Italia

Enciclopedia machiavelliana (2014)

Italia

John M. Najemy
Raffaele Ruggiero

L’Italia nell’opera di Machiavelli di John M. Najemy

Estensione territoriale dell’Italia

Benché M. non ne abbia mai definito con precisione l’estensione geografica, da molti suoi testi risulta chiaro che considerava l’I. una delle «provincie» d’Europa, al pari della Francia, della Spagna e della «Magna» (la Germania), che avevano tutte lontane origini nella frammentazione dell’impero romano e che avevano assunto ciascuna caratteristiche proprie nel corso del millennio successivo. Diverse volte M. elenca le principali regioni che riteneva facessero parte dell’I.; per es., nei Discorsi (I lv 20-24): «il regno di Napoli, Terra di Roma [che corrispondeva all’incirca all’antico Patrimonio di San Pietro e alla moderna regione Lazio], la Romagna [...] la Lombardia [che comprendeva allora tutta la Pianura Padana, senza distinzione tra le attuali regioni della Lombardia e del Veneto]» e la «Toscana». Sono le medesime suddivisioni che appaiono nel Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua (§ 10). Nelle Istorie fiorentine (d’ora in poi Ist. fior.) M. aggiunge che «la Marca, il Patrimonio, e Romagna» facevano parte degli Stati della Chiesa (I xxxix 2); che la Repubblica di Venezia cominciò «nelle cose di Italia a travagliarsi» solo nel 14° sec. (I xxviii 10), con la conquista dello Stato territoriale in terraferma (I xxix 13); e che Genova era «una delle principali [città] di Italia» (VIII xxix 4). Della Sicilia, invece, parla solo in rapporto agli avvenimenti del regno; il Discorso (§ 15), infatti, sembrerebbe escludere la Sicilia dall’I., affermando che il «sì» non può essere prova di una lingua comune, perché, se così fosse, «i Siciliani e gli Spagnuoli sarebbono ancor loro, quanto al parlare, Italiani».

«Italia» e «italiani»

Anche se l’autore del Discorso, in polemica con quanto sostenuto da Dante a proposito di una presunta lingua comune, sottolinea le diversità linguistiche delle varie regioni, è fuor di dubbio che M. credesse che gli abitanti di tutte queste regioni (a eccezione forse della Sicilia) condividessero radicate tradizioni storiche, politiche e culturali tali da consentire di chiamarli «italiani». «Italia» e «italiani» appaiono spesso in contesti caratterizzati da appassionati sentimenti di speranza o di dolore. Nel primo Decennale M. canta «l’italice fatiche» e «l’italice lite» (vv. 1, 524). Nel xxvi e ultimo capitolo del Principe, chiedendosi «se al presente in Italia correvano tempi da onorare uno nuovo principe» (§ 1), scrive che, «volendo conoscere la virtù di uno spirito italiano, era necessario che la Italia si riducessi ne’ termini presenti» (§ 3); che «non è maraviglia» se nessuno «de’ prenominati italiani» sia riuscito a sanare le «ferite» d’I. (§ 14); che «gli italiani» sono «superiori con le forze, con la destrezza, con lo ingegno» (§ 17); e si domanda infine : «Quale italiano [...] negherebbe lo ossequio» a chi pigliasse «questa occasione, acciò che la Italia vegga dopo tanto tempo apparire uno suo redentore?» (§§ 26-28). Nei Discorsi (I xii 16-17, 20), M. incolpa gli «esempli rei» della Chiesa di Roma, riconoscendo ironicamente che «abbiamo [...] con la Chiesa e con i preti noi italiani questo primo obligo, di essere diventati sanza religione e cattivi»; e aggiungendo che «noi altri italiani abbiamo» ancora un altro e maggiore «obligo con la Chiesa», la quale «ha tenuto e tiene questa provincia divisa». Ancora nei Discorsi (I lv 16-17) M. fa riferimento a «costumi» italiani, spiegando che le città della «Magna» hanno mantenuto «il vivere politico e incorrotto» perché non hanno potuto «pigliare i costumi né franciosi né spagnuoli né italiani». Nell’Arte della guerra (VII 225, 230) Fabrizio Colonna denuncia la mancanza di buoni «ordini» militari in I., giudicando i soldati svizzeri e spagnuoli «di gran lunga migliori che gli Italiani». Nel Principe (iii 48) M. ricorda di aver risposto al giudizio di Georges d’Amboise sull’incapacità degli «italiani» di intendersi della guerra ribattendo «che e’ franzesi non si intendevano dello stato». Due volte M. cita famosi brani di Francesco Petrarca in cui l’idea di «Italia» si carica di forte emotività: alla conclusione del Principe (xxvi 29) evoca l’auspicio espresso nella canzone “Italia mia” che «l’antico valore / nelli italici cor non è ancor morto»; e nelle Ist. fior. (VI xxviiii 2-5), lodando il tentativo (comunque fallito) di Stefano Porcari nel 1447 di rovesciare il dominio papale su Roma e di estirpare i «malvagi costumi de’ prelati», dice che lo stesso Porcari si ispirava ai versi della canzone “Spirto gentil”, in cui il poeta si rivolge alla sua canzone profetizzando che «Sopra il monte Tarpeio, canzon, vedrai / Un cavalier che Italia tutta onora». Negli ultimi anni della sua vita, quando gravava sulla penisola la minaccia di un ancor più pesante dominio straniero, M. esortò il mondo politico italiano a uno sforzo supremo per liberare il Paese: Liberate diuturna cura Italiam («Liberate l’Italia dal suo lungo tormento»; M. a Francesco Guicciardini, 17 maggio 1526).

Evoluzione storica

Nonostante M. si lamentasse in alcune celebri pagine della frammentazione politica della penisola, sarebbe anacronistico considerarlo un precursore dello Stato unitario nazionale o un precoce profeta del Risorgimento. M. considerava le diverse regioni come appartenenti a una stessa «provincia» con il nome «Italia» innanzitutto perché, ai suoi occhi, esse condividevano una lunga esperienza storica.

Sia nei Discorsi (II ii) sia nell’Arte della guerra M. descrive l’I. antica come sede di grande virtù militare e di amore della libertà. Il giudizio è riferito non solo, e forse non principalmente, ai Romani, bensì ai popoli che dovettero lottare contro i Romani a difesa della propria libertà. Nell’Arte della guerra M. fa dire a Fabrizio Colonna che l’Europa ha prodotto più «uomini eccellenti in guerra» dell’Asia o dell’Africa, perché ha avuto più Stati, in particolare «infinite republiche» (II 285-86), dalle quali «esce più uomini eccellenti che de’ regni»: «in Italia erano i Romani, i Sanniti, i Toscani, i Galli Cisalpini» (II 293, 296). La libertà di questi popoli venne, però, soffocata proprio dall’espansionismo romano: «Essendo pertanto dipoi cresciuto l’imperio romano, e avendo spente tutte le republiche e i principati» del mondo, «non lasciò alcuna via alla virtù se non Roma», con la conseguenza che il numero di «uomini virtuosi» diminuì ovunque e anche in Italia. Dopo la caduta dell’impero, continua Fabrizio, «questa virtù non vi è rinata», perché la religione cristiana «non impone quella necessità al difendersi che anticamente era», e perché era sparita quella moltitudine di piccoli Stati e repubbliche che aveva nutrito la virtù militare nell’antichità (Arte della guerra II 303-09). Nel Principe (xii 28-31), però, M. osserva che furono i cittadini stessi dei liberi comuni a indebolire la virtù militare. Quando «si divise la Italia in più stati» autonomi, i cittadini «ne diventorno principi» ed, «essendo venuta la Italia quasi che nelle mani della Chiesa e di qualche republica, e essendo quelli preti e quelli altri cittadini usi a non conoscere arme, cominciorno a soldare forestieri», seguiti da capitani mercenari italiani a capo dei propri eserciti privati; infine «vennono tutti li altri che infino alli nostri tempi hanno governato queste arme: e ’l fine della loro virtù» – conclude M. con adirata amarezza – «è stato che l’Italia è suta corsa da Carlo, predata da Luigi, sforzata da Ferrando e vituperata da’ svizzeri». Diversamente dagli antichi «popoli», le repubbliche della più recente storia d’I. non erano riuscite a mantenersi forti. M. ne addossa la colpa in gran parte alla Chiesa e ai mercenari, ma anche altri ne furono responsabili.

Mentre l’I. romana è, nelle opere di M., quasi sempre solo un’area geografica, nel primo libro delle Ist. fior., che racconta per sommi capi la storia della penisola fino al primo Quattrocento, il concetto di ‘Italia’ acquista una sua fisionomia politico-culturale. Degno di nota è che questa storia italiana non inizi con l’antica Roma, né con l’affermarsi dei comuni, ma con le invasioni, nel 5° sec., dei popoli oltramontani costretti a lasciare «i terreni patrii» e a migrare in I., dove «destrussono lo Imperio romano», quasi a significare che l’I. prese forma e cominciò a esistere come spazio politico-culturale solo al confluire della romanità con i nuovi popoli venuti da nord e da est. In tale contesto, M. afferma che «se alcuni tempi furono mai miserabili in Italia», furono questi in cui «non solamente variorono il governo e il principe, ma le leggi, i costumi, il modo del vivere, la religione, la lingua, lo abito, i nomi», una serie di trasformazioni tale da «spaventare» chiunque le pensasse, nonché vivesse. Anticipando, infatti, di diversi secoli alcuni di tali cambiamenti, M. assegna proprio a questi eventi del 5° sec. «la rovina» di molte città e il «nascimento e lo augumento» di altre; l’emergere di «nuove lingue, come apparisce nel parlare che in Francia, in Spagna, e in Italia si costuma, il quale, mescolato con la lingua patria di quelli nuovi popoli e con la antica romana, fanno un nuovo ordine di parlare»; e la sostituzione di vecchi nomi con «nomi nuovi e al tutto dagli antichi alieni», sia di fiumi e di laghi sia degli uomini, che «ancora di Cesari e Pompei, Pieri, Giovanni e Mattei diventorono» (Ist. fior. I v 1-7). Tra l’antichità romana e l’I. dei secoli immediatamente seguenti (che noi chiamiamo medievali) M. non vede un’evoluzione lenta, bensì una brusca frattura, che generò profonde trasformazioni nell’arco di pochissime generazioni. Oggi gli storici sono più propensi all’ipotesi dello sviluppo graduale, ma a M. premeva sottolineare l’abisso storico che separava la Roma antica dalla sua idea d’Italia.

Nella ricostruzione di M. le caratteristiche dell’I. furono prodotte dalle ondate di nuovi popoli e nuove invasioni nei secoli medievali. La dominazione greco-bizantina istituì in tutte le più importanti città, compresa l’ex capitale imperiale, «duchi» mandati da Ravenna, e «questa divisione fece più facile la rovina di Italia, e con più celerità dette occasione a’ Longobardi di occuparla» (Ist. fior. I vii 2-4). Dopo due secoli in I., i Longobardi «non ritenevano di forestieri altro che il nome»; anch’essi istituirono un nuovo sistema amministrativo, più decentrato, sotto trenta duchi, che «fu cagione che i Longobardi non occupassero mai tutta Italia» (I viii 14-15). A questo punto M. spiega l’origine di ciò che riteneva uno dei difetti politici più gravi e duraturi dell’I., cioè la politica dei papi che, ripetutamente, chiamarono in I. principi stranieri per evitare di cadere sotto la dominazione di potenze italiane. Non avendo più la protezione dell’impero bizantino e sentendosi minacciato dai Longobardi, il papato «ricorse in Francia, a quelli re» (i Carolingi). M. commenta subito:

Di modo che tutte le guerre che, dopo a questi tempi, furono da’ barbari fatte in Italia, furono in maggiore parte da e pontefici causate; e tutti i barbari che quella inundorono furono il più delle volte da quegli chiamati. Il quale modo di procedere dura ancora in questi nostri tempi: il che ha tenuto e tiene la Italia disunita e inferma (I ix 8-10).

A proposito dell’alleanza nel 13° sec. tra il papato e Carlo d’Angiò, chiamato per scongiurare il pericolo incombente che l’I. intera venisse conquistata dagli Hohenstaufen, e dell’inversione di rotta decisa dai papi successivi che, temendo invece l’eccessiva potenza dell’angioino, sollecitarono «Ridolfo imperadore a venire in Italia contro a Carlo», M. commenta di nuovo:

E così i pontefici, ora per carità della religione, ora per loro propria ambizione, non cessavano di chiamare in Italia omori nuovi e suscitare nuove guerre; e poi ch’eglino avieno fatto potente uno principe, se ne pentivano, e cercavano la sua rovina; né permettevano che quella provincia la quale per loro debolezza non potevono possedere, che altri la possedesse (I xxiii 3).

Già nell’11° sec., M. vede l’I. «governata [...] parte dai popoli, parte dai principi». I «popoli» rappresentavano un potere nuovo e sempre più autonomo, tanto che anche i «pontefici [...] molte più ingiurie riceverno [...] da quel popolo [romano], che da alcuno altro principe cristiano» (I xiv 1, 4). La loro effettiva indipendenza permise ai «popoli» di giocare un ruolo di primo piano nelle lotte tra Chiesa e impero: «alcuni popoli italiani seguirono il papa e alcuni [l’imperatore]; il che fu seme degli umori guelfi e ghibellini, accioché la Italia, mancate le inundazioni barbare, fusse dalle guerre intestine lacerata» (I xv 4). Più che la divisione tra guelfi e ghibellini, però, interessava a M. quella tra repubbliche e principati. Una delle pagine di novità assoluta dei Discorsi (I lv 18-25) prende in esame la geografia politica dell’I. per capire come mai in alcune regioni dominino le repubbliche e in altre i principi. Tutto dipende dalla presenza, o meno, di due categorie di nobili: i «gentiluomini», ossia proprietari fondiari, i quali «vivono delle rendite delle loro possessioni» e che M. definisce «perniziosi in ogni republica»; e quelli, ancora «più perniziosi», che «comandano a castella, e hanno sudditi che ubbidiscono a loro», ovvero signori feudali che esercitavano giurisdizione nelle loro terre. Nelle regioni dominate da «gentiluomini» o «signori di castella» – «il regno di Napoli, Terra di Roma, la Romagna e la Lombardia» – «non è mai surta alcuna republica né alcuno vivere politico, perché tali generazioni di uomini sono al tutto inimici d’ogni civilità», ossia a qualsiasi forma di governo civile e repubblicano. Dove, invece, questi nobili fossero ridotti a pochi e senza potere, le repubbliche fiorivano, come si dimostra, scrive M., «con lo esemplo di Toscana, dove si vede in poco spazio di terreno state lungamente tre republiche, Firenze, Siena e Lucca», e altre città che «vorrebbono mantenere la loro libertà»: un terreno, quindi, fertile per le repubbliche «per non essere in quella provincia alcuno signore di castella e nessuno o pochissimi gentiluomini». A chi dicesse che la Repubblica di Venezia fa eccezione «a questa mia oppinione» perché i membri della sua classe dominante sono chiamati «gentiluomini», chiosa M., «si risponde» che sono gentiluomini «più in nome che in fatto», trattandosi di mercanti che «non hanno grandi entrate di possessioni», e «nessuno di loro tiene castella o ha alcuna iurisdizione sopra gli uomini» (Discorsi I lv 31-32).

La «rovina» d’Italia

La «rovina» d’I. è senz’altro uno dei temi portanti del pensiero di M., fonte di dolore e di rabbia, ma che esigeva allo stesso tempo di essere spiegata e compresa, al fine di trovarvi rimedio. Si è già visto come nei Discorsi (I xii 15-21) M. individuasse nella «corruzione» della Chiesa una delle ragioni della debolezza e della divisione dell’I. e come nel Principe denunciasse la crescente dipendenza, a partire dal 14° sec., degli Stati italiani dalle armi mercenarie come un’altra causa, forse ancora più grave, della catastrofe politico-militare del suo tempo. Con i mercenari – prima prevalentemente stranieri e successivamente provenienti nella maggior parte dai ranghi dei «gentiluomini» e dei «signori di castella» dell’I. – «tutti i principi italiani feciono più tempo le loro guerre». Nelle Ist. fior. (I xxxix), riassumendo l’assetto politico dell’I. del primo Quattrocento, M. delinea le disastrose conseguenze dell’impiego dei mercenari. Ecco la sua rassegna dei principali Stati: Regno di Napoli; Stati della Chiesa; Lombardia divisa tra i Visconti di Milano, Venezia, e i Gonzaga di Mantova; la «maggior parte» della Toscana dominata da Firenze, il resto sotto Lucca e Siena; Genova, ormai uno dei «potentati minori», spesso sotto il dominio visconteo o francese. M. osserva che «tutti questi principali potentati erano di proprie armi disarmati», i principati come le repubbliche, e fra queste ultime lo Stato dei veneziani – i quali, una volta iniziata la loro politica di espansione in terraferma, abbandonarono «quelle armi che in mare gli avevano fatti gloriosi, e, seguitando il costume degli altri italiani», si affidarono ai mercenari – e quello dei fiorentini, che «alle medesime necessità ubbidivano, perché, avendo per le spesse divisioni spenta la nobilità e restando quella repubblica nelle mani di uomini nutricati nella mercanzia, seguitavano gli ordini e la fortuna degli altri».

«Disarmati» i «principali potentati», ne risultava che «le armi di Italia [erano] in mano o de’ minori principi o di uomini senza stato», ossia i capitani nobili, a capo di eserciti privati, che praticavano il mestiere delle armi come professione, cambiavano datore di lavoro quando pareva loro di trarne maggiore vantaggio, non obbedivano a nessuno Stato o principe, avevano poco interesse a combattere seriamente, pretendevano ingenti somme in cambio delle loro prestazioni, e non di rado tradivano chi li aveva assunti. M. enumera, tra molti altri, famosi condottieri come il Carmagnola, Niccolò Piccinino, Niccolò da Tolentino, «i baroni di Roma, Orsini e Colonnesi, con altri signori e gentili uomini del Regno e di Lombardia», e quel Francesco Sforza, che riuscì, come M. spiegherà più avanti nelle Ist. fior., a farsi duca di Milano più con l’astuzia che con le sue capacità militari. Su tutti M. lancia un giudizio pesantissimo, accusandoli di aver fatto «come una lega e intelligenza insieme», i cui fini erano quelli di evitare le battaglie e di condurre le azioni militari in modo da limitare al massimo o addirittura eliminare del tutto le perdite. In uno dei momenti di maggiore amarezza e rabbia delle Istorie, M. conclude che

in fine [...] ridussono [la guerra] in tanta viltà che ogni mediocre capitano, nel quale fusse alcuna ombra dell’antica virtù rinata, gli arebbe con ammirazione di tutta Italia, la quale per sua poca prudenza gli onorava, vituperati (I xxxix 9).

L’ironia dell’Arte della guerra risiede nel fatto che nel dialogo sia proprio uno di questi capitani mercenari, Fabrizio Colonna, che fu anche vero e proprio «signore di castella», a spiegare perché questi «soldati di Italia» fossero così pericolosi per le sorti dell’I. stessa. Fabrizio condanna i «gentili uomini» che esercitano la guerra come loro «arte» o mestiere privato (svelando così l’ironia del titolo dell’opera): nessuno dovrebbe praticare la guerra «per arte se non una republica o uno regno». Infatti, uno Stato «bene ordinato», continua, «mai non consentì ad alcuno suo cittadino o suddito usarla per arte, né mai alcuno uomo buono l’esercitò per sua particolare arte», innanzitutto perché chi fa la guerra come proprio mestiere, e deve «trarne utilità», non può fare a meno di «essere rapace, fraudolento, [e] violento». Dal momento che la guerra non «nutrisce nella pace» coloro che la esercitano come mestiere, questi «sono necessitati o pensare che non sia pace, o tanto prevalersi ne’ tempi della guerra che possano nella pace nutrirsi» commettendo «le ruberie, le violenze, gli assassinamenti che tali soldati fanno così agli amici come a’ nimici». Fabrizio ricorda ai suoi interlocutori la triste storia delle compagnie di ventura del Trecento:

Non avete voi nella memoria delle cose vostre come, trovandosi assai soldati in Italia sanza soldo per essere finite le guerre, si ragunarono insieme più brigate, le quali si chiamarono Compagnie, e andavano taglieggiando le terre e saccheggiando il paese, sanza che vi si potesse fare alcuno rimedio? (Arte della guerra I 54).

Come prova delle conseguenze nefande della difettiva organizzazione delle armi in I., Fabrizio cita nientemeno che Francesco Sforza, lodato nel Principe (vii 6) per aver acquistato il suo Stato «per li debiti mezzi e con una grande sua virtù», e qui, al contrario, annoverato fra i capitani responsabili di infiniti danni; il quale «per potere vivere onorevolmente ne’ tempi della pace, non solamente ingannò i Milanesi de’ quali era soldato, ma tolse loro la libertà e divenne loro principe» (Arte della guerra I 51-56). Nelle Ist. fior. (VII viii 7) M. racconta la complicità di Sforza nell’assassinio del suo capitano Iacopo Piccinino, che il duca volle eliminare perché temeva il favore che Piccinino godeva fra i milanesi. Sull’episodio M. pronuncia questo devastante giudizio:

E così i nostri principi italiani quella virtù che non era in loro temevano in altri, e la spegnevano: tanto che, non la avendo alcuno, esposono questa provincia a quella rovina la quale, dopo non molto tempo, la guastò e afflisse.

Lo Sforza, d’altronde, è solo l’esempio più lampante di un fenomeno generale:

Simili a costui sono stati tutti gli altri soldati di Italia, che hanno usato la milizia per loro particolare arte; e se non sono, mediante le loro malignitadi, diventati duchi di Milano, tanto più meritano di essere biasimati, perché sanza tanto utile hanno tutti (se si vedesse la vita loro) i medesimi carichi (Arte della guerra I 57).

Nel Principe (xii 8-9), M. afferma che «ora la ruina di Italia non è causata da altro che per essersi per spazio di molti anni riposata tutta in su le armi mercenarie», che «parevano gagliarde» fino a che si combattevano fra di loro, ma la cui vera debolezza fu messa disastrosamente in evidenza dalla calata dei francesi nel 1494.

Nelle Ist. fior. (I xxv 3) M. sostiene che, dopo la scomparsa del potere imperiale dall’I. nella seconda metà del 13° sec. e la decisione dei papi di trasferirsi ad Avignone agli inizi del 14°, la penisola era rimasta «in mano al tutto degli italiani», suggerendo così che, dopo secoli di schiaccianti presenze straniere, si fosse aperta la possibilità di costruire, se non uno Stato unitario (soluzione che M. non sembra prendere in considerazione, forse perché non la credeva realizzabile), almeno degli Stati forti, armati, bene ordinati, capaci di difendersi ed, eventualmente, organizzati in una lega come quella (lodata nei Discorsi II iv 3139) degli antichi Etruschi. La tragedia della storia italiana, come la interpretava M., stava nel non aver saputo afferrare la «occasione» offerta da quel momento storico, con il risultato che, a suo giudizio, gli Stati italiani del Quattrocento erano deboli, i loro ordini corrotti da fazioni, sette e privatizzazione del potere, e incapaci di difendersi. In un lungo discorso inserito da M. nelle Istorie, un cittadino fiorentino del secondo Trecento denuncia «la comune corruzione di tutte le città di Italia», compresa la sua Firenze, e si lamenta dell’opportunità perduta:

da poi che questa provincia si trasse di sotto alle forze dello Imperio, le città di quella, non avendo un freno potente che le correggessi, hanno, non come libere ma come divise in sette, gli stati e governi loro ordinati: da questo sono nati tutti gli altri mali, tutti gli altri disordini che in esse appariscono (Ist. fior. III v 3).

L’accusa del cittadino colpisce in modo particolare le «sette» e le «parti» formate dalle potenti famiglie, indicate come le maggiori responsabili di quella «corruzione» che ha avuto come conseguenza che «gli ordini e le leggi non per publica, ma per propria utilità si fanno: di qui le guerre, le paci, le amicizie non per gloria comune ma per sodisfazione di pochi si deliberano» (v 10); di qui ancora la necessità di «frenare» le divisioni alimentate da queste stesse famiglie. Mentre in passato era pressoché impossibile opporsi alla loro «potenzia» a causa dei grandi «favori che le avevano dai principi», «ora», prosegue l’oratore, non ci dovrebbe essere «molta difficultà» a farlo, perché «lo Imperio non ci ha forze, il papa non si teme, e [...] la Italia tutta e questa città [Firenze] è condotta in tanta ugualità che per lei medesima si può reggere» (v 22). Il senso del ragionamento echeggia ed elabora quanto suggerito nel cap. xxv del primo libro, e cioè che il disinteresse di papato e impero per la penisola aveva creato l’occasione per costruire un’I. «in mano [...] degli italiani» e «che per lei medesima si può reggere». Ma vi è di più: chiamando l’attenzione sui «favori che le avevano dai principi», l’oratore individua il nesso tra l’ingerenza delle potenze esterne e l’azione corruttrice dei grandi che, sostenuti da quelle, rafforzavano le proprie fazioni e indebolivano lo Stato. Diminuiti i «favori» esterni, avrebbe dovuto essere possibile impedire che l’ambizione e l’avarizia dei grandi distruggessero i buoni ordini a Firenze e altrove e la «ugualità» (l’equilibrio) tra gli Stati della «Italia tutta».

Così, però, non accadde, essenzialmente perché, a giudizio di M., i ceti dirigenti vennero meno vergognosamente alle proprie responsabilità. Tutta la riflessione di M. sulla storia d’I. nel Quattrocento e, ancora di più, sulla catastrofe dei tempi in cui scriveva, è imperniata sulle mancanze dei gruppi al potere. Accingendosi nelle Istorie a narrare le vicende dell’intera penisola nel quinto libro, M. condanna la «viltà» del modo di condurre la guerra introdotto in I. dai principi e dai capitani mercenari: si era così spenta la «tanta virtù» degli Stati che sorsero «tra le romane rovine», «concordi e ordinati» e che «liberorono e difesono» l’I. «da’ barbari» (gli imperatori tedeschi dei secoli 12°-14°). Fino a che punto fosse spenta la «virtù» dei secoli precedenti, «chiaramente si potrà cognoscere per quello che da noi sarà da il 1434 al ’94 descritto, dove si vedrà come alla fine si aperse di nuovo la via a’ barbari e riposesi la Italia nella servitù di quelli». Gli anni indicati da M. sono quelli della dominazione medicea a Firenze, ma il giudizio si estende a tutti gli Stati italiani:

E se nel descrivere le cose seguite in questo guasto mondo non si narrerà o fortezza di soldati o virtù di capitano, o amore verso la patria di cittadino, si vedrà con quali inganni, con quali astuzie e arti, i principi, i soldati e i capi delle republiche, per mantenersi quella reputazione che non avevono meritata, si governavano (V i 8, 11, 13).

Un giudizio ancora più drastico viene espresso nel proemio al secondo libro dei Discorsi:

chi nasce in Italia [...] ha ragione di biasimare i tempi suoi e laudare gli altri; perché [...] in questi [tempi, in Italia] non è cosa alcuna che gli ricomperi da ogni estrema miseria, infamia e vituperio, dove non è osservanza di religione, non di leggi, non di milizia, ma sono maculati d’ogni ragione bruttura. E tanto sono questi vizi più detestabili, quanto ei sono più in coloro che seggono pro tribunali, comandano a ciascuno e vogliono essere adorati (Discorsi II proemio 16-17).

La colpa principale era dei principi. M. si dichiara d’accordo con quanti dicono che i «peccati nostri» sono la causa della catastrofe, non, però, i peccati che altri intendevano, bensì i «peccati di principi» (Principe xii 9). Rimprovera duramente «quelli signori che in Italia hanno perduto lo stato ne’ nostri tempi» di aver ignorato le proprie colpe: «Pertanto questi nostri principi [...] non accusino la fortuna, ma la ignavia loro» (Principe xxiv 5, 8). Nei Discorsi denuncia «i peccati de’ principi italiani che hanno fatto Italia serva de’ forestieri» (II xviii 12). E nell’Arte della guerra Fabrizio li accusa di aver trascurato i loro veri doveri e di non essersi accorti, «i meschini, che si preparavano ad essere preda di qualunque gli assaltava» (VII 236-37).

Si poteva rimediare? Nonostante la severa condanna dei comportamenti dei principi, dei «soldati», e dei «gentiluomini» che avevano condotto l’I. verso il baratro delle invasioni e delle occupazioni straniere, M. non scrive solamente per lamentarsi, bensì per insegnare come rimediare ai mali che analizza; difende e giustifica il suo modo di esprimersi «manifestamente»,

acciocché gli animi de’ giovani che questi mia scritti leggeranno possino fuggire questi [tempi] e prepararsi a imitar quegli [degli antichi Romani] [...] Perché gli è offizio di uomo buono, quel bene che per la malignità de’ tempi e della fortuna tu non hai potuto operare, insegnarlo ad altri, acciocché, sendone molti capaci, alcuno di quelli più amato dal Cielo possa operarlo (Discorsi II proemio 24-25).

Una simile speranza è espressa anche nelle Istorie (V i 14): benché nel suo corso si vedano più che altro gli «inganni» e le «astuzie» usati dai principi, il racconto «sarà forse non meno utile che si sieno le antiche cose a cognoscere, perché, se quelle i liberali animi a seguitarle accendono, queste [le cose della triste storia moderna] a fuggirle e spegnerle gli accenderanno». Che la storia fosse «maestra delle azioni nostre» (Modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati, § 20) faceva parte del bagaglio di idee che M. aveva ereditato dall’Umanesimo; nei Discorsi esprime fiducia nella capacità delle «storie» – i libri degli storici antichi, quando fossero letti come dovevano essere – (Discorsi proemio A 7), di guidare gli uomini nelle difficili scelte anche di un cupo presente. Nel capitolo “Dell’Ambizione”, scritto nel 1509 quando la Francia ancora dominava l’I. settentrionale, M. respinge la tentazione di incolpare la «natura» dei travagli d’I.:

se in Italia, tanto afflitta e stanca, / non nasce gente sì feroce e dura, dico che questo non escusa e franca / l’Italia nostra, perché può supplire / l’educazion dove natura manca; / questa l’Italia già fece fiorire / et occupare el mondo tutto quanto. / La fiera educazion li dette ardire; / or vive, se vita è vivere in pianto, / sotto quella ruina e quella sorte / c’ha meritato l’ozio suo cotanto. / Viltate e quello, con l’altre consorte / d’Ambizione, son quelle ferite / c’hanno d’Italia le province morte (vv. 109-23).

Bibliografia: F. Chabod, Scritti su Machiavelli, Torino 1964; G. Sasso, Niccolò Machiavelli, 2° vol., La storiografia, Bologna 1993; D. Laven, Machiavelli, italianità and the French invasion of 1494, in The French descent into Renaissance Italy: antecedents and effects, ed. D. Abulafia, Aldershot 1995, pp. 355-69; C. Vivanti, “Iustitia et armi” nell’Italia di Machiavelli, in Storia d’Italia, Annali 18, a cura di W. Barberis, Torino 2002, pp. 339-65; M. Viroli, Il Dio di Machiavelli e il problema morale dell’Italia, Roma 2005; R. Fubini, L’idea di Italia fra Quattro e Cinquecento. Politica, geografia storica, miti delle origini, in Id., Politica e pensiero politico nell’Italia del Rinascimento. Dallo Stato territoriale al Machiavelli, Firenze 2009, pp. 123-40; F. Bruni, Italia: vita e avventure di un’idea, Bologna 2010.

Gli studi machiavelliani di Raffaele Ruggiero

La ricerca filologica

A eccezione dell’Arte della guerra, nessuna delle grandi opere machiavelliane è stata data alle stampe dall’autore. Anzi, la storia tipografica degli scritti politici di M. comincia con un plagio, il De regnandi peritia, riscrittura in latino del Principe pubblicata nel 1523 da Agostino Nifo (→). Pochi anni dopo la morte di M., le prime tappe nella diffusione sono segnate dalla formazione di una ‘vulgata’ attraverso le stampe principes: il 23 agosto 1531 Clemente VII rilasciò un privilegio all’editore romano Antonio Blado (→), e nell’ottobre apparivano i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio. Subito in novembre, lo stampatore fiorentino Bernardo Giunti (→ Giunti) pubblicava, anch’egli con privilegio papale, un’edizione dei Discorsi, rivendicando a Firenze il diritto di far conoscere l’opera di M. «nella sua prima purità». Ai primi di gennaio del 1532 Blado stampava il Principe, accompagnato dalla Vita di Castruccio Castracani e dal Modo che tenne il duca Valentino, e in marzo le Istorie fiorentine, dedicate a Giovanni Gaddi, immediatamente seguite dall’edizione presso Giunti. Infine, nel maggio, appariva il Principe giuntino con dedica a Gaddi, riconosciuto quale vero artefice della pubblicazione machiavelliana.

La diffusione e l’accrescimento del corpus editoriale proseguirono negli anni Quaranta-Cinquanta del Cinquecento: nel 1546 gli eredi di Aldo Manuzio pubblicarono una nuova edizione a Venezia; nel 1549, con il benestare di Guido, figlio di Niccolò, apparve a Firenze una giuntina di scritti minori: l’Asino (per il quale questa stampa è testimone unico), la Favola di Belfagor, i due Decennali e i quattro Capitoli (“Dell’Occasione”, “Di Fortuna”, “Dell’Ingratitudine”, “Dell’Ambizione”); l’anno dopo, ancora un’edizione a Venezia, presso Gabriel Giolito. All’altezza del 1559, quando Paolo IV promulgò l’Index librorum prohibitorum (→), l’opera machiavelliana poteva dirsi sostanzialmente pubblicata e veniva interamente condannata.

Negli anni Settanta-Ottanta del Cinquecento Giuliano de’ Ricci (→) ricercò e copiò inediti machiavelliani con l’intento di curarne una stampa. Le fatiche di Ricci confluirono in un manoscritto che raccoglie un buon numero di scritti e documenti del Segretario (BNCF, Palatino, E.B.15.10). Il celebre Apografo Ricci fu individuato dall’erudito cruscante Antonio Rosso Martini che, nel 1725, ne dava notizia a Giovanni Bottari; quest’ultimo, nel 1730, pubblicava anepigrafo il Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua, in appendice all’edizione dell’Ercolano, dialogo linguistico di Benedetto Varchi. Un primo vaglio analitico dell’Apografo e delle Carte machiavelliane negli Autografi Palatini della BNCF fu compiuto nei due volumi biografici di Oreste Tommasini (→; Tommasini 1883-1911, 1° vol., pp. 617-64; 2° vol., pp. 1257-307).

La fortuna delle dottrine machiavelliane ha alimentato, soprattutto fra il Settecento e l’Ottocento, indebiti incrementi degli scritti a lui attribuiti, in particolare delle opere teatrali (→ apocrifi). Già Filippo Luigi Polidori (1801-1865), che con Luigi Passerini (1816-1877) e Giuseppe Canestrini (1807-1870) aveva ricevuto nel 1859 dal governo provvisorio toscano l’incarico di attendere a un’edizione machiavelliana, riconosceva che le stampe posteriori al 1550 risultavano progressivamente peggiorative. L’unico prodotto dell’editoria settecentesca non dettato da mero interesse commerciale è l’edizione fiorentina di Gaetano Cambiagi (→) del 1782-1783, promossa dal vescovo di Pistoia Scipione de’ Ricci, discendente di Giuliano. A sua volta, la tecnica ecdotica di Polidori indulgeva a frequenti congetture ope ingenii, come già rilevava Tommasini nella prefazione al suo monumentale lavoro di ricerca biografico-erudita: quest’ultimo nasceva in risposta a un concorso bandito dal comune di Firenze per il quarto centenario della nascita di M. (1869), ma avrebbe impegnato lo studioso per oltre un quarantennio. I tre ponderosi tomi apparvero tra il 1883 e il 1911 e ponevano i fondamenti documentali per l’indagine filologica in senso moderno sull’opera machiavelliana. Intanto, fra il 1877 e il 1882, Pasquale Villari (→) aveva pubblicato Niccolò Machiavelli e i suoi tempi in tre volumi, con cospicue appendici documentarie volte a giustificare l’‘immoralismo’ delle dottrine machiavelliane inquadrandole nel contesto storico loro proprio. A questi anni e al clima dell’erudizione positivistica appartiene anche la ricerca di Francesco Nitti (→), Machiavelli nella vita e nelle dottrine (1876: per le vicende editoriali si veda l’anastatica a cura di S. Palmieri, G. Sasso, 1991-1996).

Nel 1899 Giuseppe Lisio (1870-1912), allievo di Giosue Carducci e tipico esponente della scuola storica, si impegnò per primo in una recensio lachmanniana del Principe: egli non poté tuttavia utilizzare il ms. Gothano (G), rappresentante di un diverso ramo stemmatico che aveva permesso talora il preservarsi di lezioni genuine nella stampa bladiana. Noto a Tommasini, il ms. G fu studiato da Adolf Gerber (→) nel 1912-13, e su tale base procedette, nel 1929, Mario Casella, filologo impegnato principalmente in ricerche dantesche e nello studio delle letterature romanze, restaurando felicemente più luoghi grazie alla testimonianza di G, pure inquadrata in uno stemma disegnato troppo approssimativamente. Casella era stato incaricato di attendere al Principe, collaborando con Guido Mazzoni (1859-1943) a una nuova edizione machiavelliana in occasione del quinto centenario della morte del Segretario (1927). Mazzoni, scolaro di Carducci e di Alessandro D’Ancona, erudito e letterato impegnato anche in rilevanti imprese dantesche, si dedicò in prima persona al testo dei Discorsi, fondandosi sul ms. Harleiano (L), riconosciuto come antagonista rispetto alle stampe bladiana e giuntina. Il testo Mazzoni è stato ripreso, con significative correzioni in varianti sostanziali, nell’interpunzione e nell’assetto fonomorfologico, dall’edizione a cura di Giorgio Inglese, con introduzione di Gennaro Sasso (1984).

A questa prima stagione di ricerche filologiche appartengono anche le Operette satiriche (i Capitoli, l’Asino e la Favola) curate nel 1920 da Luigi Foscolo Benedetto (1886-1966). Nel 1927 Plinio Carli (18841954) dedicava alla memoria di Tommasini l’edizione critica, presso Sansoni, delle Istorie fiorentine: l’impianto stemmatico di Carli è stato ripreso nella recente edizione nazionale (2011) a cura di Alessandro Montevecchi e Carlo Varotti, dove si dà rilievo ai fenomeni di contaminazione e revisione tipografica per quanto concerne i rapporti fra il ms. Palatino e la stampa giuntina, e si appresta un vaglio completo dei 15 frammenti autografi, molti dei quali riemersi a partire dal 1967.

Nuovo impulso ricevette la filologia machiavelliana dai lavori di Roberto Ridolfi (→; la biografia del 1953, l’edizione della Mandragola nel 1965 dopo la scoperta del ms. Rediano, lo studio della tradizione della Clizia nel 1968 dopo la scoperta nel 1961 di un nuovo manoscritto presso il Colchester and Essex Museum) e dalla monografia dedicata nel 1958 da Gennaro Sasso (→) a Niccolò Machiavelli. Storia del suo pensiero politico, dove lo studioso offriva anche una nutrita disamina testuale, ponendo i fondamenti per quel necessario rapporto tra ricerca filologica e interpretazione del pensiero machiavelliano che egli avrebbe ribadito più tardi con il volume In margine al V centenario di Machiavelli (1972).

Nel 1969 Ridolfi inaugurava la nuova annata della «Bibliofilia» con un’indagine dedicata a Le carte del Machiavelli: si trattava delle fonti indispensabili per riavviare l’indagine intorno all’attività di M. cancelliere (→ autografi). Dopo le prime quindici legazioni pubblicate nell’edizione Cambiagi, la prima edizione dei carteggi diplomatici machiavelliani fondata su un più cospicuo reperimento del materiale archivistico è dovuta a Passerini e Gaetano Milanesi (1873-1877), ripresa da Sergio Bertelli nel 1964 e nuovamente negli anni Ottanta. Nel 1971 Fredi Chiappelli, sulla scia delle indagini compiute sulla prosa machiavelliana, avviò un’edizione critica delle Legazioni. Commissarie. Scritti di governo per la serie laterziana degli Scrittori d’Italia: furono stampati quattro volumi (dal terzo con la collaborazione di Jean-Jacques Marchand) per il periodo 1498-1505. Nell’edizione complessiva degli scritti machiavelliani, curata da Corrado Vivanti in tre volumi presso Einaudi-Gallimard (1997-2005), per le Legazioni si ripropone l’edizione Chiappelli-Marchand fino al 1505 e la Passerini-Milanesi per i documenti successivi. Intanto nel 1975 Marchand pubblicava un’edizione dei Primi scritti politici machiavelliani (1499-1512). Ora, per l’edizione nazionale, il medesimo Marchand ha apprestato nel 2001 l’edizione completa degli Scritti politici minori; infine, a cura di Marchand con Emanuele Cutinelli-Rendina, Denis Fachard, Andrea Guidi e Matteo Melera Morettini, sono apparsi fra il 2002 e il 2012 i sette tomi delle Legazioni. Commissarie. Scritti di governo (1498-1527).

Al 1971 risalgono le opere machiavelliane curate da Mario Martelli (→) presso Sansoni, con una verifica dei testimoni per tutto l’epistolario privato, una nuova edizione dell’Andria, un’edizione della Mandragola attenta alle lezioni del ms. Rediano. Un studio successivo, con edizione, della Mandragola (a cura di Pasquale Stoppelli, 2005) ha mostrato che la stampa cinquecentesca adespota, priva di luogo di stampa, data ed editore, deriva da altra stampa perduta.

Come già accennato, con In margine al V centenario di Machiavelli nel 1972 Sasso richiamava gli studiosi di M. al necessario dialogo tra filologia ed esegesi e offriva un esempio concreto del rapporto (dell’«ininterrotto processo», p. 66) fra critica testuale e interpretazione in riferimento ai passaggi conclusivi di Principe xviii. Parimenti il problema di una nuova edizione dei Discorsi presupponeva l’indagine su obiettivi e modalità di composizione dell’opera: nell’edizione 1984 Inglese mirava a chiarire la genesi dei Discorsi, fissando l’attenzione al 1517-18, allorché M. si impegnò a rifondere e organizzare materiali preesistenti, ossia le schede per un’opera sul governo delle repubbliche e una sorta di commentario continuo al testo liviano; in seguito, M. tornò probabilmente sul testo con ritocchi stilistici, senza che però nei Discorsi si insinuasse alcun riferimento a eventi posteriori al 1517. In uno studio del 1985 Francesco Bausi prospettava invece quattro distinte fasi di scrittura, l’ultima successiva al 1520: tale ipotesi fu sottoposta a serrata critica da Inglese («La cultura», 1986, 1). Nel 2001 è apparsa l’edizione nazionale dei Discorsi a cura di Bausi che, quanto alla composizione, propone ancora una stratigrafia complessa, disomogenea e caotica per il capolavoro machiavelliano; quanto al testo, si basa sul ms. Harleiano.

Il dibattito sul Principe si riapriva nel 1983, quando il terzo volume dell’Iter italicum di Paul Oskar Kristeller segnalava un nuovo testimone, il ms. Monacense (D). L’edizione critica apprestata da Inglese nel 1994 per l’Istituto storico italiano per il Medioevo (seguita l’anno dopo da un’edizione commentata presso Einaudi, e poi, con nuova introduzione e commento rivisto, presso lo stesso editore nel 2013) ripensava il quadro stemmatico alla luce del Monacense. Nel 1999 Martelli, già scolaro di Ridolfi e sensibile conoscitore della prosa machiavelliana, dedicava un volume (Saggio sul Principe) al vaglio dell’edizione Inglese. Martelli insisteva soprattutto sui limiti intrinseci del metodo lachmanniano, in quanto applicato a testi moderni, e sui salti logici e le frequenti aporie nel testo dell’opuscolo trasmessoci dai codici. Su questa linea, nell’ambito dell’edizione nazionale delle opere machiavelliane, appariva nel 2006 il Principe a cura di Martelli con corredo filologico di Nicoletta Marcelli. Martelli ha ritenuto di individuare un ruolo preminente del ms. di Carpentras (A), trascritto dalla medesima mano cancelleresca cui si deve un idiografo dell’Arte della guerra; a partire da qui, ha ipotizzato l’esistenza di un ‘archetipo mobile’, dai successivi stadi di elaborazione-revisione del quale sarebbero derivati altrettanti rami della tradizione. Le proposte di Martelli, che emenda efficacemente in alcuni luoghi, appaiono nel complesso piuttosto artificiose. In occasione del quinto centenario del Principe, Inglese ha allestito una nuova edizione (Istituto della Enciclopedia Italiana, 2013), che ritocca la precedente tenendo conto del dibattito degli ultimi anni.

Tra gli esiti più recenti del dibattito ecdotico si segnalano le ricerche sulla Favola dell’arcidiavolo Belfagor e la controversia intorno al Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua. Sebbene trasmessa da un autografo, il Banco Rari 240 della BNCF, la Favola ebbe già a metà Cinquecento una paternità contesa, figurando a stampa in una raccolta di Rime e prose volgari di Giovanni Brevio (1545). Nel 2007, Stoppelli ha sottoposto la favola machiavelliana e il testo di Brevio ad analisi filologica e linguistico-computazionale. La trama sarebbe pervenuta a entrambi gli autori da una non identificata fonte quattrocentesca, per essere quindi rielaborata autonomamente: da Brevio con rivisitazione di modelli boccacciani e da M. con l’integrazione di una scena del tutto originale (l’oratio di Plutone pronunciata in un inferno rappresentato come ‘repubblica ben ordinata’). Per l’attribuzione del Discorso intorno alla nostra lingua: da ultimo favorevoli alla paternità machiavelliana Ornella Castellani Pollidori e Paolo Trovato, decisamente avverso Martelli; mentre Stoppelli e Inglese suggeriscono che un originario nucleo machiavelliano sia stato sottoposto più tardi a maldestri incrementi.

Bibliografia: Per i mss., le edizioni antiche e moderne, e i problemi relativi a singole opere si rinvia alle specifiche voci. La presente scelta bibliografica ha carattere orientativo e copre i riferimenti a studi e autori qui discussi.

L’erudizione positivista e la scuola storica: F. Nitti, Machiavelli nella vita e nelle dottrine, Napoli 1876 (rist. anast. a cura di S. Palmieri, G. Sasso, 2 voll., il secondo dei quali inedito dall’autore, Bologna 1991-1996); P. Villari, Niccolò Machiavelli e i suoi tempi illustrati con nuovi documenti, 3 voll., Firenze 1877-1882, Milano 18952; O. Tommasini, La vita e gli scritti di Niccolò Machiavelli nella loro relazione col machiavellismo. Storia ed esame critico, 2 voll., Torino-Roma 1883-1911 (rist. anast. Bologna 1994-2003).

Studi biografico-critici, esegesi filologica, storie della fortuna: R. Ridolfi, Vita di Niccolò Machiavelli, Roma 1954, Firenze 19787; G. Sasso, Niccolò Machiavelli. Storia del suo pensiero politico, Napoli 1958 (ed. accresciuta Bologna 1980 e 1993 in 2 voll.); G. Procacci, Studi sulla fortuna del Machiavelli, Roma 1965; G. Sasso, In margine al V centenario di Machiavelli, Napoli 1972; S. Bertelli, P. Innocenti, Bibliografia machiavelliana, Verona 1979.

Il dibattito sul Principe: G. Inglese, Lo stemma del Principe. Nuove riflessioni, in Storia, filosofia e letteratura. Studi in onore di Gennaro Sasso, a cura di M. Herling, M. Reale, Napoli 1999, pp. 191-201; M. Martelli, Saggio sul Principe, Roma 1999; G. Inglese, Il Principe e i filologi, «La cultura», 2000, 28, pp. 161-66; R. Ruggiero, Il Principe dei ghiribizzi. Un vaglio testuale, «Belfagor», 2006, 61, pp. 688-704; R. Ruggiero, Dalle congiure fiorentine alle secche del Principe, «Belfagor», 2007, 62, pp. 267-82; G. Inglese, Ragione del testo, studio filologico in Il Principe, a cura di G. Inglese, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2013, pp. 153-74; G. Inglese, Sul testo del Principe, «La cultura», 2014, 52, 1, pp. 47-76.

Sui Discorsi: G. Sasso, Intorno alla composizione dei Discorsi di Niccolò Machiavelli, «Giornale storico della letteratura italiana», 1957, 134, pp. 482-534, e 1958, 135, pp. 215-59; C. Pincin, Sul testo di Machiavelli. La Prefazione della prima parte dei Discorsi, «Atti dell’Accademia delle scienze di Torino», 1959-1960, 94, pp. 506-18; C. Pincin, Sul testo di Machiavelli. I Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, «Atti dell’Accademia delle scienze di Torino», 1961-1962, 96, pp. 71-178; C. Pincin, Le prefazioni e la dedicatoria dei Discorsi di Machiavelli, «Giornale storico della letteratura italiana», 1966, 143, pp. 72-83; F. Bausi, I Discorsi di Niccolò Machiavelli. Genesi e strutture, Firenze 1985; G. Inglese, Ancora sulla data di composizione dei Discorsi, «La cultura», 1986, 24, pp. 98-117; G. Inglese, Per Machiavelli. L’arte dello stato, la cognizione delle storie, Roma 2006, pp. 93-107.

Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua: P. Stoppelli, recensioni a O. Castellani Pollidori, Niccolò Machiavelli e il Dialogo intorno alla nostra lingua, Firenze 1978, e a M. Martelli, Una giarda fiorentina. Il Dialogo della lingua attribuito a Niccolò Machiavelli, Roma 1978, entrambe in «Belfagor», 1979, 34, pp. 599-604; G. Inglese, Machiavelli nel Dialogo, «La cultura», 1980, 18, pp. 283-97; P. Trovato, Appunti sul Discorso intorno alla nostra lingua del Machiavelli, «La bibliofilia», 1981, 83, pp. 25-69 (cui seguì N. Machiavelli, Discorso intorno alla nostra lingua, a cura di P. Trovato, Padova 1982); O. Castellani Pollidori, Ancora a proposito del Dialogo di Niccolò Machiavelli, «Società di linguistica italiana», 1983, 9, pp. 89-104.

La Favola: P. Stoppelli, Machiavelli e la novella di Belfagor. Saggio di filologia attributiva, Roma 2007.

La critica letteraria di Raffaele Ruggiero

Sui maggiori critici dell’Ottocento (Ugo Foscolo, Francesco De Sanctis) e del primo Novecento (Benedetto Croce, Luigi Russo) si rinvia alle voci specifiche.

Dal dopoguerra a oggi

Il dibattito critico sull’opera machiavelliana nel secondo dopoguerra fu avviato da un’eccezione cronologica: nel 1949 veniva stampato da Einaudi, in seno all’edizione ‘tematica’ degli scritti dal carcere di Antonio Gramsci (→), il volume contenente le Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo stato moderno. Gramsci le aveva scritte, nel 1932-1934, in dialogo critico con le interpretazioni idealistiche e attualistiche (da Benedetto Croce a Luigi Russo, da Giovanni Gentile a Francesco Ercole); ma la sua riflessione su M. come primo classico della moderna filosofia politica europea si offriva alla lettura proprio quando, negli studi machiavelliani, si apriva la stagione di un’indagine filologica-mente avvertita e capace di collocare in modo più profondo l’opera del Segretario nel suo tempo e nella sua cultura.

Esponenti di questo nuovo filone di ricerca furono, in Italia, Roberto Ridolfi (→) e Gennaro Sasso (→). A Ridolfi si devono non solo la Vita di Niccolò Machiavelli (1954), ma anche le biografie di Girolamo Savonarola (1952) e di Francesco Guicciardini (1960) che, insieme agli studi preparatori per una biografia di Donato Giannotti (1929, 1931 e 1942), ridisegnano l’aetas machiavelliana e mettono in dialogo tra loro i punti di riferimento nel quadro politico-istituzionale in cui M. operò come funzionario di Stato, come teorico delle dottrine politiche e come storico e letterato, senza avvertire soluzione di continuità fra questi ruoli.

Nella ricerca del 1958 dal titolo Niccolò Machiavelli. Storia del suo pensiero politico, Sasso inquadrava gli scritti di M. nel processo storico che ne ha segnato la genesi: egli ha potuto in tal modo distinguere nel percorso machiavelliano posizioni diverse e successive anche riguardo a temi centrali come il rapporto principato/repubblica. Poco dopo Sasso offriva una dimostrazione della nuova linea esegetica con il commento al Principe (1963). Riprendendo nel 1972 le fila di quel percorso interpretativo, lo studioso avviava una riflessione In margine al V centenario di Machiavelli, rilevando che

se effettivamente Machiavelli doveva essere storicizzato e i suoi pensieri risolti nel processo del loro nascere e formarsi [...] allora la ricerca doveva essere intesa, innanzi tutto, come storia rigorosa di una formazione e di uno svolgimento, e nuovi testi dovevano essere studiati, che da decenni ormai nessuno leggeva e studiava più (p. 25).

Risultato di quell’approccio era l’individuazione di importanti lacune da colmare, quali una seria indagine sulla cultura classica di M. e un commento che, dopo l’edizione di Plinio Carli, illustrasse la «qualità storiografica, l’impianto documentario e infine il significato concettuale dell’ultimo capolavoro di Machiavelli» (p. 35). Il lavoro di Sasso richiamava infine, anche con esempi concreti, al necessario connubio tra filologia ed esegesi. L’indagine sulla cultura classica machiavelliana veniva poi condotta a compimento dal medesimo autore con i quattro ponderosi volumi dedicati a Machiavelli e gli antichi (1987-1997), dove si affrontano in modo risolutivo alcuni dei maggiori nodi concettuali.

Negli anni Cinquanta-Sessanta, gli studi di Fredi Chiappelli (1921-1990) hanno mostrato la coesistenza di due tensioni nella pagina machiavelliana: una «spinta tecnificante» e una «affettiva». Una particolare attenzione fu rivolta da Chiappelli agli scritti di M. cancelliere, tra l’altro avviando, nel 1971, un’edizione delle Legazioni. Commissarie. Scritti di governo (1971-1985) che dava nuovo impulso allo studio del rapporto fra la precoce riflessione politica negli anni della vita activa e la trattatistica politica post res perditas. Ancorata ai rilievi linguistici di Chiappelli e al quadro storico ricostruito da Sasso appare l’analisi letteraria della struttura del Principe di Giorgio Barberi Squarotti (1966): l’autore esaminava anche l’epistolario privato, studiando il rapporto di M. con le ‘occasioni narrative’, e i nessi di causalità realistica che sorreggono la costruzione delle trame teatrali.

Nel 1964 Eugenio Garin (→) consegnava alla Propyläen-Weltgeschichte un profilo storico della cultura rinascimentale dove figura un conciso, ma significativo capitolo machiavelliano: lo studioso muoveva dalla solo apparente opposizione fra due opere pressoché contemporanee, il Principe e il Cortegiano di Baldassarre Castiglione, per individuare nel pensiero machiavelliano «il compenetrarsi fra [la] scienza dello stato e la storia delle antiche repubbliche erette ad archetipi e modelli della vita di tutti gli stati», e al contempo segnalava come le trasformazioni politiche nell’Italia del primo Cinquecento determinarono un incontro tra ‘principe’ e ‘cortigiano’: «non essendo la nuova res publica ancora strutturata, la dialettica non è fra res publica e civis, ma fra ‘principe’ e ‘cortigiano’» (trad. it. 1987, pp. 87 e 91). Allo sforzo di non guardare a M. come episodio isolato ed eccezionale nella storia della cultura europea, ma di inserirlo nella corrente di pensiero cui storicamente appartenne concorsero anche le ricerche di Rodolfo De Mattei (→) sul ‘premachiavellismo’ e sullo sviluppo tra fine Cinquecento e Seicento dell’antimachiavellismo (anche nel quadro della cultura controriformata).

Un ulteriore contributo, inteso a riconnettere M. alle vicende politiche e letterarie del suo tempo, venne da Carlo Dionisotti (→), che nel 1980 raccoglieva una silloge di studi composti negli anni Sessanta e Settanta (Machiavellerie): vi esaminava, fra l’altro, i Capitoli, l’ambiente degli Orti Oricellari, la questione della lingua (e del Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua), le Istorie fiorentine e il rapporto fra M. storico e Paolo Giovio, e percorreva le vicende fiorentine dalla repubblica al principato. Nell’epilogo autobiografico Dionisotti richiamava il clima ideologico-attualizzante entro cui si erano sviluppate molte ricerche machiavelliane negli anni Venti-Trenta e, di contro, la nuova stagione storicistica del dopoguerra, attenta a questioni di filologia, biografia e cronologia: una corrente di studi che riprendeva il filo da Federico Chabod (→), «antesignano della ricerca propriamente storica sulla vita e sull’opera di Machiavelli» (Dionisotti 1980, p. 306).

La coesistenza di queste due diverse linee critiche continua a farsi sentire negli anni Sessanta-Settanta, quando alcuni studiosi tornano a riflettere sul M. gramsciano. In un libro significativamente intitolato Classi e stato in Machiavelli, Vitilio Masiello nel 1971 avviava la sua indagine ripercorrendo da un lato le interpretazioni idealistiche fino a Luigi Russo (→), dall’altro gli studi condotti sulla linea Chabod-Sasso e intesi a ricostruire «la concreta esperienza storico-politica del segretario fiorentino, la sua storica personalità» (p. 33). Lo studioso individuava in Gramsci un’immagine «organica» di M., capace di fondere il politico militante e il teorico della politica. Sulla linea interpretativa gramsciana si è posto anche Ugo Dotti, studiando nel 1979 (e ancora nel 2003) l’emergere nelle pagine di M. di una nuova fenomenologia del potere e di una scienza della politica che rivoluziona i valori etici tradizionali e fonda le sue ragioni nei fini. All’importante contributo di storici modernisti come Giuliano Procacci (→), Sergio Bertelli (→) e Corrado Vivanti (→), sono dedicate voci specifiche.

Dall’intento di rimettere la critica letteraria in dialogo con il fronte in movimento delle scienze umane nascevano, al principio degli anni Settanta, le ricerche di Ezio Raimondi (→), raccolte nel volume Politica e commedia. Dal Beroaldo al Machiavelli. L’autore si mostrava consapevole che «Machiavelli non fa mai dimenticare il mondo rispetto al libro che dovrebbe descriverlo, perché il suo ragionamento non può prescindere dagli uomini e dalle cose» (Raimondi 1972, p. 14); inoltre quelle indagini meglio inserivano M. nella corrente viva della cultura umanistica di cui fu parte, quel «sistema culturale comune, soprattutto in rapporto a scrittori come Plauto, Lucrezio e Apuleio». Lo studioso sottolineava anche la tendenza machiavelliana a «tradurre la cultura in teatralità» (p. 9).

Ancora negli anni Settanta Nino Borsellino curava un corposo capitolo machiavelliano per La letteratura italiana diretta da Carlo Muscetta, leggendo l’attività di M. alla luce della crisi politica che Firenze sperimentò durante il regime repubblicano seguito alla cacciata dei Medici, alla ricerca di soluzioni costituzionali tutte risultate incapaci di redimere una ‘città corrotta’. Anche Borsellino dedica uno sguardo attento al teatro machiavelliano.

L’invito di Sasso a rivolgere una più sistematica attenzione alla storiografia di M., in rapporto ai suoi modelli, guardando, da un lato, alla trattatistica quattrocentesca e, dall’altro, alle nuove procedure storiografiche che traevano origine proprio dalla riflessione politica di M., veniva raccolto alla fine degli anni Settanta da Gian Mario Anselmi, con un’indagine sulle Istorie fiorentine che si rivolgeva anche ai modelli retorici dell’opera. Nel 1985 Anna Maria Cabrini studiava le fonti del secondo libro delle Istorie, dedicato alle vicende della città fino alla sconfitta del ceto magnatizio, e nel 1990 ripeteva l’esercizio per il terzo libro. Nel 1987 Barberi Squarotti riuniva una silloge di studi machiavelliani, tornando al curriculum letterario del Segretario e mettendo in luce nell’Arte della guerra strutture di pensiero analoghe a quella del Principe.

Dopo i contributi dedicati negli anni Settanta al teatro machiavelliano, anche nel quadro della commedia italiana di età rinascimentale, Giulio Ferroni in Machiavelli, o dell’incertezza (2003) ha studiato la trattatistica politica, rilevando l’impossibilità di iscrivere l’opera di M. entro parametri ideologici predeterminati: «il sapere di Machiavelli non vuole tanto porsi come un avanzamento [...] ma come una verifica delle condizioni reali e necessarie dei comportamenti». E proseguiva: «A questo sapere ‘pratico’ Machiavelli dà una legittimità letteraria, lo trascina nello spazio della scrittura». Ferroni rilevava in proposito che uno degli strumenti fondamentali di tale operazione risiede nel comico, nei codici letterari di tipo popolaresco-realistico, ben attestati nella tradizione toscana: «Machiavelli è tutto immerso in quella tradizione ‘comica’; da essa il suo linguaggio riceve la sua forza e la sua vitalità» (pp. 18-20). Rilevante spazio al «sorriso di Niccolò» è stato dato anche nell’omonimo studio biografico di Maurizio Viroli (1998). Tra i profili d’insieme dedicati a M. si segnala l’Introduzione a Machiavelli (1999) di Emanuele Cutinelli-Rendina: apparsa in una collana laterziana dedicata ai ‘filosofi’, offre un completo quadro, anche per gli anni del segretariato, dei temi fondanti nelle opere politiche e storiche e un corposo capitolo di storia della critica.

Da Giorgio Inglese, cui si debbono edizioni critiche e commenti di tutte le grandi opere machiavelliane, è venuta da ultimo (2006) un’indagine complessiva sull’intreccio fra pensiero e arte della prosa nell’opera di M., fondata sul duplice binario che sorregge la Dedica del Principe: la «lunga esperienza delle cose moderne» e la «continua lezione delle antiche», cioè l’arte dello Stato e la cognizione delle storie. Su questo impianto Inglese non solo vaglia genesi e struttura delle opere politiche maggiori, ma richiama le pagine di critica della ragione politica negli scritti composti durante gli anni in cancelleria, le altre forme della virtù emergenti dall’esperienza teatrale e letteraria, e conclusivamente proietta sul-l’opera machiavelliana lo sguardo retrospettivo di Guicciardini lettore dei Discorsi.

Bibliografia: F. Chiappelli, Studi sul linguaggio del Machiavelli, Firenze 1952; R. Ridolfi, Vita di Niccolò Machiavelli, Roma 1954, Firenze 19787; G. Sasso, Niccolò Machiavelli. Storia del suo pensiero politico, Napoli 1958 (ed. accresciuta Bologna 1980, poi in Id., Niccolò Machiavelli, 1° vol., Il pensiero politico, 2° vol., La storiografia, Bologna 1993); E. Garin, Die Kultur der Renaissance, in Propyläen-Weltgeschichte, hrsg. G. Mann, 6° vol., Berlin-Frankfurt-Wien 1964, pp. 429-534 (trad. it. La cultura del Rinascimento, Bari 1967, Milano 19872, in partic. pp. 85-95); G. Barberi Squarotti, La forma tragica del Principe e altri saggi sul Machiavelli, Firenze 1966; F. Chiappelli, Nuovi studi sul linguaggio del Machiavelli, Firenze 1969; R. De Mattei, Dal premachiavellismo all’antimachiavellismo, Firenze 1969; V. Masiello, Classi e stato in Machiavelli, Bari 1971, 19972; E. Raimondi, Politica e commedia. Dal Beroaldo al Machiavelli, Bologna 1972 (poi Politica e commedia. Il centauro disarmato, Bologna 1998); G. Sasso, In margine al V centenario di Machiavelli, Napoli 1972; N. Borsellino, Niccolò Machiavelli, in La letteratura italiana, diretta da C. Muscetta, 17° vol., Roma-Bari 1973; G.M. Anselmi, Ricerche sul Machiavelli storico, Pisa 1979; U. Dotti, Niccolò Machiavelli. La fenomenologia del potere, Milano 1979; C. Dionisotti, Machiavellerie. Storia e fortuna di Machiavelli, Torino 1980; A. Gramsci, Noterelle sulla politica del Machiavelli. Quaderno 13, a cura di C. Donzelli, Torino 1981; A.M. Cabrini, Per una valutazione delle Istorie fiorentine del Machiavelli. Note sulle fonti del secondo libro, Firenze 1985; G. Barberi Squarotti, Machiavelli o la scelta della letteratura, Roma 1987; G. Sasso, Machiavelli e gli antichi e altri saggi, Milano-Napoli, 4 voll., 1987-1997; A.M. Cabrini, Interpretazione e stile in Machiavelli: il terzo libro delle Istorie, Roma 1990; M. Viroli, Il sorriso di Niccolò. Storia di Machiavelli, Roma-Bari 1998; E. Cutinelli-Rendina, Introduzione a Machiavelli, Roma-Bari 1999; U. Dotti, Machiavelli rivoluzionario. Vita e opere, Roma 2003; G. Ferroni, Machiavelli, o dell’incertezza, Roma 2003; G. Inglese, Per Machiavelli. L’arte dello stato, la cognizione delle storie, Roma 2006.

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