenti di condanna dell'intervento sovietico in Ungheria risuonarono nel successivo congresso nazionale che il PSI tenne a Venezia fra il 6 e l'11 febbraio del 1957: e nel quale sembrò che i fili della vecchia politica frontista fossero recisi, almeno per la maggior parte. Una corrente autonomistica si delineò nel congresso; non mancarono coraggiose ripulse della vecchia politica. Perfino il patto di consultazione coi comunisti (che il 4 ottobre 1956 aveva preso il posto del vecchio patto di unità d'azione) fu praticamente denunciato.

La vittoria di Nenni e della sua corrente risultò però grandemente limitata nelle elezioni finali per il comitato centrale, dove i gruppi di sinistra ottennero un notevole successo; ma il movimento, messo in atto dal "revirement" del congresso di Venezia, era ormai inarrestabile, investiva tutti gli equilibrî politici e parlamentari.

Travaglio e lotte della democrazia. - I primi effetti dei nuovi sviluppi politici si ebbero sulla solidità del governo Segni. Il dibattito sui patti agrarî, iniziato nella seconda metà di gennaio per liquidare quel permanente motivo di discordia fra gli alleati, fu sospeso in considerazione del congresso socialista. Le perplessità liberali si accentuarono rispetto a un governo che sembrava far dipendere i suoi atteggiamenti da quelli di un partito esterno alla coalizione, e fino a pochi anni prima alla stessa area democratica. Come immediata conseguenza del congresso di Venezia, il partito repubblicano, che aveva sempre seguito con simpatia il travaglio del PSI, decise di riacquistare graduale libertà d'azione rispetto al governo Segni (24 febbraio 1957). Così, nell'ambito della coalizione ministeriale, la situazione tendeva a deteriorarsi. La posizione assunta dal gruppo sindacalista della DC sul problema dei patti agrarî rendeva ogni giorno più difficile un'intesa su quella dibattuta questione. La nomina dell'on. Togni al dicastero delle partecipazioni statali, sgradita ai socialdemocratici, provocava le dimissioni da segretario del PSDI dell'on. Matteo Matteotti, uno dei più convinti fautori dell'unificazione socialista.

Il travaglio si trasferiva all'interno della socialdemocrazia. Per evitare di essere scavalcato dalle correnti di sinistra del suo partito (si parlava di ministri che avrebbero rassegnato individualmente le dimissioni), l'on. Saragat decideva l'uscita del suo partito dalla coalizione di governo (5 maggio 1957). Lo svolgimento della nuova crisi si manifestò ancora più difficile del previsto. Il rifiuto dei repubblicani a collaborare con una nuova coalizione di centro orientò il presidente della Repubblica a conferire il mandato per un governo costituito esclusivamente dalla DC. Designato per questo difficile compito fu il presidente del Consiglio nazionale del partito, uno dei "notabili" più vicini alla segreteria fanfaniana, il sen. Adone Zoli. Attraverso un programma di larga apertura sociale, il sen. Zoli si riprometteva di ottenere una benevole attesa in diversi settori della Camera, non esclusi i socialisti; ma alla prova del voto di fiducia solo monarchici e MSI gli concessero la fiducia, desiderosi di reinserirsi nel giuoco politico, da cui le coalizioni quadripartite li avevano finora esclusi.

Anziché risolversi, la crisi si complicava e si aggravava. Il presidente del Consiglio, nella replica finale alla Camera (8 giugno 1957), dichiarò che non avrebbe tenuto conto, ai fini del computo della maggioranza, dei voti del MSI. L'atmosfera parlamentare si fece molto tesa. Un primo calcolo escluse che i suffragi missini fossero determinanti; senonché, il giorno successivo, una revisione delle cifre accertò un errore (due voti contrarî erano stati calcolati come astenuti) e trasformò in determinanti i voti del Movimento sociale italiano.

Il sen. Zoli non esitò a trarne le conseguenze, presentando immediatamente le dimissioni (10 giugno 1957). Nella difficoltà di trovare una via di uscita alla crisi, il presidente della Repubblica conferì un mandato esplorativo al presidente del Senato, sen. Merzagora, in vista di saggiare le possibilità di ricostituire una coalizione di centro (15 giugno 1957). Ma poiché la missione Merzagora non ottenne gli effetti sperati, il Quirinale affidò al segretario del partito di maggioranza relativa, on. Fanfani, l'incarico di riaprire le trattative per un'intesa quadripartita (18 giugno). La rinuncia di Fanfani seguì tre giorni dopo (21 giugno) e il presidente della Repubblica decise di rinviare alle Camere il governo Zoli, secondo un'interpretazione ineccepibile della Costituzione (che non contempla una distinzione fra voti graditi e sgraditi). Il sen. Zoli si sobbarcò così al faticoso compito, correggendo col suo istintivo buonsenso e con la sua grande misura le asperità e le intransigenze dei partiti.

Pur poggiando su una base parlamentare non conforme ai desiderî della maggioranza del partito, e pur obbligato a governare in una situazione di aspre lotte politiche e ideologiche, il gabinetto Zoli riuscì a condurre in porto gran parte del suo programma legislativo, per molta parte eredità dei precedenti governi. Immutate rimasero le direttive fondamentali della politica estera (all'on. Martino era subentrato, con l'avvento del monocolore, l'ex-presidente del Consiglio Pella), nonostante certi fermenti di revisione affiorati nel partito di maggioranza.

A caratterizzare la nostra azione internazionale, si aggiunsero - in questi anni - le frequenti missioni di amicizia condotte dal presidente della Repubblica. Dopo un viaggio del presidente e del ministro degli Esteri Martino negli Stati Uniti e nel Canada (26 febbraio-12 marzo 1956) si ebbe la visita a Parigi del 25-27 aprile 1956 (ricambiata dal presidente francese Coty a Roma il 9-12 maggio 1957). Col governo Zoli, il ritmo delle missioni presidenziali si accentuò: il 7-12 settembre fu la volta di una visita a Teheran, l'11-13 novembre di una missione ad Ankara.

La continuazione della politica europeistica si svolgeva parallelamente alle missioni di pace del presidente della Repubblica. Proprio negli ultimi mesi del governo Segni, il 25 marzo 1957, fu firmato a Roma il trattato istitutivo della "Comunità Economica Europea" e quello istitutivo dell'"Euratom": due eventi che hanno assunto un particolare valore simbolico e consacrato la linea di fedeltà dell'Italia alla politica europeistica. Linea che si prolungò durante il ministero Zoli: gli stessi trattati furono infatti approvati dalla Camera italiana il 30 luglio 1957, e in questa occasione si ebbe una significativa astensione dei socialisti sulla CEE, e un voto favorevole sull'Euratom.

Da questo momento in avanti, il principale compito del governo Zoli fu quello di preparare, in un clima di ordine e di tranquillità, le elezioni generali politiche indette per il 25 maggio 1958. La preparazione di quella campagna elettorale non fu esente da asprezze e da vivaci contrasti. Si approfondì, in modo particolare, la polemica fra la DC e il partito liberale; si acuirono i temi di dibattito - sempre latenti - fra clericalismo e anticlericalismo (nel clima dominato dalla condanna del vescovo di Prato - nel marzo 1958 - e dalle successive reazioni di parte cattolica). I socialdemocratici invece tendevano a differenziarsi dalle punte estreme del laicismo; la loro massima preoccupazione era di mantenere intatte le possibilità di intesa con la DC, allo scopo di favorire la formazione di un governo di centro-sinistra destinato fra l'altro a verificare l'effettivo grado di autonomia del PSI dai comunisti.

Ogni partito combatté la battaglia elettorale del 1958 su posizioni di autonomia ideologica e programmatica, senza più i confini e i vincoli della tradizionale coalizione quadripartita. Ma gli avvenimenti politici di Francia (13 maggio) che liquidarono la Quarta Repubblica e portarono al potere il generale De Gaulle favorirono la campagna della DC, che invitava l'elettorato a non disperdere i voti, presentandosi come il solido "argine" da opporre a tutte le avventure (l'on. Fanfani si batteva con instancabile fervore per una maggioranza assoluta del suo partito, mentre una pubblica dichiarazione dei vescovi italiani confermava il pieno appoggio della Chiesa e di tutte le forze del laicato cattolico alle liste della Democrazia cristiana).

I risultati delle elezioni generali videro infatti un netto miglioramento della DC, che salì dal 40,1 al 42,4% dei voti per la Camera (con complessivi 12.520.207 voti rispetto ai 10.864.282 del 1953), laddove le altre forze democratiche non registrarono pari guadagni. Solo i liberali segnarono un sensibile aumento (dagli 816.267 voti del 1953 a 1.047.081, cioè dal 3 al 3,5%); la socialdemocrazia migliorava in rapporto alle elezioni politiche del 1953, ma arretrava di fronte a quelle amministrative del 1956 (conservando la sua percentuale del 4,5%, con 1.345.447 voti). I repubblicani, alleati ai radicali, raccoglievano 405.782 voti (pari all'1,4% dei voti), con un'ulteriore contrazione rispetto al 7 giugno 1953.

Nel campo delle opposizioni, sensibili furono i guadagni del PSI: nelle votazioni per la Camera, il partito di Nenni - che aveva sapientemente sfruttato le nuove impostazioni autonomistiche - saliva dai 3.463.035 voti del 1953 (12,8%) a 4.206.726 (14,2%). Perfino i comunisti - nonostante il "rapporto Chruščev" e la crisi prodotta nelle loro file dai fatti di Polonia e di Ungheria - riuscirono a mantenere in pieno le loro posizioni (6.704.454 voti contro i 6.121.922 del 1953: in percentuale il passaggio dal 22,6% al 22,7). Lo stesso non si può dire sul fronte delle destre. Il PNM - che si era scisso fin dal giugno 1954 in due tronconi, guidati rispettivamente da A. Covelli e A. Lauro - scendeva dal 6,9% del 1953 al 4,8 complessivo delle due liste (il 2,2 al Partito nazionale monarchico del Covelli, il 2,6 al Partito monarchico popolare del Lauro). Minori invece le perdite del Movimento sociale italiano (in percentuale dal 5,8% al 4,8; in voti da 1.582.567 a 1.407.718).

La configurazione del nuovo Parlamento non consentiva molte formule di maggioranza. Resa difficile l'intesa di centro dai perduranti contrasti fra PLI e PSDI e più ancora dalla dichiarata sfiducia della sinistra democristiana, la DC pensò a un governo tripartito di centro-sinistra esteso al PRI e al PSDI. L'incarico all'on. Fanfani - dopo le dimissioni del gabinetto Zoli, rassegnate il 19 giugno - fu la naturale conseguenza di quella impostazione di massima, che escludeva ogni ripresa della formula del quadripartito e dichiarava attuale il tema di un dialogo col PSI.

Il nuovo presidente del Consiglio si mise all'opera fin dal giorno dell'incarico (25 giugno) con la decisa volontà di superare tutti gli ostacoli. Non riuscì però a ottenere la collaborazione diretta del PRI al governo: pur garantendo un appoggio critico dall'esterno, i repubblicani preferirono rimanere fuori dalla nuova coalizione, che fu di fatto bipartita (DC-PSDI).

L'alleanza col PSDI non fu difficile. La formula che trionfava era stata preannunziata fin da un anno prima dall'on. Saragat e aveva costituito la piattaforma elettorale della socialdemocrazia. Si trattava una volta di più di mettere alla prova il PSI, favorendo il processo di decantazione dell'autonomia socialista. Adeguate misure legislative furono approntate all'uopo, con piena intesa fra DC e PSDI: sia nel campo della perequazione tributaria che in quello della legislazione volta ad estendere l'area dell'economia pubblica (un posto a sé, di particolare rilievo, occupava il "piano decennale della scuola" continuato e difeso con particolare vigore dai successivi governi).

Immediatamente dopo il voto di fiducia (che fu espresso dal Senato il 12 luglio, 128 "sì" contro 111 "no" e dalla Camera il 19 luglio, 295 "sì", 287 "no", 9 astenuti), il presidente Fanfani partì per una missione nelle capitali occidentali: il 29-30 luglio negli S.U.A., il 1° agosto a Londra, il 2 a Bonn, il 7-8 a Parigi. L'Italia dette l'impressione di volere accentuare il suo ruolo nella politica internazionale, allo scopo di facilitare il processo di distensione fra i due blocchi e con una particolarissima attenzione ai problemi del Medio Oriente (in questa prospettiva si inserirà, nel gennaio 1959, il viaggio di Fanfani al Cairo). Rientra pure nel quadro di una "presenza attiva" dell'Italia negli scacchieri extra-europei la missione di amicizia del presidente Gronchi in Brasile (4-13 settembre 1958).

Ma gravi ostacoli di politica interna si pararono presto contro l'attività, iniziata con tanto fervore e slancio, del governo Fanfani. Un grave scandalo finanziario (il cosiddetto "caso Giuffrè") mise a dura prova la collaborazione fra le varie correnti interne della DC e fra i due partiti del governo. La sedizione dell'on. S. Milazzo in Sicilia (25 ottobre) dimostrò fino a che punto erano giunti i contrasti interni nella democrazia cristiana: fu necessario oltre un anno di difficili battaglie nel Parlamento dell'isola per estromettere il ribelle - diventato capo del partito cristiano-sociale e capo di una maggioranza eterogenea - dal governo regionale. Una serie di manifestazioni di dissidenza parlamentare - i cosiddetti "franchi tiratori", di incerta origine e provenienza - finì presto per paralizzare l'attività del ministero Fanfani. Fra il novembre e il dicembre del 1958, il governo fu battuto per tre volte consecutive su provvedimenti presentati al giudizio delle Camere.

Gli echi della successione al trono pontificale (con l'avvento di Giovanni XXIII, il 28 ottobre 1958) accentuarono il dibattito nelle file del mondo cattolico. Da molte parti si ebbe l'impressione che il Pontificato tendesse ora ad accentuare la separazione dalle cose italiane; si parlò di "Tevere più largo". La tensione e l'impegno, cui l'on. Fanfani sottoponeva governo e partito, non sembravano i più adatti a conciliarsi col desiderio di tregua che da varî settori avanzava.

Sullo scorcio del 1958, il presidente del Consiglio aveva subordinato l'avvenire del suo governo a tre scadenze congressuali: le assise nazionali del PLI, del PRI e del PSI. Ma il congresso nazionale del PLI (nel dicembre a Roma) confermò la precedente linea di opposizione. Il congresso repubblicano (nel novembre a Firenze) approfondì il distacco del PRI da ogni responsabilità, diretta o indiretta, di governo. Quanto al congresso socialista a Napoli (gennaio 1959), i suoi riflessi furono fatali per il gabinetto Fanfani. Non solo i socialisti negarono la minima apertura di credito al governo, ma favorirono in tutti i modi una politica di pressione sulla socialdemocrazia che si tradusse nell'uscita dal PSDI del gruppo facente capo all'on. Matteotti e forte di cinque deputati (fra cui un ministro in carica, Vigorelli).

Dopo la secessione socialdemocratica, il governo di centro-sinistra veniva a mancare anche della maggioranza numerica. Il 26 gennaio 1959, l'on. Fanfani rassegnava le dimissioni del governo; ma la crisi si allargava, il 31 dello stesso mese, con l'improvviso ritiro dello stesso Fanfani dalla segreteria del partito, motivato da aspri contrasti interni del partito, in seguito ai quali la stessa corrente di maggioranza si divise.

Un tentativo del presidente della Repubblica di indurre l'on. Fanfani a presentarsi di nuovo al Parlamento non ebbe successo. Occorreva un governo di tregua. A guidarlo fu chiamato uno dei leaders della DC che godeva di maggiore prestigio nel partito e che era stato vicepresidente del Consiglio nel gabinetto Fanfani, Antonio Segni.

Il governo Segni (che passò con una larga maggioranza alla Camera e al Senato) fu costituito dalla sola DC e poté contare sulla benevole attesa di una parte del centro (i liberali) e sull'appoggio dei gruppi di destra (il MSI e i monarchici, ora riunificati in un solo partito, il Partito democratico italiano). Il programma Segni non si discostò troppo da quello del governo Fanfani. Tutte le correnti della DC trovarono adeguata rappresentanza nel suo seno. Il ritorno di Pella agli Esteri sancì la riconferma della linea politica atlantica. Una particolare nota di amicizia italo-francese fu portata dalla visita del generale De Gaulle in Italia (21-25 giugno 1959), in occasione del centenario delle gloriose battaglie franco-sarde del Risorgimento. A fianco della politica tradizionale atlantica, si accentuava il proposito di dare all'Italia una parte nel processo di "distensione" fra Est ed Ovest: come dimostrò il viaggio effettuato dal presidente Gronchi a Mosca dal 6 all'11 febbraio 1960, nel corso del quale non mancarono - abilmente rintuzzate dal capo dello Stato italiano - talune aspre note polemiche da parte di N. Chruščëv.

Perdurava, tuttavia, e anzi si accentuava nel corso dell'anno la crisi interna della DC. Dopo che il Consiglio nazionale del partito aveva accettato le dimissioni di Fanfani dalla segreteria (17 marzo 1959), la battaglia delle correnti di sinistra cattolica riprese. Lo stesso Fanfani tornò a partecipare attivamente alle lotte interne del partito, in vista del congresso nazionale della DC (tenutosi a Firenze dal 23 al 28 ottobre 1959).

Il nuovo segretario della DC, on. A. Moro (succeduto a Fanfani alla fine del marzo 1959), riuscì a conseguire nel congresso una stretta maggioranza sulle opposizioni interne capeggiate da Fanfani; e ciò grazie all'aiuto della corrente "Primavera" organizzata e guidata dall'on. Andreotti e del gruppo "Centrismo popolare" che faceva capo all'on. Scelba. Ma fu una vittoria non sicura e non definitiva. Il graduale logoramento del "monocolore Segni" favorì la ripresa dei contrasti per una scelta definitiva della DC fra politica e alleanze di centro-destra o di centro-sinistra. Quando il Consiglio nazionale del partito liberale decise di ritirare l'appoggio parlamentare al gabinetto Segni (21 febbraio 1960), la struttura del ministero era già notevolmente indebolita, il suo vigore attenuato. Con la caduta del gabinetto Segni, si apriva una delle più difficili e tormentate crisi del dopoguerra: crisi risolta, dopo varî tentativi sfortunati (incarico a Segni, governo monocolore Tambroni, esperimento Fanfani per il centro-sinistra), col rinvio alle Camere del gabinetto Tambroni con un programma puramente amministrativo. La legislatura nata dal 25 maggio 1958 non riusciva a sciogliere i suoi problemi. Lo provarono i drammatici fatti del luglio 1960 in seguito al congresso del Movimento sociale italiano che si sarebbe dovuto tenere a Genova. Si ebbero sanguinose dimostrazioni, oltre che a Genova, a Roma e a Reggio Emilia, con ripercussioni in Sicilia. La lotta politica italiana rischiò di radicalizzarsi con conseguenze gravi per l'equilibrio non solo del Parlamento ma anche del paese. Il ritorno alla solidarietà democratica apparve come il solo riparo a più gravi minacce. Con alto senso di responsabilità, i gruppi di democrazia laica decisero di far convergere i loro suffragi su un governo monocolore democristiano presieduto da Amintore Fanfani, tale da offrire - per la sua composizione e la sua struttura - tutte le necessarie garanzie per le forze che si riconoscevano in una comune ispirazione costituzionale (al di fuori dei naturali dissensi programmatici).

Il ritorno alle convergenze democratiche segnato dal governo Fanfani fu confermato dalle elezioni amministrative svoltesi il 6 novembre 1960 (in 7844 comuni, pari al 97,7% del totale). La Democrazia cristiana riuscì a salvaguardare sostanzialmente le sue posizioni: passando, in percentuale, dal 38,9% delle provinciali del 1956 al 40,3 (con una diminuzione solo sulle politiche del 1958, dove aveva toccato il 42,4). La socialdemocrazia, esposta a una prova particolarmente difficile, registrò un miglioramento rispetto alle politiche del 1958: dal 4,7 al 5,7%. Anche i liberali guadagnarono sulle politiche precedenti, passando dal 3,4 al 4%. Stabili le posizioni dei repubblicani, presenti solo in una parte dei collegi: dall'1,4% del 1958 all'1,3 di oggi. A destra, il Movimento sociale italiano realizzò un incremento a danno dei monarchici, del Partito democratico italiano (dal 4,6% del 1958 al 5,9). A sinistra, il Partito socialista italiano riuscì con fatica a conservare le sue posizioni (nelle provinciali, il 14,4% rispetto al 14,7 delle politiche del 1958; nelle comunali, qualche lieve vantaggio). I comunisti, al contrario, segnarono un progresso (in percentuale, e sia pur tenendo conto del minor numero di elettori rispetto alle elezioni politiche del 1958, il 24,5% contro il 23% ottenuto due anni prima). I risultati elettorali confermarono la necessità per la democrazia italiana di continuare la sua battaglia: una battaglia che assumeva un particolare significato e valore all'alba del 1961, anno centenario dell'unità d'Italia.

Presidenti della repubblica. - Luigi Einaudi (11 maggio 1948-25 aprile 1955); Giovanni Gronchi (dal 29 aprile 1955).

Legislature del Parlamento. - I Legislatura (8 maggio 1948-25 giugno 1953).

Senato: presidente: Bonomi Ivanoe (8 maggio 1948- m. 20 aprile 1951); De Nicola Enrico (28 aprile 1951- dimiss. 17 giugno 1952); Paratore Giuseppe (26 giugno 1952- dimiss. 24 marzo 1953); Ruini Meuccio (25 marzo 1953-7 giugno 1953); vicepresidenti: v. App. II, 11, p. 106.

Camera dei deputati: v. App. II, 11, p. 106.

II Legislatura (25 giugno 1953-12 giugno 1958).

Senato: presidente, Merzagora Cesare; vicepresidenti, De Pietro Michele, Bo Giorgio, Molè Enrico, Scoccimarro Mauro.

Camera dei deputati: presidente, Gronchi Giovanni (sino al 29 aprile 1955), Leone Giovanni (dal 10 maggio 1955); vicepresidenti: Leone Giovanni, Targetti Ferdinando, D'Onofrio Edoardo, Macrelli Cino, Rapelli Giuseppe (successo all'on. Leone).

III Legislatura (dal giugno 1958).

Senato: presidente, Merzagora Cesare; vicepresidenti, Ceschi Stanislao, Bosco Giacinto (sino al 26 luglio 1960), Scoccimarro Mauro, Tibaldi Ettore.

Camera dei deputati: presidente, Leone Giovanni; vicepresidenti, Bucciarelli Ducci Brunetto, Rossi Paolo, Targetti Ferdinando, Li Causi Girolamo.

Elenco dei ministeri dal 24 maggio 1948 (App. II, 11, p. 106). -

1. - (24 maggio 1949-14 gennaio 1950): presidente e, ad int., Africa italiana, De Gasperi Alcide; vicepresidente e marina mercantile, Saragat Giuseppe (dimissionario il 7 novembre 1949); vicepresidenti, senza portafoglio, Piccioni Attilio; Giovanni Porzio; senza portafoglio, Tremelloni Roberto (vicepresidente del C.I.R. e del C.I.R.-E.R.P., dimissionario il 7 novembre 1949); Giovannini Alberto; esteri, Sforza Carlo; interni, Scelba Mario; grama e giustizia, Grassi Giuseppe (deceduto il 25 gennaio 1950); finanze, Vanoni Ezio; tesoro e, ad int., bilancio, Pella Giuseppe; difesa, Pacciardi Randolfo; pubblica istruzione, Gonella Guido; lavori pubblici, Tupini Umberto; agricoltura e foreste, Segni Antonio; trasporti e, dal 7 novembre 1949, int. della marina mercantile, Corbellini Guido; poste e telecomunicazioni, Jervolino Angelo Raffaele; industria e commercio, Lombardo Ivan Matteo (dimissionario il 7 novembre 1949); Bertone Giovambattista (ad int. dal 7 novembre 1949); lavoro e previdenza sociale, Fanfani Amintore; commercio estero, Merzagora Cesare (dimissionario il 10 aprile I949); Bertone Giovambattista (dal 1° aprile 1949).

2. - (27 gennaio 1950-19 luglio 1951): presidente e, ad int., Africa italiana, De Gasperi Alcide; senza portafoglio, Campilli Pietro (dal 5 aprile 1951 ai trasporti); La Malfa Ugo (dal 5 aprile 1951 al commercio estero); Petrilli Raffaele Pio (dal 5 aprile 1951 alla marina mercantile); esteri, Sforza Carlo; interni, Scelba Mario; grazia e giustizia, Piccioni Attilio;finanze, Vanoni Ezio; tesoro e, ad int., bilancio, Pella Giuseppe; difesa, Pacciardi Randolfo; pubblica istruzione, Gonella Guido; lavori pubblici, Aldisio Salvatore; agricoltura e foreste, Segni Antonio; trasporti, D'Aragona Ludovico (dimissionario il 5 aprile 1951); Campilli Pietro; poste e telecomunicazioni, Spataro Giuseppe; industria e commercio, Togni Giuseppe; lavoro e previdenza sociale, Marazza Achille; commercio estero, Lombardo Ivan Matteo (dimissionario il 5 aprile 1951); La Malfa Ugo; marina mercantile, Simonini Alberto (dimissionario il 5 aprile 1951); Petrilli Raffaele Pio.

3. - (26 luglio 1951-7 luglio 1953): presidente, esteri e, ad int., Africa italiana, De Gasperi Alcide; vicepresidente, senza portafoglio, Piccioni Attilio; senza portafoglio, Sforza Carlo (deceduto il 4 settembre 1952); interni, Scelba Mario; grazia e giustizia, Zoli Adone; bilancio, Pella Giuseppe; finanze, Vanoni Ezio; tesoro, id. id. ad int. sino al 2 febbraio 1952, quindi, ad int., Pella Giuseppe; difesa, Pacciardi Randolfo; pubblica istruzione, Segni Antonio; lavori pubblici, Aldisio Salvatore; agricoltura e foreste, Fanfani Amintore; trasporti, Malvestiti Piero; poste e telecomunicazioni, Spataro Giuseppe (esercita le funzioni di ministro degli interni dall'11 luglio al 18 settembre 1952 durante la malattia dell'on. Scelba); industria e commercio, Campilli Pietro; lavoro e previdenza sociale, Rubinacci Leopoldo; commercio estero, La Malfa Ugo; marina mercantile, Cappa Paolo.

4. - (16 luglio 1953-2 agosto 1953): presidente e esteri, De Gasperi Alcide; vicepresidente, senza portafoglio, Piccioni Attilio; senza portajoglio (per la Cassa del Mezzogiorno), Campilli Pietro; interni, Fanfani Amintore; grazia e giustizia, Gonella Guido; bilancio e, ad int., tesoro, Pella Giuseppe; finanze, Vanoni Ezio; difesa, Codacci Pisanelli Giuseppe; pubblica istruzione, Bettiol Giuseppe; lavori pubblici, Spataro Giuseppe; agricoltura e foreste, Salomone Rocco; trasporti, Togni Giuseppe; poste e telecomunicazioni, Merlin Umberto; industria e commercio, Gava Silvio; lavoro e previdenza sociale, Rubinacci Leopoldo; commercio estero, Taviani Paolo Emilio; marina mercantile, Mattarella Bernardo.

5.- (17 agosto 1953-12 gennaio 1954): presidente, esteri, bilancio, Pella Giuseppe; senza portafoglio, Campilli Pietro (Cassa del Mezzogiorno); Scoca Salvatore (riforma della burocrazia); interni, Fanfani Amintore; grazia e giustizia, Azara Antonio; finanze, Vanoni Ezio; tesoro, Gava Silvio; difesa, Taviani Paolo Emilio; pubblica istruzione, Segni Antonio; lavori pubblici, Merlin Umberto; agricoltura e foreste, Salomone Rocco; trasporti, Mattarella Bernardo; poste e telecomunicazioni, Panetti Modesto; industria e commercio, Malvestiti Piero; lavoro e previdenza sociale, Rubinacci Leopoldo; commercio estero, Bresciani Turroni Costantino; marina mercantile, Tambroni Fernando.

6. - (18 gennaio-8 febbraio 1954): presidente, Fanfani Amintore, senza portafoglio, Campilli Pietro (Cassa del Mezzogiorno); Tupini Umberto (riforma burocrazia); esteri, Piccioni Attilio; interni, Andreotti Giulio; grazia e giustizia, De Pietro Michele; bilancio, Vanoni Ezio, finanze, Zoli Adone; tesoro, Gava Silvio; difesa, Taviani Paolo Emilio; pubblica istruzione, Tosato Egidio; lavori pubblici, Merlin Umberto; agricoltura e foreste, Medici Giuseppe; trasporti, Mattarella Bernardo; poste e telecomunicazioni, Cassiani Gennaro; industria e commercio, Aldisio Salvatore; lavoro e previdenza sociale, Gui Luigi; commercio estero, Dell'Amore Giordano; marina mercantile, Tambroni Fernando.

7. - (10 febbraio 1954-2 luglio 1955): presidente e interni, Scelba Mario; vicepresidente, Saragat Giuseppe; senza portafoglio, Campilli Pietro (Cassa del Mezzogiorno); Tupini Umberto (riforma burocrazia); Ponti Giovanni (turismo e spettacolo); De Caro Raffaele (rapporti col Parlamento); esteri, Piccioni Attilio (dimissionario il 19 settembre 1954); Martino Gaetano; grazia e giustizia, De Pietro Michele; bilancio, Vanoni Ezio; finanze, Tremelloni Roberto; tesoro, Gava Silvio; difesa, Taviani Paolo Emilio; pubblica istruzione, Martino Gaetano (sino al 19 settembre 1954); Ermini Giuseppe; lavori pubblici, Romita Giuseppe; agricoltura e foreste, Medici Giuseppe; trasporti, Mattarella Bernardo; poste e telecomunicazioni, Cassiani Gennaro; industria e commercio, villabruna Bruno; lavoro e previdenza sociale, Vigorelli Ezio; commercio estero, Martinelli Mario; marina mercantile, Tambroni Fernando.

8.- (2 luglio 1955-19 maggio 1957): presidente, Segni Antonio; vicepresidente, Saragat Giuseppe; senza portafoglio, Campilli Pietro (Cassa del Mezzogiorno); Gonella Guido (riforma burocrazia); De Caro Raffaele (rapporti col Parlamento); esteri, Martino Gaetano; interni, Tambroni Fernando; grazia e giustizia, Moro Aldo; bilancio, Vanoni Ezio (deceduto il 16 febbraio 1956); Zoli Adone;finanze, Andreotti Giulio; tesoro, Gava Silvio (dimissionario il 30 gennaio 1956); ad int. vanoni Ezio e, quindi, Medici Giuseppe; difesa, Taviani Paolo Emilio; pubblica istruzione, Rossi Paolo; lavori pubblici, Romita Giuseppe; agricoltura e foreste, Colombo Emilio; trasporti, Angelini Armando; poste e telecomunicazioni, Braschi Giovanni; industria e commercio, Cortese Guido; lavoro e previdenza sociale, Vigorelli Ezio; commercio estero, Mattarella Bernardo; marina mercantile, Cassiani Gennaro; partecipazioni statali (dicastero istituito con legge 22 dicembre 1956), Togni Giuseppe.

9. - (19 maggio 1957-1° luglio 1958): presidente, Zoli Adone; vicepresidente e ministro degli esteri, Pella Giuseppe; senza portafoglio, Campilli Pietro (Cassa del Mezzogiorno); Del Bo Rinaldo (rapporti col Parlamento); Zotta Mario (riforma burocrazia); interni, Tambroni Fernando; grazia e giustizia (e coordinamento costituzionale), Gonella Guido; finanze, Andreotti Giulio; tesoro, Medici Giuseppe; difesa, Taviani Paolo Emilio; pubblica istruzione, Moro Aldo; lavori pubblici, Togni Giuseppe; agricoltura e foreste, Colombo Emilio; trasporti, Angelini Armando; poste e telecomunicazioni, Mattarella Bernardo; industria e commercio, Gava Silvio; lavoro e previdenza sociale, Gui Luigi; commercio estero, Carli Guido; marina mercantile, Cassiani Gennaro; partecipazioni statali, Bo Giorgio.

10. - (1° luglio 1958-16 febbraio 1959): presidente e esteri, Fanfani Amintore; vicepresidente e difesa, Segni Antonio; senza portafoglio, Pastore Giulio (Cassa del Mezzogiorno e zone depresse); Giardina Camillo (riforma burocrazia); Del Bo Rinaldo (rapporti col Parlamento); interni, Tambroni Fernando; grazia e giustizia, Gonella Guido; bilancio, Medici Giuseppe; finanze, Preti Luigi; tesoro, Andreotti Giulio; pubblica istrumone, Moro Aldo; lavori pubblici, Togni Giuseppe; agricoltura e foreste, Ferrari-Aggradi Mario; trasporti, Angelini Armando; poste e telecomunicazioni, Simonini Alberto; industria e commercio, Bo Giorgio; lavoro e previdenza sociale, Vigorelli Ezio; commercio estero, Colombo Emilio; marina mercantile, Spataro Giuseppe; partecipazioni statali, Lami Starnuti Edgardo; igiene e sanità (dicastero istituito con legge 13 marzo 1958), Monaldi Vincenzo.

11. - (16 febbraio 1959-25 marzo 1960): presidente e interni, Segni Antonio; senza portajoglio, Tupini Umberto (turismo e sport); Pastore Giulio (Cassa del Mezzogiorno); Bo Giorgio (riforma burocrazia); Bettiol Giuseppe (rapporti col Parlamento); esteri, Pella Giuseppe; grazia e giustizia, Gonella Guido; bilancio e, ad int., tesoro, Tambroni Fernando; finanze, Taviani Paolo Emilio; difesa, Andreotti Giulio; pubblica istruzione, Medici Giuseppe; lavori pubblici, Togni Giuseppe; agricoltura e foreste, Rumor Mariano; trasporti, Angelini Armando; poste e telecomunicazioni, Spataro Giuseppe; industria e commercio, Colombo Emilio; lavoro e previdenza sociale, Zaccagnini Emilio; commercio estero, Del Bo Rinaldo; marina mercantile, Jervolino Angelo Raffaele; partecipazioni statali, Ferrari-Aggradi Mario; igiene e sanità, Giardina Camillo.

12. - (25 marzo-26 luglio 1960): presidente e bilancio, Tambroni Fernando; senza portafoglio, Angelini Armando (rapporti col Parlamento); Pastore Giulio (Cassa per il Mezzogiorno), dimissionario l'8 aprile 1960; Bo Giorgio (riforma burocrazia), dimissionario il 9 aprile 1960; esteri, Segni Antonio; interni, Spataro Giuseppe; grazia e giustizia, Gonella Guido; finanze, Trabucchi Giuseppe; tesoro, Taviani Paolo Emilio; difesa, Andreotti Giulio; pubblica istruzione, Medici Giuseppe; lavori pubblici, Togni Giuseppe; agricoltura e foreste, Rumor Mariano; trasporti, Sullo Fiorentino (dimissionario il 9 aprile 1960); poste e telecomunicazioni, Maxia Antonio; industria e commercio, Colombo Emilio; lavoro e previdenza sociale, Zaccagnini Emilio; commercio estero, Martinelli Mario; partecipazioni statali e, dal 9 aprile, ad int. trasporti, Ferrari-Aggradi Mario; igiene e sanità, Giardina Camillo; turismo e spettacolo, Tupini Umberto.

13. - (dal 26 luglio 1960): presidente, Fanfani Amintore; vicepresidente, senza portafoglio, Piccioni Attilio; senza portafoglio, Codacci Pisanelli Giuseppe (rapporti col Parlamento); Tessitori Tiziano (riforma burocrazia); Pastore Giulio (cassa del Mezzogiorno e zone depresse); esteri, Segni Antonio; interni, Scelba Mario; grazia e giustizia, Gonella Guido; bilancio, Pella Giuseppe; finanze, Trabucchi Giuseppe; tesoro, Taviani Paolo Emilio; difesa, Andreotti Giulio; pubblica istruzione, Bosco Giacinto; lavori pubblici, Zaccagnini Benigno; agricoltura e foreste, Rumor Mariano; trasporti, Spataro Giuseppe; poste e telecomunicazioni, Spallino Lorenzo; industria e commercio, Colombo Emilio; lavoro e previdenza soaiale, Sullo Fiorentino; commercio estero, Martinelli Mario; marina mercantile, Jervolino Angelo Raffaele; partecipazioni statali, Bo Giorgio; igiene e sanità, Giardina Camillo; turismo e spettacolo, Folchi Alberto.

Bibl.: Questioni generali: C. A. Jemolo, Italia tormentata, 1946-1951. Saggi, Bari 1951; G. Fenoaltea, Il popolo sovrano. Realtà e illusioni della sovranità popolare in Italia, 1946-1958, Firenze 1958; Autori varî, Dieci anni dopo: 1945-1955, Saggi sulla vita democratica italiana, Bari 1955; G. Perticone, La formazione della classe politica nell'Italia contemporanea, Firenze 1954; F. Chabod, L'Italie contemporaine; conférence donnée à l'Institut d'études politiques de l'université de Paris, Parigi 1950; Autorî vari, Aspetti di vita italiana contemporanea, Bologna 1957; Autorî vari, I sindacati in Italia, Bari 1955; Autori varî: Stato e Chiesa, in Ulisse, ii, 1958, pp. 9-113; C. Falconi, La Chiesa e le organizzazioni cattoliche in Italia, 1945-1955; id., Discorsi politici, Roma 1956, 2 voll; L. Einaudi, Lo scrittoio del Presidente, 1948-1955, Torino 1956; G. Galli, La sinistra italiana nel dopoguerra, Bologna 1958.

Personalità politiche: P. Canali, A. De Gasperi nella politica estera italiana (1944-1953), Milano 1953; I. Giordani, Alcide De Gasperi, Milano-Verona 1955; G. Andreotti, De Gasperi e il suo tempo, Milano-Verona 1956; G. Vigorelli, Gronchi. Battaglie di oggi e di ieri, Firenze 1956; L. Bernardini, Vita di L. Einaudi, Padova 1954.

Elezioni: Presidenza del Consiglio dei Ministri, Le elezioni politiche: 1946, 1948, 1953. Roma 1958; E. Caranti, Sociologia e statistica delle elezioni italiane del dopoguerra, Roma 1954; A. C. Jemolo, La politica dei partiti nelle elezioni del '53, Parma 1953; F. Compagna e V. De Caprariis, Geografia delle elezioni italiane dal 1946 al 1953, Bologna 1954; id., Geografia delle elezioni italiane del 25 maggio 1958, in Nord e Sud, V (1958), 46, pp. 6-27.

Problemi del Mezzogiorno: F. Compagna, La lotta politica italiana nel secondo dopoguerra e il Mezzogiorno, Bari 1950; id., Labirinto meridionale. Cultura e politica nel Mezzogiorno, Venezia 1955; id., Il terrone in città, Bari 1959; M. Rossi-Doria, Dieci anni di politica agraria nel Mezzogiorno, Bari 1958; G. Salvemini, Scritti sulla questione meridionale 1895-1955, Torino 1955; C. Rodanò, Mezzogiorno e sviluppo economico, Bari 1954; R. Musatti, La via del Sud, Milano 1955 (v. inoltre mezzogiorno, in questa Appendice).

Partiti: M. Vinciguerra, I partiti politici italiani dal 1948 al 1955, Roma 1955; G. Galli, Storia del Partito Comunista Italiano, Milano 1958; F. Magri, La democrazia cristiana in Italia, 2 voll., Milano 1954-55 (in part. il vol. 2°). Cfr. inoltre i seguenti volumi della collezione "Storia e funzione dei partiti in Italia", Milano 1958; V. G. Galati, La democrazia cristiana: A. Giovannini, Il partito liberale italiano; P. Togliatti, Il partito comunista italiano; L. Basso, Il partito socialista italiano; G. Almirante - F. Palamenghi Crispi, Il movimento sociale italiano; C. Degli Occhi - P. Operti, Il partito nazionale monarchico.

Politica estera: C. Sforza, Cinque anni a Palazzo Chigi. La politica estera italiana dal 1947 al 1951, Roma 1952; A. Tarchiani, Dieci anni tra Roma e Washington, Milano-Verona 1955.

Letteratura.

Il mutamento più sensibile che il panorama letterario dell'ultimo decennio presenta rispetto a quello precedente riguarda la poesia. L'ermetismo che allora, pur mostrando di essere prossimo ad esaurire il suo ciclo, teneva tuttavia il campo, ora lo ha ceduto alle esperienze o esperimenti della giovane generazione poetica (la cosiddetta "quarta generazione"): la quale è mossa da quella esigenza di nuovi contenuti e nuove forme, aderenti alla condizione umana e sociale d'oggi, che, in fatto di narrativa, fin dall'immediato dopoguerra aveva trovato, o creduto di trovare, il suo sbocco nel neorealismo. Ma neorealistico non può dirsi, a rigore, codesto sperimentalismo poetico post-ermetico, perché quell'interesse per la vita di relazione, per il "dialogo" (in contrapposto all'isolamento individualistico dell'ermetismo), e quindi per un linguaggio che sia anzitutto "comunicazione", si è venuto sviluppando in più direzioni: da quella realistico-sociale, o populistica e marxista, inclinante al "documento" o alla "denuncia"; alla "protesta" (ed è la sola cui tale definizione potrebbe attagliarsi), a quella mistico-religiosa, sia a fondo cattolico, sia non confessionale. E sebbene qualcuna di queste direzioni, ed in particolare la prima, abbia assunto un atteggiamento fortemente polemico nei confronti dell'ermetismo, fino ad asserire di prescinderne del tutto, in effetti l'eredità ermetica è avvertibile in essa non meno che in quelle che, come la mistico-religiosa, ne riconoscono invece il valore e la portata. Cosa ben naturale, in quanto l'ermetismo (v. App. II, 1, p. 870), considerato nell'insieme dei suoi elementi rinnovatori del linguaggio e del gusto tradizionali, rappresenta un momento di singolare importanza nella storia della cultura italiana, col quale non si può, in un modo o nell'altro, non fare i conti.

Comunque, per diverse o contrastanti che siano le loro prese di posizione, i poeti post-ermetici appaiono uniti nell'impegno di uscire dall'analogismo rarefatto, dal soggettivismo visionario e magico, per tendere a una poesia che, restaurando i nessi logici e sintattici, sia come la risoluzione del verticalismo lirico dei loro predecessori nella orizzontalità e continuità di un "discorso" che, senza dimenticare le ragioni non pur del ritmo ma del canto, descriva e narri. Uno svolgimento, questo, già iniziato o tentato, certo, dai maggiori esponenti dell'ermetismo, dall'Ungaretti del Dolore al Montale più recente, al Quasimodo, soprattutto, di Giorno dopo giorno, La vita non è sogno, La terra impareggiabile; e già in atto in quei poeti della "terza" generazione, da Mario Luzi a Giorgio Caproni, da Alessandro Parronchi a Vittorio Sereni, a Vittorio Bodini, che originariamente più hanno risentito dell'ermetismo. Ma è uno svolgimento che i più giovani mirano a condurre assai oltre, articolando quel discorso in forme di poemetto o addirittura di racconto poetico, fuori d'ogni soggezione, anzi in piena ribellione al principio estetico, dominante fino a tutto l'ermetismo, secondo cui la poesia s'identificherebbe col solo genere lirico. (Donde il loro guardare con simpatia ai crepuscolari, o al Pavese di Lavorare stanca, certo più narratore che lirico, o lirico-narratore). Impegno senza dubbio difficile, perché non è agevole accordare in intima unità le suggestioni della cronaca ed i lieviti della memoria: di quella memoria redentrice d'ogni immediatezza, che è una delle più preziose conquiste (o riconquiste) dell'ermetismo. La stessa spinta verso un linguaggio dimesso, "parlato", d'altronde necessario ad un tale discorso ad un tono che vuol essere medio o basso, porta con sé l'insidia della prosa, il pericolo di uno "stile da traduzione". Così come, per quel cimentarsi su motivi affini, o tentare le stesse note, le voci della nuova poesia finiscono spesso col confondersi nella impersonalità di un coro. Ma è anche vero che alcune già spiccano, nitide, fra le altre (come quelle di Franco Matacotta, Margherita Guidacci, Elio Filippo Accrocca, Biagia Marniti, Vittore Fiore, Maria Luisa Spaziani, Luciano Luisi, Paolo Volponi, Andrea Zanzotto), con una individualità che in qualche caso (Rocco Scotellaro, Pier Paolo Pasolini, Franco Fortini) ha caratteristiche e doti di autentica personalità, manifestantesi anche in altri campi da quello poetico: narrativo, critico, saggistico.

Quanto alla narrativa, delle due principali tendenze in cui, subito dopo la guerra, appariva diviso il neorealismo: quella memorialistica, che per i suoi legami con la "prosa d'arte" e con l'"aura poetica" degli scrittori evocativi conservava, pur nelle forme più crude, un fondo lirico (Vittorini, Pavese); e quella morale o moralistica, di critica o satira della società e del costume, e però aliena da ogni lirismo (Moravia, Brancati); è quest'ultima che con gli anni ha preso il sopravvento, specialmente ad opera degli scrittori delle nuove generazioni, nei quali assai vive sono le istanze sociali, spesso coincidenti (come abbiamo visto per i poeti) con determinate ideologie politiche.

Essi sono venuti per lo più concentrando la loro attenzione sui ceti e gli ambienti popolari o addirittura sugli squallidi agglomerati umani alla periferia delle grandi città, sul sottoproletariato delle borgate: la cui esistenza, dominata dagli istinti, spesso i più violenti, ritraggono con una oggettività estrema, da angoli visuali a livello dei personaggi, anzi dei parlanti (la narrazione è frequente di dialoghi, quasi "drammatica"); e talora (come nel Pasolini) con una mimesi spinta fino all'adozione del dialetto o del gergo. Nella quale, peraltro, insieme con la trasformazione o degenerazione del neorealismo in neopositivismo, è da vedere un residuo del gusto decadente per il risalto e il giuoco verbale (alla parola eletta viene sostituita la "parolaccia", non meno preziosa come suono). Una nuova retorica s'insinua pertanto nelle nuove tematiche e problematiche; mentre la sperimentazione delle tecniche più elaborate e raffinate non riesce a dissimulare, in molti casi, l'inadeguatezza del respiro narrativo alla misura del romanzo, confermandosi quella del racconto (sia pure "lungo") la più idonea ai nostri scrittori. Tuttavia, da questa fase di ricerca, e di trapasso, appaiono ormai affrancati parecchi dei nuovi narratori, più o meno giovani; e con una tale sicurezza o felicità di modi, da collocarsi, nel quadro della letteratura contemporanea, nei primi piani: da Carlo Cassola a Natalia Ginzburg, da Italo Calvino a Lalla Romano, da Giorgio Bassani a Giovanni Arpino, da Beppe Fenoglio a Giovanni Testori, da Domenico Rea a Michele Prisco, da Carlo Montella a Leonardo Sciascia, da Laudomia Bonanni a Dante Troisi, da Giuseppe Berto a Mario Pomilio, da Nello Sàito a Renzo Rosso. (Né va dimenticato, benché sia morto in età giovanissima, Silvio D'Arzo [pseudonimo di Ezio Comparoni, 1920-1952], soprattutto per il bellissimo racconto Casa d'altri).

Ciò non toglie che i risultati artisticamente più validi dell'ultimo decennio vadano cercati fra i narratori della generazione "di mezzo" rivelatisi, o già affermatisi - ad eccezione di Carlo Levi - nel decennio precedente al secondo conflitto mondiale; e che, precorritori dell'una o dell'altra tendenza del neorealismo, o non appartenenti a nessuna di esse in quanto si riallacciano alle varie esperienze del periodo fra le due guerre, non si sono lasciati tentare dalle mode, ma hanno serbato fedeltà alla propria natura e al proprio mondo, solo badando a chiarirlo o scavarlo.

Vanno cercati, cioè, oltre che nel citato Levi (che al famoso Cristo si è fermato a Eboli ha fatto degnamente seguire L'orologio, Le parole sono pietre, ecc.), in Alberto Moravia, che soprattutto nei racconti, brevi o lunghi come La disubbidienza, ha mostrato di saper spingere in profondità quell'analisi psicologica che altrove, nei romanzi propriamente detti (Il conformista, La noia, ecc.), rimane sopraffatta dalla macchinosità dell'"imbroglio" o dall'astrattezza delle ideologie; in Elio Vittorini, che nelle Donne di Messina e, più, nella Garibaldina, ha saputo darci, di quel suo mondo "offeso", rappresentazioni non pur corali ma, a momenti, epiche, come di una umanità veduta in una luce di primordî; in Vasco Pratolini, impegnato a estendere le sue "cronache" dall'ambito familiare e fiorentino a quello della vita italiana di questo secolo (Metello, Lo scialo), e a conciliare - non senza sforzi - per entro la nuova dimensione i due modi fondamentali della sua narrativa: quello della memoria lirica e l'altro di un realismo fra disincantato e toscanamente risentito; in Mario Soldati, che dai racconti di A cena col commendatore in poi ha rivelato una nuova vitalità della sua arte a mezzo fra moralismo e fumisteria; in Giuseppe Dessì, in Mario Tobino, in Elsa Morante, autori di racconti o romanzi fra i più ricchi di poesia, quali, rispettivamente, Isola dell'angelo, Le libere donne di Magliano, L'isola di Arturo; e ancora in P.A. Quarantotti Gambini, Dino Buzzati, Tommaso Landolfi, Alessandro Bonsanti, Antonio Delfini, Libero Bigiaretti, Guglielmo Petroni, Carlo Bernari, Mario La Cava, Enrico Emanuelli, Ercole Patti, Ennio Flaiano, Giuseppe Marotta, Ugo Facco De Lagarda. E vanno altresì cercati negli scrittori più anziani (di curriculum se non sempre d'età), che, formatisi o maturati fra La Voce e La Ronda, sono saggisti oltre che narratori, e al racconto o al romanzo alternano il viaggio, il diario, l'idillio, la "prosa d'arte" insomma: da Bonaventura Tecchi (che nel recente romanzo Gli egoisti ha dato una prova d'alto impegno) a Giani Stuparich, da Giovanni Comisso a Luigi Bartolini, da G. B. Angioletti a Gianna Manzini, da Anna Banti a Nicola Lisi, da Giuseppe Raimondi a Carlo Emilio Gadda, dal vigolo di Le notti romane al Bacchelli dei Tre schiavi di Giulio Cesare al Palazzeschi dei Fratelli Cuccoli e di Bestie del '900. (Ai quali è da aggiungere, ma ponendolo in primissima linea, l'autore - inedito in vita - del Gattopardo, Giuseppe Tomasi di Lampedusa). E sono infine da ricordare quegli scrittori, la cui scomparsa è stata particolarmente avvertita dalla giovane narrativa, che guardava a loro come a "guide" o, per i più anziani, a maestri: Enrico Pea, che negli ultimi racconti ha ancora intense vibrazioni liriche; Corrado Alvaro, che nei suoi diarî, pubblicati in parte postumi, ci ha lasciato pagine tra le sue più incisive, e suggestive; Cesare Pavese, che in una forma di racconto lungo o romanzo breve, mista di realismo e di lirismo - Prima che il gallo canti, La bella estate, La luna e i falò - era giunto ad esprimere il dramma di una coscienza morale (e di una generazione) combattuta fra un generoso desiderio di partecipazione umana e sociale, di rinnovamento politico (echeggiano in lui i motivi della Resistenza), e un disperato senso di solitudine, o piuttosto un solipsismo di origine decadente; Vitaliano Brancati, che nel Bell'Antonio e in Paolo il caldo ha saputo cogliere, attraverso il suo umorismo sulfureo, le note più fonde, e drammatiche, della ossessione sessuale; Francesco Jovine, che, dopo Signora Ava, ha fornito, con Le terre del Sacramento, una delle prove migliori nel campo del romanzo, e non soltanto della cosiddetta "narrativa meridionale".

Un insieme di indubbia imponenza. Non altrettanto può dirsi, invece, a proposito del teatro: che, scomparso il suo maggiore rappresentante del dopoguerra, Ugo Betti, attraversa un periodo assai incerto, nel quale l'elemento "spettacolo" soverchia spesso quello artistico. Nondimeno, una drammaturgia ispirata ad un problemismo etico o religioso, ma tecnicamente accorta e aggiornata (qualche esempio ne ha dato Diego Fabbri), ed i tentativi, da parte di alcuni scrittori fra i più qualificati nell'ambito narrativo (come il Dessì, il Testori, il Flaiano, ecc.), di portare sulla scena dei racconti drammatici, di intonazione corale, e di carattere accentuatamente realistico o allusivo al costume e alla società d'oggi, sembrano far sperare in un nuovo corso, fertile di sorprese.

Critica (v. App. II, 1, p. 729). - Quanto alla critica, è da notare che la conoscenza dell'opera del Gramsci, e in particolare degli scritti di Letteratura e vita nazionale (1950), ha esercitato un largo influsso sulle giovani generazioni, aiutandole a ritrovare quel De Sanctis che il rondismo prima e poi l'ermetismo avevano accantonato o tacciato di moralismo e contenutismo: determinando così una certa convergenza fra le correnti marxiste e quelle storiciste, specie della sinistra crociana, che (con L. Russo e altri) già da molti anni aveva propugnato il ripensamento della grande lezione desanctisiana. Ma le prime non hanno dato finora risultati soddisfacenti sul piano propriamente critico, per l'intrinseca difficoltà a istituire mediazioni fra le strutture economico-sociali e l'opera d'arte, mentre si sono dimostrate feconde su quello teorico, contribuendo ad approfondire il concetto di realismo, in conformità o in dissenso con i postulati del Lukács (la cui opera si è diffusa in Italia dopo quella del Gramsci). Le correnti storiciste, invece, avendo da gran tempo superato la secca antitesidi poesia-non poesia, e preso a considerare il fatto artistico nel suo dialettico rapporto con l'ambiente le tradizioni di cultura e le condizioni della società cui appartiene, hanno continuato a dare frutti assai positivi. Così, una più larga conoscenza delle teorie e dei saggi dello Spitzer e dell'Auerbach è venuta ad imprimere un nuovo vigore a quello sviluppo della filologia e della linguistica in critica stilistica, che era già in corso da tempo, con intendimenti ora strumentali e sussidiarî rispetto alla critica integrale (quasi per una verifica o riprova dei giudizî di valore), ora invece di autosufficienza, ponendosi essa stessa come critica totale. Sviluppo senza dubbio di notevole importanza, nella storia della critica, ma che presenta anche i suoi pericoli, specie ove venga dimenticato il monito (di sapore crociano) dello Spitzer, che "per spiegare le particolarità stilistiche di uno scrittore non sia sufficiente muoversi sul terreno della lingua, o su quello della psicologia generale della lingua; ma si debba fare appello alle leggi interiori del suo mondo"; che, cioè, è "il contenuto spirituale del poeta a foggiare la forma dell'opera d'arte". E a tale dimenticanza va soprattutto soggetta la tendenza autonomista di codesta critica: nella quale, con discendenze ermetiche, che, nel loro culto della parola, conferiscono al suo tecnicismo un che di iniziatico, di magico, si mescolano, ma non si amalgamano, istanze marxiste e gramsciane, intese a determinare l'origine sociale delle forme e degli stili, delle scelte linguistiche e degli ordinamenti sintattici. D'altra parte questi ibridi incontri, queste prevaricazioni sono in rapporto con il profondo travaglio del pensiero estetico, e, più generalmente, dello spirito contemporaneo; e quindi con quella fase di sperimentalismo e di empirismo che, nell'ansia di un assestamento o di una risoluzione della crisi, caratterizza, come abbiamo visto, la nuova letteratura.

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Arti figurative.

Le aspirazioni europee che, dal futurismo in poi, avevano animato le correnti più vive dell'arte italiana hanno trovato, nel clima storico del dopoguerra, le condizioni più propizie al loro sviluppo. Questo è stato favorito non soltanto dall'intensificarsi degli scambî internazionali, ma anche dall'attività stimolante di una critica responsabile e informata, dalle mostre di maestri stranieri organizzate a Venezia dalla Biennale, a Roma dalla Galleria Nazionale d'Arte Moderna, a Milano e Torino da enti locali e, infine, dal rapido sviluppo, specialmente nell'Italia settentrionale, del collezionismo e di un attivo mercato artistico collegato con i maggiori centri europei e americani del commercio d'arte. L'arte contemporanea diventava anche materia di studio scientifico, specialmente nell'università di Roma, per merito di Lionello Venturi, mentre centri di ricerca e di studio per l'urbanistica e l'architettura moderne si formavano a Roma, principalmente per merito di Bruno Zevi, e a Milano. Saggi critici di notevole importanza sui movimenti artistici mondiali cominciavano ad apparire su riviste di storia dell'arte come Commentari, Paragone, Selearte, ecc., e di architettura, come Architettura e Casabella. Subito dopo la guerra, per impedire che l'arte italiana ricadesse nel basso accademismo e nel provincialismo ch'erano stati largamente favoriti dal fascismo, gli artisti che da tempo avevano orientato la loro ricerca in senso europeo si riunirono in un raggruppamento detto "Nuova Secessione Artistica". Vi aderirono uomini di formazione e indirizzo diversi, come i pittori R. Birolli, B. Cassinari, R. Guttuso, E. Morlotti, A. Pizzinato, G. Santomaso, E. Vedova e gli scultori Leoncillo e A. Viani. Il gruppo si allargò poi con il nome di "Fronte nuovo delle arti" e si presentò nel 1948, sostenuto da G. Marchiori, a quella memorabile Biennale di Venezia, che apparve come l'espressione di una nuova e piena partecipazione dell'Italia alla cultura artistica mondiale. Tra gli altri, vi aderirono i pittori A. Corpora e G. Turcato e gli scultori P. Fazzini e N. Franchina, mentre Cassinari aveva ritirato la sua adesione.

Nell'ambito del Fronte, che sosteneva la necessità di un'arte "impegnata" nella situazione storica e sociale ma non aveva un preciso programma formale, si delinearono subito due tendenze divergenti: una "realistica", facente capo a Guttuso e mirante soprattutto alla questione dei contenuti sociali e politici, ed una formalistica e nel complesso "astrattista", che poneva il problema di un rinnovamento profondo dei modi espressivi. Il "realismo socialista" che, oltre a Guttuso, ebbe i suoi principali rappresentanti in G. Zigaina, E. Treccani, G. Mucchi, A. Bergonzoni e, benché in posizione autonoma, Carlo Levi, si propose dapprima la sollecitazione diretta dei sentimenti popolari e il ritorno alle tradizioni nazionali", intese però come verismo concitato e polemico; più tardi, specialmente attraverso l'opera di R. Vespignani e di altri, si andò invece orientando verso un espressionismo amaramente critico nei confronti della società borghese. Le correnti cosiddette astrattiste, invece, si volsero alla ricerca di un rinnovamento strutturale della forma e quindi alla revisione della tradizione figurativa: senza rinunciare decisamente al programma di una presa di posizione morale (evidente soprattutto nel "ciclo della protesta" di Vedova), spostavano il problema sul piano dei valori e cioè del modo di configurarsi della realtà, naturale o storica, nelle forme dell'arte intese come forme della coscienza. Il gruppo degli "astrattisti" (benché il termine sia stato corretto in "astratto-concreti" per alludere alla presenza costante di un problema della realtà) espose alla Biennale del 1952, presentato da L. Venturi, col nome di "Otto pittori italiani". Il gruppo comprendeva Birolli, Corpora, Morlotti, Santomaso, Turcato, Vedova, Afro, M. Moreni; ma nella stessa linea programmatica rientravano anche scultori come Viani, Franchina, Mirco, P. Consagra, U. Mastroianni e altri. Anche nell'ambito degli "Otto", tuttavia, gli orientamenti tendono a divergere: nel senso di un approfondimento del "linguaggio" pittorico dall'impressionismo in poi con Birolli e Corpora, di un'accentuazione espressionistica del segno e della materia con Vedova, di una libera e più astratta ricerca formale con Afro e Turcato, di un ritorno all'emozione e al sentimento con Morlotti.

Parallelamente si sviluppa la ricerca dell'astrazione pura, che già prima della guerra era stata portata innanzi, per lo più in senso costruttivista, da E. Prampolini, A. Soldati, O. Licini, M. Reggiani, A. Magnelli, che ora vengono giustamente riconosciuti come precursori e maestri. Superato il tema costruttivistico dell'astrazione geometrica, le ricerche si diramano: G. Capogrossi, fino al 1949 pittore figurativo e tonale, evolve nella direzione di una pittura di segno, T. Scialoja si orienta verso una pittura di gesto, altri ancora, accostandosi ai modi dell'"Informel", puntano a una pittura di materia. A. Burri s'impone per l'originalità e la lucidità estrema delle sue composizioni ottenute con le più varie materie: sacchi, lamiere, legni e carte bruciate; L. Spazzapan, che aveva partecipato ai primi movimenti d'avanguardia, conclude la propria opera con una netta flessione verso l'astrattismo informale; L. Fontana, pittore e scultore, con altri artisti milanesi come G. Dova e R. Crippa, forma il gruppo detto degli "spazialisti"; artisti già figurativi, come F. Pirandello, M. Mafai, E. Paulucci e altri, evolvono anch'essi verso una semplificazione della visione che risolva nel segno e nel colore ogni elemento emotivo o narrativo.

Mentre i "maestri" della generazione precedente, come in pittura G. Morandi e in scultura M. Marini e G. Manzù, rimangono sostanzialmente legati ai temi iniziali del loro stile, ma approfondendo ed affinando i valori qualitativi, e la "generazione di mezzo" ormai nella piena maturità, si afferma anche fuori d'Italia, nuove correnti si delineano, essenzialmente rivolte allo sviluppo della tematica di immagine-materia. Sempre più frammentandosi, queste correnti tendono a mettere in evidenza, sullo sfondo di una situazione comune, le posizioni individuali. Ad eccezione di P. Dorazio, che affronta in termini quasi scientifici il problema dello spazio-superficie, e di M. De Luigi, che elabora un'identità spazio-luce, quasi tutti i "giovani" operano ora nel senso delle correnti europee e americane dell'"Informel", cioè dello studio dei valori di segno, gesto e materia: così, a Roma, A. Perilli; a Bologna, S. Vacchi, S. Romiti, V. Bendini e altri; a Spoleto, P. Raspi, G. De Gregorio, Marignoli e altri; a Milano, oltre E. Baj e S. Dangelo, fondatori del movimento "nucleare", C. Peverelli; a Genova, E. Scanavino, E. Carmi, G. Fasce; a Torino, P. Ruggeri, S. Saroni, G. Soffiantino. A Firenze, V. Berti, G. Nativi, A. Monnini, A. Moretti rielaborano invece temi costruttivisti e post-cubisti, cercando un'identità tra forma e materia. In direzione opposta una nuova tendenza realistica, ma intesa come riscoperta di una significazione d'immagine oltre l'astrattismo, si pronuncia, in pittura, con G. Guerreschi e F. Francese, in scultura con A. Perez. Dopo il primo gruppo di scultori "astratti", che fa capo a Consagra, Viani, Franchina, A. Calò, F. Garelli e altri e aveva avuto la sua prima affermazione nel 1947 con il gruppo "Forma", un chiaro indirizzo "informel" si nota nei più recenti sviluppi di Leoncillo e nei più giovani A. e G. Pomodoro, F. Somaini, C. Ramous, M. Negri.

Non dissimili sono gli sviluppi dell'architettura. Le correnti "razionaliste", così aspramente osteggiate durante il fascismo per i loro assunti sociali e il loro rapporto con le correnti europee, si affermano, dopo la guerra, specialmente a Milano. A Roma, invece, si sviluppa una tendenza "organica", fondata sulla ripresa della tematica formale di F. L. Wright. Gli stessi esponenti del primo "razionalismo" come F. Albini e I. Gardella, riconoscono la necessità di superare lo schematismo iniziale e aprono la loro ricerca a un funzionalismo meno condizionato al fattore geometrico. Il problema della ricostruzione delle città bombardate e della risposta a esigenze sociali impegna le due tendenze nella questione urbanistica: alla cui limpida impostazione teorica (ma spesso contrastata sul piano pratico) concorrono specialmente L. Piccinato, L. Quaroni, G. Astengo. Soluzioni notevoli, anche sul piano dei valori estetici, sono state raggiunte specialmente nei nuovi quartieri popolari dell'Ina-Casa mentre, al centro delle città, la sfrenata speculazione edilizia ha purtroppo spesso condotto alla rovina di ambienti storici e al sorgere di edifici falsamente moderni. Risultati notevoli sono stati raggiunti, nel campo degli edifici pubblici, con la Stazione Termini di Roma; nel campo dell'edilizia industriale con i complessi della Società Olivetti a Ivrea e a Pozzuoli; nel campo dell'edilizia privata da Albini, Gardella, E. N. Rogers, L. Barbiano di Belgioioso, E. Peressutti, Scarpa, L. Moretti, M. Ridolfi, L. Cosenza, G. Samonà e altri. Una grande affermazione, non solo nel campo strutturale ma in quello dei valori, è stata, anche fuori d'Italia, quella di P. L. Nervi.

Benché non sostenuta dal necessario apparato didattico, la questione del "disegno industriale" ha avuto, anche in Italia, sviluppi notevoli, raggiungendo in taluni casi risultati validi sul piano internazionale: le carrozzerie di automobili di Pinin Farina o le macchine da scrivere e da cucire disegnate da Nizzoli sono da considerare opere d'arte pienamente realizzate. Negli stessi settori della grafica e, in genere, della produzione industriale i valori raggiunti, se pur non segnano un'innovazione sensazionale si allineano tuttavia al livello della produzione "di qualità" europea e americana. Allo sviluppo della cultura estetica, in questo campo, hanno concorso e concorrono le mostre della Triennale di Milano e i premî annuali del "Compasso d'Oro". Vedi tav. f. t.

Bibl.: J. T. Soby e A. Barr jr, XX Century italian art, New York 1949; G. Marchiori, Scultura italiana moderna, Venezia 1953; B. Degenhart, Italienische Zeichner der Gegenwart, Berlino 1956; T. Sauvage, Pittura italiana del dopoguerra, Milano 1957; M. De Micheli, Scultura italiana del dopoguerra, Milano 1958; L. Venturi, Pittori italiani d'oggi, Roma 1958; G. Mazzariol, Pittura italiana contemporanea, Bergamo 1958; M. Valsecchi, Giovani artisti italiani, Milano 1959.

Musica.

Negli anni successivi al 1948 è proseguita intensa l'attività di molti dei compositori italiani che l'Enciclopedia ha già segnalato, dai rappresentanti della generazione del 1880, Gian Francesco Malipiero e Ildebrando Pizzetti, a quelli della generazione del 1890, quali Giorgio Federico Ghedini e Lodovico Rocca, a quelli della generazione del 1900, fra cui hanno confermato il loro posto preminente Luigi Dallapiccola e Goffredo Petrassi, ai più giovani. Anche in Italia, come in altri paesi, si è verificato un accostamento di parecchi compositori alla tecnica dodecafonica: accanto a Dallapiccola, che è il più noto di questi compositori, si sono serviti in maniera più o meno rigorosa dei procedimenti dodecafonici Gino Contilli, Carlo Jachino, Riccardo Malipiero, Riccardo Nielsen, Mario Peragallo, Antonio Veretti, Roman Vlad, Adone Zecchi e la maggior parte degli esponenti dell'ultima generazione, alcuni dei quali si sono inseriti nell'avanguardia postweberniana. Fra i compositori di diverso indirizzo, che si informano sostanzialmente ai principî tonali sviluppandoli in maniera più o meno moderna, figurano, oltre a quelli già citati nella precedente appendice, Cesare Brero, Alberto Bruni Tedeschi, Fiorenzo Carpi, Luigi Cortese, Vito Frazzi, Gianandrea Gavazzeni, Gian Carlo Menotti, Virgilio Mortari, Nino Rota, Gian Luca Tocchi, Giulio Viozzi. Numerosi sono i nuovi compositori, nati negli anni dal 1920 in poi; oltre ai nomi di Bruno Maderna, Vieri Tosatti e Mario Zafred, già ricordati nella precedente appendice, si possono fare quelli di Luciano Berio, Niccolò Castiglioni, Luciano Chailly, Aldo Clementi, Franco Donatoni, Franco Evangelisti, Vittorio Fellegara, Carlo Franci, Giorgio Gaslini, Domenico Guaccero, Sergio Lauricella, Egisto Macchi, Giacomo Manzoni, Gianfranco Maselli, Gino Marinuzzi iunior, Ennio Morricone, Luigi Nono, Boris Porena, Massimo Pradella, Carlo Prosperi, Flavio Testi, Camillo Togni. Alle recentissime esperienze della musica elettronica sono particolarmente interessati Luciano Berio, Franco Evangelisti, Bruno Maderna.

La vita teatrale e concertistica ha avuto in questi anni largo sviluppo. Grande splendore hanno riacquistato gli spettacoli alla Scala di Milano, ricostruita dopo i danneggiamenti della guerra; un'ampia attività hanno svolto le orchestre sinfoniche della RAI, dell'Accademia di Santa Cecilia in Roma, del Maggio Musicale Fiorentino: annuali festivals musicali hanno avuto luogo a Firenze, Venezia, Perugia, Spoleto. Fra i giovani artisti e complessi italiani che in questo periodo hanno acquistato fama internazionale figurano i direttori d'orchestra Guido Cantelli, morto immaturamente nel 1956, e Fernando Previtali, i cantanti Maria Callas (italiana d'adozione), Renata Tebaldi, Mario Del Monaco, Giuseppe Di Stefano, Nicola Rossi Lemeni, il pianista Arturo Benedetti Michelangeli, il Trio di Trieste, il Quartetto Italiano.

Per quel che riguarda il campo della musicologia e della critica musicale, ai nomi riportati nella precedente Appendice, nomi di scrittori che sono in genere tuttora operanti, vanno aggiunti, fra gli altri, quelli di Beniamino Dal Fabbro, Luigi Magnani, Giorgio Vigolo, Roman Vlad.

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